Che sia musica, cinepresa, pittura o
immagini, il suo mondo - e quello dei suoi compagni di viaggio del momento - ha
caratteristiche ben precise che in ogni caso si basano su una certa
imprevedibilità, e anche se è un mio pallino quello di ricercare ad ogni costo
la concettualità e il legame con il pregresso, Francesco mi prende sempre in
contropiede, stupendomi in ogni occasione.
Quello che all’impatto può sembrare uno sfoggio di sapienza/conoscenza, proposizione di un modello culturale di livello superiore, è in realtà il trovare sfogo ad una necessità basica, un bisogno di esprimere in tutti i modi possibili idee e pensieri in assoluta libertà, sperimentando, senza curarsi minimamente di compiacere un’ipotetica audience, perché il bello è creare, creare in compagnia, creare e condividere con chi accetta le regole del gioco, ovvero accettare che tali regole non esistano.
Il nuovo progetto prende il nome di His Majesty The Baby, e prevede Paladino alle tastiere e alla parte creativa musicale, mentre le liriche sono dell’amico di lungo corso Luca Ferrari. E poi un nugolo di collaboratori che vengono definiti entusiasticamente “pazzeschi”.
Porre qualche domanda ad entrambi mi ha facilitato le cose e aiuterà il lettore alla miglior comprensione possibile, a partire dal nome del gruppo - catturato dalla denominazione di un quadro del 1898, opera del pittore inglese Arthur Drummond - arrivando poi a tutti i dettagli, passando ovviamente per il significato del titolo dell’album, “Hope for madness”, che prende spunto dal primo pezzo del primo disco dei Soft Machine, del 1968.
Sono quattordici gli episodi che
compongono l'album, con pillole strumentali contorniate da tracce in lingua
inglese, con qualche divagazione.
I già citati Soft Machine sono il punto di partenza e allo stesso tempo una certezza, un’idea musicale che accompagnerà poi per tutta la vita, un percorso che si arricchirà nel tempo della pura follia e del genio di Frank Zappa, così come si avvertono i semi dell’inaccessibilità del primo Battiato, artista al quale viene dedicata la conclusiva “Final”.
Lo smell che mi deriva dall’ascolto e dal tentativo di visione olistica del progetto mi porta a pensare ad un rimescolare nel contenitore dei ricordi/esperienze, estraendo alla fine la gioia del vissuto e la consapevolezza che il passato sia stato pregno di cose da afferrare e fare proprie, mentre arriva oggi il tempo della restituzione aumentata dagli interessi (grandi), una situazione non calcolata a tavolino ma spontanea, coinvolgente, dal falso sapore elitario, perché disponibile per qualsiasi anima pensante e sensibile.
Qualche sensazione a seguito dell’ascolto, senza la pretesa di sviscerare i vari brani.
Si parte dalla magnifica “Summer Mind”, un brano dove l’elemento ritmico predomina e l’atmosfera “world” sintetizza la tradizione e la musica popolare, mentre un loop ipnotico interviene fornendo dimensioni festaiole dal profumo orientaleggiante.
“To Yma” appare la logica continuazione, con una decisa propensione alla sperimentazione in totale libertà, con suoni percussivi e un approccio elettronico e rock che si trasforma in didascalia sonora di una lirica sintetica quanto efficacie.
Segue la breve “Western Santeria”, un recitato accompagnato da sottofondo magnetico, un frammento iconoclasta da cui è possibile estrarre bellezza estetica nel superamento di un testo breve ma intenso nel suo significato.
“To Maria Luisa, whatever you are” è il primo strumentale, il pezzo più breve, dedicato ad una madre che non c‘è più, argomento trattato nell’intervista a seguire: emozionante!
“Reality Show” propone un duetto surreale tra la voce di Serena Nono e le tastiere magiche di Paladino. Un minuto e mezzo molto suggestivo che sottolinea come lo scorrere del tempo sia spesso rappresentato attraverso parole vuote che si conformano a regole consolidate e formali.
“The invisible power of decay” propone Maria Assunta Karini nel ruolo inusuale, almeno per me, di vocalist, e la sua voce si miscela magicamente ad una puntina da giradischi consumata, con in sottofondo un’atmosfera triste ma felice, antica e festosa, con gli idiomi che si intersecano e… alla fine del brano resta la sensazione di un sicuro dejà vu.
Il settimo brano si intitola “Dust
in my mouth”. “Nasciamo dalla polvere, non è uno scherzo… ed è il
cuore che capisce, non la mente!”
Il primo intervento di Fiorella Gentile regala un nuovo tocco e propone un parlato tra inglese e italiano che tocca nel profondo per il suo colore intenso. Ma a colpire è il mood che pervade gli oltre quattro minuti di suoni, mentre archi e percussioni disegnano lo scenario perfetto.
E arriva “Dadaraga”, un
insieme di voci e sonorità in loop che disegnano scenari distopici, mentre le
parole di Luca Ferrari puntano il dito sugli errori dell’umanità, con una sorta
di esortazione a prenderne coscienza.
Durante l’ascolto mi è apparso davanti agli occhi Daevid Allen, e alla fine non mi pare un’eresia accostare alcuni passaggi al mondo dei Gong. Ma questo mi pare sia un fatto dichiarato dai protagonisti.
“Disenchantment Blues”
è uno dei momenti che più mi hanno colpito.
Una voce che diventa strumento e
tanti strumenti che diventano voci con cui raccontare e riempire una tela che
da bianca diventa improvvisamente carica di significati e dettagli decisivi.
Il dialogo continuo tra le tastiere elettroniche di Paladino e l’ortodossia acustica degli archi produce magia pura.
E arriviamo a “Oblivion on a drizzing afternoon”, la traccia più lunga (6:39) e la voce di Alison O’Donnel porta serenità e regolarità, sino all’incontro con onde sonore imperfette, che si ricompongono nella rappresentazione dell’oblio di un pomeriggio piovviginoso. Geniale!
La traccia n. 11 prende il nome di “The after”.
Il dopo è per sempre, senza limiti, ovunque, nessun peso, nessun concetto, sofferenze e rimpianti, emozioni raccolte come coordinate nel diagramma del tempo e dello spazio.
Tra world music e la ripetitività del primo Mike Oldfield, il pezzo si snoda su di un binario vocale e percussivo inusuale che riporta a immagini ancestrali. Wow!
Con “Wooley” arriva il secondo strumentale: trame di un tempo andato, mentre un oboe disegna melodia e sollecita cuore e memoria. E intanto il treno prosegue nel suo costante incedere.
L’ultimo, lungo, episodio senza liriche è “Viridiana”: magie pianistiche fuoriescono dal genio di Francesco Paladino, che si mette in proprio, in versione autarchica, allestendo un palcoscenico che rappresenta la rottura e il rinnovamento rispetto alle logiche artistiche tradizionali.
La chiusura è affidata all’omaggio a
Franco Battiato, intitolata “Final”.
Cinquantacinque secondi che propongono nuovamente la voce magnetica di Fiorella Gentile che, in duplice lingua - italiano e inglese -, omaggia Battiato con la complicità di Paladino.
Sinteticamente. Un lavoro unico,
capace di rompere gli schemi - ma questa non è una novità quando la mente
portante del progetto - o una delle menti - corrisponde al nome di Francesco
Paolo Paladino. Pazzia… controllata, libertà espressiva, contenuti lirici,
sperimentazione, avanguardia, rotture di rigidi schemi dalle solide basi… tutto
questo è contenuto in “Hope for the madness”. Ma c’è tanta bellezza
estetica e una serie di sentimenti ed emozioni conseguenti che risultano
difficili da spiegare a parole, perché la musica - e i benefici che da essa
possono derivare - non è spiegabile nei rivoli e negli anfratti, la si cattura,
la si trattiene, la si assorbe e la si fa propria, sapendo che andando a
ritoccare certi tasti le stesse emozioni iniziali ritorneranno, dando un vero
significato al concetto di tempo in divenire, di unità di misura dello scorrere
degli eventi.
Mi rendo conto che commentare un lavoro come questo può avere il solo scopo di aiutare nella pubblicizzazione, giacché tale musica non può essere giudicata se non descrivendo le emozioni che è in grado di suscitare, diventando alla fine un fatto estremamente personale, di cui non è corretto discutere.
Un plauso a chi si è occupato dell’artwork - Maria Assunta Karini e Stefano Canepari - e a tutta la magnifica “orchestra”, fatta di amici artisti, capaci di inserirsi e parlare la stessa lingua dei creatori, fatto non certo scontato.
Voto
massimo a His Majesty The Baby e al loro album “Hope for the madness”.
E ora approfondiamo con i due
autori… partendo da Luca:
Puoi spiegarmi il titolo dell’album e il messaggio che vuoi/volete veicolare? Insomma, qualche dettaglio per entrare meglio nel progetto…
Il titolo dell’album prende spunto e si riferisce al leggendario (almeno per noi) brano dei Soft Machine “Hope for Happiness”, primo pezzo del primo disco della band di Canterbury uscito nel 1968. La prima volta che lo ascoltai, ormai molti anni fa, rimasi assolutamente folgorato dall’assoluta libertà espressiva della band - una caotica, selvaggia, irrefrenabile invocazione della felicità… la stessa di cui sentivamo, io e Francesco, un bisogno incoercibile nei mesi bui del 2020, segnati da tante privazioni… felicità che per noi è sinonimo di follia, libertà di espressione fuori da ogni regola e controllo, da ogni dittatura del marketing culturale… Una “speranza di follia” per un mondo che vorremmo popolato da più menti aperte, da uomini “a più dimensioni”, per contrastare il pensiero unico dominante.
Trattasi di lavoro concettuale?
In un certo senso sì, anche se non è nato con l’idea che dovesse esserlo. Si è definito progressivamente, partendo proprio dal pezzo che apre il lavoro, “Summer Mind”. Francesco aveva preparato il suo “magico tappeto volante” di suoni e serviva un testo che esprimesse il bisogno che sentivamo in quei giorni di tornare a vivere con una mente ‘leggera’. Da lì, si sono definiti via via gli altri pezzi, partendo invariabilmente dalle strutture sonore di Francesco: l’idea di fondo è stata quella di scrivere parole in prosa o in versi sciolti che interpretassero questo sentimento di libertà e follia, senza preclusione a tematiche in genere poco frequentate dalla ‘popular music’… Non si è trattato di un progetto pensato a tavolino, dunque, ma del risultato di un processo alchemico di compenetrazione di musiche, parole e voci… Un lavoro corale, collettivo, come credo dovrebbe essere la cultura oggi.
Come nasce la collaborazione tra te e Francesco?
Considera che io e Francesco ci conosciamo da più di trent’anni, abbiamo condiviso interessi e passioni nel tempo, tra musica, letteratura e cinema (oltre al calcio e alla buona cucina). Ha iniziato lui qualche anno fa a chiedermi di collaborare alle sue produzioni ed è nato un forte sodalizio artistico che fondamentalmente considero prima di tutto espressione della nostra amicizia, il piacere di ideare e realizzare cose insieme a prescindere dalla loro destinazione. Dopo tanti anni di scrittura musicale (da freelance lavoro nell’editoria dal 1985 dopo alcuni anni di fanzinato), è solo grazie a lui se ho avuto modo di cimentarmi nella scrittura di testi poetici e in prosa da musicare. Il fatto che nel disco siano cantati e recitati da voci così belle e importanti non può che riempirmi di orgoglio, consapevole che tutto nasce dalla mente-geyser di Francesco, un irrefrenabile talento che meriterebbe maggiore considerazione, almeno nel panorama, certamente paludoso, italiano.
L’artwork si presta come sempre accade a interpretazioni personali: cosa vi ha spinto a utilizzare quella sequenza di immagini e qual è la decodificazione ufficiale, quella che nel vostro pensiero unisce liriche, musica e aspetti visivi?
Il nome del gruppo è preso dal titolo di un oscuro quadro del 1898, opera del pittore inglese Arthur Drummond, e la sequenza fotografica del booklet vorrebbe interpretare, attualizzandola, la scena del dipinto: “sua maestà il bambino” cammina per la strada seguito dalla bambinaia mentre un vigile costringe la folla a spostarsi per farlo passare. Sigmund Freud citò il quadro nel suo famoso saggio “Introduzione al narcisismo” del 1914, come metafora delle pulsioni genitoriali nei confronti dei figli che diventano una proiezione narcisistica di loro stessi. È evidente, almeno a noi, che si tratta di un nome autoironico, perché come duo ci sentiamo dei bambini-adulti narcisisticamente impegnati a chiedere attenzione al mondo per il nostro primo ‘figlio’: ma, a parte te, qualcun altro ascolterà questo disco?
In un mondo che necessita di etichette per la facile comprensione, come definiresti la musica che dà vita a “His Majesty the Baby…”?
“Non credo sia facile definirla, dovresti chiedere a Francesco che l’ha creata. In questo momento mi verrebbe un “musica free-form psichedelico-dadaista”… mah… Chiedimelo domani e ti darò una definizione diversa...”.
E ora te Francesco:
Come si aggancia il disco ai tuoi lavori precedenti?
In questo lavoro suono le tastiere virtuali, tutte, dall’inizio alla fine. Negli altri lavori non succedeva con questa intensità e mi occupavo maggiormente delle pozioni, essenze, intrugli che ottenevo attraverso il mixaggio, sovrapponendo musiche altrui, testi e storie. Qui cambia completamente la prospettiva. E ho capito quella “gioia e rivoluzione” che insegnavano gli Area nel lontano 1975. “Hope For Madness” è un album di gioia, di idee stratificate, di fili della memoria che cancellano il tempo facendoci improvvisamente immergere nelle sperimentazioni di Zappa, negli aneliti di Glass, nelle nenie spiraliformi dei Gong e nelle raffinate fantasie dei Soft Machine e del primo Battiato. È come se un altro Francesco Paladino fosse emerso e ora iniziasse ad ambientarsi insieme a quello da tempo persistente (esistente) rubandogli la marmellata della colazione… come guardarsi allo specchio (cosa che faccio raramente) e scoprire espressioni di me sconosciute ma che mi affascinano. Ovvio che tutto avviene insieme a Luca Chino Ferrari che scrivendo di “Third Ear Band, Syd Barrett e Ctp Beefheart” inocula in noi i germi migliori per un esperimento musicale!
Mi racconti come chi ti accompagna in questo progetto e come è avvenuta la scelta dei collaboratori?
Oltre a Luca con il quale ormai condividiamo gioia e dolori, ho invitato in Gowan Ring, Martyn Bates, Alan Davidson, Edward Ka-Spel, Alison O’Donnell e tutti i musicisti italiani Tiziano Popoli, Trio Cavalazzi, Giannotti, Sambo, Scala etc. compresi non-musicisti come Serena Nono, Maria Assunta Karini, Shiaron Carolina Moncaleano, Fiorella Gentile, seguendo una duplice logica: disporre di ospiti di lingua madre inglese o che la conoscessero così bene da evitare spiacevoli paragoni e (seconda modalità) che potessero comprendere profondamente lo spirito di questo progetto. Ritrovare con allegria le radici, dimostrare la gioia di immergersi in colori dimenticati per realizzare qualcosa di nuovo. Se Vittore Baroni ha scritto di noi: “…in definitiva una somma d'ingredienti rari e pregiati, ad ottenere un impasto a dir poco peculiare” … beh… se un critico così importante e che prende in considerazione migliaia e migliaia di proposte ci descrive come “un impasto a dir poco peculiare” mi sento davvero soddisfatto. Insomma, siamo strani anche per lui! Abbiamo raggiunto lo scopo che ci prefiggevamo.
L’ultimo episodio del disco è una dedica a Battiato: cosa ti lega alla sua musica?
C’è un sottilissimo filo rosso che devo ancora decriptare e che, inconsciamente, mi lega a Battiato, musicista - diciamolo senza preamboli - assolutamente geniale e irraggiungibile: nel 2016 prima mi viene proposto di girare un documentario su Juri Camisasca, amico intimo di Franco, poi compongo il “De Musica” con l’aiuto di Juri e Gaetano Galli, il magnifico oboe che suona in “Da Oriente ad Occidente” su “Le Corde di Aries”; infine la magnifica voce e l’entusiasmo di Fiorella Gentile, giornalista storica della RAI (da Popof a Renzo Arbore) che in questo lavoro ha accettato di cantare/recitare in ben due pezzi come faceva in “M.lle Le Gladiateur”. Amo la musica del primo Battiato e apprezzo le sue magnifiche opere e colonne sonore; condivido con grande rispetto la sua evoluzione attraverso la sua critica di genere che lo ha accompagnato fino agli ultimi dischi. È forse il più grande musicista italiano dal 1960 in poi. Quel che mi lega a lui è lo stupore entusiasta di sperimentare, la risata ironica taumaturgica, la disponibilità. Ripeto, io qui e lui là nell’empireo.
Mi puoi spiegare la dedica a Maria Luisa, traccia numero 4?
Volentieri. Maria Luisa è mia mamma, anzi era, è deceduta il 30 luglio dell’anno scorso. Ero molto legato a lei, anche se in modo molto diverso dal solito. Negli ultimi tempi aveva ascoltato HOPE e incredibilmente le era piaciuto un sacco. Ho voluto dedicare a lei un istante di questo lavoro, un flash, perché mia mamma non era quella che accettava salamelecchi. Un flash alla sua memoria. Un piccolo brano di piano lasciato lì a fluttuare nell’universo.
L’ultima domanda posta a Luca fa riferimento ad una definizione della musica proposta, ma a te chiedo di spiegarmi l’evoluzione rispetto al passato…
Dalla musica sperimentale allo sperimentare la musica. Non saprei dirti di meglio. Ho ripensato alle estati della musica, alle “summer mind” che affollavano i nostri cantieri creativi; ho ripensato alle gioie sbruffone di Zappa, alle punture di genio di Robert Wyatt e soci nel loro primo disco, all’immensità dell’album bianco dei Beatles. Immodestia? Non ho mai considerato la modestia come un difetto né un pregio: o le cose si fanno o non si fanno. Io e Luca ci siamo trovati perfettamente allineati a sfidare il mondo non certo con un carrarmato ma con una risata a forma di arcobaleno.
Probabilmente te l’ho già chiesto in occasione del rilascio dei progetti precedenti ma… ci sono possibilità di vedere “His Majesty The Baby” in proposizione live?
Sarebbe troppo bello! Ma impossibile. Invece, ti segnalo, ho iniziato a fare live io e Alessandro Fogar, esattamente il 3 luglio scorso a Topolò, con un piccolo spettacolo dedicato alla trasformazione delle lucciole in stelle. È stato molto bello e se ci chiamassero ancora su qualche palco, arriviamo.