Un bel po’ di tempo fa, quando uscì TAAB2, nuovo album della “moderna versione” dei Jethro Tull, avevo
chiesto a Gian Piero Chiavini, fine conoscitore delle vicende tulliche, di
raccontarmi - e approfittarne per coinvolgere i lettori - le sue impressioni
sul nuovo album che aspettavamo da una vita, giacchè io non avevo ancora avuto
la possibilità di ascoltarlo.
Mi aveva chiesto tempo e… oggi è arrivato il suo nutrito commento!
Da molto tempo stavo pensando di
scrivere qualcosa riguardo a TAAB2.
Probabilmente se fosse stato
semplicemente un “nuovo album dei Jethro Tull” e se non vi fossero stati
cambiamenti epocali nella line-up attorno a Ian Anderson avrei buttato giù due
righe già dopo poco l’uscita dell’album.
Premetto che inizialmente il mio
progetto di tutto ciò prevedeva quindi un semplice e, se vogliamo, banale commento
di ciascun pezzo dell’album.
Ma, come ripeto, TAAB2 ha segnato
una svolta epocale e assolutamente inaspettata e “spiazzante”, come d’altronde ovvio
trattandosi di un’opera di un genio a tutto tondo come Ian che fin dalla nostra
adolescenza ci ha abituato nostro malgrado, o per nostra gioia, a stupirci.
Per questo finora mi sono limitato
a commentarne solo qualche pezzo in Facebook e a cimentarmi in scaramucce nel
Forum, mentre in realtà cercavo dentro me stesso di capire e focalizzare il
senso più profondo di ciò che TAAB2 significa nella Storia tulliana/andersoniana.
Ma alla luce della recente
pubblicazione dell’ultima fanzine in cui, accanto ad un interessantissimo e
imperdibile racconto di Mr. President Aldo riguardo a come è stato concepito e
via via corretto in corso d’opera l’album stesso, e che ci fa mirabilmente
sentire come se fossimo stati fisicamente tutti lì accanto a lui, e Ian a
“costruire” TAAB2, c’è anche una lucidissima analisi dei vari brani da parte
del Profèssor Cadoppi, e visto che tale analisi collima esattamente con ciò che
avrei voluto scrivere, mi limiterò solo a fare qualche considerazione di
carattere generale su quello che io credo possa essere il significato
dell’album e di come possa essere inserito nell’ambito della storia
tulliana/andersoniana.
Propongo quindi solo le mie idee
(personali, soggettive e quindi criticabilissime) in questo Blog, ma ancora
adesso in realtà scrivendo più che per i lettori per me stesso, con il
tentativo di riorganizzare la massa di sensazioni, considerazioni, valutazioni
che già da molto tempo turbinavano nella mia mente, cercando di sistematizzarle alla luce di tutto ciò che è
accaduto nell’ultimo anno appena trascorso.
Per questo devo fare un “rewind
mentale” e tornare indietro fino ai tempi della pubblicazione degli album
solisti di Ian e parallelamente alla dicotomia concettuale tra i concerti dei
Jethro Tull propriamente detti da un lato e quelli invece accreditati al solo
Anderson.
Le prime sensazioni soggettive
(parlo quindi di me stesso senza avere la pretesa che tali sensazioni debbano
essere condivise) che si fosse giunti ad un momento critico (destruente?
rigenerativo?) nella Storia Tulliana, anche se già aleggiavano preoccupazioni,
aspettative e angosce da tempo, vista la latitanza di nuove opere in studio di
registrazione dei Jethro Tull dai tempi di DotCom, mi si fecero più intense in
un momento per me fondamentale e cioè dopo l’uscita di “Rupi’s Dance”.
Non che tale album solista di Ian
potesse essere considerato un capolavoro, sicuramente un tantino inferiore al
precedente “Secret Language of Birds”, ma se quest’ultima ancora poteva essere
considerata un’opera a latere, parallela e non prevaricante né sostitutiva
rispetto all’esistenza fisica dei Jethro Tull, “Rupi’s.Dance” ci dette la definitiva
sensazione che Ian avesse tutt’altra voglia che proseguire il capitolo JT e
questa sensazione la scrissi nell’allora “Write on the Bricks”, ovvero l’indimenticato
(per noi vecchi tulliani) “Muro” del Sito
curato dal carissimo Lincoln.
Da un lato assistevamo ad una
esclusiva produzione solista di Ian a fronte di un suo totale disinteresse
riguardo a nuove cose tulliane in studio (se si eccettua l’inconsistente e
concettualmente inutile “Christmas Album” che suona più come una pietra tombale
tanto che invece che “Christmas Album” lo definii “Requiem Album”), dall’altra
la reiterazione di concerti con il logo Jethro Tull, sempre uguali e
progressivamente sempre peggiori non solo dal punto di vista musicale ed
esecutivo, ma anche come entusiasmo e feeling (la mia definizione in gergo
toscano era impietosamente di “Band sfavata”), per di più ad una sempre maggiore sovrapposizione di
concerti solisti di Ian con line-up diverse.
Già allora scrissi come secondo me
i JT fossero, se non fisicamente, concettualmente già morti, che la loro
esistenza fosse paragonabile ad un paziente tenuto in vita artificialmente con
una sorta di accanimento terapeutico e che in realtà fossimo tutti lì a fare
“la veglia ad un morto” che già emanava fetore di putrescenza.
Tutto questo perché avevo la
sensazione che Ian fosse giunto ad un punto della propria storia culturale e
musicale in cui voleva/doveva cambiare rotta.
Lui stesso d’altronde dichiarò di
non sentirsi (anzi, di non essersi mai sentito) un vero e proprio musicista
rock sensu strictu, affermazione forse paradossale da parte di chi aveva
concepito un “Aqualung”, ma comprensibilissima se consideriamo la enorme
vastità della cultura non solo musicale di un genio come lui per il quale ogni
confine concettuale seppur ampio è sempre stato troppo stretto.
Ma allora perché, mi stavo
chiedendo in quei tempi, continuare in questa strada così schizofrenica?
Da un lato cercavo spiegazioni
bassamente economiche (come se Ian avesse ancora bisogno di intascare qualche
altra sterlina da mettere nelle proprie già traboccanti casse) e che per questo
avesse ancora bisogno del logo JT nei concerti sia per non perdere il pubblico
nostalgico e sia per attrarre nuovi aficionados tra i giovani, visto che
moltissimi tra le nuove generazioni, insoddisfatti dell’inconsistenza del
panorama musicale da almeno un paio di decenni a questa parte, stavano
scoprendo e subendo il fascino della musica degli anni ’70.
Dall’altro lato viceversa
riversavo la colpa su Martin Barre, il fedele e fondamentale scudiero di Ian in
tante gloriose battaglie del passato, ritenendolo così talmente e rigidamente
legato al passato stesso da essere alla lunga diventato una limitazione, un
grave impedimento alla evoluzione ed al compimento delle nuove concezioni
musicali di Ian.
Pur con tutta l’ammirazione, la
gratitudine, l’affetto per quello che Martin ha sempre rappresentato
nell’economia della Storia Tulliana, lo consideravo adesso un cordone
ombelicale che da necessario per il nutrimento della creatura JT era divenuto
una catena nociva che andava necessariamente recisa per permettere a Ian di
potersi finalmente esprimere in modo completamente autonomo e di svilupparsi e
realizzarsi nel modo che adesso sentiva come più confacente alla propria
evoluzione musicale che da un lato esprimeva una crescita culturale ed una
maturità e dall’altra una necessità legata al trascorrere degli anni con tutti
i limiti fisici e soprattutto vocali che ciò comporta.
Comunque sia una ovvio ed
inevitabile differenza tra lo Ian di 30-40 anni fa e quello di adesso ( in
questo senso, ereticamente ed impietosamente ed attirandomi le contumelie di
gran parte dei fans tulliani specie nel Forum, mi ero spinto a definire Martin
“una palla al piede” dello Ian attuale, ipotizzando con le debite differenze
una analogia con il pur grande Mick Abrahams con il quale da This Was non
saremmo mai passati a Stand Up ed a tutto ciò che ne è seguito).
Che poi ciò sia criticabile o
esaltabile a seconda dei giudizi dei fans storici è relativamente importante,
ciò che conta è che ogni artista possa e debba esprimere se stesso al meglio
nel cambiamento, altrimenti si corre il rischio (come accade per molti gruppi
storici degli anni ’70 sciolti e poi riformati spesso in modo estemporaneo e
transitorio e come accadeva da troppi anni per i Jethro Tull propriamente
detti) di presentarsi come patetici monumenti a se stessi, corrosi dal tempo e
dalle intemperie, magari ancora oggetto di ammirazione da parte di qualche
ragazzino che ci passa davanti e non li conosceva nel loro vecchio splendore, ma
difficilmente riconoscibili, sotto gli
escrementi di piccioni via via accumulatisi sopra, dagli gli anziani “sitting on a park bench”.
Alla luce di queste
considerazioni, mi aspettavo da un momento all’altro la definitiva rottura tra
Ian e Martin (ovvero ciò che poi è effettivamente accaduto), auspicandomi la
nascita di una Ian Anderson Band che continuasse sulla linea dei solo di Ian,
intimista e prevalentemente acustica folk-classic-etno-new age con una line up
allargata ad una seconda voce preferibilmente femminile ed ad un violino in
pianta stabile come ideale complemento al flauto in quanto, una volta chiuso il
glorioso capitolo Jethro Tull e alla luce del sound più propriamente definibile
neo-andersoniano, la vedevo come unica strada possibile.
Bene, dopo una interminabile serie
di annunci e ritrattazioni, di affermazioni e smentite che hanno dato luogo a
congetture, dietrologie, ironie e nervosismi… finalmente l’annuncio: il nuovo
album era finalmente pronto, con una line up fortemente modificata tanto da non
essere più definibile come “Jethro Tull”, ma ai JT stessi fortemente correlata
in quanto sviluppo ideale del capolavoro tulliano dell’età aurea, ovvero quella
di Thick as a Brick.
Si sarebbe chiamato, in modo da un
lato (a priori) ammiccante, ma
dall’altro (a posteriori) concettualmente significativo, “TAAB2” anche se a mio avviso il vero titolo è più propriamente
“Whatever happened to Gerald Bostock?”.
Non nego il mio sentimento
ambivalente: la morbosa curiosità e il bisogno di sentire finalmente un
qualcosa di nuovo partorito dall’utero andersoniano, e allo stesso tempo il
timore di una tremenda delusione, sia per la ipotizzata irreversibile siccità
della vena creativa di Ian, sia per il riferimento ardito, forse troppo
coraggioso o incosciente dei propri mezzi, ad una pietra miliare unica e
irripetibile come Thick as a Brick (io che ho sempre odiato per principio i
sequel).
Fatto sta che appena mi è arrivato
per posta l’album acquistato in prevendita ho aspettato almeno una settimana
prima di infilarlo nel lettore cd, girandolo e rigirandomelo tra le mani,
leggendo l’inserto e prendendomi in giro con il pretesto/proposito di aspettare
di avere un intero giorno libero per ascoltarlo e valutarlo con calma.
Finalmente un giorno mi sono
deciso: ho tolto il cd dalla (splendida) confezione e l’ho messo su:
“ Da..Da..Daaaa…” Cribbio… ma QUESTI SONO I JT
!!!
Via via che la musica scorre,
intorno e dentro di me, sento un’emozione da troppo tempo sopita, sensazioni
delle quali da troppo tempo sentivo il bisogno appena mitigato dalle dolci
tenui pennellate di “Secret Language” e “Rupi’s”… pennellate certamente
affascinanti, ma prive di quell’impeto e
ardore tulliano, quel fuoco che aveva illuminato
la mia adolescenza, quel fuoco costituito da mille e multiformi fiamme che
avevano fatto dei Jethro Tull il “mio” gruppo, relegando tutto il resto del
panorama musicale dell’epoca a cose più o meno affascinanti, ma nessuna
veramente “pregnante”.
Scorre la musica, sento lo Ian
degli album solisti che pian piano assume toni sempre più propriamente
tulliani… Banker Bets è il punto di
viraggio, Adrift and Dumfouded il
ritorno al sound tulliano che amavamo e al tempo stesso ne è la proiezione nel
futuro con quell’inconfondibile e mirabile mix tra quello che ho sempre
definito il Tull-Blues e tutto ciò che la Storia della Musica ha donato alla
nostra curiosa mente di musicofili: jazz, folk, rock e quant’altro possiamo
trovarci.
A seguire Old School Song in cui la citazione di TAAB1 non è una furba
operazione commerciale, ma un link doveroso e incontestabile al glorioso passato
e al tempo stesso una introduzione ad una giga-rock di rara potenza e fascino.
Scorre la musica…”Wotton Basset Town” a regalarci
atmosfere evocative visionarie col flauto magico e una chitarra che disegnano
panorami tali da rendere impossibile non definirli tulliani, “Shunt of Shuffle” che nobilita certe sonorità espresse nel pur
controverso Crest of a Knave, “A Change of Horses” già “provata” dal
vivo e rivista, aggiustata fino a diventare una delle cose più belle dell’opera
andersoniana, una specie di viaggio onirico nel quale ho immaginato una nave
vichinga che scorre lenta e maestosa tra le nebbie (le stesse nebbie, questa
volta marine, delle brughiere scozzesi di Benefit) che approda in lidi
stranieri e lì i celtici marinai ingaggiano epiche battaglie.
Beh… lasciatemi sognare, ad onta
dei detrattori, degli irriducibili nostalgici per i quali “no Martin, no
party”, di coloro che con la fine della manifestazione fisica contingente dei
Jethro Tull considerano finita un’epoca.
Lasciatemi nella mia pia illusione
che, se i Jethro Tull come entità contingente sono finiti, non sia finita anche
la tullianità come essenza.
Lasciatemi pensare che Ian
Anderson non sia stato solo una cosa necessaria, ma indispensabile dello
spirito tulliano.
Scusatemi se mi sento orgoglioso
di condividere pienamente ciò che ha scritto Aldo “the President” ed espresso
con mirabile entusiasmo il “Profèssor” Pancotti nella ultima fanzine del Fan
Club ovvero che i Jethro Tull (se non come entità fisica e manifestazione
contingente ma come entità sovrannaturale) non sono morti ma semplicemente
reincarnati in quella che, se volete, possiamo definire la Ian Anderson Band e
che TAAB2, come da me scritto attirandomi le ire della maggior parte dei
forumisti, possa e debba essere considerata un’opera tulliana A TUTTI GLI
EFFETTI !!!
In definitiva: Ian Anderson è il
“My God”… Poi nel paradiso tulliano possiamo pure metterci tutti i Santi che
vogliamo, da quelli più importanti a quelli più sfigati, ma per motivi storici,
concettuali (e, se volete, legali), nessun altro che abbia frequentato più o
meno a lungo questo Paradiso può arrogarsi il diritto di vivere in futuro nutrendosi
del cibo tulliano.
In tale ottica permettetemi anche
di criticare, seppur a malincuore, quello che sta facendo il buon caro Martino
Lancillotto Barre, ovvero “featuring Jethro Tull” stravolgendo cacofonicamente
grandi cavalli di battaglia Tulliani (ivi compresa quella “Song For Jeffrey” a
lui estranea… BEWARE !!!