giovedì 26 febbraio 2009

Grand Funk Railroad


I Grand Funk Railroad sono... un complesso musicale di fine anni sessanta, inizio settanta (l’ultimo disco della prima formazione è uscito nel 1976), molto in auge negli USA in quegli anni (soprattutto alla radio), fautori di un Rock a tratti marcatamente hard.
La loro produzione è importante poiché la band propone un Rock nazionalistico, in difficoltà in quei tempi negli USA, di fronte allo strapotere delle band inglesi (Rolling Stones, Led Zeppelin, Deep Purple, Uriah Heep, etc).
I componenti, seppur non eccellendo singolarmente, costituirono un ottimo gruppo, guidati da Mark Farner (cantante, chitarrista e autore della maggior parte della loro produzione artistica, insieme a Brewer) il loro leader, cantante con una voce tra le più belle dello scenario rock di tutti i tempi.


Con il disco We’re An American Band, e l’aggiunta ufficiale del quarto elemento alle tastiere (Craig Frost), la band raggiunse il pieno successo commerciale, ma allo stesso tempo conobbe un lento declino d’ispirazione per lasciar posto ad una vena artistica sempre più rivolta agli ascolti.
Il loro ultimo album Good singing good playing , del ‘76, famoso per l’assolo di Frank Zappa in Out to get you, tra l’altro anche loro produttore, segnò la fine di un gruppo ricordato più per rappresentazioni di canzoni di altri autori alle radio dell’epoca (The locomotion o Loneliness) che per i loro meriti effettivi, o per aver dato le basi ad altri gruppi rock USA (Aerosmith, Bruce Springsteen) per la scalata contro la corazzata delle band inglesi.
Dopo lo scioglimento della band nel 1976, il gruppo venne riformato una prima volta nel 1981, con modifiche nella sua composizione, per produrre due nuovi album.
Dopo altri anni di inattività artistica l'ulteriore reunion avvenne nel 1997.

La canzone “Some Kind Of Wonderful” è stata usata come colonna sonora nella radio rock KDST del videogioco “Grand Theft Auto: San Andreas”

We're an American Band




Citazione del giorno:

"Parole e idee possono cambiare il mondo" (dal film "L'attimo fuggente)

venerdì 20 febbraio 2009

Willy DeVille


Willy De Ville è uno dei più grandi artisti americani in circolazione, un autentico catalizzatore della tradizione musicale del proprio paese.
Musicista poliedrico (canta e suona chitarra, dobro e armonica), con un look da dandy luciferino che tradisce però l'amore per il mondo gitano, è un pirata metropolitano che miscela con sapienza i generi più diversi: il blues di Robert Johnson , l'r&b di Solomon Burke , il rock'n'roll anni '50 di Gene Vincent e il New Orleans sound di Allen Toussaint e Dr. John.
Una spiccata insofferenza per il music business, unita ad una travagliata esperienza di vita, lo portano lontano dai favori dell'industria discografica americana e lo rendono un mito fuori patria, soprattutto nel vecchio continente che lo ha adottato come icona dell'artista maledetto,
largamente amato ed apprezzato.
La sua voce aspra sussurra il blues, urla rock'n'roll scalcinati e seduce come ad una fiesta latina (ha fatto storia la sua versione chicana della "Hey Joe" di Jimi Hendrix).


Qualcuno lo ricorderà con un nome diverso, infatti i suoi primi sette album uscirono a nome della band "Mink DeVille", formula che si lascia alle spalle dopo "Sportin' Life".
Nel 1987, con Mark Knopfler (Dire Straits) alla produzione, parte la sua illuminata carriera solista con il capolavoro "Miracle".
Il brano "Storybook Love" (inserito nella colonna sonora "The Prince's Bride") si conquista nientemeno che una nomination all'Oscar.




Da questo momento in poi sarà "Willy DeVille" e pubblica altri nove album.
L'ultimo è "Pistola" (2008) con cui Willy fa ancora centro nel cuore dei fans e della critica.
Nel novembre del 2006, ha ricevuto il premio Tenco a Sanremo.
A DeVille piace dire: "La vita è un libro aperto. Sei tu a scriverne le pagine." Ecco perché gli piace tanto stare sul palco. Ogni suo concerto è un libro aperto, una meravigliosa avventura musicale per un'artista con un'estensione di repertorio che può essere eguagliata soltanto da quella della sua generosità.


Official WebSite http://www.willydevillemusic.com/

giovedì 19 febbraio 2009

Iglu e Hartly


La musica degli Iglu & Hartly è un frullato di generi.
Jarvis Anderson, Sam Martin (voce, tastiere) Simon Katz (chitarre) s’incontrano all’Università di Colorado e iniziano a fare musica. Incapaci di trattenere l’energia e insofferenti di aspettare i tre lasciano gli studi e si trasferiscono a Echo Park, California, ad est di Hollywood, dove iniziano a bussare alle porte dei club per trovare dei concerti. Sottoponendosi alle fatiche del circuito dei night clubs di Holliwood, tra lustrini e sporcizia, la band si fa apprezzare anche a South Bay, una comunità con una forte eredità punk. Si trasferiscono a Los Angeles e si uniscono al gruppo il batterista Luis Rosiles e il bassista Michael Bucher.


Con oltre 200 concerti soltanto nell’area di Los Angeles Iglu & Hartly sono diventati una vera e propria forza sul palco.
Uno spettacolare concerto al SXSW festival a Austin e un tour sold out in Inghilterra hanno creato un grande entusiasmo attorno alla band Iglu & Hartly, che realizzano il loro primo album ‘& Then Boom’, preceduto dal singolo In This City.

Citazione:
"Ogni brano trasuda irresistibili spunti pop e, assieme ai peculiari rap e sintetizzatori, lo rendono un disco che farà da colonna sonora dei prossimi mesi."

Benvenuti nel mondo dei Iglu & Hartly.
Un mondo fradicio di birra e sudore, che nasce dal cuore e dall’anima, senza compromessi, senza controllo, inarrestabili.

In This City




Le ultime parole famose:

"Non esiste il benché minimo indizio che faccia pensare che l'energia nucleare diverrà mai accessibile" (Albert Eninstein)


martedì 17 febbraio 2009

Jefferson Airplane


I Jefferson Airplane nascono nel 1965 dall’incontro tra i due folk-singers Marty Balin e Paul Kantner.
Ben presto si unisce loro il chitarrista blues Jorma Kaukonen e nel corso dell’anno il gruppo si completa con Alexander “Skip” Spence alla batteria, Jack Casady al basso e la cantante Signe Toly Anderson.
La band è subito protagonista della nascente e magmatica scena rock di S.Francisco e nel 1966 pubblica il primo album Takes Off.
Il lavoro tradisce un’impostazione ancora marcatamente folk ed un organico non perfettamente assortito.
Nel giro di qualche mese infatti Skip Spence (futuro Moby Grape) e Signe Toly lasciano e vengono sostituiti da Spencer Dreyden e Grace Slick.
Con il suo arrivo, la cantante dei Great Society segna una svolta portando in dote una voce splendida, una vena compositiva notevole ed una bellezza che l’avrebbe resa una delle icone femminili del rock.
Il 1967 e la "Sommer of Love" vedono i Jefferson Airplane grandi protagonisti con una memorabile esibizione al Monterey Pop Festival e soprattutto due album come Surrealistic Pillows ed After Bathing At Baxter’s pubblicati nell’arco di pochi mesi.
Il primo è un caposaldo del folk psichedelico e mette sul tavolo due grandi classici come Somebody To Love e White Rabbit, colonna sonora di innumerevoli reportage, film, documentari su quegli anni; After Bathing At Baxter’s rappresenta invece l’opera più sperimentale dei Jefferson Airplane.
Pensato e realizzato sotto l’effetto delle droghe lisergiche, è l’album in cui viene abbandonata la tradizionale forma canzone per lasciare spazio a cavalcate strumentali, mentre i tenui colori folk degli esordi lasciano spazio a distorsioni taglienti o ballate spettrali.
Il 1968 è l’anno in cui i Jefferson raggiungono il massimo della popolarità e della fama.
A coronare le apparizioni televisive sulle principali reti e le copertine sui magazines più prestigiosi, giunge un disco che non fa rimpiangere in nulla gli illustri predecessori.


Più tradizionale di After Bathing At Baxter’s, Crown Of Creation rappresenta un mix perfetto tra l’ispirazione rock blues di Kaukonen e Casady e lo slancio lirico di Slick e Kantner.
Brani come Lather o Star Track ne fanno il punto forse più alto della carriera dal punto di vista della scrittura e della vena compositiva.
L’unità del gruppo comincia tuttavia a cedere.
Kauokonen e Casady decidono di dar vita ad un progetto rock blues, gli Hot Tuna, mentre diventa sempre più teso il rapporto tra Balin e il resto della band.
Nel 1969 i Jefferson Airplane si esibiscono a Woodstock e presentano Volunteers, tratto dall’omonimo album: entrambi si distinguono per una forte politicizzazione dei testi. L’antimilitarismo e le teorie radicali che fermentano nella California del periodo si traducono in testi innodici sorretti da un sound robusto.
È il canto del cigno: nel mese di dicembre il gruppo vive il dramma di Altamont e al suo interno le tensioni si fanno insuperabili. Dryden abbandona segnando la fine del gruppo storico.
La sigla continua a sopravvivere nel disinteresse degli stessi membri, concentrati ciascuno sui propri progetti.
Verso la fine del 1970 Marty Balin, il fondatore, si chiama fuori e di fatto la storia finisce, anche se Kantner e la Slick continuano il loro sodalizio artistico regalando nuove gemme prima a loro nome e poi come Jefferson Starship.

Somebody to Love




Citazione d'autore:

"E' men male l'agitarsi nel dubbio, che il riposar nell'errore." (Alessandro Manzoni)



lunedì 16 febbraio 2009

Com'era nero il vinile



Oggi voglio raccontare qualcosa a proposito di un libro, “Com’era nero il vinile”.
L’autore è Glauco Cartocci, un amico che ha già postato qualcosa per me nel blog.
Glauco è architetto, grafico, musicista e scrittore.



Nel progredire della nostra conoscenza ho appreso di questa sua ulteriore attività, la scrittura e, incuriosito, ho scoperto che, tra le altre cose, aveva realizzato libri a sfondo musicale, cioè le mie letture preferite da un po’ di tempo a questa parte.
Oltre al libro di cui parlo oggi, ricordo “L'uomo dei rockodrilli” e “ Il caso del doppio Beatle. Il più completo dossier sulla «morte» di Paul McCartney”.
Sulla fiducia li ho acquistati tutti e tre e, tralasciando la data di uscita, ho chiesto a Glauco con quale dei tre era meglio iniziare.
Primo quello dei “… rockodrilli” , di cui parlerò al più presto, secondo “… il vinile” e il terzo, quello del Beatle, che ho appena iniziato.
Se il primo è ironico e surreale... se il terzo risulterà di tipo documentaristico informativo, “Com’era nero il vinile “ è il libro per me perfetto. Sto parlando di gradimento personale, perché le valutazioni in termini assoluti le lascio agli esperti, quale io non sono.
Perché per me perfetto?
Tratta di musica, la mia musica, non una qualsiasi. Oltre a questo è un giallo, un triller, cioè il tipo di situazione che prediligo.
Ricordo che , dopo aver letto un libro magnifico di John Grisham, “Il Partner”, divorato in due giorni, pensai che mi sarebbe piaciuto da morire rivedere ciò che avevo letto, trasformato ad hoc per il grande schermo.
Intrighi, colpi di scena, mistero, sono ingredienti che ritrovo nel libro di Glauco, con l’aggiunta importante della musica rock.
Ecco, mi piacerebbe vedere al cinema la trasposizione di questo “giallo”.
Non si può raccontare troppo di un lavoro che deve essere scoperto pagina dopo pagina , ma utilizzo una nota estremamente sintetica trovata in rete.

Floyd Hendrix, titolare dell'Agenzia Investigativa "Private ear" che opera nel mondo del rock, indagando su un traffico di dischi falsi di vinile, scopre che dietro la truffa si cela una catena di suicidi che coinvolge numerose personalità del Regno Unito. Pagina dopo pagina il mistero si infittisce sempre più coinvolgendo il nostro detective discografico che può contare solo su un'arma: il suo intuito musicale eccezionale.

Io, che di intuito non ne ho, ho “risolto il caso” solo all’ultimo capitolo, ma il concatenarsi degli eventi, i cambi di scena , l’inserimento di elementi da indagine psicologica in un contesto narrativo, rendono davvero complicata la vita di chi solitamente cerca il colpevole negli sguardi e nelle parole dei primi cinque minuti di visione, o di lettura.
E poi Floid Hendrix (grande miscela di nomi) è un personaggio in cui è facile riconoscersi, apparentemente dimesso, ma estremamente positivo.
Non mi addentrerò oltre, per non seminare indizi che possono ridurre il piacere della lettura, ma Cartocci è riuscito a dare una risposta alle domande retoriche che da molto tempo mi faccio e rivolgo ad altri, quelle relative alle morti premature di tanti miei eroi, da Brian Jones a Morrison, da Hendrix alla Joplin.
Eh si, ora l’artefice è noto.. o nota.






Citazione d'autore:
"Bisogna prendere speciali precauzioni contro la malattia dello scrivere, perché è un male pericoloso e contagioso." (Pietro Abelardo)

venerdì 13 febbraio 2009

Logos di G.C.Neri


Dopo il silenzio, ciò che si avvicina di più nell'esprimere ciò che non si può esprimere è la musica." (Aldous Leonard Huxley)

Mi capita spesso, soprattutto se mi trovo all’estero, di acquistare musica al buio.
A volte mi guida il nome, a volte “l’involucro”, magari i colori o il basso prezzo che non sempre significa poca qualità.
Tutto questo mi induce a errori sporadici e a frequenti soddisfazioni.
Non so se avrei mai acquistato “Logos, primo disco di G.C. Neri, perché non so se casualmente ci sarei inciampato.
Quando qualcuno mi ha detto:”… prova a sentirlo, è una musica tipo...” non mi è sembrato vero, perché la mia maturità anagrafica mi spinge alla ricerca del nuovo mentre continuo ad apprezzare il vecchio, facendomi al contempo amare brani rock da tre accordi e musiche articolate.
La musica progressive è musica complessa.
In questi giorni che precedono Sanremo, festival di canzoni che si scrivono in un giorno, bisognerebbe costruire un monumento a chi riesce a realizzare un disco come “Logos”, ma con tutti gli auguri che posso fare a Neri, resta scontato che la qualità non si vende altrettanto bene che le canzonette di cui sopra.
Grazie alla tecnologia, nello spazio di una settimana, sono entrato in contatto con questo artista, l’ho casualmente incontrato, e ho realizzato una piccola intervista che credo possa aiutare a capire il personaggio e il suo lavoro.

Innanzitutto una breve biografia da lui fornitami.


Sono nato a Genova nel 1965, ho studiato chitarra con Bambi Fossati, chitarra classica con Josè Scanu, e jazz con Marco Tindiglia.
Amo disegnare, leggere, ho studiato filosofia all’università, senza terminare gli studi, per lungo periodo ho insegnato chitarra privatamente, ho inoltre composto una ventina di colonne sonore per teatro.
Ho anche composto le musiche per un progetto di spettacolo musicale-teatrale Pangea insieme al cantante genovese Francesco Tallevi, con proiezioni e danzatore.
Da più di vent’anni lavoro come fonico ed elettricista in teatro, lavoro interessante ed umile, dietro le quinte ma responsabile dello spettacolo.




Le mie sensazioni



Logos è un concept album che non saprei a cosa ricondurre.
Si è sempre portati, per semplicità, a ricercare le similitudini e a incasellare la musica e gli artisti, ma io proprio non sono capace di ritrovare qualcosa di simile.
Le influenze sono chiare e da lui dichiarate.
Il rock dei Led Zeppelin, il prog di YES e King Crimson, Gong, Orme e così via.
Se proprio dovessi dare un’identità al lavoro di assieme direi che la musica di Giorgio ricorda quella di Oldfield.
La peculiarità di questo CD , forse anche un limite se si pensa alle performance live(nell’intervista emerge), è che Neri fa praticamente tutto da solo. Se si esclude la batteria, affidata a Roberto Maragliano, tutto il resto è a suo appannaggio .
I suoi talenti e le sue competenze tecniche sono chiare… è un musicista con la M maiuscola.
Ma le capacità e la preparazione non sempre coincidono con l’eccellenza di risultato, come invece avviene in questo caso.
Ho ascoltato tre volte di fila “Logos” . Ho insistito dopo la prima volta perché non riuscivo a capire, ricercavo qualcosa di già ascoltato, provavo venirne a capo pensando a come parlare dei singoli brani .
Impossibile l’opera di sezionamento.
Nonostante i testi non siano quantitativamente importanti, la mono concettualità dell’insieme risulta ovvia e immediata.
Al secondo ascolto, i virtuosismi tecnici non si ricercano più e nemmeno si auto evidenziano.
Si rimane colpiti dal misticismo , dalle atmosfere, e le “dotte citazioni” rappresentano il collante e danno significato a tutto il pensiero di Neri.
A me pare il lavoro di una vita, l’espressione di quanto accumulato per lustri, prima accatastato, poi lasciato stagionare e infine rilasciato come una liberazione e un’affermazione del proprio pensiero.
C’e’ tutto il credo di Giorgio e la sua concezione di vita, musica, spirito e materialismo.
Raramente si ascolta un lavoro così pregevole, sicuramente non un disco per tutti, ma per palati più… sensibili.
Però… se fossi un insegnante, di musica ma non solo, lo utilizzerei a scopo didattico… forse sarebbe un modo alternativo per “seminare”.

Ancora una nota di merito alla Black Widow, l'etichetta che propone musica di qualità.



L’intervista



Innanzitutto, chi è, musicalmente parlando, G.C.Neri?
Quando avevo 15 anni circa, un mio cugino più grande mi fece ascoltare il primo album dei Led Zeppelin: fu un’emozione così intensa che mi ha alimentato per tutti questi anni, e continua a farlo. Ricordo che dissi a me stesso che avrei fatto parte di questo, non ho mai saputo il come ma ho sempre saputo il perché.

Ho letto quali sono le tue influenze dichiarate e qualcuno, per darmi un’immagine della tua musica, mi ha parlato dei Gong . Premesso che il tuo lavoro mi sembra “un unico pezzo”, difficilmente collocabile in categorie, se io dovessi dare un giudizio da “bignami” della musica, mi verrebbe più in mente la similitudine con Mike Oldfield, almeno quello che sentivo anni fa.


Ti ritrovi in questa immagine?
Si senza dubbio, anzitutto perché Oldfield ha cercato da sempre uno stile suo, almeno chitarristicamente non assomiglia a nessuno, e poi perché, pur circondato da ottimi musicisti, rimane unico fautore e responsabile della sua visione. Logos è nato così, in solitudine, forse in maniera pretenziosa, ma è il mio cammino, è la mia personale visione della musica e delle cose.

Mi sarebbe piaciuto un gruppo, ho inseguito quel sogno per anni, ma la mia realtà mi ha portato a concepire il mio album da solo, per il quale ho dovuto pensare non solo da chitarrista ma da polistrumentista.
Forse in una rock band si cerca parità e democrazia? Nulla di più falso, gli stessi Zeppelin sono una creatura di Jimmy Page, e dove c’è creatività c’è la forza e la visione di uno solo, a volte coincide con la visione di un compagno di viaggio ma Beethoven era solo ed isolato dal mondo… lui e la sua visione del suo cosmo sonoro.


Avvicinarsi al lavoro di un artista che non si conosce, per “raccontarlo”, ha il pregio che non esiste condizionamento alcuno, ma si rischia anche di non entrare in sintonia e allontanarsi quindi dall’intendimento del’artista. Aiutami. Cosa ti spinge ad utilizzare il pensiero di autorevoli filosofi?E ancora, i brevi testi a cui accennavo, si sposano, a tratti, con un’atmosfera che definirei mistica. Che tipo di cultura hai avuto, e quanto ha condizionato la tua musica?
Il mio carattere è sempre stato malinconico, non mi è mai bastata la realtà, in ogni cosa ho sempre cercato l’origine, come se volessi ribellarmi alla caducità delle cose, cercare un qualcosa che rimanesse intatto dal tempo, oltre il tempo. Siccome ho avuto un’educazione cristiana mi è parso naturale trovare ciò che cercavo in Dio, e la musica mi è parsa da subito l’ultima sua voce. Il cammino mistico mi ha sempre affascinato, amo chi cerca oltre le sue scarpe, chi spinge il cuore fino alle porte dell’infinito. Infatti i due filosofi che cito sono, a modo loro due grandi mistici. La filosofia è un linguaggio che come la musica spinge oltre, pone domande ma dà risposte; mi iscrissi all’università, mi mancano solo due esami e la tesi, ma per motivi di lavoro non portai mai a termine i miei studi. Ora ho idea di finire anche perché avevo quasi tutti trenta e lode.

In ultima istanza Dio è quello che amo e che cerco, con infiniti alti e bassi; la musica è il mezzo che ho scelto, oppure sono io il mezzo che ha scelto lei… vado avanti in assoluta sincerità, come è sincera la mia musica.
I due testi che cito danno comunque adeguate risposte: la prima citazione è di Platone che ci avverte che nelle cose umane o si procede a stenti, affidandosi all’umano, oppure si cerca una rivelazione divina, o si aspetta una rivelazione. Come per il comporre, o ti credi artefice delle note o sei suonato dalle note; la musica, come perfezione divina esiste a prescindere dalla mia esistenza… allora la mia musica esisteva già in un altrove.

La seconda è di Nietzsche, che si augura la pazzia, ma la purezza della sua ricerca, la solitudine a scapito del comune del banale, orgoglio, follia, solitudine è il prezzo da pagare. Nel mio piccolo è ciò che ho cercato di fare.

Le influenza di un musicista fanno parte del suo background , e non credo si possano rinnegare o ci si possa infastidire per la ricerca di similitudini con altri artisti. Io in “Logos” sento l’odore della musica prog , quello internazionalmente conosciuto, ma anche qualcosa di casa nostra. Nell’unico brano cantato,”Tuona il Cannone”, le atmosfere, non i testi, mi riportano alla PFM. Sono fuoristrada?
Ho amato molto gli Yes al pari dei Led Zeppelin, e quindi l’approccio inglese, ma anche l’approccio italiano, qui vivo e mi alimento culturalmente. Mi piace la Premiata, ma su tutti Orme ed Osanna, e a dire il vero Tuona il Cannone è stata più ispirata dal capolavoro dei Led Zep “Battle of Evermore”, con le mandole,il folk inglese, il sapore acustico. Molti ci hanno sentito la P.F.M. , non è così, ma meglio loro che Jovanotti!



Ho trovato anche dei loop e delle atmosfere tipiche della musica new age, ed è per questo che il tuo mi pare un lavoro difficilmente paragonabile ad altri. Sei riuscito a creare qualcosa di assolutamente originale, attraverso componenti musicali conosciute, quelle che normalmente fanno parte del DNA dei “malati di musica”. Tutto questo nasce spontaneamente, d’istinto, attraverso il talento, o è il frutto di fatiche e sudore?
Tutte e tre le cose, quando si vive non si separano. Gli ingredienti, passione, talento, dolore, frustrazione, istinto, amore, paure, giornate dove le dita volano sulle corde, ed altri momenti che vorresti tagliarle le dita… preghiera, speranza, pianto e gioie. La musica è la mia vita!

Il tuo lavoro, nonostante i testi siano ridotti quantitativamente parlando, da la sensazione immediata di “album concetto”. La miscela tra musica e parole mi pare solida e si avverte un filo conduttore che guida l’ascoltatore dall’inizio alla fine. Ti pare sia una definizione calzante?
Assolutamente sì.

Torniamo ai testi e alle citazioni. “Logos”, il nome dell’album( mi piace chiamarlo così), è un termine che nel tempo ha assunto diversi significati. Per Eraclito, da te citato, il logos è visto come una legge universale che regola il fluire delle cose. Qual è il significato che tu attribuisci alla parola “logos” e come va vista in funzione dell’intero lavoro?
Per Eraclito è la forza che anima il cosmo, ma anche per san Giovanni; infatti la traduzione dal greco del vangelo dice PAROLA, ma io credo che si debba intendere SUONO: il timbro allo stato puro non è il vero responsabile della musica prima di qualsiasi evoluzione? E’ già musica profondamente evocativa il timbro, prima dell’armonia, della melodia. Quindi il suono è dentro il cosmo, è origine del cosmo, suono/amore che crea. Nel mio disco voglio dire questo: tutte le culture del mondo sono in accordo, non c’è prima né dopo ma SUONO. Sostanza che permea il cosmo, dentro il tempo ma con origine fuori dal tempo.
Sono solo all’inizio, Logos è il primo capitolo, la ricerca ed il sogno continuano.

Ho visto pochi musicisti che collaborano, e sembra quasi un lavoro autonomo. Riesci dal vivo ad avere la stessa resa che si riscontra nell’incisione?
Mi sono trovato da solo a concepire ed realizzare questo lavoro ma conto di trovare i musicisti giusti per portare live Logos, e siccome lavoro in teatro, mi piacerebbe uno spettacolo più che un semplice concerto. Il batterista è Maragliano che ha suonato sul disco, ho un bassista che collabora con me per un altro progetto, Agarthi Sound Factory e ho un chitarrista che mi aiuterà ad arrangiare le chitarre, ma cerco un tastierista.

Mi ha incuriosito la voce di Vittorio Ristagno, di grande effetto? E’ un timbro naturale o artefatto?
Vittorio è un carissimo amico attore di circa 53 anni e la sua voce è assolutamente naturale.


TRACK LIST
1. INTRO 2:25
2. ID & TRAD 4:38
3. ALLEANZA 4:03
4. SECONDA NAVIGAZIONE 1:33
5. ADDIO 1:00
6. LE BRACCIA E LE ALI 6:04 (brano proposto a seguire)
7. GUERRA 1:23
8. GODINUS 7 (a) 4:31
9. GODINUS 7 (b) 6:19
10. TUONA IL CANNONE 7:02
11. PER TUTTI E PER NESSUNO 1:14
12. L’ULTIMA DANZA 9:17
13. SIPARIO 3:05

Giorgio Cesare Neri: chitarre acustiche 6 e 12 corde, chitarra classica, chitarree elettriche, basso, mandola, dulcimer, piano, tastiere, monofonico, sequencer, flauto, percussioni, composizione e arrangiamenti.

Hanno collaborato:

Roberto Maragliano: batteria
Giuseppe Alvaro: voce in “Tuona il cannone”
Gian Castello: flauto in “Tuona il cannone”
Vittorio Ristagno: voce in “Seconda navigazione” and “Per tutti e per nessuno”
Roberto Tiranti :controcanto in “Tuona il cannone”


Le Braccia e le Ali

giovedì 12 febbraio 2009

Steppenwolf


Gli Steppenwolf sono un gruppo musicale rock canadese/statunitense fondato nel 1967 e tuttora in attività.
Hanno realizzato 28 album e alcuni brani considerati pietre miliari del rock, come Born to Be Wild (alle cui parole si fa risalire l’origine dell’espressione “heavy metal”) e Magic Carpet Ride.
Il loro stile presenta elementi di blues, country, rock psichedelico e hard rock; insieme ai Grateful Dead, sono fra i gruppi più rappresentativi della stagione della contestazione hippie.
Il nome del gruppo è un riferimento al romanzo di Herman Hesse, Il lupo della steppa (Der Steppenwolf, 1928); di origini tedesche è infatti il fondatore del gruppo, John Kay.
Gli Steppenwolf nacquero alla fine degli anni ‘60 a Toronto, città dove il fondatore del gruppo, John Kay (nato in Germania il 2 aprile 1944) si era trasferito come immigrato nel 1958.
Kay aveva un gruppo blues ,The Sparrows, con cui aveva ottenuto una certa fama a livello locale, esibendosi regolarmente nei locali di Yorkville.



Nel 1967, Kay fondò un nuovo gruppo e si trasferì a San Francisco.
La formazione di Kay iniziò a esplorare stili musicali più rock, utilizzando blues, rock psichedelico, folk e country.
Furono notati dall’etichetta discografica Dunhill e affiancati dal produttore Gabriel Mekler, che convinse Kay a provare soluzioni musicali più aggressive.
Il gruppo iniziò così a spostarsi gradualmente verso l’hard rock, in alcuni casi arrivando ad anticipare i suoni e i ritmi dell’heavy metal.
Fu in questo periodo che venne scelto il nome di “Steppenwolf”.
La formazione originale comprendeva Kay alla voce, alla chitarra ritmica e all’armonica, Jerry Edmonton alla batteria, Michael Monarch alla chitarra solista, Goldy McJohn alle tastiere e Rushton Moreve al basso.
Gli Steppenwolf salirono alla ribalta internazionale con l’enorme successo del loro terzo singolo, Born to Be Wild, e dell’album di debutto omonimo (1968).
Born to Be Wild e un altro brano dell’album, la cover di The Pusher di Hoyt Axton, divennero ancora più celebri nel 1969, come parte della colonna sonora del cult movie Easy Rider.
Born to Be Wild viene considerato una pietra miliare della storia dell’hard & heavy; secondo una teoria largamente accreditata, la stessa espressione “heavy metal” deriverebbe proprio da un verso di questo brano:« I like smoke and lightning, heavy metal thunder, racin’ with the wind » (Steppenwolf, Born to Be Wild)
Gli album successivi confermarono il successo del gruppo; sia il singolo Magic Carpet Ride (da Steppenwolf the Second, 1968) che Rock Me (da At Your Birthday Party, 1969) raggiunsero i primi posti delle classifiche negli Stati Uniti e in diversi altri paesi. L’album dal vivo Steppenwolf Live (1970) viene considerato da molti fan l’apice di questo periodo d’oro del gruppo. Monster (1969) e Steppenwolf 7 (1970), ricchi di contenuti politici (la title track di Monster, in particolare è un attacco diretto al “mostro” Richard Nixon), sono estremamente rappresentativi del clima di contestazione e del movimento hippie negli Stati Uniti a cavallo fra gli anni ‘60 e ‘70.
Dopo la pubblicazione di For Ladies Only (1971), un altro concept album politico, il gruppo di sciolse. Kay intraprese una carriera solista, meno fortunata; ottenne un discreto successo solo con il singolo 1972 I’m Movin’ On, dall’album Forgotten Songs and Unsung Heroes.
Nel 1974, il gruppo tornò a unirsi, realizzando l’album Slow Flux, anche in questo caso con un successo solo modesto (con il singolo Straight Shooting Woman).
Dopo un nuovo scioglimento (1976), il gruppo si riunì senza Kay, dedicandosi soprattutto alle esibizioni dal vivo (nel 1979 realizzarono un album mai pubblicato, Night of the Wolf). L’esclusione di Kay da un progetto col nome “Steppenwolf” causò dispute legali. Kay si convinse che “i nuovi Steppenwolf” stessero danneggiando l’immagine del gruppo e reagì dando vita a un tour personale con il nome “John Kay and Steppenwolf”. Con questa formazione, Kay si esibisce ancora oggi, soprattutto in Canada.
Recentemente, la newsletter ufficiale del fan club ufficiale di John Kay, “John Kay’s Wolfpack”, ha annunciato lo scioglimento di John Kay and Steppenwolf per il 2007.



lunedì 9 febbraio 2009

Il Nome del Vento-Delirium



Vorrei provare a descrivere un CD appena ascoltato.

Il termine recensione mi pare esagerato, essendo io mero appassionato di musica, ma provare a “raccontare” il feeling indotto da un susseguirsi di brani, mi pare sia sempre esercizio pregevole, anche se non è scontato il buon risultato finale.

Il lavoro in questione è “Il Nome del Vento”, proposto dai Delirium.

Non essendo un professionista, posso permettermi di rovesciare gli schemi e partire dal fondo, e cioè dalle domande: ”Perché comprare il CD? Chi dovrebbe farlo? "

Una considerazione di carattere generale, rafforzata dal primo ascolto.

La musica Progressive, quella con cui sono cresciuto, quella che più amo, non poteva, secondo me, restare in auge per lunghissimo tempo.

E’ una musica difficile da comporre e da eseguire, ed è difficile da ascoltare, nel senso che non è di presa immediata.

In un mondo in cui si può creare un hit in casa, con un paio di accordi, soddisfacendo le richieste di utenti che davvero chiedono poco qualitativamente parlando, la realizzazione di un prodotto come “Il Nome del Vento” appare come il frutto di un impegno enorme.

E l’impegno va sempre premiato.

Certamente non è musica per tutti, ma adatta a chi chiede qualcosa in più di una semplice melodia e di un ritmo accattivante.

Quando mi trovo davanti a lavori come questo, o come “Il Viaggio di Colombo” del Cerchio d’Oro, di cui ho già parlato da queste pagine, mi viene da associare la parola musica al termine “cultura”. Non voglio intendere una rappresentazione elitaria, per pochi fortunati, ma dedicata a chi ha voglia di scavare e scavarsi più a fondo, avendo di fronte qualcosa da “assorbire” con tanto cuore e buona dosa di cervello.

A tutti quelli che sono, almeno in parte, in sintonia con questo pensiero, e a tutti quelli che vogliono provare strade con qualche ostacolo, ma infinite, a giovani e meno giovani, consiglio questo disco dei Delirium.


Avvertenza

Ascoltare “Il Nome del Vento” almeno tre volte prima di deciderne il destino domestico: più lo si ascolta e più piace.

E veniamo al sodo, circa un’ora di musica, suddivisa su 10 brani più una bonus track e un video.

Dopo la breve intro mi sono ritrovato dentro al brano che dà il titolo all’album, “Il Nome del Vento”.

È un pezzo rocckeggiante, dove la chitarra di Roberto Solinas si miscela con la melodia in sottofondo, “condotta” dalla special guest, la vocalist Sophya Baccini.

Nell’occasione la voce è di Mimmo Di Martino.

La cosa che immediatamente colpisce è l’atmosfera generale, quell’architettura musicale a cui mi aveva abituato un gruppo di cui ero, sono, innamorato, i Van Der Graaf Generator.

Potrei anche essere influenzato dal fatto che V.D.G.G. è il primo gruppo che ho visto,da adolescente, in uno spettacolo pomeridiano all’Alcione, ma non credo sia un caso se i fraseggi di Martin Grice mi riportano a Dave Jackson, piuttosto che a Ian McDonald o Elton Dean, anche loro lungamente ascoltati in quel periodo.

E nemmeno riesco a pensare ad un’equazione Delirium uguale Jethro Tull, gruppo della mia vita, solo perché è frequente l’utilizzo del flauto traverso.

Difficile da spiegare, ma l’impronta globale, già da iniziale ascolto, mi pare molto affine ai temi cari ad Hammill e soci.

Dopo tutti questi ragionamenti, fatti in 6 minuti, rotolo… “Verso il Naufragio”, un brano strumentale che, partendo dai virtuosismi di Ettore Vigo al piano (e successivamente al moog) arriva a, udite udite, “Theme One”, appunto dei V.D.G.G.

Allora non avevo tutti i torti!?

Per un attimo la mano sinistra mi si re-impregna del sudore di Jackson, dopo l’esibizione di Albenga, milioni di anni fa.

Mi rendo conto che il porre l’accento su determinati particolari, potrebbe sembrare sminuire un lavoro (ed un gruppo) che brilla di luce propria, ma le mie descrizioni e similitudini sono da intendere come un tentativo di facilitare il compito di chi si accosta solo ora a questo genere musicale, o a chi pensa ai Delirium attuali come a “quelli di Jesahel”.

L’Acquario delle Stelle” è un brano più intimista, dal testo importante, e caratterizzato dall’utilizzo degli archi e dall’hammond. Esiste anche un contributo visivo, contenuto nel CD, che propongo a seguire.

Luci Lontane” appare come più vicino alla tradizione italiana, mentre “Profeta Senza Profezie” presenta alla voce Stefano”Lupo” Galifi che conferma la sua bravura, muovendosi su una base tra il jazz e il funky, tutt’altro che semplice.

Ogni Storia” mi riporta alle considerazioni iniziali, e ritrovo qualche passaggio nel nome del “generatore” (chi ricorda “Lost”?). In evidenza la sezione ritmica, con Pino Di Santo e Fabio Chighini sugli scudi.

Note di Tempesta” è un brano strumentale che mi riporta indietro nel tempo, ai giorni gloriosi del prog italiano. Virtuosismi tecnici che si amalgamano ai ritmi jazz rock e mi fanno presupporre il piacere di una performance on stage, ovvero, il divertimento che si può provare suonando dal vivo.


Dopo il Vento” è il brano più lungo. In nove minuti le situazioni cambiano frequentemente. Si passa dalla melodia al jazz, dal rock al classico.

A me è sembrato un sunto della musica dei Delirium.

Cuore Sacro” è caratterizzato dall’utilizzo del flauto, che dopo l’iniziale, prolungato, riff di chitarra, duetta con la chitarra di Solinas. Notevole il binomio piano/voce.

E arriviamo alla bonus track,“L’Aurora Boreale”.

Altro brano strumentale ma, a mio giudizio, in grado di “parlare”.

Ho provato ad ascoltarlo chiudendo gli occhi e sono riuscito a viaggiare, viaggiare alto e verso mondi lontani.

I testi sono di Mauro La Luce, paroliere storico dei Delirium.

Raccontare le liriche credo sia in genere molto complicato.

Se è vero che la musica arriva diretta ed è spesso il feeling a guidarci nei giudizi, le parole hanno la capacità di nascondere, di dire e non dire, di provare a depistare giocando con immagini a volte ermetiche.

Proverò quindi a esporre ciò che mi è arrivato, con la concreta possibilità che gli intenti di La Luce fossero molto diversi dai miei intendimenti.

Non lo si può definire un “Concept Album “, ma esiste un unico filo conduttore, “steso” nei vari brani da diverse entità.

Emerge una fotografia fatta dall’alto, una visione globale, con protagonisti gli uomini “attuali”, che danno molto per scontato, maturando sempre più la convinzione di una certa superiorità verso ciò che li circonda.

Da qui un richiamo, un avvertimento, una spinta al cambiamento, personale e generalizzato, nel tentativo di salvare una situazione che sta sempre più degenerando, sfociando in un enorme, serio, problema per l’oggi e, soprattutto, per il domani.


Per la realizzazione di questo lavoro i Delirium si sono avvalsi di alcuni collaboratori. Oltre a quelli già citatati (Galifi, Baccini) si segnala la presenza di un quartetto d’archi formato da: Chiara (Chiarilla) Giacobbe al violino, Diana Tizzani al violino, Simona Merlano alla viola, Daniela (Helmy)Caschetto al violoncello.

Line Up:

Ettore Vigo (Keyboards)
Martin Grice (Sax, Flute,Keyboards)
Peppino Di Santo (Drums, Vocals)
Roberto Solinas (Guitar, Vocals)
Fabio Chighini (Bass)
Mimmo di Martino (Vocals on "Il nome del vento)

Un bel disco, capace di unire la tradizione melodica italiana a una musica che si può definire tra il prog , il rock e il jazz.

Cambi di ritmo, utilizzo di strumenti cari alla storia dei “nostri anni 70” (mellotron, hammond), atmosfere rarefatte, tempi dispari, jazz, rock, insomma un lavoro pregevole che potrebbe diventare adulto al di là dei nostri confini.

Mi riallaccio al concerto di pochi giorni fa al Teatro della Gioventù di Genova, lo stesso luogo che vedrà il 6 marzo di scena i Delirium e il Cerchio d’Oro.

In quell’occasione si esibirono “Il Bacio della Medusa” e “Il Tempio delle Clessidre”, vale a dire dei giovani (salvo Lupo, un po’ più “maturo”).

Se possiamo ascoltare dischi come “Il Nome del Vento” e vedere dei “ragazzi” sul palco che hanno progetti diversi dal solo “apparire”, beh, forse qualcosa si sta muovendo.

Ancora una nota relativa alla "confezione". Il vinile si presentava come una piccola opera d'arte, da leggere, ammirare, collezionare, e il passaggio al nuovo formato ha fatto perdere il fascino dell'involucro. Questo CD rappresenta un piccolo ritorno al passato, con libricino interno per i testi, i credits e per tutte le notizie utili all'utente.

D'obbligo un po’ di note biografiche, fornitemi dalla Black Widow, l’etichetta discografica genovese che mi pare abbia come scopo primario quello di proporre musica di qualità.

BIO

Nati sul finire degli anni ’60 con il nome di Sagittari, i Delirium (Ettore Vigo, Tastiere - Peppino di Santo, Batteria e Voce - Mimmo diMartino, Chitarra acustica – Marcello Reale, basso) adottano la sigla definitiva, con l’ingresso di Ivano Fossati, nel 1970.

Nel 1971 realizzano il loro primo album “Dolce Acqua”: morbide atmosfere acustiche, sognanti ballate in un’azzeccata miscela di rock, folk ejazz, con arrangiamenti arricchiti dal flauto di Ivano Fossati che avvicina il gruppo allo stile dei più famosi Jethro Tull di Ian Anderson.

La notorietà del gruppo aumenta e l'anno dopo il gruppo partecipa al Festival di Sanremo con il brano "Jesahel" che diventerà una hit con milioni di copie vendute.

Nonostante l’abbandono di Fossati, i Delirium con l’ingaggio del Flautista - Sassofonista Inglese Martin Frederick Grice, registrano "Lo Scemo e il Villaggio" con il quale il gruppo raggiunge la piena maturità artistica con uno splendido disco di Jazz Progressive.

Nel 1974 è la volta di "Delirium III Viaggio negli arcipelaghi del tempo", il più progressivo dei loro lavorI, nel quale viene impiegata una vera sezione di archi e Mimmo Di Martino si cimenta per la prima volta alla chitarra elettrica. Nel 1975 i Delirium si sciolgono. Dopo molti anni di silenzio, nel 2003 il gruppo si ricongiunge grazie alla spinta di Pino Di Santo. Con un nuovo bassista (Fabio Chighini) ed un nuovo chitarrista – cantante (Roberto Solinas), i Delirium sono tornati alla grandissima con un album live, "Vibrazioni Notturne", nel quale presentano alcuni dei loro classici rivitalizzati, un paio di covers dei J.Tull ed una strepitosa versione di "With a little help from my friends".

Dal 2007 i Delirium hanno iniziato le registrazioni de “Il Nome del Vento” con i testi di Mauro La Luce, già loro autore storico. Il disco è sul mercato da gennaio 2009.

L'Acquario delle Stelle



venerdì 6 febbraio 2009

Procol Harum


I Procol Harum sono stati un gruppo di rock progressivo britannico, tra i primissimi esponenti di tale corrente musicale negli anni Sessanta.
Quando si parla dell’organo Hammond, la mente non può non soffermarsi almeno per qualche istante a una canzone che nel 1967 fece innamorare milioni di ragazzini, vendendo 11 milioni di copie. Gary Brooker, cantante e pianista del gruppo, attingendo note da Bach, compose quel “A Whiter Shade Of Pale”, che costituirà il maggior successo del gruppo; da quel momento scrivere qualcosa di meglio per loro sarà impossibile.

La melodia della canzone si sviluppa sulle note dell’organo Hammond abbellite dal Leslie; i primi ad ascoltarlo in Italia sono i Dik Dik, gruppo musicale già affermato.
Il brano piace immediatamente e decidono di riproporlo con un un testo diverso, con la collaborazione di Lucio Battisti e Mogol, e il 20 Agosto esce in Italia “Senza luce”, che raggiunge subito il primo posto in classifica.

I Procol Harum si formano a metà degli anni ‘60 nella cittadina inglese di Southend-on-Sea (Essex), dalle ceneri della blues band dei Paramounts e dopo l’incontro di Brooker con il paroliere Keith Reid, di lì in poi autore di tutti i testi del gruppo ed in effetti “sesto membro effettivo” del gruppo stesso.

Dopo il fulmineo successo di “A Whiter Shade of Pale”, i Procol Harum ottengono notevole fama con altri tre brani, “Repent Walpurgis”, eseguita interamente con piano e organo, “A Salty Dog”, adottato come sigla per il programma della RAI "Avventura", e “Homburg” riproposto dal gruppo italiano Camaleonti con il titolo “L’ora dell’amore”.

Col cambio di decennio e l’avvento susseguente dell’ondata di rock progressivo britannico (Genesis, Yes, Emerson Lake & Palmer tra i più noti), i Procol Harum non riescono a confermare il successo, pian piano affievolendo il proprio impatto commerciale, sebbene rimangano tra i “maestri” del genere.

Il gruppo si scioglie nel 1977 senza suscitare grandi clamori, lasciando via libera alla carriera solista di Brooker, più che altro come componente aggiunto dal vivo della band di Eric Clapton ed altre partecipazioni sporadiche (da segnalare quella come vocalist nella canzone “Limelight” degli Alan Parsons Project, contenuta nell’album del 1985 “Stereotomy”).

L’8 ottobre 1990 muore a Corvalis nell’Oregon il batterista e membro fondatore del gruppo B.J. Wilson, dopo tre anni di coma.
In seguito a tale triste evento gli altri membri fondatori della band decidono di tornare a registrare un nuovo album, The Prodigal Stranger, che di fatto segna il ritorno dei Procol Harum sulle scene senza però sortire particolari effetti a livello di pubblico.






mercoledì 4 febbraio 2009

Fleetwood Mac


I Fleetwood Mac sono un gruppo musicale rock inglese-statunitense, che ha goduto di grande successo in tutto il mondo, pubblicando oltre 20 album ad oggi.
Le origini del gruppo si possono ricercare nell’Inghilterra della seconda metà degli anni ’60, quando il batterista Mick Fleetwood, il bassista John McVie ed il chitarrista Peter Green lasciano i Bluesbreakers di John Mayall e si uniscono al chitarrista Jeremy Spencer, dando così vita ai Fleetwood Mac (il nome della band viene coniato da Green, fondendo i cognomi del bassista John e del batterista Mick).
I primi lavori sono incentrati su un rock-blues di stampo tipicamente british; tra i pezzi più significativi del periodo spiccano “Man of the World”, “Albatross” e “Black Magic Woman”, quest’ultima portata al successo qualche anno dopo da Santana.




Molto interessante è anche l’album “Then Play On” del 1969, tra i solchi del quale si intravvedono le sonorità che caratterizzerano il gruppo negli anni a venire.
Nel 1969 Green lascia il gruppo, ed inizia così un susseguirsi di nuovi musicisti.
Questo periodo è caratterizzato da ottimi lavori quali “Future Games” del 1971, “Bare Trees” del 1972 e “Mystery to Me” del 1973, che tuttavia non riscuoteranno lo sperato successo commerciale.
La svolta arriva nel 1975 quando, trovatosi nuovamente senza il chitarrista, Mick Fleetwood chiede ad un giovane musicista americano, Lindsey Buckingham, di unirsi al gruppo.
Questi, al tempo, suonava in duo con la sua compagna Stevie Nicks; i due avevano anche pubblicato, con scarso successo, l’album “Buckingham-Nicks”.
Lindsey pone come condizione che anche Stevie entri a far parte del gruppo, i Mac accettarono, ed il risultato fu l’album “Fleetwood Mac” del 1975.
Il loro disco di maggior successo è però il successivo “Rumours” del 1977, che contiene tra le altre le hit “Dreams” e “Go your own way”.
Altri album degni di nota sono “Tusk” del 1979, “Mirage” del 1982 e “Tango in the Night” del 1987, quest’ultimo contenente i famosi singoli “Big Love” e “Little Lies”.
Il loro ultimo album, “Say You Will” è uscito nel 2003.
Christine McVie, che era un tempo tra i membri principali del gruppo, dal 1973 fino al 1997, ora è andata in “pensione” e vive in Inghilterra.

Dreams



martedì 3 febbraio 2009

Poco


I Poco, gruppo musicale statunitense, possono essere considerati tra i pionieri del Country Rock californiano.
Si formarono nel 1968 dallo scioglimento dei Buffalo Springfield, dopo la decisione di Neil Young e Stephen Stills di perseguire la carriera solistica.
I due componenti rimasti, Richie Furay (chitarra solista e ritmica) e Jimmy Messina (chitarra ritmica), dopo aver ultimato il mixaggio dell’album di addio della band, decisero di intraprendere un nuovo percorso insieme.Volevano formare un gruppo che facesse una musica rock con forti influenze country e molto orientata alla melodia e ai virtuosismi corali.
Iniziarono così la ricerca di altri musicisti. Il primo ad unirsi a loro fu Rusty Young, incontrato negli studi per l’ultimazione dell’album dei Buffalo Springfield, talentuoso musicista abile con chitarre ritmiche e pedal steel guitar. A sua volta Young presentò un batterista, George Grantham. L’ultimo a unirsi al gruppo fu il bassista Randy Meisner.
Nacquero così i Pogo.
Le prime esibizioni dei Pogo nei principali locali di Los Angeles furono accolte da ovazioni del pubblico. Dopo pochi mesi la band fu costretta a cambiare nome, perché il creatore di un omonimo personaggio dei fumetti rivendicò il diritto esclusivo all’uso del nome. Ripiegarono su un somigliante Poco.
Nel gennaio del 1969, mentre la band era impegnata nel mixaggio del primo album, Randy Meisner abbandonò il gruppo per dissapori con i fondatori Furay e Messina.
Poco dopo uscì Pickin’ up the pieces, il primo album dei Poco, che ottenne un successo di critica accompagnato da un moderato riscontro a livello di vendite.
L’anno successivo uscì il secondo lavoro, chiamato semplicemente Poco, in cui debuttò Timothy B. Schmit, il sostituto di Meisner.
Il sodalizio tra Furay e Messina si incrinò presto. Messina voleva suonare musica rock, mentre i Poco stavano virando verso il country più tradizionale. Messina decise di lasciare il gruppo, ma accettò di registrare ancora un album live DeLIVErin’ , che confermò il talento della band e che servì per introdurre il suo sostituto Paul Cotton.
Il cambio di formazione determinò una svolta country che portò alla produzione dell’interessante From the inside nel 1971.


Il vero successo tuttavia tardava ad arrivare.
Nel 1972 i Poco distribuirono il nuovo album A good feelin’ to know.
Nonostante le grandi aspettative della band, il disco fu un mezzo fallimento e il leader Furay decise che era il momento di cambiare rotta.
In quel tempo l’ex-bassista Meisner iniziava la carriera di successo con gli Eagles, Messina riempiva stadi e arene con il collega Kenny Loggins, e i Poco restavano nel limbo.
Nel 1973 uscì sul mercato l’album Crazy Eyes, con cui di fatto Furay si accommiatò dai Poco.
Il successo fu discreto.
Dal 1974 i Poco divennero un quartetto, formato da Rusty Young, George Grantham, Paul Cotton e Timothy B. Schmit.
Iniziò un periodo molto prolifico che portò il gruppo a pubblicare 2 album nello stesso anno, Seven e Cantamos; l’anno seguente uscì il secondo album dal vivo Live nonché l’LP Head over heels e nel 1976 fu la volta di Rose of Cimarron.
I numerosi dischi non ottennero però il successo sperato.
Dopo l’ennesimo tonfo di Indian Summer nel 1977, Schmit lasciò il gruppo e si unì agli Eagles per sostituire (ancora una volta) Randy Meisner.
Fu chiaro a tutti che qualcosa stava finendo; nello stesso anno fu deciso di salutare i propri fans con un concerto d’addio a cui partecipò anche il redivivo Furay per rendere omaggio alla band.
Poco dopo anche Grantham lasciò i compagni Cotton e Young, che decisero di tenere in vita il nome della band.
Nel 1978, con l’aiuto di strumentisti complementari, uscì così Legend che contenne due discreti successi come Crazy Love e The heart of the night.
Dopo la ricca tournée di Legend il gruppo tornò in studio, ma i lavori che seguirono - Under the gun (1980), The blue and the gray (1981), Cowboys & Englishmen (1982), Ghost town (1982) e Inamorata (1984) - furono clamorosi insuccessi.

Just for Me and You




Citazione d'autore:
"Una fame di cose senza speranza bracca i nostri spiriti per tutta la vita." (Robert Louis Stevenson)