lunedì 31 agosto 2015

Intervista a Diego Banchero


Intervista a Diego Banchero, de Il Segno del Comando
(già apparsa nel protale Unprogged-http://www.unprogged.com/)

Diego Banchero è un musicista genovese che, nonostante i tanti progetti paralleli, si identifica maggiormente ne Il Segno del Comando, band prog nata come progetto studio una ventina di anni fa, e che solo da una paio di mesi ha provato, con pieno successo, l’esperienza del palco.
Tre album all’attivo, con un ultima uscita che risale allo scorso anno, “Il Volto Verde”.
Dalle sue parole si delinea la storia personale e, naturalmente, delle band con cui ha collaborato.



Savona, 15 marzo 2015

Potresti sintetizzare per Unprogged la tua storia di musicista?

Ho iniziato ad avvicinarmi alla musica intorno agli 8-10 anni con la chitarra classica, ma dopo circa un anno di lezioni private prese da un insegnante residente nel mio quartiere ho abbandonato gli studi. Solo intorno ai 16-17 anni mi è tornata la voglia di prendere in mano uno strumento, grazie ad una grande passione per il metal che era esplosa in me ascoltando band come Judas Priest, Iron Maiden, Black Sabbath, ecc.
Ho iniziato quindi a suonare il basso con vari gruppi facendo pratica su generi completamente diversi tra loro e ho svolto, nel contempo, un percorso formativo come autodidatta per diversi anni. Il fatto di non riuscire a trovare da subito una band orientata sui miei stessi gusti musicali è stata una specie di fortuna perché, grazie a questa difficoltà iniziale, ho avuto modo di conoscere ed apprezzare altri linguaggi che mi erano estranei (sviluppando la tendenza a tenere la mente aperta a situazioni nuove).
Altra mia grande fortuna è stata quella di entrare, quasi da subito, in un gruppo del sud Piemonte, che lavorava ad un proprio repertorio di composizioni originali (con il quale mi sono fatto le ossa ed ho suonato in contesti anche di una certa importanza) uscendo molto rapidamente dalla logica della cover band per apprezzare un approccio maggiormente volto alla creatività.
Sul finire degli anni ’80 mi sono riavvicinato alla scena di Genova entrando stabilmente tra le fila degli Zess (band di genere dark metal) e suonando per un breve periodo in un gruppo prog metal che annoverava tra le sue fila un giovanissimo Roberto Tiranti alla voce.
Dopo lo scioglimento degli Zess ho partecipato alla costituzione del primo nucleo di Malombra, che però ho abbandonato prima della registrazione del disco di esordio per concentrarmi seriamente nello studio della musica presso la scuola Jazz Quarto di Genova (che era molto prestigiosa e mi ha dato la possibilità di incontrare, studiare e suonare con grandi nomi della scena hard bop internazionale).
Nel 1995 ho fondato Il Segno del Comando, realizzando un disco che è stato pubblicato nell’anno successivo. Con questo gruppo è iniziata la mia attività discografica che fino ad oggi non si è mai più interrotta.
Ho lavorato poi in modo regolare in diversi progetti pubblicando molti dischi negli anni successivi. I principali moniker nei quali ho prestato la mia opera come compositore e bassista sono stati, oltre al già citato Il Segno del Comando, Malombra, Egida Aurea, Zess, Blooding Mask e Il Ballo delle Castagne.

La tua creatura è la band Il segno del Comando: mi racconti della sua evoluzione?

Il Segno del Comando è nato come progetto da studio ed ha mantenuto per molti anni tale assetto. Per tanto tempo è stato da noi considerato come un laboratorio di sperimentazione di approcci stilistici alternativi non integrabili nel lavoro compositivo dei nostri altri gruppi principali.
La sua costituzione, come già ho accennato poco sopra, avvenne 1995 dalle ceneri del mio quartetto di jazz elettrico con il quale, tra un concerto e l’altro, avevo ai tempi realizzato alcune composizioni in stile horror-soundtrack registrandole in presa diretta in uno studio  (una di queste tracce fu anche inserita nella compilation “E tu vivrai nel terrore”, pubblicata da Black Widow Records). Sul finire dell’estate di quell’anno, decisi di scrivere materiale sufficiente a musicare un album preparando qualche spartito e dei provini registrati con un quattro piste a cassetta che diedi poi agli altri musicisti coinvolti nel progetto. Nei mesi successivi, dopo esserci accordati con la Black Widow, iniziammo i preparativi per entrare in sala d’incisione. Realizzammo così il primo disco omonimo che è poco più che un “live in studio” registrato nell’arco di due weekend; partendo da riferimenti precisi dal punto di vista compositivo arricchiti da una buona dose di improvvisazione. Abbiamo poi atteso diversi anni prima di scrivere il secondo disco (Der Golem) che è stato pubblicato nel 2002 (anche se in realtà è stato ultimato due anni prima della sua uscita).
C’è stata poi una vera e propria interruzione dell’attività del gruppo prima di arrivare all’ultimo capitolo che è stato pubblicato nel 2014 (Il Volto Verde). Grazie a questo disco sono cambiati i presupposti stessi del progetto e ho iniziato a lavorare, da subito dopo la sua realizzazione, alla costituzione di una band stabile che, oltre a realizzare lavori nuovi discografici, garantisse anche una attività live che fino a quel momento era stata impensabile.

Come definiresti la vostra musica a chi non ancora non vi conosce?

Pur facendo, di fatto, parte della scena prog italiana, Il Segno del Comando, ha una grossa componente di influenze derivanti da jazz-rock, funk e metal, e sviluppa atmosfere tipiche della tradizione dark sound nostrana, ispirandosi a gruppi come Jacula e Antonius Rex, Goblin e Balletto di Bronzo.
Grande influenza ha avuto indubbiamente anche la musica di derivazione cinematografica; soprattutto quella italiana degli anni ’70, i cui stilemi danno un contributo inequivocabile all’approccio compositivo del progetto.
Grossa attenzione si presta poi, da sempre, alla scrittura dell’impianto lirico che è esclusivamente realizzato utilizzando la lingua italiana. Le tematiche che vengono affrontate nei testi sono frutto di un’accurata fase di ricerca tra le pagine di opere di importanza culturale o esoterica delle quali si decide di compiere un’azione di recupero che ne scongiuri lo smarrimento tra le polveri della storia.  
Detto ciò, credo che il risultato finale, malgrado non si voglia negare l’importanza di varie fonti di ispirazione, sia indubbiamente originale.

E’ da poco uscito “Il Volto Verde”, vostro terzo album: quali sono i contenuti lirici e musicali?

Il Volto Verde” è un concept album ispirato all’omonimo romanzo dello scrittore Gustav Meyrink (la cui opera era già stata al centro del disco precedente: “Der Golem”).
Ho scelto di compiere un ulteriore approfondimento nella tematica di questo grande autore perché questo suo scritto mi ha particolarmente influenzato negli anni. Su di esso ho compiuto molti studi e ne ho tratto importanti insegnamenti. Tra l’altro era già stato previsto in passato di utilizzarlo e non volevo disattendere completamente quanto dichiarato ai tempi. Musicalmente lo stile si è ulteriormente evoluto grazie ad un lavoro di coagulazione degli stilemi, abbastanza eterogenei, utilizzati nei due dischi precedenti. Sono tornato ad utilizzare sonorità un po’ più vintage, vicine al primo album, ma senza perdere l’approccio compositivo tipico del secondo album che è maggiormente strutturato e meno affidato all’improvvisazione. C’è da considerare il fatto che anche questo disco, come del resto il suo predecessore, siano stati da me realizzati senza l’aiuto di una band vera e propria alle spalle. In realtà sono il frutto di un lavoro di studio abbastanza complesso al quale hanno collaborato molti artisti diversi i quali non si sono mai incontrati né prima né durante le registrazioni. Seppur questo tipo di approccio non permette di avere il pieno controllo di quello che sarà il risultato finale, ci si può abbandonare a cavalcare l’onda della sorpresa che ogni musicista coinvolto è in grado di suscitare con il proprio contributo.

So che lo avete eseguito dal vivo, a Genova: come ha reagito il pubblico? Sei soddisfatto della resa da palco?

Il concerto dello scorso 21 febbraio a Genova è stato in realtà un compendio di tutti e tre gli album realizzati ad oggi dal gruppo. Ampio spazio, chiaramente, è stato riservato ai brani de “Il Volto Verde”, ma trattandosi della prima uscita dal vivo nella biografia della band, non volevo trascurare completamente i primi due lavori.
Sono molto soddisfatto di questo esordio. I musicisti che sono al mio fianco in questa avventura sono eccezionali e lo hanno dimostrato già dalla prima uscita. Grandissimo il calore del pubblico che ha reagito con grande entusiasmo. Erano in molti, anche tra coloro che seguono le evoluzioni del progetto dai suoi esordi, che si aspettavano un’esibizione per lo più giocata sull’atmosfera (sia visiva che sonora), mentre invece sono rimasti colpiti dall’impatto della band che è stata da tutti considerata molto trascinante.


Cosa mi dici dei tuoi progetti paralleli, Il Ballo delle Castagne in primis?

Al momento sono meno attivo su Egida Aurea e su altre collaborazioni che ho seguito per anni, mentre invece sto continuando a lavorare con regolarità con Il Ballo delle Castagne, con il quale ho appena pubblicato due album.
Il primo di questi si intitola “Live Studio” ed è stato registrato poco dopo il concerto tenuto dal gruppo al FIM di Genova del maggio 2014. Il titolo è già di per sé descrittivo della natura del lavoro che è stato realizzato in presa diretta presso il Nadir Studio di Sestri Ponente e comprende una raccolta di brani in versione live presi dai precedenti album della band, ai quali si aggiunge una composizione di Egida Aurea.
Il secondo, è un album stampato unicamente in vinile in cui Vinz Aquarian ha sperimentato un approccio maggiormente filmico. Il titolo è “Soundtrack for an Unreleased Herzog Movie”. Io ho collaborato più che altro alla post-produzione, ma mi sono comunque divertito molto grazie questo progetto.
Il Segno del Comando sta naturalmente richiedendo sempre maggiore impegno, ma non rinuncio a collaborare ad altre produzioni e sto avviando anche un nuovo progetto solista per il quale ho scritto già parecchio materiale.
Le idee sono tante e finisco sempre per rimandare una parte di quanto vorrei fare ad epoche future assolutamente poco definite.

Mi dai il tuo feeling sullo stato della musica nella tua città e più in generale nel nostro paese?

Genova oggi è uno dei punti nevralgici della scena indipendente internazionale. Malgrado il disinteresse del mainstream circa questa realtà sia totale, non si può nascondere il fatto che siano attivi sul nostro territorio urbano molti talenti davvero straordinari. C’è creatività e maturità da vendere in questa scena che sta scrivendo una pagina dopo l’altra e sta dimostrando una vitalità e uno spessore che ormai molti altri ambienti si sognano. Lo stesso vale per l’Italia in generale.
Chiaramente sta cambiando il modo in cui l’utenza interagisce con l’industria discografica (discorso che non voglio affrontare perché, purtroppo, lo abbiamo sotto agli occhi quotidianamente e se ne parla in continuazione).
Da parte delle major non vi è un reale interesse ad investire su fenomeni che si prestano per lo più a favorire una situazione settorizzata dal punto di vista artistico (e di conseguenza commerciale). E’ molto più conveniente tentare di allineare la massa degli acquirenti su un prodotto che rappresenti l’unica alternativa possibile; garantendo così grandi numeri di vendita.
L’aspetto positivo è che, comunque, in questo periodo in Italia si riscontra, da parte di molti, una grande voglia di non lasciare decadere completamente quanto di buono proviene dall’underground e c’è chi si impegna, malgrado tutto, a resistere, pur in condizioni avverse, realizzando produzioni nuove, organizzando concerti e svolgendo un’opera costante di talent scouting.

Un’ultima domanda: cosa c’è… dietro l’angolo di Diego Banchero?

Questa forse è la domanda più difficile a cui rispondere caro Athos. Vorrei saperlo anch’io a dire la verità. Per realizzare tutte le cose che mi frullano per la testa ci vorrebbero almeno due vite. Al momento, dietro l’angolo, c’è il progetto Il Segno del Comando, al quale intendo lavorare con la continuità che in passato non era stata possibile.
Ho anche alcuni progetti che vorrei realizzare con Il Ballo delle Castagne ed altre cosette che nell’immediato non beneficiano delle condizioni adatte ad essere sviluppate.
Sono solo sicuro del fatto che, finché le forze me lo consentiranno, cercherò di assecondare al massimo la mia creatività!




domenica 30 agosto 2015

Maurizio Solieri e Capovolti Vasco Tribute live: 28 agosto, Albissola Marina (SV)


Si rinnova il connubio tra Maurizio Solieri e Savona -e dintorni- città in cui si è più volte esibito in tempi diversi. Ma è anche l’occasione per rivederlo assieme ad una delle più quotate Tribute Band, i savonesi Capovolti Vasco Tribute, consolidando così un sodalizio iniziato lo scorso anno e proseguito nel 2015 con un paio di date.
Ed è passata solo una settimana dalla fortunata serata di Quiliano, quando il 28 agosto tutti i protagonisti si ritrovano ad Albissola Marina, su di un palco installato sul Lungomare degli Artisti, che si confronta con il mare ed una luna piena che osserva: lo scenario migliore per un concerto.
Il pubblico ripaga musicisti e natura accorrendo copioso all’evento: non lascia indifferenti l’idea di vedere da vicino un chitarrista della portata di Solieri.
La formazione dei Capovolti propone un tastierista che non conoscevo, Pier Colla che va ad integrare una formazione ormai cementata, con Paolo Macchia alla batteria, Claudio Mandaglio alla chitarra ritmica, Gianluca Picchio al basso, Fabrizio Calzolari alla chitarra solista e il frontman Roberto Cancellara alla voce.
Scaletta nutrita, sintetizzata nel video a seguire, ma occorre sottolineare come la prima parte di set, quella che apriva la strada all’entrata dell’ex chitarrista di Vasco, sia stata pianificata sulla linea soft, probabilmente per bilanciare gli aspetti più “duri” che di lì a poco sarebbero arrivati. Spazio quindi, anche, per l'acustica di Mandaglio, come nel caso di “Guai”, brano particolarmente riuscito.
Audience calorosa, formata da chi normalmente segue la band anche in trasferta, ma anche molti curiosi, turisti e passanti occasionali, ed era facile scorgere le labbra di “insospettabili” muoversi -unitamente al corpo- su trame conosciute.
E arriva la tanto attesa entrata di Solieri -annunciata con enfasi da Cancellara- che si presenta con un paio di “armi” della sua collezione.



La seconda parte è quindi confezionata ad hoc per l’ospite che ripropone i suoi famosi assoli - C’è chi dice no, Dimentichiamoci questa città, Alba chiara, tanto per citare alcuni spunti- con una deviazione dovuta, Bambolina, omaggio all’amico Massimo Riva.
Maurizio Solieri non ha perso lo smalto e l’entusiasmo, ma la professionalità della band che lo accompagna è il presupposto fondamentale per la riuscita del concerto, e la continuazione di questo connubio artistico è la prova dell’esistenza di una buona intesa e soddisfazione reciproca.
Davanti a noi un mito, capace di accendere entusiasmi e fuochi che rimangono attivi anche quando arriva la mezzanotte e, dopo il bis canonico, il sipario si chiude.
Solieri si allontana con la promessa di ritornare dopo una breve sosta per le foto di rito, e i fan più accaniti non resteranno delusi dell’attesa.

Sconfino nel… banale, ma davvero sentito: una serata così, tra musica e atmosfera, può tamponare qualche ferita superficiale… il materiale umano non manca mai, così come la musica di qualità!




venerdì 28 agosto 2015

Suoni e Colori a Sassello



Fotografia di Stefano Mantello

L’occasione musicale, il 27 agosto, è la mostra personale dell’artista Alessandro Sala, ma Roberto Tiranti è di casa a Sassello, paese dell’entroterra savonese in cui è da sempre importante il turismo estivo.
Il concerto a cui ho assistito, realizzato in collaborazione con il Comune di Sassello e La Cantina dei Frati, è una replica ravvicinata, temporalmente parlando, per molti partecipanti, ma gli artisti presenti sul palco hanno una certa dimestichezza nel muoversi in gruppo, essendo un pool di amici che abbinano l’arte musicale al divertimento, un binomio che non dovrebbe mai mancare quando la passione è comune.


E lo spirito appena descritto si è palesato completamente nella piazzetta che ha ospitato il super team, una location occupata dall’audience in ogni minimo spazio.

Fotografia catturata in rete

Elenco in ordine sparso i protagonisti, senza sottolineare il loro spaventoso curriculum, anche se non sono certo che sia chiara per tutti la loro storia, ma una ricerca su Google, come ha suggerito De Scalzi, potrà chiarire le idee: Aldo De Scalzi, Roberto Tiranti, Massimo Ben Trigona, Luca Cresta, Andrea Maddalone, Lorenzo Ottonello e Danilo Madonia; ospiti Mauro Culotta e Jenny Costa.
Il tutto coordinato da un tecnico di lungo corso, Enzo Albertazzi, anche lui giocatore in casa.
Con le incredibili pitture di Alessandro Sala a fare da sfondo al palco gremito, inizia una performance che durerà un paio di ore e che vedrà proporre, oltre ad alcuni brani del nuovo album di Tiranti, molteplici must di artisti che hanno fatto la storia della musica… vado a memoria: Bee Gees, Stevie Wonder, Alan Parsons, Louis Armstrong, Queen, Jimi Hendrix e Supertramp.
L’angolo “guest” permette un excursus sul mondo di  Eric Clapton, con gli assoli di Mauro Culotta su “Cocain”.
Particolarmente toccante ed efficace la presenza di Jenny Costa, coreografa della canzone in LIS, Lingua dei Segni Italiana: la sua partecipazione attiva, anch’essa documentata nel video a seguire, ha dato valore aggiunto alla serata.
Il clima è cameratesco, volutamente “leggero”, e questo permette una discreta interazione con il pubblico. Se le doti e le competenze musicali dei presenti sono facilmente documentabili, per alcuni -i partecipanti casuali- può essere stata una sorpresa trovare due mattatori da palco come De Scalzi e Tiranti, e anche questo è elemento che fa la differenza.
L’immagine che creano è quella della situazione soft, dove tutto potrebbe andare bene visto che “si è in famiglia”, ma l’adattabilità e l’improvvisazione, stati richiesti in questi casi, evidenziano un’enorme professionalità e talento, fattori che permettono di giostrare su diversi strumenti, di sintonizzarsi rapidamente sul cambio di tonalità e di afferrare al volo testi che non si conoscono a memoria e che necessitano dell’ausilio tecnologico.
A seguire propongo un medley che ripercorre alcuni momenti della serata e, isolato, un brano di Louis Armstrong, “What a wonderful word”, che a detta di De Scalzi ha avuto una riuscita … emozionante: come non essere d’accordo!?

Serata semplice, aggregante, magica, di “livello”… un connubio tra arte figurativa, musica e paesaggio, una serata serena, tra suoni e colori, e di questi tempi non si può proprio chiedere di più!


Medley...



What a worderful world...



martedì 25 agosto 2015

OLD ROCK CITY ORCHESTRA-"Back to Earth"


Il secondo impegno discografico sulla lunga distanza degli OLD ROCK CITY ORCHESTRA (ORCO) si intitola Back to Earth, dieci brani che costituiscono un album concettuale dai contenuti complessi, ancorché comuni e popolari. Provo a spiegare.
L’attitudine al concept è prerogativa di chi attinge e ama la musica progressiva, una sorta di brand che costituisce una delle molteplici linee guida di chi aspira ad esprimersi in quell’ambito. Credo però che l’album degli ORCO sia molto di più, prog o non prog, perché la possibilità di raccontare una storia, con un inizio e una fine, magari lasciando intravedere un sequel, è situazione stimolante che, previo enorme sforzo, conduce verso grandi soddisfazioni personali.
Ci si è domandato, sin dagli albori della musica di impegno, quale fossero le reali possibilità di un artista/band che decide di passare alla massa un messaggio, rivolto al sociale, alla riflessione comune, ai grandi temi che affliggono l’uomo: non credo ci siano ricette magiche e medicine per ogni male, ma va sottolineato come un musicista abbia la possibilità di amplificare un pensiero, veicolandolo verso milioni di canali, che esistono ma, ahimè, spesso sono interdetti a chi è dedito alla musica di nicchia.
Back to Earth, non mi pare un disco tradizionalmente prog, musicalmente parlando, ma il fil rouge che lega i brani annoda un mondo che parla di noi, dell’uomo comune -al di là delle differenze sociali spesso insormontabili- e traccia un percorso, un viaggio reale che diventa metafora di qualcosa di più profondo, di interiore e caratteristico di ogni anima presente sulla terra.
C’è proprio tutto nel disegno proposto dagli ORCO, un panorama che cambierà cammin facendo, partendo dalla consapevolezza delle colpe originali, passando per l’impotenza che si manifesta realizzando di essere pedina di un gioco superiore, attraverso i solchi della “non conoscenza”, che si riempiranno solamente con il cumulo delle esperienze capace di fornire energia -e quindi luce- che schiarirà il sentiero che riporta a casa, in una terra familiare, provata e mortificata dal passare del tempo, ma buon rifugio e, soprattutto, punto di partenza per un nuovo viaggio, probabilmente più sereno di quello appena terminato.
La progressione temporale, la ricerca continua, il bisogno del miglioramento passo dopo passo, rappresentano davvero un moto “PROG”, che diventa un’attitudine mentale e non la mera somma di tastiere vintage.
I risvolti prettamente musicali raccontano di una diffusa atmosfera rock-psichedelica, dove una sorta di acid rock californiano pesa più del british di inizio seventies -anch’esso presente- e dove è difficile trovare una netta separazione tra i tanti apporti dei singoli musicisti.
Partendo da una decisa e precisa sezione ritmica (Giacomo Cocchiara e Mike Capriolo), diventano fondamentali i fraseggi liquidi di Raffaele Spanetta, complementari alla tastiere di Cinzia Catalucci, che tesse trame di Manzarekchiana memoria. La Catalucci è anche “proprietaria” di una signora voce, che all’uopo si dimostra uno strumento che oltrepassa le esigenze della proposizione lirica, compito suddiviso con Spanetta.
E così ci si ritrova immersi in un’epoca antica -ma forse tale giudizio vale solo per chi ha vissuto quel periodo- catapultati nel cumulo dei ricordi che provocano la comparsa di un velo di soffusa tristezza, assolutamente in linea con il racconto concettuale e con la filosofia musicale della band.

Un disco che non lascerà indifferenti, un racconto sviscerato nell’intervista a seguire e riassunto in un video musicale.


L’INTERVISTA

Chi sono gli  OLD ROCK CITY ORCHESTRA? Come si formano e che collante musicale utilizzano?

Gli Old Rock City Orchestra sono quattro ragazzi con la voglia di esprimere le proprie idee musicali senza troppi ragionamenti. È la spontaneità ciò che caratterizza maggiormente l’identità della band. L’esigenza e il desiderio di “dire la nostra” in questo variegato mondo musicale ha fatto sì che sei anni fa quattro amici, musicalmente diversi fra loro, si riunissero e decidessero di dar vita a un progetto originale. Old Rock City Orchestra è un nome che racchiude in sé con un gioco di parole sia il “vecchio rock” dal quale traiamo ispirazione, sia il nome della città da cui proveniamo, Orvieto, in latino Urbs Vetus, ovvero “città vecchia”, che sorge appunto su un’antica rupe, una vecchia roccia. In altre parole l’“orchestra dell’antica città rupestre”, ma anche ORCO non suona male!

Come si può definire, a parole, la vostra musica?

Qualcuno ha definito la nostra musica una sorta di proto-prog con influenze psichedeliche, altri l’hanno denominata art rock, altri ancora hard-prog. Sicuramente ognuno di noi ha contribuito con il proprio bagaglio musicale al sound della band arricchendolo di molteplici sfumature di genere, dal rock classico al blues, dal folk fino al metal. Da questa sintesi emerge la natura “prog” degli Old Rock City Orchestra, un atteggiamento più che un genere. Al di là dei nomi e delle etichette ci piace comunque pensare la nostra musica come un rock dal sapore onirico, sognante, talvolta decadente.

Come si è evoluta la vostra discografia?

Dopo un breve periodo di rodaggio della band trascorso a suonare cover di gruppi storici della scena musicale anni ’70 abbiamo deciso di mettere in musica le nostre nuove idee e così nel 2010 abbiamo realizzato il nostro primo EP di cinque canzoni, diventato un vero e proprio album l’anno successivo con l’aggiunta di altri quattro brani, per poi essere pubblicato nel giugno 2012 con il titolo “Once Upon A Time” per l’etichetta M. P. & Records. Un disco rock dal sound psichedelico, vintage, che non guarda però con nostalgia al glorioso passato musicale, anzi, è un voltarsi indietro per proiettarsi in avanti. Dopo diverse esperienze live e molto tempo passato in sala prove, a distanza di tre anni, è uscito lo scorso aprile il nostro secondo lavoro “Back to Earth”, un album sicuramente più maturo, meditato e per certi aspetti più esoterico.

Quali sono le maggiori soddisfazioni che avete ottenuto, qualcosa che rimarrà per sempre nell’album dei ricordi?

Abbiamo avuto la fortuna di toglierci diverse soddisfazioni in questi anni, in primis i concerti in Inghilterra, Olanda, Belgio, Francia, ma soprattutto in Bulgaria nel 2013 in occasione del Balkan Youth Festival, un evento internazionale che ci ha fatto sentire quasi delle star! Ma anche le belle recensioni e i passaggi in radio italiane ed estere, gli apprezzamenti e la stima di artisti affermati, così come i “semplici” messaggi e telefonate di persone più o meno vicine che esprimono il loro affetto per la nostra musica. La soddisfazione più grande però è stata certamente l’apertura al concerto di Bernardo Lanzetti nel 2014. Ascoltare da sempre la sua voce “impossibile” e leggendaria in dischi come Mass-Media Stars dei suoi Acqua Fragile o Chocolate Kings targato PFM o ancora I Sing The Voice Impossible come solista, e riuscire poi a condividere con lui lo stesso palco, è stato davvero un sogno diventato realtà.

Come sono gli OLD ROCK CITY ORCHESTRA in fase live?

Durante i concerti cerchiamo sempre di trasmettere tutta la nostra passione per il suonare e questo fa sì che il nostro atteggiamento live sia piuttosto “rock”e diretto. Ogni concerto ha una storia a sé, anche in base al pubblico, all’atmosfera e alla sintonia che si crea tra ognuno di noi e tra la stessa band e gli ascoltatori. Ogni volta è come affrontare un nuovo viaggio sotto forma di spettacolo,  con l’alternanza di momenti molto energici e momenti più intimi, più riflessivi. La durata dell’esibizione non ha importanza; in quindici minuti o in due ore cerchiamo sempre di offrire un vero e proprio show e non una semplice sequenza di brani, curando moltissimo anche il “look” della band. 

A proposito, vista la vostra esperienza all’estero, quali sono le maggiori differenze che rilevate tra la situazione musicale italiana e quella riscontrata in altri paesi?

Le difficoltà nel trovare i giusti spazi per esprimere la propria musica in Italia sono maggiori che all’Estero. Non suonando un genere commerciale le problematiche si ingigantiscono, ma la vera differenza tra il nostro paese e il resto dell’Europa, almeno in base alla nostra esperienza, è nella cultura dell’ascolto e nella curiosità di sentire anche qualcosa di nuovo e non solo il gruppo storico, la tribute band o il fenomeno del momento. Essere disposti ad ascoltare e ancor più ad ascoltare qualcosa che non si conosce sono i due aspetti fondamentali per la sopravvivenza e la crescita di una band che tenta di affacciarsi nel panorama musicale con un progetto originale. All’Estero la sensibilità nei riguardi degli artisti cosiddetti “emergenti” è sicuramente maggiore, in Italia invece, forse per pigrizia, forse per ignoranza, molto spesso, senza generalizzare, ci si trova di fronte a un vero e proprio rifiuto della novità. 

Mi parlate del nuovo album? Trattasi di concept?

Uscito lo scorso 30 aprile per la stessa M. P. & Records, “Back to Earth” è il nostro secondo lavoro, realizzato nel 2014 tra Italia e Bulgaria. È una sorta di concept album che narra la storia di un personaggio che, dopo un senso di smarrimento, decide di intraprendere un viaggio alla riscoperta di se stesso e del mondo che lo circonda. È un viaggio musicale, surreale e introspettivo, a tratti fiabesco. Alla fine il protagonista giunge in un luogo dal sapore antico dove lo attende la visione del Pianeta Terra, il suo mondo originario e ritrovato, abbandonando così il suo status di “pedina” costretta a muoversi su una scacchiera che non lascia spazio all’esprimersi della natura autentica dell’uomo, insieme ragione e istinto. Questo è il quadro generale dell’album, dieci brani “autonomi” ma allo stesso tempo legati tra loro da un unico filo conduttore.

Che giudizio date dell’attuale stato della musica?

Oggi la musica viaggia a due tempi. Esiste il mondo delle Major, dei talent show e di tutto quello che il grande business musicale propone come prodotto commerciale all’ascoltatore di massa. Poi esiste il mondo della musica indipendente nel vero senso della parola, quello degli ascoltatori appassionati che acquistano ancora i dischi, quello degli artisti che seguono la propria strada e che spesso sono di grandissimo livello e con un’importante carriera e storia musicale alle spalle. Anche chi vuol provare a far conoscere la propria musica, quella non conforme alla moda del momento, si muove su questo terreno, sperando di essere prima o poi notato. In un periodo di profonda crisi sociale e culturale anche la sfera della musica inevitabilmente soffre, ma la presenza sempre maggiore di vecchi e nuovi artisti che portano avanti con passione il discorso musicale autentico, la musica come espressione artistica, è di buon auspicio per il futuro.

Si scrive musica per se stessi, ma subito dopo nasce l’esigenza di diffondere il più possibile il proprio credo musicale. A chi vi rivolgete principalmente, tenuto conto della particolarità della proposta, che richiede impegno compositivo, ma anche concentrazione nell’ascolto?

Il primo passo è scrivere per se stessi, poi effettivamente l’esigenza e il desiderio di far conoscere le proprie idee e di comunicare la propria arte viene fuori, e la scommessa più grande per noi è proprio quella di non rivolgerci esclusivamente a un ascoltatore ideale. Ovviamente l’amante e il conoscitore di un certo genere musicale piuttosto che di un altro è facilitato nell’ascolto e nella comprensione della nostra musica, ma la vera conquista è quando il “digiuno” di questo tipo di musica apprezza i nostri dischi, assiste magari per caso a un nostro concerto e dice di essersi emozionato ascoltando il nostro sound. Noi come tanti altri nuovi artisti di questo genere abbiamo in un certo senso il dovere di educare ad una musica particolare e a volte difficile come può essere quella della grande categoria del progressive rock, così come hanno fatto i nostri “padri musicali” prima di noi lasciandoci in eredità un patrimonio dal quale riprendere non tanto i contenuti, quanto la forma, lo spirito e la voglia di creare sempre qualcosa di nuovo.   

Provate ad esprimere un desiderio… realistico: cosa vorreste vi accadesse, musicalmente parlando, nei prossimi tre anni?

Innanzitutto, musicalmente parlando, vorremmo continuare ad esistere, cosa non scontata viste le innumerevoli difficoltà, e ci piacerebbe farlo con un terzo album, partecipando magari alla tournée di una band affermata come supporting act o più semplicemente gruppo spalla e, perché no, partecipare ad un grande festival. Sognare non costa nulla!


Tracklist:
1- When you pick an apple from the tree 4:14
2- Feelin' alive 4:08
3- Rain on a sunny day 2:09
4- Mr Shadow  3:45
5- Melissa 2:54
6- Lady Viper  2:38
7- My love  3:01
8- Tonight tomorrow and forever 3:02
9- Why life  3:52
10- Back to Earth  9:17

LINE UP
Membri: Cinzia Catalucci - Vocals/keyboards
Raffaele Spanetta - Guitars/vocals
Giacomo Cocchiara - Bass/backing vocals
Mike Capriolo - Drums/percussion

BIOGRAFIA
La band nasce ad Orvieto nel 2009 da un’idea di Cinzia Catalucci (voce e tastiere) e Raffaele Spanetta (chitarra). L’intenzione è quella di fondere le sonorità tipiche del rock delle origini, psichedelia, musica progressiva, blues-rock, il tutto arricchito da atmosfere classicheggianti e orchestrali. La line up è completata da Giacomo Cocchiara al basso e Michele “Mike” Capriolo alla batteria.
Alla fine del 2010 il gruppo registra un EP. I brani della band sono trasmessi in numerose radio e webradio nazionali ed internazionali, tra cui la radio statunitense Aural Moon che trasmette integralmente l’EP nel corso del programma New Moon on Monday dedicato alle novità della scena progressive mondiale.
Nel 2011 gli Old Rock City Orchestra sono citati nel capitolo dedicato alla scena prog contemporanea del libro Rock Progressivo Italiano - An introduction to Italian Progressive Rock scritto da Andrea Parentin.
Tra il 2011 e il 2012 la band completa la registrazione in studio del suo primo lavoro. L'album d'esordio, dal titolo Once Upon A Time, esce il 20 giugno 2012 per l'etichetta indipendente M. P. & Records (Rick Wakeman, Sonja Kristina, Bernardo Lanzetti, Le Orme, Pierrot Lunaire, ecc.) ed è distribuito in tutto il mondo da G. T. Music Distribution.
Recensito anche dal magazine Classix! e dalla rivista olandese di musica prog iO Pages, Once Upon A Time è stato presentato ufficialmente il 29 dicembre 2012 presso il negozio di dischi Tarkus Records di Roma.
Nell'estate del 2013 la band intraprende un tour europeo in Inghilterra, Francia, Belgio e Olanda concludendosi, infine, in Bulgaria con la partecipazione degli Old Rock City Orchestra al 18° Balkan Youth Festival di Sandanski.
Nell'estate 2014 la band è opening act per Bernardo Lanzetti, ex-cantante di PFM e Acqua Fragile, nonché voce storica del progressive rock internazionale e vincitore del FIM Award 2015 alla carriera.
Nell'aprile dello stesso anno gli Old Rock City Orchestra tornano in studio per le registrazioni del secondo album, pubblicato il 30 aprile 2015 per la M. P. & Records, mixato in Italia, masterizzato in Bulgaria e distribuito dalla G. T. Music Distribution.

INFO

lunedì 24 agosto 2015

Intervista a Ciro Perrino


Ciro Perrino è un musicista che chiunque si avvicini alla Musica Progressiva dovrebbe conoscere. Questa affermazione è senza dubbio riduttiva, Ciro è molto di più, ma per chi volesse partire dalle origini del prog italiano un consiglio è quello di avvicinarsi a entità seminali, come Il Sistema e Celeste, di cui lui ha fatto parte.
La vita lo ha poi portato su diversi sentieri, ma la Musica è rimasta la sua vita, la sua passione e il suo lavoro.
L’intervista a seguire riesce a disegnare in modo completo un artista la cui opera va approfondita.

Intervista già pubblicata sul web magazine UNPROGGED (http://www.unprogged.com)

Ciro, mi pare d’obbligo raccontare stralci della tua vita musicale tra Il Sistema e Celeste: come si possono inquadrare a distanza di anni quei progetti inseriti nel contesto che successivamente venne definito prog?

Indubbiamente Il Sistema ha rappresentato per me l’esperienza più completa ed esaltante del mio percorso musicale. A distanza di oltre 45 anni ancora la sento nel mio profondo. Anche se suonavo batteria, percussioni ed iniziavo a cimentarmi con il flauto traverso e, verso la fine del 1971, con il primo monumentale sintetizzatore definito Empirico primo e poi con il successivo modello Empirico secondo, la mia anima era in piena espansione. Presentivo gli sviluppi che di lì a poco si sarebbero manifestati. Il mio passaggio a strumenti diversi, arricchenti che mi avrebbero messo nella condizione di iniziare a comporre. La creazione di Celeste rappresenta una sorta di consacrazione di quelle avvisaglie che erano già presenti nel contesto de Il Sistema. Atmosfere completamente diverse, lontane dal Rock proposto dal 1969 al 1971. Celeste è stato il versante morbido e delicato di quel periodo. Amavo ed amo entrambi. Due organici dove il mio ruolo cambiò e si modificò non poco. Io certo non sapevo di fare Prog. Questa definizione venne data a posteriori. Io credo ed ho sempre creduto di “fare Musica”. Semmai una variante in chiave moderna ed attuale della nostra ricca tradizione classica italiana. Quindi per come sento ed ho sentito ritengo che quei due momenti del mio percorso siano stati altamente formativi. Senza Il Sistema e Celeste oggi non ci sarebbe Ciro Perrino nella sua veste di compositore.


Come racconteresti la tua evoluzione personale, dall’amore per le percussioni sino al pianoforte, da Hendrix ad atmosfere più rarefatte?

Assolutamente passaggi fatali, inevitabili, ed ognuno di essi non ha mai escluso gli altri. Quando suonavo batteria e percussioni mi sentivo un pianista, quando poi sono passato al pianoforte ho continuato a sentirmi un batterista ed un percussionista. Hendrix è stato sì uno dei miei primi viscerali “Amori” ma già coabitava con Cesar Frank, Antonio Vivaldi, Jean Philippe Rameau e Karl Heinz Stockhausen. Non ho mai, così come adesso, sentito differenze o steccati fra quelli che vengono sommariamente definiti generi. La Musica è Musica. Tutto per me è in espansione continua. Il mio orizzonte musicale si va via via ampliando ogni giorno che passa. Ho in animo di rimettere mano al mio primo lavoro solista, “Solare”, per riproporlo in chiave orchestrale così come dopo aver concluso la composizione del prossimo album pianistico che si intitolerà “BACK HOME”, ho già iniziato a porre le basi per un nuovo progetto dove saranno presenti il pianoforte, un violino ed un violoncello. Una formazione classica per dare voce ad atmosfere che da tempo si dibattono nel mio petto, nel mio cuore. Inoltre è già pronto da tempo un lavoro molto più complesso scritto per un organico di 18 elementi più le voci di un contralto, un soprano, un tenore e di un bambino.

Esiste un incontro musicale che ha cambiato la tua vita, che ti ha suggerito una strada da perseguire?

Certamente. L’incontro con i Rolling Stones di Aftermath e più precisamente con il brano “Think”, che determinò la mia decisione di dedicare la mia vita alla musica, non solo come passione ma anche come professione. Non amo questa definizione. Preferisco dire che decisi di onorare il dono che mi veniva elargito in quel momento dall’Universo. Poi indubbiamente ci sono stati degli incontri con delle persone che mi hanno spronato a proseguire sul cammino della Musica con buoni consigli, osservazioni ed esempi. Anche visioni. In tempi non sospetti ricordo che il mio Maestro di Zen mi disse “Un giorno tu ti dedicherai a comporre musiche per pianoforte”. Tutto ciò quando fu pubblicato Far East. Quindi oltre 25 anni fa. Grande visione! Ma in definitiva ho sempre dato ascolto alla mia voce interiore che mi ha costantemente guidato nella direzione giusta in qualsiasi momento.

Chi è il Ciro Perrino degli anni 2000? Qual è la cosa più importante della tua maturità che     è riuscita ad incidere nelle tue composizioni?

Bella domanda. Non garantisco di rispondere in termini chiari. Anche qui l’evoluzione è costante. Come per tutti: ciò che si era ieri oggi non lo si è più. La cosa più importante della mia maturità? Credo che sia stato l’aumento della consapevolezza e della fiducia in me stesso. La Musica in questo è una grande Maestra. Ti impone disciplina a volte con dolcezza spesso con forza e ti chiede di essere determinato nel perseguire e di dare il meglio di te stesso dando forma alla sostanza. E poi la certezza di essere un mezzo fra il mondo di quello che io chiamo Caos Perfetto e il mondo fenomenico dove gli uomini si muovono. La mia connessione con la Sorgente mi consente di avere accesso ai doni che provengono dalle profondità dell’Omniverso. Lì vive la Musica. A me arriva. Poi si trasforma passando fra le mie dita dopo aver stazionato nel mio Cuore. La Magia avviene ogni volta.

La tua musica non può prescindere dall’immagine e dalla spiritualità: che cosa proponi a chi ti ascolta oggi?

Ciò che propongo oggi a chi mi ascolta non differisce molto da quanto proponevo tanti anni fa. A questo proposito ricordo che, quando suonavo ancora le percussioni e non avevo alcuna velleità compositiva, si cominciava a parlare del sistema quadrifonico che poi non ebbe seguito, ed io iniziai a pensare che mi sarebbe piaciuto creare un percorso sonoro itinerante da una sorgente microfonica ad un’altra usando soltanto percussioni, per far nascere suggestioni negli ascoltatori. Come accompagnare e scatenare emozioni in una persona che doveva stare al centro di una stanza in meditazione seguendo gli stimoli provenienti da quattro casse acustiche. Un movimento circolare senza regole precise. Le mie composizioni in seguito ed al momento attuale soprattutto sono molto utilizzate in contesti di medicina naturale, come sottofondo per indurre stati di rilassamento. Molte persone mi dicono che ascoltano un album più che un altro per meditare. Altri mi riferiscono di viaggiare nel tempo, di viaggiare visitando luoghi lontani, di provare profonde emozioni. Ho assistito a processi emozionali dove le persone hanno pianto riportando alla luce del proprio Cuore eventi passati, spesso dolorosi ma anche gioiosi. Tutto ciò solo ascoltando una mia composizione. La Musica opera costantemente grandi guarigioni.

Mi parli del tuo nuovo progetto, quello dei… concerti in casa?

Lo coltivavo da anni. Accarezzavo quest’idea di poter proporre fra le mura domestiche, in un ambiente protetto, i miei progetti musicali, in special modo gli ultimi due pianistici molto intimi ed adatti anche ad un pubblico costituito da poche presenze. Avere alle proprie spalle l’uditorio (così avviene a casa mia) dà una sensazione di contatto più stretto fra esecutore ed astanti. Un brivido costante! Questo anche a detta delle persone che sinora hanno frequentato i miei Concerti. Io sono ogni volta più emozionato di quando salgo su un palco in un teatro. E poi, bellissimo il passo successivo alla fine del Concerto che dedico alla condivisione delle emozioni reciprocamente provate. Momenti intensi dove si percepisce la Guarigione che ogni volta la Musica dispensa al nostro Spirito.

Qualcuno dice che il pessimismo dovrebbe essere inserito tra i vizi capitali: come diventa il tuo umore quando pensi all’attuale stato della musica?

Mi trovi d’accordo. Non per fare il verso a tutte queste infinite variazioni sul Pensiero Positivo, ma senza dubbio l’Energia che impegniamo ad essere pessimisti è lo stesso che in fondo dovremmo adoperare per essere  ottimisti. Comunque nessuno ha inventato nulla. Seneca nei suoi scritti si esprimeva già in questi termini 2000 anni fa.
Lo stato della Musica non mi preoccupa più di tanto. Poco è cambiato. Prima vi erano le Case Discografiche ad orientare e forzare i gusti e le scelte degli ascoltatori oggi la Rete crea solo confusione e non permette di far emergere i veri talenti. Fino a che non saranno i musicisti ed i compositori a prendere in mano la situazione e a rivendicare i propri diritti vi saranno sempre dei media ad interferire. Io sono per la gestione diretta del proprio repertorio. Qui si inserisce il mio progetto dei Concerti in Salotto. Chiaro il tutto è limitato ad un gruppo ogni volta sempre ristretto di persone ma non per questo meno arricchente e profondo. Debbo dire che rimpiango quel meraviglioso periodo quando, ancora ragazzino, frequentavo i negozi di dischi alla ricerca delle nuove uscite. Che sorprese da scoprire all’interno di quelle copertine di cartone, quel profumo! Quando acquistai il primo Led Zeppelin non sapevo chi fossero. Quello stesso giorno mi portai a casa anche il secondo album dei Nazz (il primo l’avrei scoperto dopo). E chi sapeva chi fosse Todd Rundreng? Il bello era poter scegliere senza condizionamenti. Lo stesso avvenne per Hendrix e per decine, centinaia di altre scoperte. Per concludere sento che nuovi spazi si stanno preparando. Ciò di cui sono certo è che comunque senza Musica non si può vivere. Non riesco a concepire un mondo senza Musica. Stiamo ad osservare. Nuove opportunità si stanno creando. Tutto cambia. Ho fiducia nel futuro della Musica.




giovedì 20 agosto 2015

Mike 3rd-"THE WAR IS NOT OVER"


Ho ascoltato compiutamente THE WAR IS NOT OVER, di Mike 3rd, nei primi giorni di Agosto, quel periodo in cui, in modo del tutto automatico, mi sintonizzo su date precise e, tra me e me, le celebro, o almeno rispolvero i miei ricordi di adolescente, quando gli echi di Woodstock arrivavano a noi giovincelli. Perché faccio accenno ad un Festival realizzato 46 anni fa, a migliaia di chilometri di distanza? Un messaggio forte e chiaro, forse illusorio e velleitario ma sentito, ci parlava di un nuovo mondo in cui la pace poteva essere controbattuta da elementi tutto sommato semplici, come la musica, la comunione di intenti positivi, la natura: erano i giorni in cui qualcuno, in Italia, cantava… mettete dei fiori nei vostri cannoni…”.
Mike 3rd, musicista prolifico di cui ho parlato più volte in questo spazio, entra in campo a piedi uniti, forse nel momento più opportuno, e sfoggia il miglior tackle calcistico possibile per smuovere le coscienze, e ricordare a tutti che “la guerra non è finita”.
Non c’è contestazione o polemica eclatante, ma è sollecitato il ricordo verso tute le vittime della guerra, utilizzando come punto di partenza lo scoppio del primo conflitto mondiale, giusto 100 anni fa. Lo sguardo verso il passato, rapportato alla situazione attuale, sembrerebbe poco utile al miglioramento, se è vero che le “battaglie” sono continuate a tutte le latitudini possibili, e non pare ci sia un futuro roseo.
E allora, ancora una volta, ci prova la musica, quella che ci spinge a riflettere, a soffermarci a pensare, e Mike 3rd trova chi completa il suo progetto, semplice a ambizioso allo stesso tempo, con un obiettivo difficile da raggiungere ma si sa, quando le meta è chiara, anche un deserto diventa un’autostrada.
L’album, pubblicato con il Patrocinio della Regione Veneto e del Comune di Carmignano Di Brenta (PD), vede la partecipazione di mostri sacri della musica, come Tony Levin, Pat Mastellotto e Benny Greb, e un gruppo di fedeli “locali”, come Iarin Munari, Alberto Stocco, Andrea Tombesi, Roberta Canzian, Filippo Galvanelli e Sofia Borgo.


Non poteva mancare il noto produttore californiano Ronan Chris Murphy, con cui Mike collabora da tempo, realizzando lavori in pieno modus analogico, caratteristica dei dischi dell’autore.
Vale la pena riportare un commento di Mike a proposito della "guerra pacifica" contro il Loudness War, obbligatoria in un progetto simile: “Ronan sostiene che The War Is Not Over ha un suono glorioso proprio di pietre miliari come The Dark Side of the Moon e il White Album beatlesiano, per citarne due registrati su profumato nastro analogico. Abbiamo voluto confrontare un estratto con Vertigo degli U2 (da How to Dismantle an Atomic Bomb): ovviamente è stato necessario un “level matching” che tra l’altro i servizi di streaming hanno iniziato ad implementare, e nel confronto The War Is Not Over ci ha colpito profondamente per la profondità, la ricchezza, la corposità, lo spazio tra gli strumenti. La guerra pacifica contro il “Loudness war” ha segnato un altro punto a favore".
Quasi un’ora di musica spalmata su 21 tracce, suddivise da 10 marce, un ideale viaggio tra immagini e suoni, che si sviluppa come movie sonoro, tra rock, funky e blues, con quella voce ipnotica di Mike 3rd che riporta alla fluidità musicale cavalcata da Jim Morrison, in un’epoca in cui, esattamente come oggi, occorreva urlare con forza… CONTRO OGNI GUERRA!


Info:
The War Is Not Over
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Mike 3rd:

Prosdocimi Recording Studio:
Synpress44 Ufficio stampa: