I Capability Brownhanno
avuto e ancora hanno un seguito importante essendo considerati band di culto
nella storia della musica prog britannica, una fama che in sintesi si basa su
di un pezzo eccezionale tratto dal loro secondo album, “Voice”, e che
propongo a seguire.
In realtà la
loro produzione si inseriva maggiormente nella sfera del pop mainstream, seppur
trattata e proposta in modo "artistico" e alternativo.
La band era formata
da sei elementi, un team in cui tutti cantavano e suonavano egregiamente vari strumenti.
La formazione
era composta da Tony Ferguson (chitarra, basso), Dave Nevin (tastiere,
chitarra, basso), Kenny Rowe (basso, percussioni), Grahame White (chitarra,
liuto, balalaika, tastiere), Joe Williams (percussioni) e Roger Willis
(batteria, tastiere).
Ferguson e
Nevin scrissero la maggior parte del materiale della band che eccelse
anche in cover di materiale meno conosciuto.
La capacità
di vocalizzazione dei Capability Brown fu un loro punto di forza, un insieme di
voci che coprivano una vasta gamma di colori, dal baritono al falsetto pulito.
ll loro primo
album, “From Scratch” - che includeva Liar - non fu eccezionale.
Il secondo, “Voice”,
pubblicato nel 1973, rappresentò la loro ricerca del successo e conteneva un
pezzo molto vario e melodico di oltre 20 minuti il cui titolo è “Circumstances”,
un brano straordinario che incorpora tastiere, voci a cappella, sintetizzatori
e mellotron, voce solista, delicate sezioni di chitarra acustica, potenti
accordi di chitarra elettrica e cori molto organizzati.
Dopo questo “sforzo”
i C.B. fermarono l’attività e nel 1974 Tony, Roger e Graham furono reclutati
dall'amico e membro di Christie Roger Flavell per unirsi al suo gruppo, i Christie,
per un tour in Sud America.
E a quel punto i Capability Brown cessarono di
esistere!
FORMAZIONE:
Tony
Ferguson: vocals, guitar, bass, flute, pedal steel
Dave
Nevin: vocals, guitar, bass, recorder, mellotron, synthesizer, percussion,
vibes
Helen Kate Shapiroè una cantante pop, jazz e attrice
britannica, nata a Londra il 28 settembre 1946, conosciuta soprattutto per i
suoi due brani da alta classifica registrati nel 1961 quando aveva solo 14
anni: "You Don't Know" e "Walkin' Back to Happiness".
All'età di dieci anni, Shapiro era già una cantante con "Susie and
the Hula Hoops" (insieme a sua cugina Susan Singer), una band scolastica
che includeva Marc Bolan (che allora usava il suo vero nome di Mark Feld) come
chitarrista.
A 13 anni iniziò a prendere lezioni di canto presso la Maurice Burman
School of Modern Pop Singing, con sede a Baker Street a Londra, scuola in cui
si era già formata la star Alma Cogan.
"Ho sempre voluto essere un
cantante. Non avevo alcun desiderio di seguire pedissequamente lo stile di
Alma, ma ho scelto la scuola solo per il successo di Alma", ha detto
in un'intervista del 1962.
Dal 2015 suona
in un trio chiamato Hebron, con Chrissy Rodgers e Simon Elman.
Una carriera dignitosa la sua, e merita di essere ricordata.
“INCIDENTI-Lo Schianto” di
NichelOdeon/InSonar & Relatives
Claudio Milano
Da lunghissimo tempo seguo l’arte proposta da Claudio Milano, musicista unico, coraggioso,
controverso, divisivo, esteta, concreto, sognatore, sperimentatore... aggettivi
che volgono tutti al positivo, frutto di una frequentazione che passa quasi
esclusivamente da elementi musicali, ma è facile catturare il suo disagio,
probabile frutto di diversificati accadimenti personali misti alle difficoltà
che Claudio, come ogni purista della materia, ha trovato e continua a trovare
sulla sua strada.
Per me Milano è simbolo, soprattutto, di voce incredibile,
assimilabile ad uno strumento vero a proprio, e se fosse vissuto nella
generazione precedente avrebbe trovato ben altre soddisfazioni, magari legando
professionalmente con il Maestro della Voce.
L’artista pugliese non strizza l’occhio a nessun tipo di
compromesso o annacquamento teso alla ricerca di un qualsiasi consenso, ma tira
dritto per la sua strada, conscio che le sue creazioni saranno destinate ad una
nicchia di anime sensibili e virtuose.
Ma “relegarlo” al ruolo di voce fuori dagli schemi appare
riduttivo e credo che ogni tipo di rappresentazione che ha a che fare con
l’arte lo potrebbe vedere indiscusso protagonista.
Dopo un lungo periodo di vuoto discografico è stato da poco rilasciato
un nuovo progetto dal titolo “INCIDENTI-Lo
Schianto”, presentato in controtendenza come “Un disco SENZA
VALORE”:
“Un disco SENZA VALORE, non è leggero e spensierato, non
parla di rinascita nel “dopo-pandemia”, il cantante del progetto non è bono,
non è pansessuale e non è ventenne. “INCIDENTI-Lo Schianto” è pronto per
divenire il più grande fallimento di Snowdonia e Claudio
Milanone va fiero (ma senza montarsi la
testa).”
Capito il tono?
Un CD e un vinile di lunga durata, una marea di
collaboratori, un artwork da sogno, una musica difficile da definire... tutti elementi che si dischiuderanno al cospetto dell’ascoltatore curioso, non necessariamente
seguace di Claudio Milano, anzi, meglio cercare nuovi adepti.
Ho ricevuto molto materiale e non ho sprecato nulla.
Tutto è funzionale alla comprensione e seguendo le
indicazioni il lettore troverà importanti elementi oggettivi (cliccare sulla singola
voce):
Ma la cosa più utile risulterà l’intervista realizzata con
Milano, che racconta dettagli impossibili da afferrare in altro modo,
delineando una storia - e una vita - dedita all’impegno artistico. L’amarezza
emerge, così come una visione del mondo tendente al grigio e una trasposizione
dei sentimenti e delle idee in un contenitore sonoro difficile e al contempo affascinante.
Resterebbe ben poco da aggiungere, perché la tavola è del
tutto apparecchiata, e il mio personale gradimento, che è davvero grande, risulta
insignificante rispetto ad un lavoro monumentale e di grande qualità.
Condenso il mio sentimento da ascolto, ripetuto e avvenuto
in situazioni disparate e non solo in un contesto “controllato”, quello che a
mio giudizio è richiesto quando si è alla ricerca della massima
concentrazione.
Forse mi allontanerò dai veri intenti dell’autore, ma è
questo l’angolo delle sensazioni istintive.
Ciò che ho captato è
una proposta capace di dare voce alle
insoddisfazioni, alle angosce, a un nuovo rapporto con l’arte che fugge dalla
mera estetica,alla ricerca di un valore più profondo, e in questo senso mi è apparso come una verarivoluzione.
Una musica diversa da quella a cui l’ascoltatore medio è abituato, solitamente avvezzo alla comprensione immediata e a una certa commercializzazione dettata
dal mainstream.
Esiste quindi uno scoglio da superare e Claudio Milano, infischiandosene
dell’ortodossia, utilizza linguaggi variegati che hanno il limite di essere
riconosciuti da pochi.
Nel suo nuovo lavoro ho trovato un approccio diverso dalla norma, una
sottolineatura di una necessità espressiva dove le idee sono preminenti
rispetto all’estetica legata al modello espositivo.
Una portata culturale di grande impatto, una luce che si accende e
illumina le esistenze, una diversa chiave di lettura della vita che può trovare
totale appagamento nelle varie forme artistiche esistenti, interconnesse tra
loro.
Sintetizzo il nuovo
progetto di Claudio Milano con una citazione nobile, attribuita a Picasso: “L’arte scuote dall’anima la polvere accumulata
nella vita di tutti i giorni.”.
Ecco, questo è quello che ho avvertito, ascoltando con coscienza “INCIDENTI-Lo Schianto”.
Leggiamo ora
l’autorevole pensiero di Milano, augurandogli tutta la visibilità possibile (e
non si tratta certo di un augurio legato al businnes delle vendite!) e un
proseguimento nella sua opera, lontano dagli schemi precostituiti, ma come sempre
onesta e duratura, e anche per lui, come per quasi tutti i grandi artisti, il
riconoscimento arriverà, seppur con spudorato ritardo.
L’intervista
Sono passati sette anni dall’uscita
del tuo ultimo lavoro e il nuovo progetto comprende registrazioni da tempo nel
cassetto: puoi sintetizzare l’iter che ti portato a realizzare “INCIDENTI-Lo
Schianto”?
È necessario avere un progetto
chiaro. Se questo manca il risultato che si può dare alle stampe è solo
“l’ennesimo disco di” e io non voglio fare il clone di me stesso. Scrivo solo
quando ho qualcosa di urgente da comunicare e quando ho la percezione di avere
qualcosa di autenticamente nuovo da offrire alle mie orecchie. Strappo e brucio
interi quaderni con appunti musicali e altrettanti di appunti per liriche. A me
interessa dare solo musica che non ho ancora sentito io in primis. Non sono uno
che “ricerca” rigirando attorno ad una intuizione. Mi interessa maturarne
diverse nell’arco del tempo che spendo appresso al mio essere musicista. Ci
sono voluti cinque anni per definire questo album in termini di scrittura,
incisione e ricerca di un suono identitario in mezzo alle diverse proposte che
contiene, un tempo ragionevole tenendo conto che lo studio che ha assemblato i
singoli contributi dei musicisti, a 1200 km di distanza, ha dovuto fare i salti
mortali e per giunta attraverso comunicazioni via e-mail e telefonate non
sempre pacate. Poi l’assenza di fondi per darlo alle stampe e una pandemia in
corso han fatto il resto, altri due anni di attesa, una bruttura fatta di fame
autentica e disagio. Nel mentre ho vissuto ovunque e volendo trovare nuove
definizioni di me stesso mi sono offerto a progetti non miei… decine. In studio
e soprattutto dal vivo. Ho voluto concedermi un viaggio fuori e dentro me
stesso, senza sconti ricevuti da parte altrui e senza averne fatti a me. Ne
sono venuto fuori ridotto in brandelli, a livello di schema identitario e qui
parlo di struttura psico-fisica, è come se mi fossi arrovellato fino alla
dissoluzione (e non parlo di eccessi “rock”, ma di uno scavarsi dentro in
maniera impietosa). È un miracolo che io sia vivo. Non sto bene, il che dal
2013 non è una novità, ma sono più sereno. Non mi sento più in lotta con
qualcosa… so di non avere più niente da perdere. In qualche modo io mi sono
ucciso, perché ho annullato i miei sogni. “Finalmente” posso guardare le cose
come se mi scorressero appresso. Il mio spirito in musica invece rimane vivo,
icariano, di chi quando canta vorrebbe tirare giù dal cielo tutte le stelle per
poi benedirle e dedicarle a chi ha attorno.
Il titolo di un album lo caratterizza
all’impatto e si presta spesso ad interpretazioni personali: qual è il
significato reale che si cela dietro a “INCIDENTI-Lo Schianto”?
Il titolo
dell’album sta per “incidere” inteso come atto che comporta auto-analisi fino a
ritornare a un punto zero, l’idea è nata dalle “Incisioni” e dai “Tre Studi per
una Crocefissione” di Danio Manfredini. Questo azzeramento, anche di coscienza
è ciò che percepisco nel percorso della società attuale, “sento” che è tempo di
grandi rivoluzioni in giro, assai confuse ma comunque tali da definire un’epoca
che non mancherà di scontri talmente tanto violenti da dare nuovo volto al
panorama politico-economico globale. Dal 2014 ho vissuto anni di collaborazioni
senza tregua ma con la consapevolezza di non poter contare su una formazione
musicale univoca a seguire i miei percorsi. Ogni incontro con un musicista è
stato una messa in campo di idee, percorsi seguiti differenti, scontri di Ego.
Non solo, nel disco si racconta di “infatuazioni” in un viatico di incontri
nati via chat, tali da portare alla mercificazione di sé e all’annullamento di
ogni valore della parola “amore”. Mi è venuto spontaneo pensare alla pubblicazione
del disco nell’11 Settembre dell’anno in cui sarebbe stato concluso. Poi, caso
ha voluto sia stato pubblicato a vent’anni di distanza dall’attacco alle Torri
Gemelle.
Perché lo hai definito “Un disco
SENZA VALORE”?
Perché non
ha futuro in termini di riscontro. “Valore” è ciò che noi diamo alle cose ma
che anche gli altri attribuiscono a noi. Io non valgo niente, non possiedo
nulla e non ho alcuna caratteristica che socialmente oggi possa vedermi in cima
a una lista di preferenze. La società in nascita farà razzia in breve tempo di
quelli come me.
Mi parli dell’anima del progetto e
delle peculiarità liriche e musicali?
L’anima
del progetto non è disgiunta da un corpo lacerato e risibile secondo gli
standard di immagine attuali. È un ritratto picassiano di un individuo che fa
risuonare in tanti cassetti di sé apparentemente disgiunti, voci diverse in
buona misura distopiche ma rispondenti a un tratto preciso. Non folle, ma
neanche sano. Le mie liriche nascono in buona misura da critica sociale ma hanno
un’organizzazione musicale assai precisa e studiata per mesi. Nonostante
questo, non tutte mantengono un posto nella mia memoria a lungo. In questo
album ce ne sono alcune che amo molto, quelle di “How Hard Tune!” e di
“Idiota-Autoritratto” in particolar modo, ma non ne avrei pubblicata nessuna
non l’avessi avuta a cuore almeno per buona parte. Ci sono poi due splendide
liriche di Salvatore Lazzara e in un brano (Nyama) riprendo nel Corale oltre
che Dino Campana, uno dei miei più grandi amori di sempre: Pier Paolo Pasolini
e la sua “Profezia”. Un brano invece è nato da una rilettura integrale di Peter
Hammill. Del suo pezzo “The Jargon King” è rimasta solo la lirica, attuale più
che mai. Se si vuol dare alle stampe qualcosa che non muoia alle proprie orecchie
e ai propri occhi in breve tempo, bisogna sforzarsi di guardare lontano… molto
lontano. L’alternativa è fare le soubrette su Instagram e Tik Tok.
Sono moltissimi i musicisti che
partecipano all’album: non ti chiedo di elencarli ma di motivare le scelte
relative alle differenti collaborazioni.
Sono
compagni di viaggio. Tutti. Qualcuno ha lavorato già alle mie dodici precedenti
pubblicazioni, qualcun altro mi ha chiesto di lavorare per le sue, alcuni sono
amici, altri li ho ascoltati e recensiti e mi sono innamorato dei loro
percorsi. Qualcuno è arrivato per emergenza, altri per empatia. Con tutti si è
creato un ottimo feeling anche se talvolta ho dovuto attendere due, tre, cinque
anni perché una registrazione promessa arrivasse. Qualcuno c’è ancora, qualcuno
non c’è più, come il M° Gianni Lenoci. Qualcuno si è dissociato dall’esito
conclusivo, altri mi ringraziano. Incontri, incidenti…
Raccontami del messaggio basico,
quello che hai dentro e che, essendo artista globale, puoi urlare attraverso il
tuo nuovo lavoro.
L’arte per
come l’abbiamo ereditata da Adorno è morta. Adesso ne viviamo l’inferno, il suo
rovesciamento di parametri. Io son vecchio… continuo a passare un’idea
massimalista nella gestione di parametri. Credo ancora che non si sia un
esercito cinese in terracotta in cui le statue si differenziano solo per un
dettaglio. Io amo i grandi passi, quelli che spostano l’angolo di visione di
almeno un po’ ma tale da garantire una nuova messa a fuoco, in alternativa la
creatività per me è solo intrattenimento e mi annoia. Poi per carità, so
benissimo che chi mi ascolta mi giudica “pesante” e noioso.
Esistono dediche particolari per ogni
traccia: me ne parli?
Le dediche
sono a persone conosciute in chat e con le quali ci sono state brevissime
frequentazioni. Mi danno l’idea di come oggi nulla abbia valore e di come si
sia destinati a schiantarci contro noi stessi in questa folle e inutile corsa.
Il progresso non è necessariamente ininterrotto. In alternativa le grandi
civiltà che ci hanno preceduto non avrebbero ceduto il passo alla nostra e noi
suoneremmo la loro musica di cui sappiamo invece poco o nulla.
Il disco è stato anticipato dal video
“Ho Gettato mio Figlio da una Rupe perché non Somigliava a Fabrizio Corona”: mi
spieghi la scelta e mi dici che valore/funzione ha per te l’aspetto visivo
legato alla musica?
C’era
un’idea originaria per quel videoclip. Una sceneggiatura da me scritta ma mi
erano richiesti fondi che non c’erano. L’epoca delle collaborazioni al fine di
creare un quadro ricco di colore si sta esaurendo velocemente per lasciare
spazio a un professionismo formalmente perfetto ma cinico, quello dei talent,
ma non solo, i ventenni oggi hanno un’arroganza mai percepita, non riescono a
guardare lontano dal loro habitat. Troppa gente vive in condizioni di
incertezza economica e il mondo dell’arte in Italia è già solo appannaggio di
gente abbiente. Non finiremo subito come una “nuova Grecia” ma saremo sempre
una provincia di un Impero ormai con le ore contate. Io ho sempre creduto nella
multimedialità come naturale conseguenza del percorso della creazione. Viviamo
in un mondo che ci sommerge di stimoli assai contrastanti. L’azione combinata
di questi determina ciò che chiamiamo “realtà”, anche con le sue contraddizioni
e i suoi cortocircuiti che piegano le nostre ginocchia. Ho teorizzato sin dalla
mia tesi di laurea del 2000 (Sphere) la necessità di mettere in pratica una
forma di multimedialità contemporanea dove gli stimoli non convergessero ma
finissero per creare una dimensione multipla di attenzione e percezione, fino
allo scontro, al caos creatore. Non sono riuscito a concretizzare il tutto in
modo coerente per questioni economiche, ci è riuscito però Stefan Prins con la
sua “Generation Kill”, dodici anni dopo. Io nel mentre sto lavorando a una forma
di arrangiamento, divenuto la mia tavolozza principe che renda chiaro questo
processo di piani plurimi di percezione e orientamento della composizione. Il
videoclip è stato concordato in modalità performativa con un mio amico, allievo
e collaboratore: Niccolò Clemente aka Cp. Mordecai Wirikik. Lui è un creativo
puro ed entusiasta. È una persona con cui ci si può permettere di inventarsi
qualcosa quando si hanno pochi mezzi perché la sua vita stessa è creazione,
curiosità, intelligenza emotiva. Ha generato qualcosa di assai distante dalla
mia idea di partenza ma con coerenza e dando adito a quel senso di
“dissociazione dall’ascolto/visione” che ovviamente ha portato il video a non
essere granché considerato. È tutto però in linea col processo a cui ho voluto
dare forma nella consapevolezza di una pubblicazione suicida.
Mi è piaciuta molto la cover e
l’artwork in generale: chi se ne è occupato e come rappresenta i contenuti? A
proposito, come dovrebbero essere usati i quattro adesivi contenuti nel
packaging?
Originariamente
volevo fosse Remigio Fabris a dedicarsi alla copertina. È un pittore che amo
particolarmente ma la mia richiesta non è arrivata in un momento appropriato.
L’artwork dunque l’ho fatto io, ho del resto una laurea in Accademia di Belle
Arti che non dimentico. Anche se non si coglie dal digipack consta di quattro
dipinti polimaterici e tridimensionali su tavola sagomata. Dei dipinti che
vanno fruiti nella visione diretta, non come cover. Come tale però funzionano
bene e ne sono particolarmente felice. Rappresentano un ciclo ad esemplificare
il concetto di causa-effetto buddista, dicendo semplicemente come ognuno sia
causa del suo male e della sua gioia in modo più o meno diretto. I quattro
adesivi ognuno può usarli come vuole. Sono la trasposizione in chiave pop delle
tavole per l’artwork a giocare sui significati della parola
“attaccami/attacati”.
“INCIDENTI-Lo Schianto” è un album
non di immediata metabolizzazione, come tutto quello che proponi: a chi ti
rivolgi oggi con la tua musica così lontana dall’ortodossia e dalle imposizioni
del mercato?
A chi
vuole ascoltarmi. Credo sinceramente oggi tutto sia “pop”, inclusi il jazz e la
musica classica contemporanea. Lo sono in quanto fanno parte di un mondo
mercificato dove tutto è in vendita e con la volontà di raggiungere un pubblico
ampio e diversificato. Basti guardare le copertine di Classic Voice, si fa
fatica a distinguerle da quelle di Vogue. Le musiche si stanno avvicinando
prendendo input da fields completamente lontani, nella definizione di una
musica popolare colta che può definirsi esclusivamente “contemporanea”, sia
jazz, classica, d’avanguardia. È ovvio che ciò accade solo in posti distanti
dall’Italia laddove l’espressione ultramoderna definisce i nuovi volti delle
città, crea nuove forme di aggregazione e permette sviluppo economico (Nord
Europa). Io qui non ho futuro e non ho fruitori. Nonostante questo, la promessa
ai miei collaboratori di pubblicare tutti i lavori fatti assieme non la
ritirerò per alcun motivo. Ho quattro lavori in uscita fino ai miei
cinquant’anni, poi vedrò che strada seguire.
In che formati sarà disponibile
l’album e dove e quando lo si potrà reperire?
È in
formato CD e digitale su Bandcamp a mio vantaggio, su tutte le piattaforme a
vantaggio di Audioglobe. Ci sarà una pubblicazione in vinile che rappresenta
però in parte qualcosa di diverso. Conterrà il singolo del videoclip in
versione estesa ma anche un nuovo brano, speculare al primo nel titolo e della
stessa durata. È una composizione strettamente contemporanea che tanto deve al
lavoro di Simon-Steen Andersen col suo “Piano Concerto” e all’elettronica di
Tim Hecker, ma che ovviamente ha un’identità propria capace di fare del
paradosso tragicomico virtù. Tratta come ogni religione si imponga come unica
“verità” invitando a colpire chi pratica culti diversi. Ogni credo è sinonimo
di violenza mascherata ad altro. La confezione del vinile (stampato in dieci
copie) conterrà un kit di sopravvivenza per i tre giorni di buio profetizzati
da secoli e poi un kit feticista, tra sacro e profano, un ribaltamento
incrociato dei piani di visione.
Hai previsto presentazioni e momenti
live?
Se me ne
fanno fare… La formazione di partenza c’è. Io, Francesca Badalini e Andrea
Grumelli in qualità di polistrumentisti. A loro sarebbe l’ideale aggiungere il
violino di Erica Scherl se ci sono soldi a sufficienza. Se non ci sono proprio
soldi apro volentieri a concerti altrui con mezz’ora di set (il materiale del
vinile) cantato/recitato live proponendo ogni sera testi modificati, con base
preregistrata e miei inserti di synth “suonati”. A monte della presenza di una
registrazione, ogni volta i brani saranno cosa diversa… ammesso che ci siano
possibilità per proporsi in maniera dignitosa, altrimenti evito volentieri. Le
energie che ho mi va di dedicarle alla creazione di valore, non al narcisismo.
Un’ultima cosa: che tipo di artista è
oggi Claudio Milano e come vede il futuro della musica?
Il futuro
della musica è quella che potrà essere venduta, qualunque essa sia. Io invece
sono un abbaglio. Né più, né meno. La mia generazione ne è consapevole, non può
avere un futuro lasciando memoria di sé. Tutto si consuma e oggi i Maneskin in
rete hanno più ascolti dei Beatles e il 900 della classica e dell’avant jazz
sono stati archiviati. Ognuno però può dare il suo contributo a un processo.
Ciò che resta saranno i “sistemi”, non le individualità. Se l’esercito cinese
di terracotta sorridesse perché ha ragione?
Link
utili:
PAGINA
BANDCAMP Claudio Milano (dall’11 Settembre il disco è disponibile anche su
Spotify):
I
membri di Saga, Spock's Beard, Marillion e altri si uniscono nel… ProgJect
L'ex
batterista dei Marillion e dei GTR Jonathan Mover mette insieme una band dedita
a cover prog formata da superstar
L'ex batterista dei Marillion e dei GTR Jonathan Moverha
messo insieme una band di superstar dedita a cover prog famose: trattasi dei ProgJect, di cui fanno parte il frontman dei Saga, Michael
Sadler (voce e polistrumentista), Ryo Okomutu (tastiere e voce) degli Spock's Beard, Matt Dorsey dei
Sound Of Contact (chitarra e basso) e l'ex chitarrista dei SaigonKick,
Jason Bieler.
"Il prog rock è la ragione per cui
suono la batteria", spiega Mover, che è stato ispirato da un periodo
in tour con la tribute band dei Genesis The Musical Box: "Non mi
divertivo sul palco da molto tempo e in quel periodo mi sono ricordato il
motivo per cui ho iniziato a suonare la batteria: il prog rock.
Suonare canzoni come “Robbery”, “Assault And Battery”, Dance on A Volcano, “Wot
Gorilla”, “Watcher Of The Skies” e “Back In NYC”, mi ha fatto sentire di nuovo un
quindicenne e ha acceso lo stesso fuoco che ho provato quando presi per la
prima volta le bacchette della batteria in mano. "
Il pensiero conseguente è stato: “E se
mettessi insieme un progetto del tipo “The Ultimate Prog Rock Experience”, con
i migliori musicisti disponibili, e poi rendessi omaggio ai “nostri” giganti del
prog, come Genesis, Yes, ELP e King Crimson, e ancora Pink Floyd, Rush, Peter
Gabriel, U.K., Jethro Tull, Gentle Giant e altro ancora?".
A questa riflessione ha fatto seguito il lancio
del seme e l’inizio del progetto.
Il tutto si è
tradotto in un set di oltre due ore che include dei classici del prog, come “Squonk”, “The Cinema Show”, “Firth
Of Fifth”, “Karn Evil 9 - 1st Impression Pt. I & II”, “Siberian
Khatru”, “Roundabout”, “Heart Of The Sunrise”, “21st Century Schizoid Man”, “Lark's
Tongues In Aspic”, “Xanadu”, “La Villa Strangiato”, “Have A Cigar”, “Solsbury
Hill”, “Living In The Paste” e altro ancora.
Il gruppo ha iniziato le prove alla fine di
settembre 2019 ed era pronto a intraprendere un tour di un paio di dozzine di
date, partendo dal nord-est del Canada, scendendo lungo la costa orientale, arrivando poi nel Midwest ... e poi è arrivato il Covid.
Sedici mesi dopo, i ProgJect sono tornati alle
prove relative alla produzione completa, modificando il set e preparandosi per
il loro primo tour ufficiale, a partire da aprile 2022.
Beat-Club propone video interessanti relativi ad una band
svedese di inizio anni ’60, i Tages. Ma chi
furono?
Tages fu una rock'n'roll/psychedelic/folk rock band
formatasi nei primi anni Sessanta nei pressi di Göteborg, in Svezia.
Il gruppo, formato nell'estate del 1963 come Tages Skiffle-Group da
cinque giovani adolescenti nella fascia di età 16-17, il 17 agosto 1964 vinse
un concorso pop, il "West Coast Beatles", organizzato dalla GT, che
prevedeva come primo premio un viaggio a Londra.
All'inizio di quell'anno il gruppo aveva cambiato il suo nome in Tages e
in ottobre pubblicarono il singolo “Sleep Little Girl”, che divenne un successo
e finì nella Top Ten.
Seguirono diversi singoli importanti, tra cui “I
Should Be Glad”, “Don't Turn Your Back”, “The One For You, So Many Girls”, “I'll
Be Doggone”, “In My Dreams” e “Miss Mac Baren”.
“Every Raindrop Means A Lot” è stato il primo singolo di ispirazione
psichedelica del gruppo è fu rilasciato all'inizio del 1967.
Nel novembre dello stesso anno Tages pubblicò l'LP “Studio”. L'album
negli ultimi anni è salito in cima a varie liste delle preferenze specifiche.
Nella primavera del 1968, Tages si trova nella Top Ten per l'ultima volta
con “There's a Blind Man Playing Fiddle in the Street”.
Il 31 agosto 1968 Tommy Blom decise di lasciare il gruppo. Gli altri
membri della band volevano continuare e nel giugno 1969 cambiarono il nome in
Blond, che portò all'album “Blond- The Lilac Years”.
È da poco uscito GENESIS PIANO PROJECT, tributo ai Genesis dei
pianisti Adam Kromelowe Angelo Di Loreto.
Proprio in questi giorni Adam Kromelow si è proposto dal vivo nel
corso di tre date italiane: Di Loreto, purtroppo è scomparso prematuramente lo
scorso anno.
Una storia come tante la loro, una passione che nasce tra i banchi
di scuola, alla Manhattan School of Music di Chicago. Un amore musicale che
sboccia naturale, con la differenza che Adam e Angelo hanno la possibilità di
diventare parte attiva, di contribuire a diffondere il verbo rimodellando e
dando nuova veste a ciò che da cinquant’anni tocca fan di ogni età.
E la loro rivisitazione per due pianoforti ha rivoluzionato ciò
che appariva consolidato.
I fan dei Genesis hanno apprezzato e i concerti americani sono
stati ovunque un successo.
Scoperti dal produttore Giovanni Amighetti, arrivano in Europa per
un primo tour a cui ne seguiranno molti altri, Italia compresa, fatto
certificato dall’album del 2015 “Live in Italy”.
«Tutto è cominciato per il puro piacere di suonare le canzoni
dei Genesis», afferma Adam, che è poi quello che è accaduto a milioni di
seguaci, mezzo secolo fa.
Vediamo
la set list proposta:
1. The
Fountain Of Salmacis
2. One For
The Vine
3. Seven Stones
4. Stagnation
5.
Entangled
6. Firth
Of Fifth/Supper’s Ready
7. For
Absent Friends/Horizons
8. The
Cinema Show
Ho ascoltato più volte i brani e provo a commentarli (cliccare sul
titolo per l’ascolto)
L’album si apre con “The Fountain Of Salmacis”,
tratto da “Nursery Cryme”, il terzo album in studio dei Genesis
pubblicato nel 1971.
Non si avvertono difficoltà nel catturare trame sonore che da
lustri si è abituati ad ascoltare nella forma "elettrificata” e lo spogliarsi dalla strumentazione
tradizionale permette di far risaltare la melodia, una conduzione
emozionante di un duo geniale.
A seguire “One For The Vine”,
un discreto salto temporale nella discografia dei Genesis, visto che l’album di
appartenenza, “Wind & Wuthering”, è l’ottavo in studio e fu
rilasciato nel 1976, quando la vocalità della band era ormai nelle mani di Phil
Collins.
Trasposizione emozionante, coinvolgente, capace di toccare l’intimo,
sollecitando la memoria, con una proposta che permette la coesistenza di antico
e novità, e l’amore per la musica dei Genesis trova nuove possibilità e
percorsi alternativi.
Il terzo episodio è “Seven Stones”,
anch’esso contenuto in “Nursery Cryme”, canzone che, tranne in una
occasione, i Genesis non hanno mai proposto dal vivo in Italia.
Andamento pacato, come d’altronde accadeva in origine, ma la voce
di Gabriel pare uscire dai tasti del pianoforte mentre la seconda tastiera
realizza il contorno, diventando all’occasione mellotron. Da brividi!
Con “Stagnation” il salto a ritroso è ancora
maggiore, visto che l’album di riferimento è “Trespass”, il secondo in
studio, pubblicato nel 1970, prima dell’entrata di Collins ed Hackett.
Un pezzo di bravura dei due pianisti, forse la traccia che mi ha
dato maggiormente l’idea di “nuovo brano”, un incedere maestoso che disegna
paesaggi e presenta situazioni immaginifiche, una musica che “parla” e arriva a
destinazione.
“Entangled” ci guida verso un altro disco, “A Trick of the Tail”, il settimo in
studio, il primo registrato dopo l'uscita di Peter Gabriel.
Per gli amanti della comparazione evidenzio che è questa la trama
che meno patisce la diversità essendo già in origine pezzo acustico, almeno per
buona parte.
Occhi chiusi e mente libera, le porte si spalancheranno e nuovi
mondi ci verranno incontro.
“Firth Of Fifth/Supper’s Ready” è una miscela esplosiva di oltre
quindici minuti e fa riferimento al capolavoro contenuto in “Selling England
by the Pound” (quinto album in studio del 1973) abbinato alla suite (in
origine di 22 minuti) che conclude “Foxtrot”, il quarto album in studio pubblicato
nel 1972.
Buona parte di “Firth Of Fifth” è riproposta tale e quale, essendo
il pianoforte protagonista anche nell’archetipo. Impressionante la resa che arriva
con il solo finale, quello che Steve Hackett impiegò sei mesi per mettere a
punto sulla sua chitarra.
A metà ecco lo shift verso “Supper’s Rady” e qui diventa
complicata la riproduzione di una canzone che da sola potrebbe rappresentare un
minidisco, per lunghezza e varietà.
Da portare nelle scuole, anche quelle di natura tecnica… la
sensibilità di cui abbiamo bisogno si sviluppa, anche, con queste creature!
Ci si avvicina all’epilogo e si rispolverano due tracce acustiche
e le mani dei due protagonisti disegnano la voce di Gabriel e le dite agili di
Hackett.
Un siparietto breve e di qualità che anticipa l’esplosione finale.
Si termina con “The Cinema Show”,
ancora da “Selling England by the Pound”, oltre dieci minuti di emozione
pura.
Complicato a mio giudizio riproporre la seconda parte dell’originale,
quella caratterizzata da una forte dinamica, capace di fare esplodere il
pubblico in ogni live. Eppure, la forza prorompente rimane intatta e i fraseggi
delle quattro mani mischiano ritmica a melodia, inventando un paradigma che si
avvicina alla perfezione.
Qualche considerazione.
La musica dei Genesis non può prescindere dall’importanza delle
liriche e tanto meno dai vocalist che le hanno proposte, eppure questo tributo
pianistico ai Genesis non perde l’anima di una musica che imperversa da lustri.
Il “prog” ha raggiunto lo status dell’immortalità, proprio come la
“classica”, e questo nuovo volto conferma il mio pensiero.
I Genesis hanno creato una musica che prima non esisteva, difficile
da immaginare/creare/proporre, ma resta come eredità, con la possibilità che il
“primo esempio” possa trovare diramazioni di piena soddisfazione.
Adam Kromelow e Angelo Di Loreto hanno centrato il bersaglio e non
perché ottimi musicisti, ma perché “ottimi musicisti amanti dei Genesis”,
ovvero la passione che tocca e trasforma in positivo.
Il risultato è fornito in questo caso da otto brani totalmente
nuovi, sia per chi è avvezzo alla musica di Banks, Rutherford, Gabriel… ma potrebbe
soddisfare a pieno anche chi casualmente si avvicinasse ora a certe sonorità, a
patto che sia fornito di sensibilità e privo da preconcetti inopportuni.
“GENESIS PIANO PROJECT” è un contenitore musicale magnifico,
proposto da due grandi pianisti e adatto ad un pubblico variegato.
Emozioni a gogo, stimolazioni di immagini e memoria, musica che entra
nell’intimo più profondo e che, in ogni caso, non lascia indifferenti, tra
classica e rock progressivo.
Il rammarico maggiore riguarda il futuro, soprattutto live, anche
se i concerti italiani di questi giorni danno il senso della continuazione, con
Adam Kromelow che continuerà a tener vivo il progetto come solista, in memoria
dell’amico Angelo.
Estrapolo qualche frase significativa dai pensieri espressi da
Adam:
<<Nell’estate del 2018, circa sette anni dopo il primo
incontro, abbiamo registrato questo nostro primo e unico album. Al posto di
prenotare uno studio, il nostro produttore Giovanni Amighetti ebbe l’idea di
registrare in un posto speciale: il luogo nel quale nacquero i Genesis. Ricordo
con piacere il viaggio da Londra a Haslemere e l’emozione che mi travolse
quando passammo da “The Farm”, lo studio dei Genesis. Non avevo realizzato che
eravamo così vicini alla nostra destinazione! Ma stavamo andando da un’altra
parte… e invece l’auto si fermò davanti ad un bellissimo edificio in stile
gotico, situato in mezzo ad un immenso campo nella campagna inglese.
Charterhouse – il collegio dove studiarono insieme Peter Gabriel, Tony Banks,
Mike Rutherford e Anthony Phillips.
È stato davvero fantastico essere lì. La scuola era chiusa per
l’estate e nel cielo splendeva il sole, in un’atmosfera di quiete e pace,
perfetta per fare musica. Registrammo nell’auditorium e ricordo ancora le
parole di Angelo quando vi entrammo per la prima volta: “Chissà se Peter
Gabriel ha cantato in un coro qua dentro”. Stando in quel posto ci sentivamo
ancora più vicini alla band e devo dire che mi ha davvero colpito quanto
fossero giovani quando realizzarono i loro primi album. È parte del genio
innegabile che contraddistingue i Genesis. Avevano solo vent’anni quando
pubblicarono “Trespass”!>>