domenica 27 luglio 2025

Una chiacchierata con Patrizio Fariselli: oggetto la copertina dell’album degli Area, “Arbeit Macht Frei”.

 


A marzo, mentre stavo lavorando a un libro di prossima pubblicazione di cui sono coautore, ho avuto il piacere di fare una lunga e approfondita chiacchierata con Patrizio Fariselli. L'incontro, inizialmente incentrato sulla copertina dell'album Arbeit Macht Frei degli Area, si è naturalmente evoluto toccando argomenti ben più ampi.

Il contenuto di questa discussione è stato fondamentale per alcune delle conclusioni che presenteremo presto nel libro. Quella che segue, tuttavia, è la trascrizione fedele e integrale della nostra interessantissima telefonata.

 

Una chiacchierata con Patrizio Fariselli: oggetto la copertina dell’album degli Area, “Arbeit Macht Frei”.

 

Vai a ruota libera…

Allora, intanto bisogna dire che la copertina è opera di Gianni Sassi, Frankenstein, titolare della Cramps Records; tutta opera sua, completamente sua l’idea. Un giorno andammo da lui in ufficio, ci mostrò il suo lavoro, e rimanemmo tutti quanti a bocca aperta; innanzitutto, per l'impatto formidabile di quest'immagine, e poi per la quantità di segnali e di simboli che a tutti i livelli la cover conteneva. Lungi da me darne una chiave di lettura univoca, farei un danno a Gianni Sassi e alla sua immaginazione, ritengo più giusto che ognuno tragga le personali conclusioni in base alle proprie sensazioni; credo sia questa la chiave. Sarebbe come spiegare le barzellette… poi non fanno più ridere.

Facciamo un po' un'analisi di tutti quei segnali di cui parli…

La scultura è stata realizzata da un artista, un art director che si chiama Edoardo Sivelli, che lavorava con Sassi alla Cramps. Una statuetta di arte povera, piuttosto piccola in realtà, alta circa mezzo metro. Si può notare che il torace e le braccia facevano parte di un Gesù Bambino.

Ce l’ho davanti e me e la sto guardando…

Come vedi, è più un soprammobile che una statua, e già abbiamo il primo ribaltamento: un oggetto di dimensioni ridotte che, così ritratto, dà un'immagine di imponenza; probabilmente anche per via del gesto della mano salda. Sulle braccia si notano quelle sezioni rotonde che servivano, evidentemente, ad orientarle in vari modi, ma che danno anche un'idea muscolare di questa piccola cosa.

Un riferimento che mi è venuto subito in mente è un rimando all'antica Grecia, alle erme, quelle sculture in pietra che rappresentavano le teste di grandi filosofi, o in genere di uomini importanti, che sorgono da un basamento quadrangolare alto un metro, un metro e mezzo, e dal quale, all'altezza giusta, sporge un pene a indicare le doti virili del soggetto. Le ho viste per la prima volta al museo di Atene e a momenti morivo dal ridere... vedere questi signori così solenni e austeri, un Socrate, un Platone... con il pene in vista! Bellissime!

I riferimenti nella scultura di Sivelli appaiono chiari: c'è un manico di violino “fallico”, con un pene eretto ed un lucchetto che, idealmente, lo blocca.

Il nostro amico tiene e mostra in alto la chiave che potrebbe liberare la sua sessualità e permettergli di esprimerla, ma sembra non esserne consapevole perché la sua testa è intrappolata in un elmo che gli impedisce di vedere e di sentire. Le sensuali labbra femminili sembrano dirci che il problema non riguarda non solo lui, ma entrambi i sessi. E forse, specie per le donne, è anche un mettere in guardia dal rischio di diventare oggetti sessuali. È comunque un’immagine molto opprimente.

Tutta una serie di input contraddittori da parte di un oggetto immobile e dalle dimensioni ridotte, ma dalla potenza comunicativa molto forte, amplificata dal gioco di proiezione dal basso e, sulla seconda di copertina, da una serie di fotogrammi che simulano il movimento, e che ricordano un famosissimo quadro di Marcel Duchamp, “Nudo che scende le scale”; un tipo di artificio che gli dà una vivacità e una dinamica straordinarie.  

La scritta “Arbeit macht frei” è composta con caratteri semplici, in corsivo, come se fosse stata scritta da un bambino, e questo è un altro segnale.

Il titolo “Arbeit macht frei” lo ritroviamo anche nella seconda e terza di copertina, dove ci siamo noi, stravaccati in studio, circondati da una quantità di simboli e segnali inequivocabili e fortissimi.

C'è innanzitutto una “T”, che potrebbe essere una croce a T, un simbolo di schiavitù e di martirio, una struttura patibolare… chissà... e sopra la “T” c'è della terra, quindi, potrebbe anche essere questo il significato: un ritorno alla terra... c’è anche della verdura, infatti... e poi una bambolina trafitta, a denunciare la violenza sui bambini. E lì accanto c'è una falce e martello, che ci è costata, assieme alla kefiah che indossa Giulio Capiozzo, la nostra carriera all'estero.

Quando tocchi certi argomenti, il mondo anglosassone, e occidentale in genere, ti esclude, ti ignora completamente.

Vicino a Demetrio Stratos ritrovi la statuina, riesci a vederla nelle dimensioni originali. C'è anche un angioletto, un simbolo di innocenza e di spiritualità, o di protezione, chi lo sa? E subito sopra, la riproduzione di una pistola, che è quella dell'anarchico Gaetano Bresci, custodita al museo criminale di Roma.

Vedi la quantità di cose? Poi c'è la foto incorniciata del campo di sterminio tedesco di Auschwitz, con sopra una catena spezzata. Quello è facile da comprendere... ciò che era meno semplice da capire era l’“Arbeit macht frei” di allora: “Il lavoro rende liberi”, una frase che potrebbe essere tranquillamente inserita nella Costituzione di un paese democratico o socialista, fu messa all’ingresso del campo, come si trattasse di un luogo per stage di formazione professionale, o un laboratorio per bambini, mentre era la porta dell'orrore più mostruoso, perché attuato in modo “scientifico”.

Quindi pensa come una mente malvagia e perversa può fare suoi dei contenuti positivi e, ribaltandoli, usarli come strumento di manipolazione fisica e psicologica e di coercizione. Purtroppo, è un giochino che si ripete da troppo tempo e, anzi, oggi, è ancora più perfezionato grazie a professionisti di sempre maggiore esperienza.

In questi ultimi anni l’abbiamo visto ampiamente utilizzato: non a caso, molte istanze della sinistra dei miei tempi, quelle legate a diritti civili autentici, sono state recuperate dal potere, esasperate e stravolte per essere utilizzate con scopi esattamente opposti a quelli di uguaglianza e antidiscriminazione originari. Privilegiando le minoranze ed imponendo ideologie assurde e innaturali, si è arrivati a penalizzare la maggioranza con il solo scopo di dividere la società e confondere i più giovani sulla loro identità e su chi siano i loro veri nemici.

Consideriamo poi l'ecologia, il “green” delle multinazionali, che sono la causa primaria dell'inquinamento… che colpevolizzano la gente comune proponendo esse stesse la soluzione, quasi sempre controproducente, costosa e naturalmente a nostre spese! Ma non ci allarghiamo troppo… comunque il senso di “Arbeit macht frei” è questo: una denuncia e una messa in guardia dalla spietatezza del potere. Lo conferma anche la busta interna del disco, dove, assieme alla pistola di cartone, c'è questo superbo rapace che ti guarda di traverso; un implacabile predatore carnivoro, dallo sguardo feroce, ma in giacca e cravatta!

Sembra quasi preannunciare l'avvento degli anni '80, e della schiera di “rampanti” affaristi senza scrupoli che si diffusero grazie al neoliberismo tatcheriano.

Come vedi c'è una quantità di segnali imponente.

Certo che senza il tuo aiuto tutte queste cose non sarebbero potute emergere!

Io stesso, col senno di poi, sono colpito dall’importanza dei simboli presenti nella copertina… Non li ho ideati io, né noi Area, che allora eravamo appena dei ragazzi, però abbiamo contribuito con alcuni piccoli interventi, ad esempio la scelta della scritta con i caratteri da bambino, la bambolina, o la piastrella con l’angelo… e anche la kefiah sono farina del nostro sacco. Ma l’idea di base è frutto dell'inventiva e della grande consapevolezza politica di Gianni Sassi.

Quando avete fatto questo tipo di scelta avevate delle alternative o vi siete buttati subito su questa, in pieno accordo, senza discussione?

La copertina ci ha steso tutti; ti garantisco, siamo rimasti di sasso; ha avuto su di noi un impatto fortissimo. Non solo era affascinante, ma capivamo che era roba forte: un lavoro veramente potente a livello comunicativo, che suggeriva dei messaggi, ma lasciava un ampio spettro di lettura. Aprire la mente era ciò che ci interessava di più, in qualsiasi ambito della nostra comunicazione, compresa quella musicale. Più diversificate sono le interpretazioni fatte dalle persone che ci ascoltano e ci seguono e più riteniamo raggiunto il nostro scopo, che è principalmente quello di “attivare le rotelle che abbiamo in testa”.

Nei primi anni ’70, quando ero adolescente e ascoltavo, anche, la vostra musica, non avevo il sentore che una copertina di un album potesse dare così tanto. Tutti questi elementi comunicativi che mi stai descrivendo sono fortissimi, probabilmente mi arrivavano inconsciamente, ma non avevo la consapevolezza che tutto questo poteva aiutare a diffondere un messaggio importante: deficit legato alla mia giovinezza o cos’altro?

Non ti sentire sminuito per non aver colto certe cose; questi segnali sono creati proprio per stimolare un tipo di fruizione come è stata la tua, senza mediazione. Tutti riconoscono gli elementi più familiari, o vengono colpiti dai più strani, ma piano piano, magari a livello inconsapevole, anche gli altri ti arrivano. Se ti soffermi e metti il focus sui dettagli, riesci a trasferire nella sfera della razionalità quegli elementi che comunque funzionano inconsciamente. Sono due meccanismi di conoscenza differenti ed altrettanto interessanti. Adesso che me l’hai chiesto, mi sto divertendo molto a fare questa indagine quasi tassonomica degli elementi; non l'avevo mai fatto prima.

Pensi che quel tipo di copertina abbia contribuito al successo dell’album?

Sicuramente! Ma tutte le copertine degli Area, e quelle di Gianni Sassi in particolare, sono un piccolo capolavoro dal grande effetto. Perché Sassi era, sì, un art director che veniva dalla pubblicità, ma aveva questa visione originalissima, da vero artista, nell’utilizzare gli elementi più diversi con intelligenza, creatività e istinto comunicativo. E la sua grande cultura gli permetteva sempre di raggiungere un “significato altro”. Questa un po' la summa del pensiero sassiano: mettere insieme materiali culturali tra i più diversi, dall’arte più avanzata e innovativa a quella popolare e tradizionale, per produrre un tipo di comunicazione molto diretta e performante, ma sempre ricca di sfaccettature e preferibilmente piena di contraddizioni, di quelle che riescono a smuovere le coscienze.

Rivedendola a distanza di 50 anni trovi ancora delle cose interessanti? Come la spiegheresti oggi ad un giovane guardandola con i tuoi occhi attuali?

Più che spiegarla ne farei notare gli elementi; spiegarla non avrebbe senso. Spiegare vuol dire che, davanti a una cosa che tu non capisci, non conosci, io te la rendo comprensibile, ma così tu ne potrai trarre solo l'idea che io, alla fin fine, ti suggerisco. Invece, compito di queste copertine, di tutte quante le copertine degli Area, è quello di darti una botta, di incuriosirti e poi di farti pensare autonomamente.

E ci siete riusciti…

Sì, una botta allo stomaco, o una pacca sulla spalla… anche in modo aggressivo: il potere di Sassi e della sua grafica era proprio quello di riuscire a creare qualcosa che non lasciasse mai indifferenti; dovevi per forza avvicinarti per scoprire di cosa si trattasse. Se poi fosse riuscita anche a farti ascoltare la musica, almeno uno degli scopi era raggiunto.

Non a caso, quando Sassi morì, il museo di Arte Contemporanea di New York mandò un proprio emissario per acquisire il suo materiale, tra cui le copertine, che però, purtroppo, erano già state vendute dal suo socio, per cui non se ne fece nulla. Peccato. Le copertine di Sassi erano conosciute nell'ambiente dell'arte quasi più della musica degli Area, quella che, apparentemente, trovava appeal solo in Italia. Col passare degli anni, invece, scoprimmo che eravamo molto conosciuti e apprezzati anche all’estero, in America e in Giappone, per esempio. Nel mondo underground i nostri dischi arrivavano, così come nelle case dei più attenti fruitori di musica.

Un’ultima cosa, anche se esce dall’argomento specifico: non ti pare inadeguato parlare di copertine di un prodotto che è tornato a galla quando il mercato ha intercettato i bisogni di una nicchia, quella dei melomani nostalgici degli anni ’70, mentre i giovani utilizzano quasi esclusivamente la musica liquida?

Non solo i ragazzi, anche io, ad esempio, mi muovo su questa strada: il 99% dei miei ascolti deriva dall’uso di iPod ed MP3, che ascolto nelle mie lunghe camminate; ho una quantità enorme di musica nel mio database. Ogni volta che sento qualcosa di nuovo e apprezzabile, vado vedere chi è l’artista, per aggiungerlo alle mie conoscenze.

Forse, quello che i giovani si perdono, è il valore aggiunto che queste immagini davano, in termini di comunicazione, alla musica; soprattutto se parliamo di 33 giri, rispetto alla copertina ristretta e meno impattante dal punto di vista immaginifico del CD. Perché le immagini possono emozionare, ma possono anche urlare. Una copertina grande ti dà un impatto visivo molto superiore, e poi c'è pure il manifesto. Quando mettevi in camera un manifesto, pah! Era una botta! Il manifesto era pensato per colpire da lontano. Ma anche la copertina del 33 giri è roba potente, e dava ai gruppi, agli art director, alle persone coinvolte, la possibilità di riconoscersi in quel tipo di immaginario, in quella particolare atmosfera musicale ed artistica. Se tu guardi, ci sono delle copertine, come quelle dei The Rolling Stones fatte da Andy Warhol, dei Gentle Giant, dei King Crimson, che, associate a quel particolare tipo di musica, contribuiscono a dare a chi l’ascolta un bagaglio di stimoli e di informazioni tale da costruire un rapporto molto più profondo, rispetto al solo contenuto musicale. A differenza della musica liquida, il vinile offre la possibilità di immergersi nei crediti, scoprendo testi, poetiche, autori e luoghi di registrazione… tutti indizi che fanno intuire la visione del mondo cui gli artisti aspirano, il loro modo di pensare, e questa è una cosa formidabile.

Perché il vinile non muore, al di là delle seghe mentali sulla qualità audio? Non mi interessano assolutamente le diatribe del tipo… meglio il cd del digitale, meglio il cd del vinile… È la ritualità dell'ascolto che è diversa. La ritualità dell'estrarre quest'oggetto, trattarlo in modo delicato, far sì che non si impolveri, appoggiarlo sul piatto, abbassare la testina… Una cosa strana, un rituale quasi mistico! Molti lo vivono anche in questo senso. Vuoi ascoltare un disco in particolare? Ti alzi, lo cerchi, lo tiri fuori, lo metti su… e poi anche la copertina favorisce il lavoro della tua immaginazione; anche se l'hai vista mille volte. Mentre ascolti un pezzo, che magari conosci benissimo, guardi la copertina e dici: “Dio bono!!!”.

Ancora meglio quando tutto questo lo condividi con altre persone…

Questa è una cosa degli anni che furono: il piacere della condivisione, dell'ascolto collettivo; ti garantisco che per noi Area era una cosa fondamentale ascoltare insieme i materiali nuovi, e addirittura scattava una gara tra di noi per riuscire a portare musica che gli altri non conoscevano. Condividendone l'ascolto, potevamo scambiarci a caldo le opinioni, vivere insieme le emozioni e tutto quello che la musica innescava.

Questi ascolti comuni favorivano non solo una crescita esponenziale della nostra cultura musicale, ma anche l’amicizia e la coesione del gruppo. Perché eravamo, sì musicisti, ma anche amici che amavano ritrovarsi e che si riconoscevano in certi parametri culturali, in un momento storico e politico potente. Nella parcellizzazione sociale del presente, queste cose sono scomparse. Questo mi dispiace molto, ed è per questo che cerco il più possibile, nonostante l'età, di proseguire con l’attività concertistica, per coinvolgere, anche fisicamente, le persone, e soprattutto i giovani, cercando di fargli vivere, come si diceva una volta, un “trip” di quelli che non ti scordi.


Non resta che ascoltare l’album…