È arrivata finalmente la prima occasione
per proporre in presenza il libro "Suite Rock-il Prog tra passato e
futuro" (Athos Enrile e Oliviero Lacagnina).
Uscito nel dicembre 2020, aveva
trovato un naturale ostacolo nella pandemia, che aveva relegato a qualche
discussione in remoto qualcosa che andrebbe vissuto in piena condivisione e
partecipazione.
Come è noto non sono queste operazioni
che guardano al businnes, si mette in conto che ci si rivolge ad una nicchia, e
l’unico modo per alimentare la passione musicale, di chi scrive e di chi legge,
è quella di creare occasioni di incontro, magari in diversi punti territoriali.
Dunque, ieri è arrivato il battesimo
alla Ubik di Savona- sempre grazie a Stefano Milano- e quindi il 27 ottobre
del 2022 resterà nella mia memoria come il battesimo del book scritto con
Oliviero.
Cospicuo il pubblico, molti i fedelissimi
ed è già molto così.
Propongo a seguire una pillola dell’incontro,
ringraziando come sempre l’amico Mauro Selis, che ancora una volta si è
prestato nella conduzione dell’evento.
Ed ecco un
esempio di partecipazione… quella di Fabrizio Cruciani.
Iona è stata una band progressive celtic
rock del Regno Unito, formata alla fine degli anni Ottanta dalla cantante
Joanne Hogg e dai polistrumentisti David Fitzgerald e Dave Bainbridge. Troy
Donockley si unì più tardi, suonando flauti e fiati tradizionali vari.
Pubblicarono il loro primo album omonimo nel 1990, quando al duo
formatore si aggiunsero il batterista Terl Bryant, il bassista Nick Beggs (ex
bassista dei Kajagoogoo), Fiona Davidson all'arpa celtica, Peter Whitfield alle
corde, Troy Donockley per le pipe Uilleann e il percussionista Frank van Essen.
Il primo album si concentrò principalmente sulla storia dell'isola di Iona, da
cui la band prese il nome.
Ritornarono all’atto
discografico nel 1992 con “The Book of Kells”, un concept album con
diverse tracce basate sulle pagine dell'omonimo libro.
Il terzo album della band, “Beyond These Shores”, fu pubblicato nel 1993
e includeva come ospite Robert Fripp. L'album era vagamente basato sul
leggendario viaggio di San Brandano nelle Americhe prima di Cristoforo Colombo,
anche se la band non guardava a al progetto come a un rigoroso concept album.
Seguì “Journey into the Morn”, nel 1996, un album più accessibile e
orientato al rock, liberamente basato sull'inno "Be Thou My Vision",
che fu eseguito in gaelico all'inizio dell'album e di nuovo verso la fine. La
cantante della band celtica/new-age dei Clannad fu coinvolta per aiutare Joanne
Hogg con la pronuncia gaelica, e partecipò come voce addizionale.
Alla fine degli anni Novanta seguirono due album dal vivo: il doppio
disco “Heaven's Bright Sun” e “Woven Cord”, che fu eseguito con l'All Souls
Orchestra. Terl Bryant lasciò la band tra questi due album, e Frank van Essen
tornò a riempire il posto vacante, suonando la batteria e il violino.
Dopo essersi svincolati dal contratto con la ForeFront Records e con la
Alliance Records, Iona formò la Open Sky Records per produrre materiale in
modo indipendentemente.
La prima nuova pubblicazione di questa etichetta fu “The River Flows”,
del 2002, che conteneva i loro primi tre album (tutti rimasterizzati e diversi
brani del primo album anche ri-registrati), così come un quarto disco di brani
inediti e rarità chiamato “Dunes”.
I primi tre album sono stati ripubblicati singolarmente, con nuove
copertine.
Il gruppo si è preso una semi pausa per la maggior parte del decennio in
corso, tuttavia, nel 2006 è stato pubblicato un DVD live contente due dischi: “Live
in London”, con un mix 5.1 Dolby Digital Surround di John Kellogg di Los
Angeles, e una versione di un nuovo CD in studio intitolato “The Circling Hour”.
Nel giugno 2009 Troy Donockley ha annunciato che avrebbe lasciato la band.
Con un messaggio sul suo sito web dichiarò:
"Mi sono divertito molto
con i miei amici e sono molto, molto orgoglioso degli album che abbiamo fatto
insieme. Ma, come in tutte le cose della vita, occorre cambiare. Dopo lunghi
periodi di inattività ci siamo trovati con una direzione musicale e filosofica
molto diversa. Ci siamo lasciati come i grandi amici dovrebbero fare, con una
triste felicità, e auguro alla band tutti i migliori auguri per il futuro".
Donockley è attualmente un membro della band punk/folk The Bad
Shepherds. Ha anche suonato nella band di Barbara Dickson per un certo numero
di anni ed è il direttore musicale della band.
È stato sostituito negli Iona dal suonatore di piper e fiati
Martin Nolan.
Nel giugno 2010, il gruppo si è recato negli Stati Uniti per il loro
primo tour dopo nove anni. Il 19 giugno 2010 sono stati molto bene accolti dal pubblico
del NEARfest - un festival progressive rock a Bethlehem, Pennsylvania -, e
durante questo spettacolo hanno proposto nuove canzoni per il successivo album,
“Another Realm”, pubblicato nel 2011, il loro ultimo fino ad oggi. Dopo diversi
concerti negli Stati Uniti e uno in Canada, hanno concluso il tour al
Cornerstone Festival, un festival di musica cristiana in Illinois, il 30
giugno.
L'11 dicembre 2016 la band ha annunciato sulla propria pagina Facebook di
aver sospeso la registrazione e il tour come gruppo, citando altri impegni:
"Non sappiamo cosa accadrà nei prossimi anni, se ci riuniremo di
nuovo come Iona. La porta rimarrà aperta, ma per il futuro, i prossimi ed
emozionanti capitoli del nostro viaggio seguiranno altre strade".
Giuseppe Scaravilli-“Jethro Tull-La
leggenda del flauto nel rock”
Officina Di Hank
Parlare e scrivere sul generico argomento “Jethro Tull” è per
me sempre un piacere, e non starò qui a sottolinearne gli ovvi motivi, ma affrontare
l’argomento attraverso il commento ad un libro, scritto da una persona che si
conosce, diventa qualcosa di più… intimo, quasi un movimento in una zona di
estremo confort, anche se appare imperativo non dimenticare di fornire l’elemento
oggettivo.
Quando conobbi Giuseppe Scaravilliaveva
un flauto tra le mani, e assieme ad Andrea Vercesi si esibì sul “palco pomeridiano”
alla convention dei J.T. di Novi Ligure, quella del 2006, un set acustico a cui
parteciparono anche il duo Lincoln/Lelli e quello Mocchetti /Perlini.
Sono passati molti anni e le vicende di vita si sono
susseguite, e così Scaravilli ha alternato la sua attività musicale con i
Malibran a quella di saggista, sfornando differenti progetti e, visto che siamo
in tema, un bel “Jethro Tull, 1968-1978-The Golden Years”, pubblicato
nel 2018.
Ogni volta che si affronta un argomento musicale specifico,
magari di nicchia ma a lungo perlustrato in precedenza dal mondo giornalistico,
ci si chiede sempre se in effetti ce ne fosse bisogno o se lo sforzo - onerosissimo
- risponda in realtà ad un’esigenza personale, quella che porta a parlare di
colonne sonore di una vita che si vorrebbe condividere coinvolgendo chi nulla o
poco sa, perché quella che si ritiene sia una bellezza assoluta deve trovare,
nella mente di chi scrive, espansione a macchia d’olio. Tutto questo lo deduco,
soprattutto, dalle mie esperienze personali.
Alla fine, può capitare di dire tra sé e sé: “Ma ce n’era
davvero bisogno?”.
Con questa domanda, che spesso mi sono posto in passato, ho
iniziato l’avvicinamento ad un book che alla fine ho divorato in poche ore.
Il motivo è che ho trovato all’interno cose che non
conoscevo, ma tante… e mentre ho dato meno peso a certi elementi storici - come
le seppur utili scalette dei vari concerti - ho trovato invece
interessantissimi certi risvolti anche molto intimi e personali che hanno stimolato
la mia curiosità, portandomi a chiudere cerchi che mai avevano trovato la
fermatura.
Intendiamoci, resta un lavoro per appassionati della band,
come Scaravilli lascia intravedere nella sua introduzione:
“Questo libro, dedicato alla storia dei Jethro Tull,
intende rappresentare un approfondito excursus della loro carriera dagli esordi
ai giorni nostri, con un maggior approfondimento per gli anni che vanno dal
1968 al 1980. Ogni capitolo è dedicato alle uscite discografiche di quell’anno
specifico in ordine cronologico, da “This Was” a “Stormwatch” - il cui tour si
chiuse all’inizio del nuovo decennio - per poi proseguire con capitoli più
riassuntivi ma non meno curati. Sono trattate anche tutte le tournée, i brani
rimasti fuori dai dischi ufficiali, gli aneddoti, i cambiamenti nella
formazione e nei costumi di scena della band, le scalette dei concerti, il
materiale audio e video esistente, le rarità e tante altre notizie forse meno
conosciute ai più… al contrario di altre celebri band degli anni Settanta, in
Italia non esistono molte biografie dedicate ai Jethro Tull e questo volume
spera di colmare questo vuoto, cercando di risultare allo stesso tempo
esaustivo, scorrevole e avvincente.”
Ma perché Mick Abrahams lasciò il gruppo dopo il primo album?
Perché Glenn Cornick fu allontanato? E che accadde a Martin Barre, colonna e
braccio destro di Ian Anderson, licenziato all’improvviso?
Non è gossip, ma storia, e la lettura permette di entrare
maggiormente nelle dinamiche gruppali, realizzando un’analisi basica della
psicologia del “padre padrone” Ian, il vero artefice nel bene e nel male - e su
questo non ci sono dubbi - del fenomeno tulliano.
Il libro avvolge, con la sensazione, a volte, di essere all’interno
del racconto, mentre la musica, parola dopo parola, si materializza nella mente
di chi legge.
Le fotografie di metà libro fanno parte del contesto, e il
loro bianco e nero - forse meramente legato al problema dei costi di produzione
- contribuisce nel realizzare un profumo âgé, che è quello che emerge nel corso
della lettura, nonostante lo spazio temporale analizzato permetta di arrivare
ai giorni nostri.
Che altro aggiungere, un bel volume, scorrevole, importante
dal punto di vista storico, imperdibile per gli appassionati del genere, che
mette in risalto la passione cristallina - e la capacità comunicativa - di
Giuseppe Scaravilli, musicista e scrittore in grado di riannodare i fili del
tempo e le connessioni esistenti tra sentimenti e oggettività.
Prendo in prestito questo articolo apparso su "Ciao 2001", n. 41 del 13 ottobre
1971, per ricordare una delle poche trasmissioni che informavano noi
adolescenti, affamati di musica, ad inizio anni '70, "Per voi
giovani".
Nel filmato a seguire, del 1973, la
voce di Carlo Massarini è coadiuvata da un sottofondo di qualità, Gentle Giant e Yes.
Aria
di ringiovanimento alla trasmissione radiofonica "Per
voi giovani": la popolare rubrica di musica leggera e
dibattiti dedicata ai giovani ascoltatori ha cambiato volto e si presenta al
loro giudizio piena di importanti innovazioni destinate a renderla più
interessante e più rispondente alle loro esigenze sempre più numerose. Molta
strada è stata fatta e molte cose sono cambiate da quando Renzo Arbore ricevette
l'incarico di tenere a battesimo la trasmissione. Soprattutto, quello che è
andato maggiormente evolvendosi è il desiderio dei giovani, il loro bisogno di
essere resi più partecipi di tutto ciò che li circonda. Parlare della musica
leggera e di alcuni problemi di tutti i giorni può esser fatto diversamente e
con toni meno cattedratici di quelli usati negli altri programmi: questo, in
sintesi, il ragionamento da cui si è partiti a viale Mazzini ed attraverso il
quale si sono, via via, dipanate le successive edizioni della rubrica. Ma
rivolgersi ad un pubblico come quello di "Per voi giovani" richiede
anche e soprattutto una semplicità di linguaggio che solo i giovani possiedono
in misura spontanea; da qui la decisione di affidare ad alcuni di essi il
compito di rivolgersi ai loro coetanei dai microfoni di via Asiago. La
decisione, probabilmente non mancò di sollecitare polemiche alla Rai, polemiche
che divennero addirittura furiose allorché questi neo-presentatori
"sgarrarono". Come ricorderete, nel novembre scorso, l'intera
redazione di "Per voi giovani" fu posta sotto accusa poiché, dissero,
i microfoni compilavano un vero e proprio "bollettino di guerra" con
la scusa di informare sulla situazione delle scuole italiane occupate dagli
studenti. Dopo numerose censure ed imposizioni "dall'alto", i
collaboratori della trasmissione si dimisero in blocco con l'intento di far
cessare il clima di terrore che si era venuto ad instaurare, ma non poterono
evitare che Paolo Giaccio, con la scusa ufficiale dei "motivi di
servizio", fosse mandato in castigo in Inghilterra per un certo periodo di
tempo. Questi sono comunque episodi appartenenti al passato e che viale Mazzini
cerca probabilmente di farsi perdonare donando alla trasmissione una nuova e
più organica struttura che, siamo certi, non dovrebbe dispiacere egli
affezionati del programma.
Ma
vediamo insieme in cosa consistono, in pratica, le innovazioni di cui stiamo
parlando: innanzi tutto le "voci"; allo scopo di eliminare quei toni
"professionali" che per forza maggiore anche un dilettante viene ad
assumere inconsapevolmente dopo un certo periodo di tempo, si è pensato di
inserire nuovi personaggi, nuove "voci" nella trasmissione. Ai due
vecchi presentatori Paolo Giaccio e Mario Fegiz sarà
lasciato l'incarico di curare una rubrica il primo, e di dirigere una redazione
a Milano il secondo. Il programma risulterà suddiviso in rubriche, ciascuna
affidata ad una persona, riguardanti gli argomenti più interessanti legati
all'attualità ed al mondo musicale. Queste rubriche saranno chiamate
"spazi" - ed anzi Spazio-Giovani doveva esser il nuovo titolo della
trasmissione, ma poi non se ne è più fatto nulla - e saranno in numero di
sette. Eccole di seguito:
POP-CLUB:
è senza dubbio destinato a ricoprire l'angolo più interessante per gli
appassionati della pop music; curato da Carlo Massarini, lo
"spazio" si ripromette di guadagnare il tempo perduto dalla radio in
fatto di pop negli ultimi cinque anni. In sostanza, poiché la trasmittente
italiana ha cominciato con sensibile ritardo ad interessarsi di questo
importantissimo filone musicale, si cercherò di sopperire a questa carenza
portando a conoscenza del pubblico i long playing di questo periodo scelti fra
quelli dei Cream, dei Traffic, dei Procol Harum prima maniera, di Joe Cocker,
ecc.
LA
POSTA: va da sé che non poteva essere soppresso questo
angolino di dialogo diretto con gli ascoltatori. Questa volta vi provvederà la
giovane Mariù Safier che provvederà anche a presentare
alcuni brevi brani ritmati dalla melodia particolarmente facile e distensiva.
SPAZIO-ROCCHI:
prende il nome dal suo curatore, Claudio Rocchi. Claudio è un
cantautore milanese di vent'anni ottimo conoscitore della produzione
internazionale del folk e del pop. Suo compito sarà quello di scegliere e
proporre agli ascoltatori brani dal repertorio folk e country americano ed
inglese.
SERVIZIO
PARLATO: riguarderà argomenti tra i più diversi ma tutti di
grande interesse ed attualità. Si occuperà di tempo libero, delle nuove
esperienze didattiche di alcune scuole del Nord commentate dagli stessi
studenti, delle comunicazioni di massa, del mondo del lavoro e delle difficoltà
di inserimento in esso da parte dei giovani, di consumi e merceologia, di
incontri e ritratti di ascoltatori. Allo "spazio" collaborerà da
Milano Mario Luzzatto Fegiz.
CANZONI
ITALIANE: la rubrica è curata da Paolo Giaccio ed ha l'intento
di rivalutare, nel piano della trattazione, questo settore precedentemente un
po' trascurato. Proporrà brani che godono di una certa validità autonoma
(Battisti, Mina, De André, Formula 3 e altri) non senza precludersi però la
possibilità di polemizzare con questo o quel cantante o complesso.
SEGNALAZIONE
LIBRO O SPETTACOLO: curato ancora da Mariù Safier, questo
"spazio" si propone di tornare in chiave di recensione su alcuni
fatti di attualità legati a qualche libro o spettacolo.
NOVITA'
33 GIRI: se ne occupa un giovane beat inglese Richard Benson,
che presenterà di volta in volta un nuovo 33 giri legato all'immediata
attualità del pop.
Queste,
dunque, le novità che trovano la loro ragion d'essere in una più impegnata
ricerca del contatto con l'ascoltatore. Ad esso, quindi, il giudizio
definitivo.
Non mi ha mai
fatto impazzire Sandie Shaw… quando ho iniziato
ad ascoltare musica, Stones e Beatles erano il mio pane quotidiano, mentre la proposta
della “cantante scalza” strizzava l’occhio al ritornello facile, ad un’immagine
precisa e ad una certa facilità sonora che mi sembrava inadeguata al nuovo che
avanzava.
Ma ero un
bambino, e a distanza di anni, scevro da alcuni pregiudizi - solo alcuni! - , rivaluto quel periodo
e chi lo ha alimentato.
Beat Club mi
invia una notifica che certifica l’inserimento di un nuovo brano, e dal
cilindro esce fuori la bella Sandie.
A proposito
di camminate “barefoot”, nell'agosto 2007 la cantante ha rivelato di aver
subito un intervento "correttivo" sui suoi piedi, che ha definito
"brutto"; l'operazione chirurgica l'ha lasciata incapace di camminare
per due mesi: forse un paio di ciabattine… all’epoca…
Un minimo di
storia.
Sandie Shaw, pseudonimo
di Sandra Ann Goodrich, nata il 26 febbraio 1947 è una cantante inglese tra le
più famose degli anni Sessanta, soprannominata la cantante scalza per la
sua abitudine di esibirsi sul palco a piedi nudi.
È una delle interpreti
britanniche di maggior successo degli anni ‘60 e ha avuto tre singoli al numero
uno nel Regno Unito con "(There's) Always Something There to Remind
Me" (1964), "Long Live Love" (1965) e "Puppet on a
String" (1967).
Con "Puppet on a String" è diventata la prima
voce britannica a vincere l'Eurovision Song Contest.
È tornata
nella top 40 del Regno Unito dopo quindici anni con la cover del 1984 della
canzone degli Smiths "Hand in Glove". La Shaw ha annunciato il suo
ritiro dall'industria musicale nel 2013.
Beat-Club, nella sua opera di lento rilascio
del materiale di proprietà, propone ultimamente Cat
Stevens e uno dei suoi primi brani, “Matthew & Son”, contenuto nell’omonimo album di
esordio pubblicato il 10 marzo 1967 dall'etichetta discografica Deram.
Qualche nota succinta relativa alla sua storia...
Yusuf Islam (nato Steven Demetre
Georgiou il 21 luglio 1948), comunemente noto con il nome d'arte di Cat Stevens
e in seguito Yusuf, è un cantautore e polistrumentista britannico. Il suo stile
musicale è composto da folk, pop, rock e, nella sua carriera successiva, musica
islamica. È stato inserito nella Rock and Roll Hall of Fame nel
2014.
Il suo album di debutto del 1967 ha
raggiunto la top 10 nel Regno Unito e la sua title track, "Matthew and Son",
ha raggiunto il numero 2 nella UK Singles Chart.
Gli album di Stevens, “Tea for the
Tillerman” (1970) e “Teaser and the Firecat” (1971) sono stati certificati
triplo disco di platino negli Stati Uniti dalla RIAA.
Il suo album del 1972 “Catch Bull at
Four” è stato per tre settimane al numero uno della Billboard 200 e quindici
settimane al numero uno nelle classifiche australiane ARIA.
Ha vinto due premi ASCAP per la
scrittura di canzoni nel 2005 e nel 2006 per "The First Cut Is the
Deepest".
Le
sue altre canzoni di successo includono "Father and Son", "Wild
World", "Moonshadow", "Peace Train" e "Morning
Has Broken". Nel 2007 ha ricevuto l'Ivor Novello Award for Outstanding
Song Collection dalla British Academy of Songwriters, Composers and Authors.
“Questo album (il quarto in
studio), distribuito da Ma.Ra.Cash Records, rimarrà un album unico per i
Phoenix Again, poiché il prossimo rimarcherà le nostre sonorità più Prog-rock…”.
È questa la frase che apriva la chiacchierata tra me e la band in occasione
dell’uscita di “Friends of Spirits", dei Phoenix Again, acustico e quindi anomalo
rispetto al loro standard.
Prima di ciò la loro discografia
poteva contare su "Threefour" (2010), "Look out"
(2014) e "Unexplored" (2017).
Era l’estate del 2019, l’ultimo anno “moderato”,
prima degli sconvolgimenti che sembra non abbiano ormai una fine.
Per tentare di mantenere a debita
distanza la catastrofe proviamo ad usare la musica, da ascoltatori con un ruolo
spesso passivo, da creatori con un impegno totale e una dedizione che sa di
religioso, di spazio aulico.
I Phoenix Again ritornano dopo aver
messo a frutto la sosta forzata, e la sintesi del loro lavoro si esplicita con
l’album “Vision”, oltre cinquanta
minuti di musica strumentale che pare non avere riferimenti certi, perché la
regola è non aver regole, perché il concetto di musica prog - quello che la
band predilige - è sinonimo di contaminazione, di libertà assoluta, di trame
complicate per i comuni mortali, di piacevolezza d’ascolto.
Come spesso accade in occasione di un nuovo rilascio discografico, ho realizzato una piccola ma esaustiva intervista che propongo a fine
articolo, un aiuto per l’ascolto.
Sono 9 le tracce, nuove composizioni
e alcuni brani recuperati - e rivisitati -dall'archivio dei P.A.
È oggettivamente molto complicato
identificare i messaggi in un album privo di liriche, ma sarebbe un errore
pensare di evitare l’argomento o meglio, immaginare che le sonorità siano solo la
sintesi di competenze che producono atmosfere più o meno piacevoli. La musica
che scaturisce da “Vision”, brano dopo brano, racconta alle persone
dotate di un minimo di sensibilità e virtuosismo basico un percorso, una
commistione di ricordi e attualità, un rivangare nel contenitore delle memorie ed
esperienze che si trasforma in reazione sonora, una tela che a poco a poco si
riempie prendendo significato, e la magia sta nel far propria la musica dei
P.A. e rileggerla in modo personale, creando così mille storie, forse lontane
dagli intendimenti iniziali, ma in fondo è questo lo scopo della condivisione,
soprattutto quando parliamo di musica slegata da rigidi schemi.
A seguire propongo un esempio
concreto con “Threefour”, ma alla prima occasione aggiungerò la traccia
che più mi ha entusiasmato, “Psycho”, brano complicatissimo che a tratti
mi ha regalato il profumo dei primi Gentle Giant.
Ma tutto l’album viaggia su sentieri inusuali,
difficili da percorrere, non certo per tutti, ma entusiasmanti per chi ama la
musica progressiva.
Il rock si mischia al jazz, alla
classica, al folk… nessun punto di riferimento certo ma la sicurezza che ad ogni
svoltare d’angolo una novità sia pronta a sbocciare.
Io l’ho riascoltato a più riprese, trovando
ogni volta nuovi e positivi punti di approccio, davvero un bel disco.
Consigliato vivamente, la delusione è
bandita!
L'intervista...
Sono passati tre anni dall’uscita di "Friends
of Spirits", una parentesi semiacustica nel vostro normale percorso:
possiamo dire che il vostro nuovo lavoro, "Vision", è il frutto della
sosta forzata legata alla pandemia?
Sicuramente, abbiamo lavorato al nuovo album in questi due anni di
pandemia, avevamo alcuni brani sui quali lavorare, il tempo non mancava vista
l’impossibilità di fare altro, causa restrizioni governative.
Che musica proponete ora con il nuovo
disco?
Con “Vision” torniamo a sonorità più vicine ai primi tre album, Prog, Rock,
Jazz Rock, Psichedelico, Classica e Folk; chi ci segue sa che noi ci divertiamo
a mescolare tanti generi, per noi “progressive” vuol dire contaminazione.
In un lavoro strumentale i titoli
appaiono come elemento chiarificatore: che cosa volete esprimere oltre alla
musica?
I titoli dei nostri brani sono dettati dalla sensazione che il brano ci dà;
nel nuovo album ci sono vecchi pezzi presi dal nostro archivio e riarrangiati, altri
nuovi composti nel periodo covid (il brano acustico “Threefour” era stato
pubblicato su youtube nel periodo pandemico, ognuno di noi aveva registrato la
sua parte in casa). Con la nostra musica vogliamo esprimere una “Visione”
futura con tante contaminazioni, è il nostro marchio di fabbrica oramai, cerchiamo
sempre di stupire e disorientare il nostro pubblico spaziando nei vari generi
cercando di uscire da certi schemi preordinati.
Il nucleo è consolidato ma altri
musicisti hanno collaborato con voi: me ne parli?
Certamente, ringraziamo con tutto il cuore i musicisti e collaboratori
che hanno contribuito a questo album, iniziando da Emilio Rossi - titolare del
Phoenix Studio - per i mixaggi e la pazienza; Daris Trinca al glockenspiel in
“Overture”; Annibale Molinari al corno; Lorenzo Poletti al trombone; Erika
Marca alla tromba in “Propulsione”; Giovanni Lorandi, Alessandra Lorandi, Karin
Pilipp, Simona Cecilia Vitali ai Cori in “Propulsione”.
Non ho in mano il lavoro fisico per
cui ti chiedo di darmi qualche delucidazione sull’artwork.
La grafica è di Andrea Piccinelli, la copertina un quadro ad olio su
masonite di Claudio Lorandi, titolo dell’opera “Oriente”, 1993.
Possiamo dire che “Vision” si lega a
qualche lavoro precedente e mantiene una certa continuità?
Certamente, si lega soprattutto ai primi tre album; in questo lavoro
hanno lavorato molto di più sugli arrangiamenti i giovani, Andrea Piccinelli in
primis sulle parti di tastiera e non solo.
Lo proporrete dal vivo?
Stiamo provando il nuovo repertorio per poterlo presentare live nel 2023,
abbiamo già alcune data all’estero e ne stiamo valutando e trattando altre, spero
arrivino anche proposte dall’Italia, pensiamo di iniziare i live verso la fine
di gennaio/inizio febbraio 2023, stiamo provando tutti i pezzi con il nuovo chitarrista
Alessio Bolpagni, new entry nei Phoenix Again in sostituzione di Marco Lorandi
che si prenderà un periodo sabbatico per motivi di lavoro e personali.
The Moveè stato uno dei gruppi rock
inglese di punta negli anni Sessanta. È loro è l'interpretazione
di Blackberry Way, (composta musica e parole da Roy Wood) che l'Equipe
84 farà conoscere in Italia con il titolo di Tutta mia la città.
Sebbene il
bassista-cantante Chris "Ace" Kefford fosse il leader della
band, per la maggior parte della carriera i Move ebbero come driver il
chitarrista, cantante e compositore Roy Wood. Lui compose tutti i
singoli del gruppo usciti in Regno Unito e dal 1968 cantò anche come voce
principale in molte canzoni, sebbene Carl Wayne fosse stato il cantante
ufficiale fino al 1970.
Inizialmente la band
aveva quattro cantanti (Wayne, Wood, Trevor Burton e Kefford).
Il gruppo, col tempo,
si evolse dalla formazione iniziale degli anni ‘60 a Birmingham, includendo
Carl Wayne and the Vikings, The Nightriders e The Mayfair Set.
"The Move",
il nome del gruppo, è riferito allo spostamento dei vari membri di queste band,
che ha permesso al gruppo di formarsi.
Accanto a Wood, nella
formazione originale dei Move nel 1965, troviamo alla batteria Bev Bevan,
al basso Chris Kefford, alla voce Carl Wayne e alla chitarra Trevor
Burton.
La formazione finale
del gruppo (del 1972) invece trova il trio composto da Wood, Bevan e Jeff Lynn,
che avevano formato dalle ceneri dei Move la Electric Light Orchestra.
Fino al 2007, Burton e
Bevan si sono esibiti sotto il nome di 'The Move feat. Bev Bevan and Trevor
Burton'.
Album in studio:
1968 - Move
1970 - Shazam
1970 - Looking On
1971 - Message from the Country
EP
1968 - Something Else from the Move
Live
2012 - Live at the Fillmore 1969
Formazione:
Roy Wood
(UK, 1946): chitarra, voce.
Carl Wayne:
(nome d'arte di Colin David Tooley; UK 1943-2004): voce (1968-1970).
Bev Bevan (UK,
1946): batteria, voce.
Chris Ace Kefford: basso, voce (1968-1969).
Trevor
Burton (UK, 1946): chitarra, voce.
Jeff Lynne
(UK, 1947): chitarra, pianoforte, voce (1970-1971).
Parto per una volta dalla sintetica
presentazione dell’autore, in questo caso più volte presente nei miei spazi e
collaboratore di MAT2020, un amico oltre che musicista e saggista. Parlo del
genovese Antonio Pellegriniche sintetizza così la sua storia:
Musicista, scrivo canzoni, saggi
musicali e spettacoli teatrali. Ho pubblicato i volumi “The Who e Roger Daltrey
in Italia” (2016) e “Italian Rhapsody. L'avventura dei Queen in Italia” (2019).
Da 10 anni pubblico articoli di critica musicale sul mio blog www.antoniopellegrini.bloge collaboro con web magazine e riviste.
La prima cosa che salta agli occhi e
che evidenzio in ogni occasione è quella che Pellegrini si è innamorato di
musica che non gli appartiene temporalmente parlando, il che mi porta a due
considerazioni: la prima è che esistono nicchie/generi che hanno guadagnato
l’immortalità sfidando le barriere generazionali e la seconda è che Antonio è
un giovane curioso, che non si è lasciato intimidire dai dictat imposti dal
maistream ma è arrivato a formulare giudizi dopo attenti ascolti e cernite
oculate. E poi esiste l’istinto, quella reazione a volte scomposta, di pancia,
che porta ad innamorarsi di una canzone senza riuscirne a capire il motivo,
salvo poi che riascoltandola a distanza di tempo le sollecitazioni della
memoria porteranno scombussolamenti che sfoceranno in una miriade di
sentimenti.
C’è rock e rock; difficile spiegare
perché, parlando di band coeve, esistessero un tempo battaglie adolescenziali
per sottolineare come i Led Zeppelin fossero più bravi dei Deep Purple, o
viceversa.
Gli Who, a mio giudizio, sono
un’altra cosa, e anche se il mio pensiero non è richiesto - seppur conosciuto
da chi mi ha frequentato - mi fa molto piacere parlarne sotto forma di commento
ad un nuovo lavoro dell’autore, ancora dedicato alla band londinese.
Il suo primo impegno era incentrato
sui concerti italiani, non molti a dire il vero, e il titolo era, come già
sottolineato, “The Who e Roger Daltrey in Italia”.
La nuova ricerca, uscita il 2
settembre per Arcana Edizioni si intitola "The Who. Long Live Rock", ovvero la
biografia dei The Who con la prefazione curata dal giornalista Antonio
Bacciocchi, un allargamento dell’analisi del 2017 con l’integrazione di
contributi interessanti, come le molteplici testimonianze dei fan italiani (tra
cui i VIP Carlo Verdone e Carlo Basile) e alcuni contenuti esclusivi: una
chiacchierata con l’ex Who Kenney Jones, il pensiero del bassista dei Kinks
John Dalton, l’intervista a Simon Townshend (fratello di Pete) e il ricordo di
Peter Twinn, ormai “italiano”, ma presente il giorno in cui Pete Townshend
distrusse la sua prima chitarra.
La lettura del tomo biografico di
Pete Townshend, uscito qualche anno fa, è probabilmente quella che garantisce
di entrare maggiormente nell’intimo della band, seppure incida la ovvia visione
soggettiva, ma la sintesi realizzata da Pellegrini ha il pregio di una certa
schematizzazione cronologica interrotta, o meglio inframmezzata, dai vari
contributi e dalla discografia essenziale, con le parole dei protagonisti che
si miscelano a quelle dei fan.
Una sorta di bignami molto ricco ed
esaustivo, un lavoro complicato se si pensa che sono trascorsi 60 anni,
intensi, dolorosi, emozionanti, per Pete e colleghi, of course, ma anche per
tutti quelli che hanno seguito le loro vicende realizzando nel tempo che quelle
canzoni erano diventate la colonna sonora della vita e al contempo la misura
dello scorrere del tempo.
Ho raccontato anche alle pietre che
quando ascoltai per la prima volta “Substitute” portavo i pantaloni
corti e ancora oggi la musica degli Who mi pare fresca e godibile, il vero rock
che ho sempre desiderato.
Antonio Pellegrini ci sintetizza tutto
questo, con i suoi occhi un po' più “giovani” e probabilmente con il giusto
distacco, quella misura che serve a chi vuole condividere non solo le proprie
passioni, ma delineare al contempo eventi storici e intrecci non sempre facili
da comprendere e assimilare.
Non vorrei andare oltre perché il mio
compito in questo ambito è solo quello di stimolare la curiosità, senza
spoilerare… la fine del giallo…
Ci tengo però a utilizzare le parole
di Pete Townshend usate dall’autore a conclusione del volume:
“Non siamo rimasti insieme per i
soldi. Quello che ci legava era l’incredibile euforia che provavamo ad ogni
concerto, l’eccitazione del contatto con il pubblico… l’energia dei concerti
dal vivo e del successo ci dava molto di più che non i soldi che guadagnavamo”.
Così disse l’uomo che ha vissuto
dieci vite in una, il simbolo del rock, un uomo che aveva in testa il
collegamento totale virtuale quarant’anni prima che venisse realizzato.
Antonio Pellegrini coglie tutto
questo e lo sintetizza per noi.
Non lasciatevi sfuggire l’occasione, gli
Who non moriranno mai e "The Who. Long Live Rock" ci ricorda -
e ci ricorderà - che il rock, quello che esprime disagio e gioia e che ci
accompagna nel quotidiano, è qualcosa di estremamente serio, maledettamente
serio!
Molto belle le fotografie in bianco e
nero che riportano all’essenza dell’epoca e quindi… non resta che iniziare la
lettura!
Alessandro e Gian Pietro Seravalle, ovvero Officina F.lli Seravalle, aggiungono un quarto
atto alla loro discografia: il titolo è “Ledrôs”.
Il loro pensiero, snocciolato nello svolgimento dell’articolo,
risulta fondamentale per comprendere appieno i significati e gli intenti del
progetto, perché appare difficoltoso - almeno per me - dare il giusto risalto ad un album che ha
bisogno di decodificazione per poter essere apprezzato a fondo, conoscendone i
dettagli e avendo chiarezza degli intenti che hanno guidato gli autori nella
nuova esperienza.
Trattasi di una sorta di concept che chiude la trilogia
iniziata con “Tajs!” e proseguita con “Blecs”, termini friulani
che corrispondono alle parole “Taglio, Rattoppo”, mentre l’ultima
“traduzione” riporta al significato di “Rovescio”.
Ma è su quest’ultimo termine che occorre soffermarsi, immaginando
che sia utilizzato per invertire il normale punto di vista umano, rivolgendo lo
sguardo verso noi stessi, con una osservazione di tipo immateriale che può
portare alla comprensione, all’accettazione, al rispetto e probabilmente alla
crescita. Ma esiste anche una perlustrazione più fisica, che lega la conoscenza
perfetta del proprio corpo a reazioni ingiudicabili dall’esterno.
E poi troviamo anche un’altra chiave di lettura, quella che “ribalta”
il pensiero comune, l’ortodossia, il pensare codificato che impone regole e
ruoli.
Tutto questo ha mosso i Seravalle nella creazione di un disco
che, come sempre accade in questi casi, resterà per pochi, e di questo sono consci.
Ma al di là dell’intellettualismo che muove le trame di “Ledrôs”,
esiste l’aspetto musicale che mi pare davvero variegato e fruibile anche senza
la continua didascalia.
Gli autori definiscono la loro musica etichettandola come
esempio di “eterogenea omogeneità”, un accostamento contrastante ma spiegabile
con una serie di proposte molto variegate tra loro - e qui risiede l’eterogeneità
- ma filtrate e modellate dalle due figure di garanzia - gli autori - che vigilano, si muovono e selezionano affinché agisca efficacemente il collante che deve mantenere
assieme i singoli episodi.
La libertà - controllata - predomina, con l’elettronica che
si miscela all’avanguardia, la musica progressiva al jazz, passando per una
buona dose di sperimentazione.
Il termine da loro coniato è “musica officinalis”, ma nell’intervista
a seguire tutto si chiarirà.
L’effetto sorpresa è salvaguardato, e ad ogni giro d’angolo
si incontra ciò che non si aspettava di vedere/ascoltare, ma non penso l’obiettivo
abbia a che fare con la capacità di stupire, ma piuttosto si voglia dare seguito
ad esigenze personali, urlando la propria visione del mondo con la frustrazione
- almeno credo - che la condivisione seguirà una via contenuta, se rapportata
alle reali possibilità.
Ho ascoltato la prima volta “Ledrôs” nel corso di un
viaggio, in totale solitudine, potendo così godere dei particolari che emergono
quando si ha la possibilità di concentrarsi. Nei successivi due ascolti ho
pensato che l’album potrebbe essere vissuto, anche, con una certa semplicità,
lasciandosi andare.
Qualunque sia la fruizione… un gran lavoro, in mezzo a tanta
mediocrità.
A fine articolo propongo un video estratto dell’album.
L’intervista…
“Ledrôs” è il vostro quarto album: che cosa lo
lega ai precedenti?
Credo
sia individuabile una certa continuità nel metodo di lavoro che ci siamo
dati. Il rimbalzo d’idee da uno all’altro è alla
base della struttura stratificata delle composizioni. Questo metodo causa
sovente una profonda metamorfosi dell’idea di partenza, talvolta, dopo essere
passati attraverso questo processo ricorsivo, i brani ne escono completamente
trasfigurati rispetto al nucleo generativo del brano stesso. Solo per fare un
esempio: “Sublime futilità”, nasce come una composizione
puramente timbrica e, mediante la procedura di cui sopra e grazie anche all’intervento
alle trombe e al flicorno di Zeno Tami, per dire quanto anche gli ospiti, cui
lasciamo libertà totale, abbiano la possibilità d’incidere in questo sviluppo, diventa qualcosa di
completamente diverso, assolutamente irriconoscibile rispetto a quando il puro
timbro che la costituiva è entrato nel meccanismo di “rimbalzo”
e di stratificazione. Questo da un punto di vista strettamente musicale. Concettualmente invece Ledrôs costituisce, con le due opere precedenti “Tajs!” e “Blecs”, una sorta di
trilogia.
Si tratta di concept album di tipo, diciamo così, non narrativo. Quello che intendo è che il collante non è una
storia (come può essere The lamb lies down on
Broadway dei Genesis ad esempio), ma la proposizione di diversi aspetti di
un medesimo concetto portante. In questo senso decisive sono le brevi
presentazioni che compaiono nei libretti dei dischi cui rimando i lettori. Sono
quelle che stabiliscono il mood teorico-speculativo di base dei singoli dischi
riassunti in una singola parola friulana dai titoli. Dunque, la nozione di
“taglio” in tutte le sue possibili declinazioni (taj in friulano significa
esattamente questo), quella di “rattoppo” (blec in friulano) e quella di
“rovescio” (ledrôs).
Mi
racconti l’idea, il pensiero, i concetti che si celano dietro ad una proposta
come “Ledrôs”?
A questo
punto mi stimoli a riportarti le note di copertina di cui sopra perché, dopo averle meditate per qualche tempo, le trovo
sufficientemente esaurienti ed esplicative: «Ledrôs è il friulano per “rovescio”. L’idea che percorre l’opera
(per fuggire in differenti direzioni in barba al principio di non
contraddizione visto qui come simbolo del “dritto” che critichiamo) è duplice:
da un lato lo sguardo che si rovescia verso l’interno, rapidi raggi di tenue
luce illuminano gli anfratti interiori, occhi indagatori catturano luci oscure,
secrezioni (non soltanto biochimiche) e silenzi del corpo (G. Ceronetti), come
pure manovre evasive, inchiostri di seppia che nascondono alla vista e
proteggono colui che ci abita (B. Gracián); dall’altro il ribaltamento del
pensiero comune. E così la chiaroveggenza diventa nefasta (E. Cioran) mentre la
futilità diviene sublime (O. Spengler), Prometeo mostra il suo volto atroce e
chiama il suo negativo (di nuovo Cioran), i ricchi completano la loro
rivoluzione nascosta ai danni di coloro che niente possiedono (W. Brown),
Oblomov (I. Gončarov) si staglia a modello per un’umanità che, a causa della
sua brama di azione, prepara la propria autodistruzione e avvelena la biosfera
mentre il pianeta Terra, indifferente al destino di ogni essere vivente,
continua tranquillamente a orbitare… e poi digressioni più o meno distanti… autostrade,
bizzarri luoghi di stordimento, il vino e le volute di fumo, la fabbrica, la
più bella tra le città… unitevi a noi in un volo radente e rovesciato su
paesaggi imprevedibili.
Dal
punto di vista meramente musicale come definiresti il vostro nuovo lavoro?
Definire
non è mai operazione semplice. Vorrei dunque utilizzare un
ossimoro in quanto lo ritengo l’artificio retorico più adatto, insieme forse alla metafora, per tentare di cogliere
qualche atomo di verità. Mi richiamo quindi a una
“eterogenea omogeneità”. Il disco presenta soluzioni
musicali tra le più distanti, si passa dall’avanguardia
con richiami alla musica colta post-weberniana di Di refosco e di ghigno, alla techno
di Retinal fetish, alla fusione di
queste due istanze (Vignesia, il cui
videoclip è stato curato da Selene Caisutti,
figlia maggiore di mia moglie), dal chill-out
de Il silenzio del corpo al jazz-rock
alieno di Néfaste clairvoyance
e L’antiprometeo passando per il progressive rock di A4 – driving the moon home e Terzo
turno, il rock elettronico di Elogio
di Oblomov e Stealth revolution,
il soul di altre galassie di Sublime futilità e la dark-ambient di Jibias de interioridad. Ovviamente queste etichette sono puramente
didascaliche, i generi, ammesso che esistano, qui si avviluppano l’uno
sull’altro, s’intersecano, figliano creature estranee. L’omogeneità è invece
garantita dalle nostre personalità artistiche che, in modo del tutto spontaneo
e direi anche inevitabile, filtrano, macinano, digeriscono e rielaborano in
modo peculiare quelle che vengono chiamate “influenze”, restituendo poi
un’opera che, auspicabilmente, è segnata da un grado di originalità (e di
autenticità che le due cose vanno spesso di pari passo) non indifferente.
Elettronica,
sperimentazione, avanguardia… esiste un’etichetta che vi pare calzante per descrivere
la vostra musica a chi non la conoscesse?
Proprio
in virtù dell’impossibilità di applicare un’etichetta univoca alla nostra musica ci
siamo inventati l’idea di musica
officinalis, espressione che compare in una sorta di manifesto che scrivemmo
all’epoca del primo disco (Ûs frais cros fris fics
secs). Ecco
un estratto: “…è musica eterogenea, mai disposta a riposare su
posizioni acquisite, dallo stile volutamente zigzagante. Niente linee
predefinite qui, ogni impulso all’operare
è accolto e trasformato in musica, ogni sensazione diventa occasione per un
viaggio sonoro. È musica officinalis, dotata di proprietà terapeutiche,
cura contro le derive logoranti della vita quotidiana”.
Esiste
all’interno di “Ledros” una traccia che può essere considerata rappresentativa
dell’intero disco?
Direi
proprio di no proprio in virtù dello “zigzagare” di cui sopra.
Certo ci sono brani un po’ più “convenzionali” (consentimi il
virgolettato) e altri invece totalmente inauditi, nel senso etimologico del
termine. Si tratta di composizioni che non potevano che erompere che da noi due
e che non trovano paragoni possibili in dischi di altri artisti, o almeno io,
che pure sono un ascoltatore onnivoro, non ne sono a conoscenza. In questo
senso credo che Di refosco e di ghigno,
senza dubbio il brano più ostico del lotto, sia paradigmatico.
Tuttavia, non direi che sia più rappresentativo di altre composizioni
presenti nell’opera.
Ne
approfitto per chiederti qual è il tuo/vostro giudizio lo stato attuale della
musica: ci sono spazi e speranze per la proposta di qualità?
Sono un
pessimista cosmico e tuttavia ritengo che qualche spazio ci sia. Naturalmente
poi bisogna capire quali siano le aspettative. Se ci si aspetta che un progetto
avantgarde come il nostro posso
assurgere non dico a fenomeno di massa ma, anche solo trovare spazio in una
scena di nicchia troppo spesso purtroppo sclerotizzata come quella del rock
progressivo vuol dire che si vive su Marte. E tuttavia il semplice fatto che io
stia qui a parlarne con te implica che uno spazio di manovra, benché estremamente risicato, esiste. Certo, sfortunatamente la
musica è la forma d’arte, assieme forse al cinema, che più di ogni altra a subito il pernicioso fenomeno di
mercificazione di cui già nel 1949
parlava Adorno.
Si tratta di costruirsi delle “nicchie ecologiche” in cui far prosperare la
musica come forma artistica espressiva e terapeutica e di non lasciarsi toccare
dalla frustrazione. Una cosa sono i prodotti musicali non dissimili da un
detersivo, dunque mera merce, un’altra le proposte miranti a espressione e
autenticità. Tenendo questi due mondi ben
separati non c’è frustrazione alcuna nel vedere il
becerume trionfare. In questo senso, come del resto insegna Robert Fripp, il
dilettantismo (ancora una volta si colga la parola nel senso etimologico) è un’ottima risposta.
Esiste
una band o un artista che vi ha più di altri influenzato nella costruzione del
nuovo album?
Sono
fermamente convinto che l’originalità assoluta sia una chimera, nemmeno
Arnold Schönberg è stato “assolutamente originale”. Tutti veniamo da un
retroterra, subiamo influenze, siamo immersi in un mondo. Tuttavia, ritengo
anche che le influenze non debbano essere un fatto voluto, non si dovrebbe
comporre alla maniera di qualcuno, esse dovrebbero agire in modo carsico,
sotterraneo e del tutto inconscio. Suppongo che per Officina funzioni esattamente così e dunque che queste suggestioni, certamente presenti,
emergano involontariamente ed è questo aspetto a garantire la nostra
originalità, ben inteso relativa, rispetto a
troppa musica costruita con gli stampini che disgraziatamente imperversa anche
nell’underground e non soltanto nella
musica mainstream di consumo.
Come lo
pubblicizzerete?
Molto
semplicemente grazie alla benevolenza e all’attenzione di persone come te (ti
prego di credermi, non si tratta di una sviolinata). Ogni occasione per far
conoscere il nostro approccio alla musica è
benvenuta. Quindi recensioni, interviste, apparizioni in radio o in televisione
sono il mezzo d’elezione per promuovere una musica che, a ben guardare, non è così “difficile” come si sarebbe propensi
a pensare. Il fatto che Officina F.lli
Seravalle non rinunci praticamente mai all’elemento groove fa sì che anche gli esiti timbricamente o
compositivamente più sperimentali si vestano in modo tale
da poter davvero essere gustati da chiunque. Si tratta soltanto di “dare una
possibilità” a qualcosa che esca dal solito
seminato. Se i grandi gruppi progressive
del passato non avessero osato allontanarsi dai cliché allora imperanti non avremmo avuto i grandi capolavori che
tutti amiamo. Se insisteremo a riproporre quei modelli non faremo altro che
tradire lo spirito del rock progressivo a vantaggio di una pedissequa
riproposizione della sua lettera. Non mi sembra una scelta illuminata.
Vista la
presenza di “guests”, un album come “Ledros” può essere riproposto facilmente
dal vivo?
Senza
dubbio la presenza di ospiti complica ancora più una faccenda già molto complessa a causa delle molte
sovraincisioni di cui io e mio fratello siamo protagonisti. La veritàè che Officina F.lli Seravalle non è
interessata a proporre un classico concerto frontale, col gruppo sul palco e il
pubblico, appunto, di fronte. Saremmo invece attratti dall’idea, invero più o meno inattuabile in termini economici, di realizzare uno
spettacolo multimediale che coinvolga immagini, danza, video-art e action painting senza che noi si debba
per forza essere sul palco. Vorremmo invece starcene tra il pubblico senza
suonare, con la musica che esce così com’è stata concepita dai diffusori direttamente dal disco. Una
fantasia forse…
Officina F.lli Seravalle – Ledros
Label: Officina F.lli Seravalle – Ledros
ZeiT Interference – ZEITCD015
Format: CD, Album
Country: Italy
Released: 2022
Genre: Electronic, Rock
Style: Prog Rock
Tracklist
1-Elogio di Oblomov-5:02
2-Di Refosco E Di Ghigno-8:42
3-Il Silenzio Del Corpo-5:10
4-Nefaste Clairvoyance-5:01
5-Vignesia-3:32
6-A4
- Driving The Moon Home-3:36
7-Stealth
Revolution (from The Top Down)-6:29
8-L'Antiprometeo-6:02
9-Sublime Futilità-5:00
10-Retinal Fetish-4:53
11-Jibias
de Interioridad (against The Eye Of The Lynx, The Ink Of The Cuttlefish)-2:54