venerdì 28 ottobre 2022

La prima presentazione... in presenza di "Suite Rock-il Prog tra passato e futuro"

È arrivata finalmente la prima occasione per proporre in presenza il libro "Suite Rock-il Prog tra passato e futuro" (Athos Enrile e Oliviero Lacagnina).

Uscito nel dicembre 2020, aveva trovato un naturale ostacolo nella pandemia, che aveva relegato a qualche discussione in remoto qualcosa che andrebbe vissuto in piena condivisione e partecipazione.

Come è noto non sono queste operazioni che guardano al businnes, si mette in conto che ci si rivolge ad una nicchia, e l’unico modo per alimentare la passione musicale, di chi scrive e di chi legge, è quella di creare occasioni di incontro, magari in diversi punti territoriali.

Dunque, ieri è arrivato il battesimo alla Ubik di Savona - sempre grazie a Stefano Milano - e quindi il 27 ottobre del 2022 resterà nella mia memoria come il battesimo del book scritto con Oliviero.

Cospicuo il pubblico, molti i fedelissimi ed è già molto così.

Propongo a seguire una pillola dell’incontro, ringraziando come sempre l’amico Mauro Selis, che ancora una volta si è prestato nella conduzione dell’evento.




Ed ecco un esempio di partecipazione… quella di Fabrizio Cruciani.




Qualche fotografia...







mercoledì 26 ottobre 2022

IONA, la meraviglia del progressive celtic rock


Iona è stata una band progressive celtic rock del Regno Unito, formata alla fine degli anni Ottanta dalla cantante Joanne Hogg e dai polistrumentisti David Fitzgerald e Dave Bainbridge. Troy Donockley si unì più tardi, suonando flauti e fiati tradizionali vari.

Pubblicarono il loro primo album omonimo nel 1990, quando al duo formatore si aggiunsero il batterista Terl Bryant, il bassista Nick Beggs (ex bassista dei Kajagoogoo), Fiona Davidson all'arpa celtica, Peter Whitfield alle corde, Troy Donockley per le pipe Uilleann e il percussionista Frank van Essen. Il primo album si concentrò principalmente sulla storia dell'isola di Iona, da cui la band prese il nome.

Ritornarono all’atto discografico nel 1992 con “The Book of Kells”, un concept album con diverse tracce basate sulle pagine dell'omonimo libro.

Il terzo album della band, “Beyond These Shores”, fu pubblicato nel 1993 e includeva come ospite Robert Fripp. L'album era vagamente basato sul leggendario viaggio di San Brandano nelle Americhe prima di Cristoforo Colombo, anche se la band non guardava a al progetto come a un rigoroso concept album.

Seguì “Journey into the Morn”, nel 1996, un album più accessibile e orientato al rock, liberamente basato sull'inno "Be Thou My Vision", che fu eseguito in gaelico all'inizio dell'album e di nuovo verso la fine. La cantante della band celtica/new-age dei Clannad fu coinvolta per aiutare Joanne Hogg con la pronuncia gaelica, e partecipò come voce addizionale.

Alla fine degli anni Novanta seguirono due album dal vivo: il doppio disco “Heaven's Bright Sun” e “Woven Cord”, che fu eseguito con l'All Souls Orchestra. Terl Bryant lasciò la band tra questi due album, e Frank van Essen tornò a riempire il posto vacante, suonando la batteria e il violino.


Dopo essersi svincolati dal contratto con la ForeFront Records e con la Alliance Records, Iona formò la Open Sky Records per produrre materiale in modo indipendentemente.
La prima nuova pubblicazione di questa etichetta fu “The River Flows”, del 2002, che conteneva i loro primi tre album (tutti rimasterizzati e diversi brani del primo album anche ri-registrati), così come un quarto disco di brani inediti e rarità chiamato “Dunes”.
I primi tre album sono stati ripubblicati singolarmente, con nuove copertine.

Il gruppo si è preso una semi pausa per la maggior parte del decennio in corso, tuttavia, nel 2006 è stato pubblicato un DVD live contente due dischi: “Live in London”, con un mix 5.1 Dolby Digital Surround di John Kellogg di Los Angeles, e una versione di un nuovo CD in studio intitolato “The Circling Hour”.

Nel giugno 2009 Troy Donockley ha annunciato che avrebbe lasciato la band.
Con un messaggio sul suo sito web dichiarò:

 "Mi sono divertito molto con i miei amici e sono molto, molto orgoglioso degli album che abbiamo fatto insieme. Ma, come in tutte le cose della vita, occorre cambiare. Dopo lunghi periodi di inattività ci siamo trovati con una direzione musicale e filosofica molto diversa. Ci siamo lasciati come i grandi amici dovrebbero fare, con una triste felicità, e auguro alla band tutti i migliori auguri per il futuro".

Donockley è attualmente un membro della band punk/folk The Bad Shepherds. Ha anche suonato nella band di Barbara Dickson per un certo numero di anni ed è il direttore musicale della band.
È stato sostituito negli Iona dal suonatore di piper e fiati Martin Nolan.

Nel giugno 2010, il gruppo si è recato negli Stati Uniti per il loro primo tour dopo nove anni. Il 19 giugno 2010 sono stati molto bene accolti dal pubblico del NEARfest - un festival progressive rock a Bethlehem, Pennsylvania -, e durante questo spettacolo hanno proposto nuove canzoni per il successivo album, “Another Realm”, pubblicato nel 2011, il loro ultimo fino ad oggi. Dopo diversi concerti negli Stati Uniti e uno in Canada, hanno concluso il tour al Cornerstone Festival, un festival di musica cristiana in Illinois, il 30 giugno.

L'11 dicembre 2016 la band ha annunciato sulla propria pagina Facebook di aver sospeso la registrazione e il tour come gruppo, citando altri impegni:

"Non sappiamo cosa accadrà nei prossimi anni, se ci riuniremo di nuovo come Iona. La porta rimarrà aperta, ma per il futuro, i prossimi ed emozionanti capitoli del nostro viaggio seguiranno altre strade".


Ultima formazione:

Joanne Hogg
Dave Bainbridge
Frank Van Essen
Phil Barker
Martin Nolan

Discografia:

Album studio
Iona (1990)
The Book of Kells (1992)
Beyond These Shores (1993)
Journey Into the Morn (1996)
Open Sky (2000)
The Circling Hour (2006)
Another Realm (2011)

Live
Heaven's Bright Sun (1997)
Woven Cord (1999)
Live in London (2008)

DVD
Iona (2004)
Live in London (2006)

Raccolte
Treasures (1996)
The River Flows: Anthology (2002)





domenica 23 ottobre 2022

Giuseppe Scaravilli-“Jethro Tull-La leggenda del flauto nel rock”


 
         Giuseppe Scaravilli-“Jethro Tull-La leggenda del flauto nel rock”

Officina Di Hank

 

Parlare e scrivere sul generico argomento “Jethro Tull” è per me sempre un piacere, e non starò qui a sottolinearne gli ovvi motivi, ma affrontare l’argomento attraverso il commento ad un libro, scritto da una persona che si conosce, diventa qualcosa di più… intimo, quasi un movimento in una zona di estremo confort, anche se appare imperativo non dimenticare di fornire l’elemento oggettivo.

Quando conobbi Giuseppe Scaravilli aveva un flauto tra le mani, e assieme ad Andrea Vercesi si esibì sul “palco pomeridiano” alla convention dei J.T. di Novi Ligure, quella del 2006, un set acustico a cui parteciparono anche il duo Lincoln/Lelli e quello Mocchetti /Perlini.

Sono passati molti anni e le vicende di vita si sono susseguite, e così Scaravilli ha alternato la sua attività musicale con i Malibran a quella di saggista, sfornando differenti progetti e, visto che siamo in tema, un bel “Jethro Tull, 1968-1978-The Golden Years”, pubblicato nel 2018.

Un paio di mesi fa Giuseppe ha rilasciato un nuovo lavoro, ancora dedicato alla band del cuore, dal titolo Jethro Tull-La leggenda del flauto nel rock”, con la prefazione di Fabio Rossi.

Ogni volta che si affronta un argomento musicale specifico, magari di nicchia ma a lungo perlustrato in precedenza dal mondo giornalistico, ci si chiede sempre se in effetti ce ne fosse bisogno o se lo sforzo - onerosissimo - risponda in realtà ad un’esigenza personale, quella che porta a parlare di colonne sonore di una vita che si vorrebbe condividere coinvolgendo chi nulla o poco sa, perché quella che si ritiene sia una bellezza assoluta deve trovare, nella mente di chi scrive, espansione a macchia d’olio. Tutto questo lo deduco, soprattutto, dalle mie esperienze personali.

Alla fine, può capitare di dire tra sé e sé: “Ma ce n’era davvero bisogno?”.

Con questa domanda, che spesso mi sono posto in passato, ho iniziato l’avvicinamento ad un book che alla fine ho divorato in poche ore.

Il motivo è che ho trovato all’interno cose che non conoscevo, ma tante… e mentre ho dato meno peso a certi elementi storici - come le seppur utili scalette dei vari concerti - ho trovato invece interessantissimi certi risvolti anche molto intimi e personali che hanno stimolato la mia curiosità, portandomi a chiudere cerchi che mai avevano trovato la fermatura.

Intendiamoci, resta un lavoro per appassionati della band, come Scaravilli lascia intravedere nella sua introduzione:

Questo libro, dedicato alla storia dei Jethro Tull, intende rappresentare un approfondito excursus della loro carriera dagli esordi ai giorni nostri, con un maggior approfondimento per gli anni che vanno dal 1968 al 1980. Ogni capitolo è dedicato alle uscite discografiche di quell’anno specifico in ordine cronologico, da “This Was” a “Stormwatch” - il cui tour si chiuse all’inizio del nuovo decennio - per poi proseguire con capitoli più riassuntivi ma non meno curati. Sono trattate anche tutte le tournée, i brani rimasti fuori dai dischi ufficiali, gli aneddoti, i cambiamenti nella formazione e nei costumi di scena della band, le scalette dei concerti, il materiale audio e video esistente, le rarità e tante altre notizie forse meno conosciute ai più… al contrario di altre celebri band degli anni Settanta, in Italia non esistono molte biografie dedicate ai Jethro Tull e questo volume spera di colmare questo vuoto, cercando di risultare allo stesso tempo esaustivo, scorrevole e avvincente.”

Ma perché Mick Abrahams lasciò il gruppo dopo il primo album? Perché Glenn Cornick fu allontanato? E che accadde a Martin Barre, colonna e braccio destro di Ian Anderson, licenziato all’improvviso?

Non è gossip, ma storia, e la lettura permette di entrare maggiormente nelle dinamiche gruppali, realizzando un’analisi basica della psicologia del “padre padrone” Ian, il vero artefice nel bene e nel male - e su questo non ci sono dubbi - del fenomeno tulliano.

Il libro avvolge, con la sensazione, a volte, di essere all’interno del racconto, mentre la musica, parola dopo parola, si materializza nella mente di chi legge.

Le fotografie di metà libro fanno parte del contesto, e il loro bianco e nero - forse meramente legato al problema dei costi di produzione - contribuisce nel realizzare un profumo âgé, che è quello che emerge nel corso della lettura, nonostante lo spazio temporale analizzato permetta di arrivare ai giorni nostri.

Che altro aggiungere, un bel volume, scorrevole, importante dal punto di vista storico, imperdibile per gli appassionati del genere, che mette in risalto la passione cristallina - e la capacità comunicativa - di Giuseppe Scaravilli, musicista e scrittore in grado di riannodare i fili del tempo e le connessioni esistenti tra sentimenti e oggettività.

Una bella e consigliabile lettura.




martedì 18 ottobre 2022

Ricordando "Per voi giovani"



Prendo in prestito questo articolo apparso su "Ciao 2001", n. 41 del 13 ottobre 1971, per ricordare una delle poche trasmissioni che informavano noi adolescenti, affamati di musica, ad inizio anni '70, "Per voi giovani".
Nel filmato a seguire, del 1973, la voce di Carlo Massarini è coadiuvata da un sottofondo di qualità, Gentle Giant e Yes.

Aria di ringiovanimento alla trasmissione radiofonica "Per voi giovani": la popolare rubrica di musica leggera e dibattiti dedicata ai giovani ascoltatori ha cambiato volto e si presenta al loro giudizio piena di importanti innovazioni destinate a renderla più interessante e più rispondente alle loro esigenze sempre più numerose. Molta strada è stata fatta e molte cose sono cambiate da quando Renzo Arbore ricevette l'incarico di tenere a battesimo la trasmissione. Soprattutto, quello che è andato maggiormente evolvendosi è il desiderio dei giovani, il loro bisogno di essere resi più partecipi di tutto ciò che li circonda. Parlare della musica leggera e di alcuni problemi di tutti i giorni può esser fatto diversamente e con toni meno cattedratici di quelli usati negli altri programmi: questo, in sintesi, il ragionamento da cui si è partiti a viale Mazzini ed attraverso il quale si sono, via via, dipanate le successive edizioni della rubrica. Ma rivolgersi ad un pubblico come quello di "Per voi giovani" richiede anche e soprattutto una semplicità di linguaggio che solo i giovani possiedono in misura spontanea; da qui la decisione di affidare ad alcuni di essi il compito di rivolgersi ai loro coetanei dai microfoni di via Asiago. La decisione, probabilmente non mancò di sollecitare polemiche alla Rai, polemiche che divennero addirittura furiose allorché questi neo-presentatori "sgarrarono". Come ricorderete, nel novembre scorso, l'intera redazione di "Per voi giovani" fu posta sotto accusa poiché, dissero, i microfoni compilavano un vero e proprio "bollettino di guerra" con la scusa di informare sulla situazione delle scuole italiane occupate dagli studenti. Dopo numerose censure ed imposizioni "dall'alto", i collaboratori della trasmissione si dimisero in blocco con l'intento di far cessare il clima di terrore che si era venuto ad instaurare, ma non poterono evitare che Paolo Giaccio, con la scusa ufficiale dei "motivi di servizio", fosse mandato in castigo in Inghilterra per un certo periodo di tempo. Questi sono comunque episodi appartenenti al passato e che viale Mazzini cerca probabilmente di farsi perdonare donando alla trasmissione una nuova e più organica struttura che, siamo certi, non dovrebbe dispiacere egli affezionati del programma.
Ma vediamo insieme in cosa consistono, in pratica, le innovazioni di cui stiamo parlando: innanzi tutto le "voci"; allo scopo di eliminare quei toni "professionali" che per forza maggiore anche un dilettante viene ad assumere inconsapevolmente dopo un certo periodo di tempo, si è pensato di inserire nuovi personaggi, nuove "voci" nella trasmissione. Ai due vecchi presentatori Paolo Giaccio e Mario Fegiz sarà lasciato l'incarico di curare una rubrica il primo, e di dirigere una redazione a Milano il secondo. Il programma risulterà suddiviso in rubriche, ciascuna affidata ad una persona, riguardanti gli argomenti più interessanti legati all'attualità ed al mondo musicale. Queste rubriche saranno chiamate "spazi" - ed anzi Spazio-Giovani doveva esser il nuovo titolo della trasmissione, ma poi non se ne è più fatto nulla - e saranno in numero di sette. Eccole di seguito:
POP-CLUB: è senza dubbio destinato a ricoprire l'angolo più interessante per gli appassionati della pop music; curato da Carlo Massarini, lo "spazio" si ripromette di guadagnare il tempo perduto dalla radio in fatto di pop negli ultimi cinque anni. In sostanza, poiché la trasmittente italiana ha cominciato con sensibile ritardo ad interessarsi di questo importantissimo filone musicale, si cercherò di sopperire a questa carenza portando a conoscenza del pubblico i long playing di questo periodo scelti fra quelli dei Cream, dei Traffic, dei Procol Harum prima maniera, di Joe Cocker, ecc.
LA POSTA: va da sé che non poteva essere soppresso questo angolino di dialogo diretto con gli ascoltatori. Questa volta vi provvederà la giovane Mariù Safier che provvederà anche a presentare alcuni brevi brani ritmati dalla melodia particolarmente facile e distensiva.
SPAZIO-ROCCHI: prende il nome dal suo curatore, Claudio Rocchi. Claudio è un cantautore milanese di vent'anni ottimo conoscitore della produzione internazionale del folk e del pop. Suo compito sarà quello di scegliere e proporre agli ascoltatori brani dal repertorio folk e country americano ed inglese.
SERVIZIO PARLATO: riguarderà argomenti tra i più diversi ma tutti di grande interesse ed attualità. Si occuperà di tempo libero, delle nuove esperienze didattiche di alcune scuole del Nord commentate dagli stessi studenti, delle comunicazioni di massa, del mondo del lavoro e delle difficoltà di inserimento in esso da parte dei giovani, di consumi e merceologia, di incontri e ritratti di ascoltatori. Allo "spazio" collaborerà da Milano Mario Luzzatto Fegiz.
CANZONI ITALIANE: la rubrica è curata da Paolo Giaccio ed ha l'intento di rivalutare, nel piano della trattazione, questo settore precedentemente un po' trascurato. Proporrà brani che godono di una certa validità autonoma (Battisti, Mina, De André, Formula 3 e altri) non senza precludersi però la possibilità di polemizzare con questo o quel cantante o complesso.
SEGNALAZIONE LIBRO O SPETTACOLO: curato ancora da Mariù Safier, questo "spazio" si propone di tornare in chiave di recensione su alcuni fatti di attualità legati a qualche libro o spettacolo.
NOVITA' 33 GIRI: se ne occupa un giovane beat inglese Richard Benson, che presenterà di volta in volta un nuovo 33 giri legato all'immediata attualità del pop.
Queste, dunque, le novità che trovano la loro ragion d'essere in una più impegnata ricerca del contatto con l'ascoltatore. Ad esso, quindi, il giudizio definitivo.

Rolando Gimero




sabato 15 ottobre 2022

Piccolo ricordo di Sandie Shaw

Non mi ha mai fatto impazzire Sandie Shaw… quando ho iniziato ad ascoltare musica, Stones e Beatles erano il mio pane quotidiano, mentre la proposta della “cantante scalza” strizzava l’occhio al ritornello facile, ad un’immagine precisa e ad una certa facilità sonora che mi sembrava inadeguata al nuovo che avanzava.

Ma ero un bambino, e a distanza di anni, scevro da alcuni pregiudizi - solo alcuni! - , rivaluto quel periodo e chi lo ha alimentato.

Beat Club mi invia una notifica che certifica l’inserimento di un nuovo brano, e dal cilindro esce fuori la bella Sandie.

A proposito di camminate “barefoot”, nell'agosto 2007 la cantante ha rivelato di aver subito un intervento "correttivo" sui suoi piedi, che ha definito "brutto"; l'operazione chirurgica l'ha lasciata incapace di camminare per due mesi: forse un paio di ciabattine… all’epoca…

Un minimo di storia.

Sandie Shaw, pseudonimo di Sandra Ann Goodrich, nata il 26 febbraio 1947 è una cantante inglese tra le più famose degli anni Sessanta, soprannominata la cantante scalza per la sua abitudine di esibirsi sul palco a piedi nudi.

È una delle interpreti britanniche di maggior successo degli anni ‘60 e ha avuto tre singoli al numero uno nel Regno Unito con "(There's) Always Something There to Remind Me" (1964), "Long Live Love" (1965) e "Puppet on a String" (1967).

Con "Puppet on a String" è diventata la prima voce britannica a vincere l'Eurovision Song Contest.

È tornata nella top 40 del Regno Unito dopo quindici anni con la cover del 1984 della canzone degli Smiths "Hand in Glove". La Shaw ha annunciato il suo ritiro dall'industria musicale nel 2013.








venerdì 14 ottobre 2022

Beat-Club propone Cat Stevens e un brano degli esordi, "Matthew & Son”

Beat-Club, nella sua opera di lento rilascio del materiale di proprietà, propone ultimamente Cat Stevens e uno dei suoi primi brani,Matthew & Son”, contenuto nell’omonimo album di esordio pubblicato il 10 marzo 1967 dall'etichetta discografica Deram.

Qualche nota succinta relativa alla sua storia...

Yusuf Islam (nato Steven Demetre Georgiou il 21 luglio 1948), comunemente noto con il nome d'arte di Cat Stevens e in seguito Yusuf, è un cantautore e polistrumentista britannico. Il suo stile musicale è composto da folk, pop, rock e, nella sua carriera successiva, musica islamica. È stato inserito nella Rock and Roll Hall of Fame nel 2014.

Il suo album di debutto del 1967 ha raggiunto la top 10 nel Regno Unito e la sua title track, "Matthew and Son", ha raggiunto il numero 2 nella UK Singles Chart.

Gli album di Stevens, “Tea for the Tillerman” (1970) e “Teaser and the Firecat” (1971) sono stati certificati triplo disco di platino negli Stati Uniti dalla RIAA.

Il suo album del 1972 “Catch Bull at Four” è stato per tre settimane al numero uno della Billboard 200 e quindici settimane al numero uno nelle classifiche australiane ARIA.

Ha vinto due premi ASCAP per la scrittura di canzoni nel 2005 e nel 2006 per "The First Cut Is the Deepest".

Le sue altre canzoni di successo includono "Father and Son", "Wild World", "Moonshadow", "Peace Train" e "Morning Has Broken". Nel 2007 ha ricevuto l'Ivor Novello Award for Outstanding Song Collection dalla British Academy of Songwriters, Composers and Authors.

https://www.youtube.com/watch?v=u4pLNKb8j2U




mercoledì 12 ottobre 2022

Phoenix Again - “Vision”


Phoenix Again - “Vision”

(50:73)

Ma.ra.cash, rilasciato il 28 agosto 2022


Questo album (il quarto in studio), distribuito da Ma.Ra.Cash Records, rimarrà un album unico per i Phoenix Again, poiché il prossimo rimarcherà le nostre sonorità più Prog-rock…”. È questa la frase che apriva la chiacchierata tra me e la band in occasione dell’uscita di “Friends of Spirits", dei Phoenix Again, acustico e quindi anomalo rispetto al loro standard.

Prima di ciò la loro discografia poteva contare su "Threefour" (2010), "Look out" (2014) e "Unexplored" (2017).

Era l’estate del 2019, l’ultimo anno “moderato”, prima degli sconvolgimenti che sembra non abbiano ormai una fine.

Per tentare di mantenere a debita distanza la catastrofe proviamo ad usare la musica, da ascoltatori con un ruolo spesso passivo, da creatori con un impegno totale e una dedizione che sa di religioso, di spazio aulico.

I Phoenix Again ritornano dopo aver messo a frutto la sosta forzata, e la sintesi del loro lavoro si esplicita con l’album “Vision”, oltre cinquanta minuti di musica strumentale che pare non avere riferimenti certi, perché la regola è non aver regole, perché il concetto di musica prog - quello che la band predilige - è sinonimo di contaminazione, di libertà assoluta, di trame complicate per i comuni mortali, di piacevolezza d’ascolto.

Come spesso accade in occasione di un nuovo rilascio discografico, ho realizzato una piccola ma esaustiva intervista che propongo a fine articolo, un aiuto per l’ascolto.

Sono 9 le tracce, nuove composizioni e alcuni brani recuperati - e rivisitati -dall'archivio dei P.A.

È oggettivamente molto complicato identificare i messaggi in un album privo di liriche, ma sarebbe un errore pensare di evitare l’argomento o meglio, immaginare che le sonorità siano solo la sintesi di competenze che producono atmosfere più o meno piacevoli. La musica che scaturisce da “Vision”, brano dopo brano, racconta alle persone dotate di un minimo di sensibilità e virtuosismo basico un percorso, una commistione di ricordi e attualità, un rivangare nel contenitore delle memorie ed esperienze che si trasforma in reazione sonora, una tela che a poco a poco si riempie prendendo significato, e la magia sta nel far propria la musica dei P.A. e rileggerla in modo personale, creando così mille storie, forse lontane dagli intendimenti iniziali, ma in fondo è questo lo scopo della condivisione, soprattutto quando parliamo di musica slegata da rigidi schemi.

A seguire propongo un esempio concreto con “Threefour”, ma alla prima occasione aggiungerò la traccia che più mi ha entusiasmato, “Psycho”, brano complicatissimo che a tratti mi ha regalato il profumo dei primi Gentle Giant.

Ma tutto l’album viaggia su sentieri inusuali, difficili da percorrere, non certo per tutti, ma entusiasmanti per chi ama la musica progressiva.

Il rock si mischia al jazz, alla classica, al folk… nessun punto di riferimento certo ma la sicurezza che ad ogni svoltare d’angolo una novità sia pronta a sbocciare.

Io l’ho riascoltato a più riprese, trovando ogni volta nuovi e positivi punti di approccio, davvero un bel disco.

Consigliato vivamente, la delusione è bandita!

 


L'intervista...

Sono passati tre anni dall’uscita di "Friends of Spirits", una parentesi semiacustica nel vostro normale percorso: possiamo dire che il vostro nuovo lavoro, "Vision", è il frutto della sosta forzata legata alla pandemia?

Sicuramente, abbiamo lavorato al nuovo album in questi due anni di pandemia, avevamo alcuni brani sui quali lavorare, il tempo non mancava vista l’impossibilità di fare altro, causa restrizioni governative.

Che musica proponete ora con il nuovo disco?

Con “Vision” torniamo a sonorità più vicine ai primi tre album, Prog, Rock, Jazz Rock, Psichedelico, Classica e Folk; chi ci segue sa che noi ci divertiamo a mescolare tanti generi, per noi “progressive” vuol dire contaminazione.

In un lavoro strumentale i titoli appaiono come elemento chiarificatore: che cosa volete esprimere oltre alla musica?

I titoli dei nostri brani sono dettati dalla sensazione che il brano ci dà; nel nuovo album ci sono vecchi pezzi presi dal nostro archivio e riarrangiati, altri nuovi composti nel periodo covid (il brano acustico “Threefour” era stato pubblicato su youtube nel periodo pandemico, ognuno di noi aveva registrato la sua parte in casa). Con la nostra musica vogliamo esprimere una “Visione” futura con tante contaminazioni, è il nostro marchio di fabbrica oramai, cerchiamo sempre di stupire e disorientare il nostro pubblico spaziando nei vari generi cercando di uscire da certi schemi preordinati.

Il nucleo è consolidato ma altri musicisti hanno collaborato con voi: me ne parli?

Certamente, ringraziamo con tutto il cuore i musicisti e collaboratori che hanno contribuito a questo album, iniziando da Emilio Rossi - titolare del Phoenix Studio - per i mixaggi e la pazienza; Daris Trinca al glockenspiel in “Overture”; Annibale Molinari al corno; Lorenzo Poletti al trombone; Erika Marca alla tromba in “Propulsione”; Giovanni Lorandi, Alessandra Lorandi, Karin Pilipp, Simona Cecilia Vitali ai Cori in “Propulsione”.

Non ho in mano il lavoro fisico per cui ti chiedo di darmi qualche delucidazione sull’artwork.

La grafica è di Andrea Piccinelli, la copertina un quadro ad olio su masonite di Claudio Lorandi, titolo dell’opera “Oriente”, 1993.

Possiamo dire che “Vision” si lega a qualche lavoro precedente e mantiene una certa continuità?

Certamente, si lega soprattutto ai primi tre album; in questo lavoro hanno lavorato molto di più sugli arrangiamenti i giovani, Andrea Piccinelli in primis sulle parti di tastiera e non solo.

Lo proporrete dal vivo?

Stiamo provando il nuovo repertorio per poterlo presentare live nel 2023, abbiamo già alcune data all’estero e ne stiamo valutando e trattando altre, spero arrivino anche proposte dall’Italia, pensiamo di iniziare i live verso la fine di gennaio/inizio febbraio 2023, stiamo provando tutti i pezzi con il nuovo chitarrista Alessio Bolpagni, new entry nei Phoenix Again in sostituzione di Marco Lorandi che si prenderà un periodo sabbatico per motivi di lavoro e personali.



Tracklist 

1-Ouverture 04:03

2-Moments of Life 10:28

3-Triptych 06:54

4-Air 06:38

5-Psycho 04:32

6-La Fenice alla Corte del Re 06:34

7-Propulsione 06:42

8-Mamma RAI 04:36

9-Threefour 02:06


Line up:

Antonio Lorandi: basso elettrico e acustico, cori

Sergio Lorandi: chitarre elettriche e acustiche, cori

Andrea Piccinelli: tastiere e piano acustico

Silvano Silva: batteria e percussioni

Giorgio Lorandi: percussioni

Marco Lorandi: chitarra acustica e cori


www.phoenixagain.it

https://phoenixagain.bandcamp.com/

https://www.facebook.com/phoenixagain

http://www.progarchives.com/artist.asp?id=7278

 





domenica 9 ottobre 2022

The Move


The Move è stato uno dei gruppi rock inglese di punta negli anni Sessanta. È loro è l'interpretazione di Blackberry Way, (composta musica e parole da Roy Wood) che l'Equipe 84 farà conoscere in Italia con il titolo di Tutta mia la città.


Sebbene il bassista-cantante Chris "Ace" Kefford fosse il leader della band, per la maggior parte della carriera i Move ebbero come driver il chitarrista, cantante e compositore Roy Wood. Lui compose tutti i singoli del gruppo usciti in Regno Unito e dal 1968 cantò anche come voce principale in molte canzoni, sebbene Carl Wayne fosse stato il cantante ufficiale fino al 1970.

Inizialmente la band aveva quattro cantanti (Wayne, Wood, Trevor Burton e Kefford).
Il gruppo, col tempo, si evolse dalla formazione iniziale degli anni ‘60 a Birmingham, includendo Carl Wayne and the Vikings, The Nightriders e The Mayfair Set.
"The Move", il nome del gruppo, è riferito allo spostamento dei vari membri di queste band, che ha permesso al gruppo di formarsi.



Accanto a Wood, nella formazione originale dei Move nel 1965, troviamo alla batteria Bev Bevan, al basso Chris Kefford, alla voce Carl Wayne e alla chitarra Trevor Burton.
La formazione finale del gruppo (del 1972) invece trova il trio composto da Wood, Bevan e Jeff Lynn, che avevano formato dalle ceneri dei Move la Electric Light Orchestra.
Fino al 2007, Burton e Bevan si sono esibiti sotto il nome di 'The Move feat. Bev Bevan and Trevor Burton'.


Album in studio:
1968 - Move
1970 - Shazam
1970 - Looking On
1971 - Message from the Country

EP
1968 - Something Else from the Move

Live
2012 - Live at the Fillmore 1969


Formazione:
Roy Wood (UK, 1946): chitarra, voce.
Carl Wayne: (nome d'arte di Colin David Tooley; UK 1943-2004): voce (1968-1970).
Bev Bevan (UK, 1946): batteria, voce.
Chris Ace Kefford: basso, voce (1968-1969).
Trevor Burton (UK, 1946): chitarra, voce.
Jeff Lynne (UK, 1947): chitarra, pianoforte, voce (1970-1971).
Rick Price: basso, voce (1969-1971).

giovedì 6 ottobre 2022

Antonio Pellegrini propone il suo ultimo lavoro, "The Who. Long Live Rock"

Parto per una volta dalla sintetica presentazione dell’autore, in questo caso più volte presente nei miei spazi e collaboratore di MAT2020, un amico oltre che musicista e saggista. Parlo del genovese Antonio Pellegrini che sintetizza così la sua storia:

Musicista, scrivo canzoni, saggi musicali e spettacoli teatrali. Ho pubblicato i volumi “The Who e Roger Daltrey in Italia” (2016) e “Italian Rhapsody. L'avventura dei Queen in Italia” (2019). Da 10 anni pubblico articoli di critica musicale sul mio blog www.antoniopellegrini.blog e collaboro con web magazine e riviste.

La prima cosa che salta agli occhi e che evidenzio in ogni occasione è quella che Pellegrini si è innamorato di musica che non gli appartiene temporalmente parlando, il che mi porta a due considerazioni: la prima è che esistono nicchie/generi che hanno guadagnato l’immortalità sfidando le barriere generazionali e la seconda è che Antonio è un giovane curioso, che non si è lasciato intimidire dai dictat imposti dal maistream ma è arrivato a formulare giudizi dopo attenti ascolti e cernite oculate. E poi esiste l’istinto, quella reazione a volte scomposta, di pancia, che porta ad innamorarsi di una canzone senza riuscirne a capire il motivo, salvo poi che riascoltandola a distanza di tempo le sollecitazioni della memoria porteranno scombussolamenti che sfoceranno in una miriade di sentimenti.

C’è rock e rock; difficile spiegare perché, parlando di band coeve, esistessero un tempo battaglie adolescenziali per sottolineare come i Led Zeppelin fossero più bravi dei Deep Purple, o viceversa.

Gli Who, a mio giudizio, sono un’altra cosa, e anche se il mio pensiero non è richiesto - seppur conosciuto da chi mi ha frequentato - mi fa molto piacere parlarne sotto forma di commento ad un nuovo lavoro dell’autore, ancora dedicato alla band londinese.

Il suo primo impegno era incentrato sui concerti italiani, non molti a dire il vero, e il titolo era, come già sottolineato, “The Who e Roger Daltrey in Italia”.

La nuova ricerca, uscita il 2 settembre per Arcana Edizioni si intitola "The Who. Long Live Rock", ovvero la biografia dei The Who con la prefazione curata dal giornalista Antonio Bacciocchi, un allargamento dell’analisi del 2017 con l’integrazione di contributi interessanti, come le molteplici testimonianze dei fan italiani (tra cui i VIP Carlo Verdone e Carlo Basile) e alcuni contenuti esclusivi: una chiacchierata con l’ex Who Kenney Jones, il pensiero del bassista dei Kinks John Dalton, l’intervista a Simon Townshend (fratello di Pete) e il ricordo di Peter Twinn, ormai “italiano”, ma presente il giorno in cui Pete Townshend distrusse la sua prima chitarra.

La lettura del tomo biografico di Pete Townshend, uscito qualche anno fa, è probabilmente quella che garantisce di entrare maggiormente nell’intimo della band, seppure incida la ovvia visione soggettiva, ma la sintesi realizzata da Pellegrini ha il pregio di una certa schematizzazione cronologica interrotta, o meglio inframmezzata, dai vari contributi e dalla discografia essenziale, con le parole dei protagonisti che si miscelano a quelle dei fan.

Una sorta di bignami molto ricco ed esaustivo, un lavoro complicato se si pensa che sono trascorsi 60 anni, intensi, dolorosi, emozionanti, per Pete e colleghi, of course, ma anche per tutti quelli che hanno seguito le loro vicende realizzando nel tempo che quelle canzoni erano diventate la colonna sonora della vita e al contempo la misura dello scorrere del tempo.

Ho raccontato anche alle pietre che quando ascoltai per la prima volta “Substitute” portavo i pantaloni corti e ancora oggi la musica degli Who mi pare fresca e godibile, il vero rock che ho sempre desiderato.

Antonio Pellegrini ci sintetizza tutto questo, con i suoi occhi un po' più “giovani” e probabilmente con il giusto distacco, quella misura che serve a chi vuole condividere non solo le proprie passioni, ma delineare al contempo eventi storici e intrecci non sempre facili da comprendere e assimilare.

Non vorrei andare oltre perché il mio compito in questo ambito è solo quello di stimolare la curiosità, senza spoilerare… la fine del giallo…

Ci tengo però a utilizzare le parole di Pete Townshend usate dall’autore a conclusione del volume:

Non siamo rimasti insieme per i soldi. Quello che ci legava era l’incredibile euforia che provavamo ad ogni concerto, l’eccitazione del contatto con il pubblico… l’energia dei concerti dal vivo e del successo ci dava molto di più che non i soldi che guadagnavamo”.

Così disse l’uomo che ha vissuto dieci vite in una, il simbolo del rock, un uomo che aveva in testa il collegamento totale virtuale quarant’anni prima che venisse realizzato.

Antonio Pellegrini coglie tutto questo e lo sintetizza per noi.

Non lasciatevi sfuggire l’occasione, gli Who non moriranno mai e "The Who. Long Live Rock" ci ricorda - e ci ricorderà - che il rock, quello che esprime disagio e gioia e che ci accompagna nel quotidiano, è qualcosa di estremamente serio, maledettamente serio!

Molto belle le fotografie in bianco e nero che riportano all’essenza dell’epoca e quindi… non resta che iniziare la lettura!

 






mercoledì 5 ottobre 2022

Officina F.lli Seravalle-“Ledrôs”

Alessandro e Gian Pietro Seravalle, ovvero Officina F.lli Seravalle, aggiungono un quarto atto alla loro discografia: il titolo è Ledrôs”.

Il loro pensiero, snocciolato nello svolgimento dell’articolo, risulta fondamentale per comprendere appieno i significati e gli intenti del progetto, perché appare difficoltoso - almeno per me -  dare il giusto risalto ad un album che ha bisogno di decodificazione per poter essere apprezzato a fondo, conoscendone i dettagli e avendo chiarezza degli intenti che hanno guidato gli autori nella nuova esperienza.

Trattasi di una sorta di concept che chiude la trilogia iniziata con “Tajs!” e proseguita con “Blecs”, termini friulani che corrispondono alle parole “Taglio, Rattoppo”, mentre l’ultima “traduzione” riporta al significato di “Rovescio”.

Ma è su quest’ultimo termine che occorre soffermarsi, immaginando che sia utilizzato per invertire il normale punto di vista umano, rivolgendo lo sguardo verso noi stessi, con una osservazione di tipo immateriale che può portare alla comprensione, all’accettazione, al rispetto e probabilmente alla crescita. Ma esiste anche una perlustrazione più fisica, che lega la conoscenza perfetta del proprio corpo a reazioni ingiudicabili dall’esterno.

E poi troviamo anche un’altra chiave di lettura, quella che “ribalta” il pensiero comune, l’ortodossia, il pensare codificato che impone regole e ruoli.

Tutto questo ha mosso i Seravalle nella creazione di un disco che, come sempre accade in questi casi, resterà per pochi, e di questo sono consci.

Ma al di là dell’intellettualismo che muove le trame di “Ledrôs”, esiste l’aspetto musicale che mi pare davvero variegato e fruibile anche senza la continua didascalia.

Gli autori definiscono la loro musica etichettandola come esempio di “eterogenea omogeneità”, un accostamento contrastante ma spiegabile con una serie di proposte molto variegate tra loro - e qui risiede l’eterogeneità - ma filtrate e modellate dalle due figure di garanzia - gli autori - che vigilano, si muovono e selezionano affinché agisca efficacemente il collante che deve mantenere assieme i singoli episodi.

La libertà - controllata - predomina, con l’elettronica che si miscela all’avanguardia, la musica progressiva al jazz, passando per una buona dose di sperimentazione.

Il termine da loro coniato è “musica officinalis”, ma nell’intervista a seguire tutto si chiarirà.

L’effetto sorpresa è salvaguardato, e ad ogni giro d’angolo si incontra ciò che non si aspettava di vedere/ascoltare, ma non penso l’obiettivo abbia a che fare con la capacità di stupire, ma piuttosto si voglia dare seguito ad esigenze personali, urlando la propria visione del mondo con la frustrazione - almeno credo - che la condivisione seguirà una via contenuta, se rapportata alle reali possibilità.

Ho ascoltato la prima volta “Ledrôs” nel corso di un viaggio, in totale solitudine, potendo così godere dei particolari che emergono quando si ha la possibilità di concentrarsi. Nei successivi due ascolti ho pensato che l’album potrebbe essere vissuto, anche, con una certa semplicità, lasciandosi andare.

Qualunque sia la fruizione… un gran lavoro, in mezzo a tanta mediocrità.

A fine articolo propongo un video estratto dell’album.


L’intervista…

 

“Ledrôs” è il vostro quarto album: che cosa lo lega ai precedenti?

 

Credo sia individuabile una certa continuità nel metodo di lavoro che ci siamo dati. Il rimbalzo d’idee da uno all’altro è alla base della struttura stratificata delle composizioni. Questo metodo causa sovente una profonda metamorfosi dell’idea di partenza, talvolta, dopo essere passati attraverso questo processo ricorsivo, i brani ne escono completamente trasfigurati rispetto al nucleo generativo del brano stesso. Solo per fare un esempio: “Sublime futilità”, nasce come una composizione puramente timbrica e, mediante la procedura di cui sopra e grazie anche all’intervento alle trombe e al flicorno di Zeno Tami, per dire quanto anche gli ospiti, cui lasciamo libertà totale, abbiano la possibilità d’incidere in questo sviluppo, diventa qualcosa di completamente diverso, assolutamente irriconoscibile rispetto a quando il puro timbro che la costituiva è entrato nel meccanismo di “rimbalzo” e di stratificazione. Questo da un punto di vista strettamente musicale. Concettualmente invece Ledrôs costituisce, con le due opere precedenti “Tajs!” e “Blecs”, una sorta di trilogia. Si tratta di concept album di tipo, diciamo così, non narrativo. Quello che intendo è che il collante non è una storia (come può essere The lamb lies down on Broadway dei Genesis ad esempio), ma la proposizione di diversi aspetti di un medesimo concetto portante. In questo senso decisive sono le brevi presentazioni che compaiono nei libretti dei dischi cui rimando i lettori. Sono quelle che stabiliscono il mood teorico-speculativo di base dei singoli dischi riassunti in una singola parola friulana dai titoli. Dunque, la nozione di “taglio” in tutte le sue possibili declinazioni (taj in friulano significa esattamente questo), quella di “rattoppo” (blec in friulano) e quella di “rovescio” (ledrôs).

 

Mi racconti l’idea, il pensiero, i concetti che si celano dietro ad una proposta come “Ledrôs”?

 

A questo punto mi stimoli a riportarti le note di copertina di cui sopra perché, dopo averle meditate per qualche tempo, le trovo sufficientemente esaurienti ed esplicative: «Ledrôs è il friulano per “rovescio”. L’idea che percorre l’opera (per fuggire in differenti direzioni in barba al principio di non contraddizione visto qui come simbolo del “dritto” che critichiamo) è duplice: da un lato lo sguardo che si rovescia verso l’interno, rapidi raggi di tenue luce illuminano gli anfratti interiori, occhi indagatori catturano luci oscure, secrezioni (non soltanto biochimiche) e silenzi del corpo (G. Ceronetti), come pure manovre evasive, inchiostri di seppia che nascondono alla vista e proteggono colui che ci abita (B. Gracián); dall’altro il ribaltamento del pensiero comune. E così la chiaroveggenza diventa nefasta (E. Cioran) mentre la futilità diviene sublime (O. Spengler), Prometeo mostra il suo volto atroce e chiama il suo negativo (di nuovo Cioran), i ricchi completano la loro rivoluzione nascosta ai danni di coloro che niente possiedono (W. Brown), Oblomov (I. Gončarov) si staglia a modello per un’umanità che, a causa della sua brama di azione, prepara la propria autodistruzione e avvelena la biosfera mentre il pianeta Terra, indifferente al destino di ogni essere vivente, continua tranquillamente a orbitare… e poi digressioni più o meno distanti… autostrade, bizzarri luoghi di stordimento, il vino e le volute di fumo, la fabbrica, la più bella tra le città… unitevi a noi in un volo radente e rovesciato su paesaggi imprevedibili.

 

Dal punto di vista meramente musicale come definiresti il vostro nuovo lavoro?

 

Definire non è mai operazione semplice. Vorrei dunque utilizzare un ossimoro in quanto lo ritengo l’artificio retorico più adatto, insieme forse alla metafora, per tentare di cogliere qualche atomo di verità. Mi richiamo quindi a una “eterogenea omogeneità”. Il disco presenta soluzioni musicali tra le più distanti, si passa dall’avanguardia con richiami alla musica colta post-weberniana di Di refosco e di ghigno, alla techno di Retinal fetish, alla fusione di queste due istanze (Vignesia, il cui videoclip è stato curato da Selene Caisutti, figlia maggiore di mia moglie), dal chill-out de Il silenzio del corpo al jazz-rock alieno di Néfaste clairvoyance e L’antiprometeo passando per il progressive rock di A4 – driving the moon home e Terzo turno, il rock elettronico di Elogio di Oblomov e Stealth revolution, il soul di altre galassie di Sublime futilità e la dark-ambient di Jibias de interioridad. Ovviamente queste etichette sono puramente didascaliche, i generi, ammesso che esistano, qui si avviluppano l’uno sull’altro, s’intersecano, figliano creature estranee. L’omogeneità è invece garantita dalle nostre personalità artistiche che, in modo del tutto spontaneo e direi anche inevitabile, filtrano, macinano, digeriscono e rielaborano in modo peculiare quelle che vengono chiamate “influenze”, restituendo poi un’opera che, auspicabilmente, è segnata da un grado di originalità (e di autenticità che le due cose vanno spesso di pari passo) non indifferente.

 

Elettronica, sperimentazione, avanguardia… esiste un’etichetta che vi pare calzante per descrivere la vostra musica a chi non la conoscesse?

 

Proprio in virtù dell’impossibilità di applicare un’etichetta univoca alla nostra musica ci siamo inventati l’idea di musica officinalis, espressione che compare in una sorta di manifesto che scrivemmo all’epoca del primo disco (Ûs frais cros fris fics secs). Ecco un estratto: “…è musica eterogenea, mai disposta a riposare su posizioni acquisite, dallo stile volutamente zigzagante. Niente linee predefinite qui, ogni impulso all’operare è accolto e trasformato in musica, ogni sensazione diventa occasione per un viaggio sonoro. È musica officinalis, dotata di proprietà terapeutiche, cura contro le derive logoranti della vita quotidiana”.

 

Esiste all’interno di “Ledros” una traccia che può essere considerata rappresentativa dell’intero disco?

 

Direi proprio di no proprio in virtù dello “zigzagare” di cui sopra. Certo ci sono brani un po’ più “convenzionali” (consentimi il virgolettato) e altri invece totalmente inauditi, nel senso etimologico del termine. Si tratta di composizioni che non potevano che erompere che da noi due e che non trovano paragoni possibili in dischi di altri artisti, o almeno io, che pure sono un ascoltatore onnivoro, non ne sono a conoscenza. In questo senso credo che Di refosco e di ghigno, senza dubbio il brano più ostico del lotto, sia paradigmatico. Tuttavia, non direi che sia più rappresentativo di altre composizioni presenti nell’opera.

 

Ne approfitto per chiederti qual è il tuo/vostro giudizio lo stato attuale della musica: ci sono spazi e speranze per la proposta di qualità?

 

Sono un pessimista cosmico e tuttavia ritengo che qualche spazio ci sia. Naturalmente poi bisogna capire quali siano le aspettative. Se ci si aspetta che un progetto avantgarde come il nostro posso assurgere non dico a fenomeno di massa ma, anche solo trovare spazio in una scena di nicchia troppo spesso purtroppo sclerotizzata come quella del rock progressivo vuol dire che si vive su Marte. E tuttavia il semplice fatto che io stia qui a parlarne con te implica che uno spazio di manovra, benché estremamente risicato, esiste. Certo, sfortunatamente la musica è la forma d’arte, assieme forse al cinema, che più di ogni altra a subito il pernicioso fenomeno di mercificazione di cui già nel 1949 parlava Adorno. Si tratta di costruirsi delle “nicchie ecologiche” in cui far prosperare la musica come forma artistica espressiva e terapeutica e di non lasciarsi toccare dalla frustrazione. Una cosa sono i prodotti musicali non dissimili da un detersivo, dunque mera merce, un’altra le proposte miranti a espressione e autenticità. Tenendo questi due mondi ben separati non c’è frustrazione alcuna nel vedere il becerume trionfare. In questo senso, come del resto insegna Robert Fripp, il dilettantismo (ancora una volta si colga la parola nel senso etimologico) è un’ottima risposta.

 

Esiste una band o un artista che vi ha più di altri influenzato nella costruzione del nuovo album?

 

Sono fermamente convinto che l’originalità assoluta sia una chimera, nemmeno Arnold Schönberg è stato “assolutamente originale”. Tutti veniamo da un retroterra, subiamo influenze, siamo immersi in un mondo. Tuttavia, ritengo anche che le influenze non debbano essere un fatto voluto, non si dovrebbe comporre alla maniera di qualcuno, esse dovrebbero agire in modo carsico, sotterraneo e del tutto inconscio. Suppongo che per Officina funzioni esattamente così e dunque che queste suggestioni, certamente presenti, emergano involontariamente ed è questo aspetto a garantire la nostra originalità, ben inteso relativa, rispetto a troppa musica costruita con gli stampini che disgraziatamente imperversa anche nell’underground e non soltanto nella musica mainstream di consumo.

 

Come lo pubblicizzerete?

 

Molto semplicemente grazie alla benevolenza e all’attenzione di persone come te (ti prego di credermi, non si tratta di una sviolinata). Ogni occasione per far conoscere il nostro approccio alla musica è benvenuta. Quindi recensioni, interviste, apparizioni in radio o in televisione sono il mezzo d’elezione per promuovere una musica che, a ben guardare, non è così “difficile” come si sarebbe propensi a pensare. Il fatto che Officina F.lli Seravalle non rinunci praticamente mai all’elemento groove fa sì che anche gli esiti timbricamente o compositivamente più sperimentali si vestano in modo tale da poter davvero essere gustati da chiunque. Si tratta soltanto di “dare una possibilità” a qualcosa che esca dal solito seminato. Se i grandi gruppi progressive del passato non avessero osato allontanarsi dai cliché allora imperanti non avremmo avuto i grandi capolavori che tutti amiamo. Se insisteremo a riproporre quei modelli non faremo altro che tradire lo spirito del rock progressivo a vantaggio di una pedissequa riproposizione della sua lettera. Non mi sembra una scelta illuminata.

Vista la presenza di “guests”, un album come “Ledros” può essere riproposto facilmente dal vivo?

 

Senza dubbio la presenza di ospiti complica ancora più una faccenda già molto complessa a causa delle molte sovraincisioni di cui io e mio fratello siamo protagonisti. La verità è che Officina F.lli Seravalle non è interessata a proporre un classico concerto frontale, col gruppo sul palco e il pubblico, appunto, di fronte. Saremmo invece attratti dall’idea, invero più o meno inattuabile in termini economici, di realizzare uno spettacolo multimediale che coinvolga immagini, danza, video-art e action painting senza che noi si debba per forza essere sul palco. Vorremmo invece starcene tra il pubblico senza suonare, con la musica che esce così com’è stata concepita dai diffusori direttamente dal disco. Una fantasia forse…


 

Officina F.lli Seravalle ‎– Ledros

Label: Officina F.lli Seravalle ‎– Ledros

ZeiT Interference ‎– ZEITCD015

Format: CD, Album

Country: Italy

Released: 2022

Genre: Electronic, Rock

Style: Prog Rock

 

Tracklist

1-Elogio di Oblomov-5:02

2-Di Refosco E Di Ghigno-8:42

3-Il Silenzio Del Corpo-5:10

4-Nefaste Clairvoyance-5:01

5-Vignesia-3:32

6-A4 - Driving The Moon Home-3:36

7-Stealth Revolution (from The Top Down)-6:29

8-L'Antiprometeo-6:02

9-Sublime Futilità-5:00

10-Retinal Fetish-4:53

11-Jibias de Interioridad (against The Eye Of The Lynx, The Ink Of The Cuttlefish)-2:54

12-Terzo Turno-4:13