martedì 24 novembre 2020

Queen: Rock in Rio, Rio De Janeiro, 12-19 gennaio 1985


Queen
Rock in Rio, Rio De Janeiro, 12-19 gennaio 1985

Il sole fa davvero la differenza. Qui anche la gente fiorisce. E’ un pubblico meraviglioso. Adoro il modo in cui esprime le sue emozioni.” (Freddie Mercury)

Sui biglietti figurava la presuntuosa dicitura “il miglior festival di tutti i tempi”. Ma se non fu il migliore, fu certamente il più grande.
Con novanta ore di musica nell’arco di dieci giorni e un totale di tre milioni di spettatori, il primo e più memorabile “Rock In Rio” superò ogni più rosea aspettativa dell’organizzatore, l’uomo d’affari brasiliano Roberto Medina. Gran parte del merito va ascritto ai Queen, le cui esibizioni, in particolare quella molto intensa  dell’ultima giornata del festival, restano un momento chiave nella lunga e lenta invasione rock dell’America Latina.
Il cantante Freddie Mercury rappresentava al meglio la tipica ossessione degli anni ’80 per la spettacolarità, e il suo inimitabile gusto kitsh veniva esaltato dagli spazi di grandi dimensioni. Ma anche lui dovette sentirsi minuscolo al momento di salire su un palco di 7000 metri quadrati, in grado di ospitare contemporaneamente tutti i gruppi in cartellone. Di fronte c’erano 300.000 persone abbronzate e cariche di voglia di divertirsi che salutarono il gruppo con un’ovazione assordante.
Mai i Queen avevano potuto contare su una platea tanto allegra e vitale. Alle spalle dell’arena allestita per l’occasione era cresciuta una specie di città virtuale con decine di negozi e il più grande McDonald al mondo. In lontananza si stagliavano le montagne che circondavano Barra da Tijuca. Era un’ambientazione straordinaria e, come al solito, Mercury si dimostrò all’altezza della situazione.
Il concerto spaziò lungo tutta la carriera del gruppo, dai primi timidi successi di inizio anni’70, come Keep Yoursekf Alive, alle più recenti e celeberrime Hammer to fall e Radio Gaga, quest’ultima accompagnata dalla folla con un potentissimo battimano ritmico.
Un accenno di contestazione arrivò quando Mercury sfoggiò un abbigliamento non propriamente maschile per I Want To Break Free, turbando la componente machista, peraltro in minoranza, del pubblico. Ciò non impedì al cantante di innamorarsi del Brasile e dell’intero Sudamerica: “Mi piacerebbe comprarmi tutto il continente e farmi eleggere presidente.”
(Mark Paytress)




domenica 22 novembre 2020

Il mio ricordo di John Kennedy


Chi mi conosce sa del mio amore generico per l'America.
Sono cresciuto guardando i filmetti d'oltreoceano e la prima volta che sono stato negli USA ho realizzato che esiste effettiva corrispondenza tra la fiction televisiva e la realtà.
In quella occasione, il '93, mia figlia era già stata concepita, senza che io e mia moglie lo sapessimo, per cui anche lei era in viaggio con noi ed è questo un motivo in più che mi fa amare quella terra. Sono conscio del fatto che viverci non deve essere così idilliaco come in molti film, ma dopo esserci stato più volte mi sono fatto l'idea che per il passante, quale io sono sempre stato, le cose negative non emergono, mentre si rafforzano i giudizi positivi. E poi, per un ammalato di musica è davvero una pacchia! Tra lavoro e vacanza, mi sono imbattuto in momenti indimenticabili di cui spesso mi vanto, come fa un ragazzino quando parla della sua nuova conquista.

Uno di questi "attimi da ricordare" l'ho vissuto a Dallas nel novembre del 97, e nelle righe seguenti, scritte molto tempo fa, ne descrivo il motivo.

"Sono le 21 quando atterro a Dallas, e passa almeno un ora prima di arrivare all’Holliday Inn, nel pieno centro città.
Fa molto caldo, sembra estate piena.
La prima cosa di cui mi interesso, con l’impiegato di turno è l’esatto punto in cui é stato ucciso JFK.
È lontano?”
No, vicinissimo, segui la strada, giri a destra e troverai il “Six Floor Museum. Impossibile sbagliare.”
Ma cosa era questo museo? Del sesto piano?


Quel novembre del 1963, Kennedy e consorte iniziarono il corteo che sarebbe sfociato in Elm Street, la strada dritta che partiva dall’Holliday Inn, per poi svoltare e ritrovarsi nella Delaney Plaza.
Nei pressi della “Collina Erbosa”, sotto al vecchio deposito di libri scolastici, Kennedy fu ucciso da chissà chi e chissà come. Il vecchio “deposito di libri scolastici” é quello da cui, si presume, Lee Harwey Osvald abbia sparato a JFK, appunto da una stanzetta del sesto piano. Così decretò la Commissione Warren, incaricata dell’inchiesta ufficiale.
Questo sesto piano é ora un fantastico museo, dove, in tutte le lingue, si può seguire la storia di quegli anni e di quella gente. La stanza é protetta da cristalli spessissimi, ma all’interno tutto é stato riprodotto come scoperto quel lontano 22-11-1963.
Era novembre. Le scatole di cartone, destinate al contenimento dei libri, ma utilizzate come riparo e nascondiglio da Osvald, sembrano piazzate alla rinfusa, ma rispecchiano la disposizione originale. Giro tra le riproduzioni tridimensionali, i quadri, i film, come imbambolato.
È troppo vivo in me il ricordo in bianco e nero di quel giorno. Il significato di quel momento era incomprensibile per un bambino di 7 anni, eppure quella macchina, quegli spari, quel sangue, mi é rimasto dentro, come la morte di Papa Giovanni, come la prima volta sulla luna, alcuni anni dopo.
Dopo aver visto la sua tomba a Washington, la sua dimora e quella della moglie, ora stavo rivivendo la sua morte. Una volta uscito non riesco a staccarmi da quel palazzo. Mi seggo sulla panchina di fronte, mi godo il sole, e fisso quella finestra assassina... forse. Mi guardo attorno e rivedo il corteo, la gente eccitata, in pianto dopo gli spari. Rivedo Zapruder, fotografo dilettante, con la sua rudimentale cinepresa, ormai mitica e al sicuro all’interno del museo. Per tutto il giorno e quello a seguire, ogni strada intrapresa in città, vicoli interni o vie di largo traffico, mi portano in quel punto per me magico. Nella Delaney Plaza c’è la calamita, ed io, metallo ferroso, non posso e non voglio opporre resistenza.
Quello è il mio posto per il fine settimana.
Alla sera una concessione… solo la musica può vincere il magnetismo di quel posto.
Mi accordo con l’autista dell’hotel e mi faccio portare ad un altro Hard Rock Café, dopo quello di New YorkMa esisterà qualcuno che nello spazio di due giorni é riuscito a vedere questo locale in due città così lontane?”.
Sì, io.
La sera finisce per strada, in una piazza interna dove ovviamente si suona.
Il giorno dopo scatta il doppio magnetismo. Sono ancora davanti al museo e sono colpito da … spari. Una Lincoln blu mi passa davanti, e dopo alcuni colpi corre via ad alta velocità.


Ecco cosa mi manca! Sarà la solita americanata, ma non posso perdermela. 
La macchina é lunga due km e la spesa del viaggio é condivisa con altri turisti, una famiglia di tre persone. Il bambino seduto davanti, con l’autista. Io a metà e il resto dietro. Che emozione!
Il giro è lentissimo e godo della vista della città. Stiamo percorrendo fedelmente la strada di Kennedy, quel giorno.
Mi sento agitato, in attesa degli spari che presto arriveranno.
Anche ora sono agitato!
Finita Elm Street svoltiamo... ci siamo quasi…
Il deposito é alla mia destra, e la collinetta é ben visibile… alcuni spari registrati… ancora brividi. L’auto accelera lungo la Stemmons Freeway, in direzione del Memorial Hospital.
La registrazione audio ripropone fedelmente le sirene e i clacson del tempo, mentre la Lyncoln corre impazzita verso l’ospedale. La cosa é talmente “vera” che la spettacolarizzazione dell’evento passa in second’ordine.
Lo speed up finisce e, mestamente, ritorniamo verso il punto di partenza.
Registro tutto il possibile e mi sento davvero coinvolto.
La radio trasmette le parole di quel 22 novembre, con la cadenza ed il tono appropriato.
Il lutto si trasmette ai passeggeri dell’auto.
La musica di sottofondo sottolinea la tragedia, in un crescendo che amplificherà il mio disagio. Poi all’improvviso la calma, la quiete, il riposo… ciò che di solito segue la tempesta.
E siamo tornati all’origine.
Passerò le ultime ore a Dallas restando nei paraggi, cercando di metabolizzare l’intensa esperienza appena vissuta.
Come mi piacerebbe poter trasferire efficacemente ciò che ho “sentito”, ciò che non é tangibile!
Un ultimo giro nell’atrio del museo, giusto il tempo per acquistare il Cap del “VI FLOOR MUSEUM “, abbinato alla T-shirt, ed un giornale / copia, con su i titoli del giorno successivo all’attentato."

Nel filmato a seguire è riproposto l'attimo della tragedia e in successione l'uccisione di Lee Harwey Oswald, domenica 24 novembre, mentre viene trasferito dalla Centrale della polizia di Dallas alla prigione della contea, per mano di Jack Ruby, un gestore di un night club, affetto da turbe psichiche.






A tutt'oggi non é dato di sapere cosa realmente sia accaduto quel 22 novembre del 1963.





Il mio omaggio odierno é dedicato alla figura di JFK, la cui morte é rimasta impressa, in bianco e nero, nella mia memoria .
Con questo cerco lo spunto per agganciarmi a "Happy Days", al fumo in uscita dai tombini di N.Y., ai Yellow Cab, ai film girati a Little Italy, ai Gospel di Harleem , e cioè alle immagini della mia giovinezza, verificate poi sul campo col passare degli anni.

Vediamo i filmati.

domenica 15 novembre 2020

The Kubas/The Koobas

The Kubas/The Koobas


Non ho trovato nulla in lingua italiana che possa descrivere la storia di questa band, eppure hanno dato un buon contributo alla causa...


Il gruppo fu fondato nel 1962 a Liverpool da membri che avevano precedentemente suonato in ambiti locali.

Verso la fine del 1963 iniziarono a proporsi allo Star Club di Amburgo, e dopo un periodo di tre settimane tornarono nel Regno Unito, stabilendosi a Londra con la Roy Tempest Organization.

La Columbia Records li mise sotto contratto, e il loro primo disco, "Magic Potion" (https://www.youtube.com/watch?v=qCrHOsR68Bo), fu pubblicato nel gennaio 1965.

Il secondo singolo, "Take Me For A Little While" (https://www.youtube.com/watch?v=v4WcWSckAH4), fu rilasciato per l'etichetta PYE (dopo che PYE cambiò il loro nome in "Koobas") nel novembre dello stesso anno, un mese prima di apparire nel tour finale dei Beatles in Gran Bretagna.

Alla fine del 1965 firmarono un contratto con Tony Stratton-Smith, molto entusiasta di loro ma, nonostante la grande promozione, non ebbero mai successo.

Qualche curiosità sui membri della band…

Il batterista Tony O'Reilly si unì agli Yes nel settembre 1968, dopo la partenza di Bill Bruford per andare all'università, ma Bruford tornò nel novembre dello stesso anno. Ha continuato a suonare con i Bakerloo.

Keith Ellis ha poi suonato con Van der Graaf Generator e Juicy Lucy, mentre Stuart Leathwood ha formato il duo Gary & Stu e successivamente ha suonato con March Hare. L'intera produzione post-1966 del gruppo è stata ristampata in CD nel 2000 dall'etichetta Beat Goes On.


LA BAND

Stuart Leathwood - rhythm guitar, vocals (1962-1968; died 2004)

Roy Morris - lead guitar, backing vocals (1962-1968)

Keith Ellis - bass guitar, backing vocals (1962-1968; died 1978)

John Morris - drums (1962-1964)

Tony O'Reilly - drums (1964-1968)




sabato 14 novembre 2020

“Quando il Rock divenne musica colta: Storia del Rock” 2° edizione: intervista all'autore, Fabio Rossi


Uscirà il 18 novembre la seconda edizione di “Quando il Rock divenne musica colta: Storia del Rock”, di Fabio Rossi, che esordì cinque anni fa con questo libro dedicato alla musica progressiva a cui diedi un piccolo contributo con la mia prefazione.

Sarà curato dalla casa editrice genovese Officina di Hank, riveduto e ampliato.

La nuova bellissima copertina - tratta dall’album “Foxtrot, dei Genesis - é stata approvata e autorizzata dall’autore, Paul Whitehead.

Ho chiacchierato con Fabio, per saperne di più…

Sta per uscire la seconda edizione del tuo esordio come scrittore, “Quando il Rock divenne musica colta: Storia del Rock”: che tipo di soddisfazioni ti ha lasciato il tuo primo impegno?

Sono passati già cinque anni quando, nel settembre del 2015, uscì il mio primo libro per la casa editrice genovese Chinaski. All’epoca non avrei mai pensato che sarebbe diventato una sorta di “long seller”, con bei sei ristampe all’attivo. Come tu ben sai, visto che curasti la prefazione, il saggio puntava su una scrittura accessibile a tutti, senza la pomposità e la saccenteria fine a sé stessa che sovente contraddistingue analoghe pubblicazioni. In effetti era nelle mie intenzioni convincere i giovani e i neofiti ad avvicinarsi a questo tipo di musica così fascinosa, ed è soprattutto per questo che optai per una linea essenziale, sebbene curatissima in ogni particolare. Impresa difficile, ma quando il libro raggiunse la prima posizione nelle vendite e book “Libri per ragazzi” di Amazon Italia compresi che forse ci avevo visto giusto. Ma sarebbe riduttivo limitarsi a questo perché, come si evince dalla retrocopertina della seconda edizione, vi sono illustri esperti del settore che hanno usato parole bellissime nel recensire il saggio. Dulcis in fundo l’opera ha avuto l’onore di essere presentata al Conservatorio di Santa Cecilia dove, davanti a una nutrita platea di docenti, studenti, musicisti (Jerry Cutillo, Claudio Milano, Tiziana Radis e altri ancora), saggisti (Alessandro Staiti e Maurizio Baiata che mi ha intervistato sul palco) ho parlato a lungo di rock progressivo accompagnato dalla musica del maestro Marco Lo Muscio. Di questo devo ringraziare la pianista Jolanda Dolce che si è innamorata talmente tanto del mio libro da fare di tutto per poterlo presentare al Conservatorio. Sono, quindi, più che soddisfatto al netto di talune critiche di chi avrebbe preferito un linguaggio meno scolastico e un formato più corposo rispetto alle cento pagine e poco più di cui si componeva la prima edizione.    

La copertina che utilizzi in questa occasione, relativa a “Foxtrot” dei Genesis, é stata approvata e autorizzata dall’autore, Paul Whitehead: come sono andate le cose?

È stata una scelta della casa editrice che ha poi contattato l’autore, il quale ha accettato di buon grado la proposta. Un bel colpo non c’è dubbio!

So che questa seconda edizione è stata riveduta e ampliata: in cosa consistono le modifiche apportate?

Il saggio è stato aggiornato in ogni parte, ampliato in quasi tutti i capitoli, migliorato in molti punti, e ora si presenta con circa 40 pagine in più. Ha una prefazione, oltre alla tua, del saggista Nicola F. Leonzio, un approfondimento sul Neoprogressive italiano da parte del conduttore radiofonico Max Rock Polis, una mia interpretazione della suite Supper’s Ready dei Genesis, insomma tanta roba. C’è pure un grazioso segnalibro per chi acquista il saggio e il prezzo è rimasto il medesimo, 14 euro.  

Ha cambiato etichetta per la nuova distribuzione?

Sostanzialmente Officina di Hank è la nuova denominazione di Chinaski. Non cambia nulla.

Visto il momento difficile, in cui concerti e presentazioni non sono possibili, come pubblicizzerai il libro, e come sarà possibile acquistarlo?

Purtroppo, la situazione è difficile. Io mi muovo moltissimo con i social network, e in prevendita sono riuscito a spedire già sessanta copie a chi le ha acquistate direttamente da me. Non si può fare altro fino a che la pandemia resterà con noi, speriamo il meno possibile. Dal 18 Quando il Rock divenne musica colta: Storia del Rock” sarà disponibile nelle librerie, su Amazon, IBS, insomma dappertutto. 

Un’ultima cosa… so che il tuo libro su ELP è andato molto bene: che cosa hai in mente per il futuro immediato?

Anche il mio terzo libro sugli ELP (Emotion, Love & Power – l’Epopea degli Emerson, Lake & Palmer) ha dovuto fare i conti con il Covid 19. Era partito alla grande con la presentazione a dicembre nella sala consiliare di Palmanova al cospetto di Regina Lake e la famiglia Emerson al completo (e tu mi intervistasti! Che giornata memorabile!). Avrei dovuto presentarlo alla Locanda Blues a Roma in occasione di un concerto della Carl Palmer Band ma tutto è svanito a causa della pandemia. Il libro ha ricevuto consensi unanimi e sta vendendo bene nonostante le oggettive difficoltà. Per quanto concerne i miei progetti futuri, già a febbraio uscirà il mio quarto libro che stavolta virerà decisamente sull’heavy metal. I mesi di lockdown li ho passati a scrivere ecco spiegati il perché di tanta creatività!

Auguri a Fabio Rossi per questa nuovo giro di giostra…


venerdì 13 novembre 2020

The Samurai of Prog- Beyond The Wardrobe

The Samurai of Prog- Beyond The Wardrobe

Impossibile tenere il conto delle produzioni dei The Samurai Of Prog, tra formazione ufficiale (anche se, come si sa, il progetto è sinonimo di multinazionale musicale, con formazioni in continua evoluzione…) e le varie diramazioni. Ma se prima eravamo abituati ad un rilascio annuale, ora il materiale esce copioso, sintomo di una grande prolificità e di una richiesta da parte di un pubblico che, seppur una nicchia all’interno del mondo della musica, apprezza le sonorità immortali proposte dai Samurai.


 

Sta per uscire “Beyond The Wardrobe”, un'edizione speciale con materiale totalmente originale, un CD che esce in edizione limitata e a prezzo speciale.

Ecco il pensiero della band a proposito di quello che definiscono “Rock progressivo crossover sinfonico con un tocco classico”:

I The Samurai of Prog - Marco, Kimmo e Steve - tornano con un team di ospiti in continua evoluzione, e realizzano un album che Steve Unruh definisce come “… il suo "nuovo preferito all’interno del catalogo dei TSOP".

Particolarmente forti su questo disco appaiono gli echi melodici di Bach e Mozart, e quando il tutto si unisce alle diverse influenze accumulate nel tempo - che vanno da artisti del calibro di Jethro Tull sino ai Mostly Autumn -, la proposta diventa particolarmente varia e divertente.

Come per tutte le versioni di Samurai, la produzione è audiofilo-grade e l’artwork e il packaging sono Deluxe.

Una avventura da vivere attraverso il paesaggio sonoro che si trova… oltre l'armadio!”

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Quando commento i loro album mi soffermo spesso sui particolari messi a disposizione, e anche in questo caso proverò a descrivere il disco, brano dopo brano.

Restano le caratteristiche tipiche della produzione TSOP, con la partecipazione di molti autorevoli ospiti, non solo come ausilio strumentistico, ma anche come intervento compositivo, e la distribuzione geografica è ancora una volta garantita.

In senso generale ho trovato una proposta che si distacca un po’da quelle precedenti, e il titolo dell’album rappresenta un’efficacie sintesi di quale sia stata la ricerca creativa.

Esiste tutto un mondo musicale che non è confinato, che non entra solo in alcune caselle precostituite, ma ci appartiene, e l’integrazione dei singoli profumi può certamente condurre ad un disegno unico, a volte migliore dell’elemento singolo, basterà, forse, guardare... oltre l’armadio!

Ancora una volta sono rimasto colpito dalla musica dei Samurai, da sempre tra le mie preferite, e anche “Beyond The Wardrobe” mi regalato qualcosa di nuovo all’interno dei canoni prog che tanto mi soddisfano.

Ma andiamo con ordine. L’album inzia con “Another Time” (6:22- musica di Ronaldo Rodrigues e Steve Unruh e liriche di Unruh)

Marco Bernard (basso), Kimmo Pörsti (batteria), Steve Unruh (voce, chitarra elettrica e classica, flauto), Ronaldo Rodrigues (tastiere) e Marek Arnold (sax).

Sax suadente e voce da crooner che sfocia in mood hammilliano; a metà percorso nasce un cambio di ritmo e di atmosfera che riporta alle origini del prog, ai maestri antichi, stabilendo quanto i Samurai possano essere la “fresca” continuazione di un nobile passato.


"Al sicuro nel porto dai fulmini, qui dove passano le tempeste, 

ci nasconderemmo e scapperemmo dal nostro tempo?" 


Basta un ascolto per rimanerne affascinati…


Segue un pezzo strumentale, “Dear Amadeus (8:52-di Oliviero Lacagnina), che include estratti dal Requiem "Dies Irae","Introitus", "Confutatis" e "Domine Jesu Christe", e dal Concerto per Piano e Orchestra K488 in LA maggiore di Mozart).

Marco Bernard (basso), Kimmo Pörsti (batteria), Steve Unruh (violino acustico), Oliviero Lacagnina (tastiere), Rafael Pacha (chitarra elettrica e classica) e Octavio Stampàlia "VST symphonic choir".

Trattasi di compendio tra rock e classica, un terreno tanto amato dal “nostro” Oliviero sin dai tempi dei Latte e Miele, negli anni ’70.

A lui ho chiesto qualche dettaglio sulla sua creazione:

I miei due brani sono il ritorno agli anni in cui, con i Latte e Miele, proponevo la rilettura in chiave rock di composizioni classiche. In realtà a quell'epoca nello scegliere i compositori da "rivedere" non ci si spostava dall'800 romantico (Verdi, Puccini, Von Suppè, Beethoven ecc...), con una certa predilezione per l'opera lirica, mentre qui siamo nell'ambito del barocco e del classicismo. Questo "ritorno" in realtà è uno sguardo più approfondito e personale su questi due brani scritti da Bach e Mozart.

Per quanto riguarda "Dear Amadeus" la mia intenzione era di scandagliare il più possibile i temi principali del "Requiem". Ovviamente la fa da padrone il "Dies Irae" che apre, dopo una breve introduzione, la composizione e la chiude. Nel mezzo ci sono altri temi (compreso un piccolo richiamo ad un concerto per pianoforte e orchestra...) della stessa opera, melodie che con la loro dirompente forza fanno da sfondo alle varie improvvisazioni, sia delle tastiere che della chitarra e del violino. Per quanto riguarda quest'ultimo strumento bisogna dire che le grandi capacità di Steve Unruh danno all'intero progetto un tocco di grande professionalità. Lo stesso per Marco Bernard che riesce sempre puntualmente a creare un sostegno indispensabile alla struttura del brano. Al di là delle critiche che faranno i "puristi" dei due compositori citati questo è solo un "divertissement" per le tastiere sulla scia di ciò che vari maestri del "prog" negli anni '70 ci hanno proposto.


Si prosegue con “King of Spades” (5:54-di Alessandro Di Benedetti)

Marco Bernard (basso), Kimmo Pörsti (batteria), Steve Unruh (flauto, violin acustico, violin elettrico 5 corde), Alessandro Di Benedetti (tastiere), Daniel Fäldt (voce) e Carmine Capasso (chitarra elettrica solista).

Altra “contaminazione” italiana, con una creazione in toto di Alessandro Di Benedetti e l’intervento di Carmine Capasso all’elettrica.

Una storia d’amore che utilizza il gioco delle carte, condotta dalla magnifica voce di Daniel Fäld, una sorta di ballad che trova un momento magnifico, dove la delicatezza del violino di Unruh si interseca con tempi composti tipici del genere. Ma è l’atmosfera magica e avvolgente che disegna questa perla sonora.


Il quarto brano è “Forest Rondo” (5:50-musica e liriche di Christian Bideau e Steve Unruh)

Marco Bernard (basso), Kimmo Pörsti (batteria), Steve Unruh (voce, flauto, chitarra elettrica) e Christian Bideau (tastiere).

"Non piangere una lacrima per me, avevo bisogno di viaggiare per crescere oltre queste mura

Sono fuori e volo"

Ritorno ad un concetto precedente che riguarda i nostri numi tutelari nel prog, e questo brano riporta alla struttura realizzativa dei Gentle Giant, con intrecci complicati e ritmi tipici di quel gruppo. La voce di Unruh è unica per caratterizzazione e non lascia mai indifferenti.

Senza sosta… senza fiato, da riascolto compulsivo!


A seguire Jester’s Dance (6:47-di Ocatavio Stampalia)

Marco Bernard (basso), Kimmo Pörsti (batteria), Steve Unruh (violino acustico, flauto), Octavio Stampalìa (tastiere) e Pablo Robotti (chitarra elettrica).

Un’altra forte commistione tra classica e rock che sfocia in attimi di puro jazz, traccia strumentale che diventa esercizio di bravura ed evidenzia le skills dei protagonisti.


E arriviamo al contributo giapponese con “Kabane” (7:33-di Yuko Tomiyama)

Marco Bernard (basso),  Kimmo Pörsti (batteria),  Steve Unruh (chitarra classica, violino e cori), Yuko Tomiyama (voce, piano e synth), Octavio Stampalía (tastiere) e Marc Papeghin (corno francese e tromba).

Inusuale il cantato giapponese nella musica progressiva, ma la voce gentile di Yuko entra di soppiatto e conquista la scena. È forse la traccia più popular, ma perfettamente collocata nel contesto. Arrangiamenti di gran classe per un brano sognante e suggestivo.



"Marigold è la settima traccia (2:33-di Ton Scherpenzeel).

Marco Bernard (basso), Kimmo Pörsti (batteria e percussioni), Steve Unruh (violino acustico e flauto) e Ton Scherpenzeel (tastiere).

Breve strumentale di stampo classico, un trait d’union verso la seconda parte del disco.


Con “Brandenburg Gate” si ritorna alle creazioni di Oliviero Lacagnina (4:24)

Il pezzo include parti tratte dal Brandenburg Concerto n° 1, Terzo Movimento-Allegro di J.S. Bach.

Marco Bernard (basso), Kimmo Pörsti (batteria), Steve Unruh (violino acustico e flauto) e Oliviero Lacagnina (tastiere).

Anche in questo caso ho trovato dettagli interessanti nelle parole di Laccagnina:

La rilettura di "Brandeburg Gate" - tratto dal terzo movimento del primo concerto Brandeburghese di J. S. Bach - si basa quasi esclusivamente sul tema principale dell'originale, con interventi di armonie e improvvisazioni più jazzistiche che "prog". Quando ho sentito il prodotto finito mi sono accorto che la mia idea swingante del tutto - con tanto di contrabbasso in ottavi e sempre presente - poteva essere stravolta da una batteria rockeggiante, e la cosa mi è piaciuta proprio per l'inaspettata sovrapposizione di due concezioni e stili diversi (d'altronde il prog consente queste misture...). Ovviamente, come spesso accade, la collaborazione tra diversi musicisti con diverse concezioni della musica non può che produrre risultati interessanti e imprevisti, e di questo non posso che essere grato al geniale Kimmo Porsti.”

Un tuffo nel miglior prog sinfonico del passato!


Si conclude con l’intervento di un’altra pedina tradizionale del mondo di TSOP, Elisa Montaldo, che firma - parole e musica - “Washing the Clouds” (7:29)

Marco Bernard (basso), Kimmo Pörsti (batteria), Steve Unruh (chitarra elettrica, violino elettrico a 5 corde) ed Elisa Montaldo (voce e tastiere).

Elisa racconta la genesi del pezzo con cui partecipa al disco:

Tutto nacque da una mia richiesta a Marco Bernard, relativa al suo coinvolgimento al basso su un mio brano per il nuovo solo album che, finalmente, sto producendo, "Fistful of Planets part 2".  Il brano gli piacque molto, e mi propose di realizzarne due versioni: una "gestita" da me, con i musicisti che stanno collaborando con me, e una alternativa arrangiata dai The Samurai Of Prog, da inserire in "Beyond The Wardrobe".

Ho trovato l'idea interessante e ho accettato. Da lì si è lavorato in parallelo. Nella versione dei Samurai è rimasto intatto tutto il mio arrangiamento di piano, tastiere e suoni d'ambiente e voce; ci sono inoltre un bellissimo violino, ricami di chitarra, un lungo solo finale in puro stile Prog evocativo.

Questo brano sarà dunque presente in anteprima nel loro album, e uscirà nella versione originale nel mio “Fistful…”, spero presto (siamo alle ultime registrazioni e inizio del mix). Nel mio album il brano è suonato da Diego Banchero al basso, Ignazio Serventi alla chitarra, Paolo Tixi alla batteria, un ragazzo americano (di cui ora non ricordo il nome) al violoncello, Mattias Olsson alla produzione e aggiunta suoni.”

Musica immaginifica, immagini e vibrazioni che arrivano a volontà, la connessione tra anime e mondo circostante descritta dalla musica e dalle parole, complementari alle trame sonore.

"Il vento ulula sulle colline portando sulla Terra il freddo invernale

Stanotte la Luna mi troverà qui alla ricerca di melodie e parole

Come ogni mattina quando sorgerà il sole

sarò lì per trovare il significato del silenzio, le preghiere, i pensieri, le ombre, gli arcobaleni, i fantasmi"

Resta la curiosità di ascoltare anche l’altra versione, quando sarà rilasciato il nuovo album di Elisa Montaldo.


A fine ascolto si ha le precisa sensazione di aver viaggiato, un lungo percorso nel tempo e nello spazio, in un sentiero prestabilito, quasi un ciclo di vita, e la soddisfazione e l’appagamento arrivano ad un livello fisico: cosa chiedere di più alla musica!

Artwork sempre in primo piano, curato ancora una volta dalla tedesca Nele Diel, già collaboratrice in “Wayfarer” e “La Tierra”.


Formazione:

Marco Bernard: Shuker Bass

Kimmo Pörsti: drums and percussion

Steve Unruh: violin, flute, vocals, acoustic and electric guitars 

Composizioni di: Christian Bideau, Alessandro Di Benedetti, Oliviero Lacagnina, Elisa Montaldo, Ronaldo Rodrigues, Ton Scherpenzeel, Octavio Stampalia, Yuko Tomiyama



martedì 10 novembre 2020

Greg Lake, l'Italia e... un ukulele!


Fotografia di Alberto Terrile

Il mio incontro speciale con Greg Lake 

Tra il 28 ed il 30 novembre 2012 ho incontrato Greg Lake, l’ho ascoltato, gli ho parlato e l’ho sentito suonare per due volte, prima su di un palco e, successivamente, in un piccolo luogo da sogno, in una sala di un castello affacciato direttamente sul mare. Mi soffermo su quest’ultimo episodio.

Siamo a Zoagli, nello splendido Castello Canevaro, in una zona che Greg era solito frequentare in un lontano passato. Location ridotta per un set teoricamente breve, che dovrebbe essere il contorno alla presentazione del suo libro: due giorni prima ho assistito al suo concerto a Piacenza, ed ora Greg impegna il suo momento “libero” per tornare nei luoghi che ha conosciuto e amato in gioventù.

In teoria un evento per pochi intimi, ma la voce della sua presenza si sparge, e anche in questa occasione il pubblico risulterà notevole, e alla fine la sala dedicata al set risulterà stracolma.

Con Greg a Piacenza

Molti sono i brani che propone, a diretto contatto col pubblico, ma questa volta Lake dà segni di nervosismo, attimi che, come racconta chi è a lui molto vicino, sono solo episodi minimali, se comparati al passato. Qualcosa non funziona a dovere con i suoi fonici e risulta palese il suo disappunto.

Ancora un fitto dialogo col pubblico e tanta musica… un’ora e mezza di spettacolo - gratuito - che sarà difficile dimenticare.

Alla fine del set sarà molta la delusione tra i presenti, in attesa in coda per un autografo, perché Greg viene inghiottito dalle sale del palazzo… svanisce, probabilmente cerca la solitudine per sbollire il nervosismo.

Ma è il mio giorno fortunato e riesco ad essere ricevuto - solo io -, per errore, e raggiungo Greg in una sala gigantesca dove lo trovo seduto ad un enorme tavolo rotondo. Qualcosa di magico, almeno per me, sta per accadere… un lungo, intenso minuto in cui rivivo una vita e che terminerà con un suo dono significativo.

Non ho portato con me album da autografare, ma un piccolo strumento.

Mi trovo così davanti ad uno dei miei miti, un po’ alterato nell’umore, ma trovo il modo di porgergli il mio ukulele - di forma anomala -, che diventa così l’oggetto della discussione per alcuni secondi.

E arriva la sua firma, il marchio che appone all’ukulele con il mio pennarello indelebile. Greg sigla lo strumento e… si “piega” davanti a me, cercando di accelerare l’asciugatura dell’inchiostro con il suo soffio: mai avrei pensato di poter vedere un terzo di ELP chinato su di un mio strumento!

Avrei voluto raccontargli di quando, sedicenne, vidi ELP a Genova, nel giugno del ’72, oppure di quando passai due giorni a Milano - nel 1973 - senza riuscire a vederli per un problema alla voce di Greg, ma… troppa emozione, così tanta da dimenticare in quella stanza la custodia del mio ukulele!




lunedì 9 novembre 2020

Roberto Gavazzi-“My Sacred Forest”

Roberto Gavazzi - "My Sacred Forest

Ep 

Esistono trame musicali e artisti che regalano all’impatto il profumo della genuinità, non importa se i gusti personali viaggiano normalmente su altre onde, perché viene presentato un modus propositivo che appare trasversale, capace di abbattere sia le barriere generazionali sia quelle più ostiche che hanno a che fare con la moda del momento.

Certo, occorre un po' di virtuosismo, capacità di comprensione, voglia di trovare la sintonia tra l'ascolto in proprio e il pensiero del musicista, e per quanto riguarda quest’ultimo è necessario provare ad “usare” i suoi occhi, confrontando la nostra “visione” con la sua.

È un po’ la differenza che esiste tra l’arte tradizionale - quella che propone chiarezza e oggettività, che piaccia o no - e quella contemporanea, dove l’apprezzamento non è quasi mai immediato, ma passa attraverso la profonda conoscenza delle idee, spesso criptiche, di chi mette a disposizione la propria opera.

E se poi si parla di musica strumentale, priva della capacità didascalica di una lirica, l’istinto potrà avere ruolo determinante, e le eventuali emozioni cadranno forse lontano dal luogo scelto da chi crea, e troveranno un angolo proprio, confortevole, privato.

Questo lungo preambolo serve ad introdurre un artista che non conoscevo, Roberto Gavazzi, che ha raccolto in un Ep di piano solo - “My Sacred Forest - il suo mondo, le sue esigenze, i suoi sentimenti, e nel ristretto arco temporale che racchiude quattro brani è riuscito a condensare - e ad urlare sottovoce - i suoi bisogni e il suo rapporto con tutto quanto lo circonda.

Racconta Gavazzi:

In questo EP ho raccolto quattro brani che riflettono la mia maturità, non solo artistica. Raccontano il mio amore per la montagna, i suoi boschi e si suoi selvatici abitanti, raccontano la mia ricerca interiore, così come la mia personale difficoltà a sentirmi parte di una società che fa dell’apparire un valore assoluto.

Penso che ci siano delle affinità tra il fare musica e lo scalare una montagna: entrambe aiutano a sopravvivere, possono essere rifugio dove trovare ristoro per l’anima e curare ferite, entrambe sono per me anche introspezione. Quando salgo una montagna in solitaria e quando compongo non lo faccio solo per bisogno di avventura o libertà, lo faccio per ritrovare me stesso, per conoscere meglio la mia forza e i miei limiti, per liberare mostri del passato e del presente o assaporare bellissime scoperte che la magia della vita è sempre pronta a donare.

“My Sacred Forest” sono i tanti boschi incontaminati e le foreste vetuste che ho attraversato come templi. Sprigionano una forza vitale, una selvaggia e ancestrale bellezza in grado di nutrire l’anima e l’umano bisogno di spiritualità. Dalla montagna, da Madre Natura, dalla musica ricevo ciò di cui ho più bisogno: la pace, il silenzio interiore e le energie necessarie per affrontare la vita di tutti i giorni. Dopo tanti anni di cammino posso finalmente dire di aver trovato il mio centro.

Il musicista - e in senso più ampio l’artista - possiede alcuni privilegi naturali che sono legati al poter lasciare testimonianza tangibile di sé, qualcosa che resisterà al fluire del tempo, creazioni che, se oneste, nascono seguendo esigenze personali, e cammin facendo si trasformano in benessere per chi ne usufruisce, magari un aiuto alla riflessione e al confronto.

La musica di Roberto Gavazzi mi ha colpito all’impatto, e non credo serva un grande esperto per poterla apprezzare, ma è certamente necessaria una minima dose di sensibilità. Verrebbe da pensare che un contenitore musicale che vede protagonista il pianoforte debba richiedere un’analisi molto tecnica, magari realizzata da strumentista specifico, ma sarebbe un errore imporre rigidi paletti intellettuali, perché “My Sacred Forest” racconta di ognuno di noi, dei nostri bisogni, dei nostri vincoli relazionali - non solo col mondo umano -, della voglia di serenità che quasi sempre risiede nella semplicità.

Dai link a seguire sarà possibile arrivare ad una delle tante fruizioni disponibili, e sono certo che per ogni ascoltatore nascerà una differente chiave di lettura, ovvero i brani di Gavazzi saranno reinterpretati in modo personale. La meraviglia della musica!



Ma vediamo qualche notizia oggettiva su questo autore romano.

Biografia… 

Pianista, tastierista, compositore e arrangiatore nato a Frascati (Roma), si diploma in pianoforte presso il Conservatorio Licinio Refice di Frosinone sotto la guida della Professoressa Ornella Grossi. Successivamente si dedica allo studio del pianoforte jazz e della composizione contemporanea.

Nel 2000 si diploma in composizione, arrangiamento e programmazione musicale presso la "Scuola di Alto Perfezionamento Musicale di Saluzzo”, dove tra gli altri ha modo di studiare con Gianni Nocenzi e Giancarlo Gazzani.

Fin dall'età di 15 anni svolge attività concertistica in Italia e all’estero con gruppi di progressive rock, formazioni jazzistiche e di musica contemporanea. Partecipa a Festival Jazz e World Music italiani ed europei, esibendosi principalmente in concerti di piano solo, in trio e in quartetto.

Ha collaborato e suonato con: Francesco Di Giacomo e Rodolfo Maltese (Banco Del Mutuo Soccorso), Glenn Cornick (Jethro Tull), John Wetton (King Crimson), Alberto Fortis, Gabriele Mirabassi, Gianni Iorio e molti altri.

Ha lavorato come compositore per la RSI (Radiotelevisione Svizzera).

Da più di venti anni svolge una intensa attività didattica, insegnando pianoforte classico e jazz; teoria, armonia e composizione moderna.                                                           

Dal 2010 al 2014 è stato docente di pianoforte e composizione per il “Corso Universitario Internazionale Bachelor Of Arts” in musica moderna (Essex University).


Spotify:

https://open.spotify.com/album/3mZXTePHbgQJcFIBByq6hV?si=ca1Vku73Q_i--E9Rf-dw-Q

YouTube:

https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_nR7mk8Bhg4ehIWWqxs63dN_k06R2D78ZQ 

Bandcamp:

https://robertogavazzi.bandcamp.com/album/my-sacred-forest-piano-solo