mercoledì 27 maggio 2015

Barock Project-"Skyline"


Avevo ormai perso ogni speranza di poter interloquire con Luca Zabbini e dintorni, ovvero i Barock Project. Li avevo scoperti tre anni fa, quando qualcuno mi suggerì di ascoltarli in occasione dell’uscita del terzo album, Coffee In Neukolln, e cercai immediato contatto, fatto di per sé marginale, ma ho sempre pensato che ricostruire un po’ di sana verità, con l’aiuto degli interessati, rendesse giustizia all’opera di condivisione, quella che anche oggi mi spinge a scrivere il mio pensiero. L’impressione avuta all’epoca era quella tipica della situazione, non certo una novità: giovani virtuosi, geniali, puri, legati a principi nobili, ma focalizzati solo sulla linfa vitale, la musica, mentre tutto il resto… non è arte e quindi può aspettare. Ma un’aulica creazione deve uscire da ogni tipo di recinto, superare l’isolamento e scivolare come il liquido tra i mattoni di una casa, penetrando ogni possibile pertugio.
Tutto ciò accade ora con l’uscita del quarto album, Skyline, e paradossalmente il repentino cambio di rotta avviene proprio nel momento in cui si decide di camminare totalmente con le proprie gambe, sganciandosi da ogni tipo di label e cercando l’autoproduzione, con il sostegno dei fans.
Ho ascoltato tre volte il disco, solo tre volte, ma so già che non lo abbandonerò più!
E’ nell’aria anche ora, mentre scrivo, fatto per me anomalo, avendo bisogno del totale silenzio per raccogliere le idee. Eppure è quello che cercavo, adesso come da adolescente, quando scoprendo i Focus mi illusi di aver trovato il dopo Jethro Tull, sempre alla ricerca del mio “skyline” ideale, del miglioramento continuo.
Il perfetto racconto di Zabbini, stimolato dalla mia terza domanda, mi leva l’incombenza della descrizione del singolo atto, un lavoro che cerco sempre di evitare, avendo maggior interesse per la sinossi di un album, ma io stesso sono risalito alle utili parole di Luca, durante l’ascolto.
Immagino che i paragoni non siano bene accetti, ma i Barock hanno realizzato un mio grande sogno, quello di presentare una sintesi della musica di alcune grandi band che hanno caratterizzato la mia vita, dettandone tempi e intervalli, e onestamente non credevo si potesse arrivare a risultati simili; trovare in uno stesso album il richiamo al sound inventato da Ian Anderson, al modello intimistico di Peter Hammill, all’incrocio vocale del mondo YES, alla durezza di un rock alla Gillan, alla classicità delle trame di ELP… beh, grazie Barock Project!
Ma tutto questo potrebbe sembrare un gioco di talenti, capaci di un photo shop musicale da tecnologia corrente, e invece l’ascolto progressivo chiarisce che la contaminazione del passato è inconscia -e venerata-, e utilizzata per disegnare uno stile del tutto personale, dove la melodia riesce sempre a calmierare le spruzzate di energia, fatte di ritmi composti, fraseggi pianistici impossibili, intersezioni coristiche solenni, ballad introspettive.
Il brand Barock è qualcosa che colpisce e non ti lascia più!
Skyline riceve un paio di aiuti autorevoli e DOC: Paul Whitehead ha lavorato all’artwork, e non credo occorra sottolineare la sua importanza e la sua frequentazione in ambito prog; la cover realizzata si rifà alla title track e immagino che nell’eventuale produzione in vinile possa diventare il pezzo da collezione mancante.
Un altro nome pesante regala sostanza, con la sua voce ed il suo flauto: Vittorio De Scalzi, uomo prog, classico, pop, una miscela di esperienza e competenza che non rappresenta meramente il cameo ad hoc, ma soprattutto una possibile guida dal consiglio facile, in grado di entusiasmarsi per un progetto nuovo e giovane, fiutando certamente l’estrema qualità.
La band da dimostrazione di perfetto equilibrio, di capacità di compensazione e totale accordo, fatto non certo scontato, a maggior ragione quando si è al cospetto di importanti personalità musicali; ma il lavoro del team è più importante e paga, e le recenti scelte manageriali daranno presto grandi frutti.

Un grandissimo album Skyline, che consiglierò ad ogni buon ascoltatore di musica, in attesa di poter godere di una dimostrazione live che, ne sono certo, non potrà che entusiasmarmi.


L’INTERVISTA

Siete arrivati al quarto album. La sensazione è quella di una maturazione, che non riguarda solo la musica ma il progetto intero: come si può sintetizzare la vostra evoluzione?

Barock Project è una realtà che esiste ormai da undici anni, sebbene fino ad ora ci siamo completamente autogestiti, prendendo coscienza che così facendo sarebbe stata comunque dura. Ogni scelta, ogni contatto, ogni disco è stato frutto dell'esserci mossi con le nostre gambe. L'evoluzione più grande in questo progetto la stiamo avendo proprio in questo momento, grazie all'incontro soprattutto di una persona che ha deciso di prenderci a cuore, Claudio Cutrone, il quale si sta occupando di tanti aspetti di questa band che per forza di cose fino ad ora erano stati più o meno trascurati. In fondo noi ci occupiamo di musica e questo deve rimanere il nostro mestiere principale. Il nuovo disco era in fase di lavorazione già da almeno tre anni e ho scelto di dirigermi verso una direzione musicale più ''diretta'' in termini di comunicazione. Mentre prima puntavo più al discorso ''prog'' nel vero senso del termine, probabilmente anche abusandone, da Coffee In Neukolln in poi mi sono deciso ad asciugare un po’ di più il tutto, sebbene di fatto in questa band è sempre stata la melodia come elemento fondamentale e che ci ha contraddistinto, credo sia il nostro punto di forza. La priorità per me va alla composizione totale e finale, non necessariamente in base al mio strumento musicale. Tanto è vero che in questo disco mi sono dedicato molto meno ai synth e alle tastiere. Alcuni dei brani li ho concepiti molto tranquillamente sulla chitarra acustica in modo diretto e senza tanti fronzoli.

Da dove nasce l’esigenza di diventare musicalmente autarchici?

Nasce dal fatto che, grazie anche all'aiuto e alla strong vision del nostro manager, abbiamo convenuto che l'autoproduzione sia una scelta ormai doverosa per tutte le band che sentano il bisogno di voler diffondere le proprie creazioni. Ci siamo serviti anche della campagna fundraising tramite Kickstarter, per chiedere un contributo da parte dei fans in giro per il mondo, per poter finalizzare il disco a livello sonoro e renderlo ancor più accattivante. E la scelta ci ha premiati, caricandoci di energie che spenderemo nei live che seguiranno

Che cosa contiene “Skyline”, il disco in uscita? Mi indicate l’anima dell’album tra messaggi e risvolti sonori?

Il viaggio della composizione di "SKYLINE" è iniziato quasi tre anni fa. Proprio la title track è nata durante i giorni del terremoto qui in Emilia, quando il mio paese e tanti altri intorno pullulavano di tende in ogni angolo, facendolo sembrare una inquietante Woodstock.
Questo disco è per me un diario che racconta tutte le vicissitudini accadute durante il suo concepimento. E' un viaggio che si apre con i cori del primo brano, Gold, scritta inizialmente quasi cinque anni fa. Forse il brano che considero come il più caratteristico del nuovo disco. Dopodichè si balza tra i virtuosismi di Overture, confezionata appositamente come brano per un'apertura d'impatto per i live, per poi fermarsi ad ascoltare un racconto, una storia lontana, cantata in apertura proprio da Vittorio De Scalzi nel brano ''Skyline''.  Roadkill rappresenta il momento un pò più crudo e rock del disco, per la gioia del nostro cantante. The Silence Of Our Wake è un brano a cui sono molto legato perché rispecchia un pò il mio lato tenebroso e misterioso. Musicalmente parlando fa parte di un periodo della mia vita molto altalenante e poco rilassato. Il mitico Antonio De Sarno, che ha scritto tutti i testi, qui parla degli alieni. Antonio, già autore dei testi per il gruppo Moongarden, si è occupato dei testi in inglese,  impreziosendo la nostra musica con le sue parole. Il sesto brano, The Sound Of Dreams è una breve ballata che ho concepito un mattino presto, quando i primi raggi del sole entrano nella stanza attraverso gli spiragli della finestra, aprendo gli occhi subito dopo aver sognato di aver perso qualcuno. Il testo parla della paura di questo sogno e del sollievo dopo il risveglio. Il settimo, Spinning Away è un brano costruito inizialmente su un giro ritmico di percussioni, batteria e basso. Poi sono giunte le armonie e infine la melodia. Lo considero un brano divertente da suonare. Tired è un altro di quei brani scritti durante lo stesso periodo burrascoso prima citato. Avevo in mente la parte cantata come se fosse un urlo liberatorio e ha un che di musical-operistico. C'è una sostanziosa parte di orchestra, introdotta da un breve preludio di pianoforte in stile bachiano. Questo brano è palesemente divisibile in due parti. La seconda parte, ovvero la conclusiva, ha un carattere totalmente diverso dalla prima e sfiora quasi le caratteristiche del sound metal, per poi intrecciarsi su un vecchio brano strumentale scritto ormai dodici anni fa al pianoforte, dal carattere virtuosistico. A Winter's Night è una semplice ballata che spezza le tensioni precedenti ed ha un breve intermezzo strumentale scritto proprio durante una fredda sera d'inverno. Da qui il titolo. The Longest Sigh è l'ultimo brano e credo sia uno dei più ''prog'' del disco. Mi sono affezionato al suono genesisiano dell'epoca di And Then There Were Three e Duke e nell'introduzione si sente parecchio, così come nel finale. Forse è il brano che potrebbe venire apprezzato di più dagli affezionati del genere.

Come siete arrivati alla collaborazione con Vittorio De Scalzi?

Il nostro manager Claudio crede fortemente nelle collaborazioni e negli scambi culturali. Oggi questo è un ottimo modo per poter far sì che artisti famosi e meno famosi vengano insieme a contatto per creare qualcosa. Claudio, che ha in gestione artistica Vittorio e i suoi New Trolls, gli ha fatto ascoltare le nostre tracce e lui ha gradito istantaneamente al punto di collaborare insieme a noi e, con nostro grande piacere, ci siamo ritrovati ad averlo al nostro fianco con suo grande entusiasmo, offrendosi in modo molto creativo di partecipare con la sua voce ed il suo flauto traverso, oltre che i suoi preziosi consigli.

In ambito prog l’artwork è parte integrante dell’intera proposta; nell’occasione avete chiesto aiuto ad un nome importante, Paul Whitehead: che tipo di valore aggiunto reale avete ricevuto?

Sicuramente Paul ha impreziosito il nostro lavoro con la sua opera, cogliendo il mood della musica. Si è particolarmente ispirato al testo della titletrack e ne siamo orgogliosi. Quando ci ha presentato il lavoro finito ne siamo rimasti entusiasti. Con due “padrini” cosi sostanziosi, chi non lo sarebbe?

Avete pianificato qualche data, italiana ed estera, per pubblicizzare “Skyline”?:

Per il momento siamo al lavoro per integrare una collaborazione musicale con un bassista per i live (sul disco ho suonato il basso su tutte le tracce). Qualche data di warm-up in estate in Italia per poi partire con la presentazione di Skyline questo settembre, in Inghilterra, con un tour di quattro concerti. Le altre trattative si rivolgono alla stagione autunnale e puntano al nord Europa. E poi verrà il Giappone, dove Skyline verrà lanciato direttamente da etichetta giapponese in estate.

Chiedo quasi sempre, soprattutto ai giovani, un giudizio sullo stato della musica: possibile avere un atteggiamento positivo, a metà 2015?

Avere un atteggiamento positivo aiuta sicuramente a credere nei propri progetti e a portarli avanti. Noi stessi abbiamo il dovere di essere positivi dentro di noi, perchè la fuori non è un bel mondo. Per quanto riguarda il nostro paese, lo stato attuale della musica credo sia arrivato ai limiti della decenza. Per colpa dei media i giovani hanno una concezione della musica come di una ''gara''. Tutto è incentrato sulla competizione. I talent decidono chi è il più bravo, molto spesso con termini di giudizio assai discutibili e talvolta non lasciando neppure la libertà ad un artista di esprimersi per come è la sua natura. Per esempio, la caratteristica tonale ed espressiva di un cantante viene scambiata per un ''difetto'', quindi non riconducibile ad altri cantanti che, per piacere alla massa, devono assomigliarsi tutti ed avere il modo di cantare, di vestire e di muoversi omologato al resto.  La musica dovrebbe essere un elemento di aggregazione e il talento di un musicista non dovrebbe essere visto come una minaccia dai propri colleghi. Questo uccide la musica, uccide le speranze di un giovane musicista che, ahimè, si potrebbe abbattere dopo tanti sforzi perché le realtà e le speranze qui sono alquanto scadenti. Bisogna essere positivi, insistere e persistere nelle proprie passioni. La musica per me è come una stella cometa da inseguire. A volte ci sei così vicino che ti sembra di toccarla, altre volte gli ostacoli ti fanno cadere giù per terra. Ma non bisogna mai perderla di vista. Nonostante questa sia la situazione nel nostro paese noi lottiamo tutti quanti per inseguire i nostri sogni. Se si diventa negativi, meglio cambiare mestiere.

Che tipo di rapporto avete con la tecnologia? E’ tutto positivo?

Personalmente penso che la tecnologia moderna sia un'arma a doppio taglio. E' fantastico vedere come ogni giorno escano novità incredibili che possono aiutare e supportare l'essere umano durante tutto il processo creativo. E' meraviglioso confrontare il modo in cui creavo musica vent'anni fa rispetto ad oggi, tutto è molto più immediato. I computer sono stati una manna dal cielo per tanti versi, l'evoluzione dei software ci permette di fare cose senza limiti di possibilità. Ma allo stesso tempo penso che più ci sia concesso di fare meno facciamo. Quando scrivo per orchestra ad esempio, devo usare carta e penna.  Quando compongo un brano sono molto più produttivo davanti ad un semplice pianoforte, perché davanti ad un computer mi blocco.  La tecnologia per quello che mi riguarda aiuta tutto ciò che sta dopo che si è concepita l'idea, facilitandone sicuramente la sua realizzazione finale. Quindi per me vale la regola di usare la tecnologia, ma con parsimonia.

Tra i tanti mostri sacri del passato prog ne esiste uno che vi ha influenzato maggiormente?

Siamo stati tutti influenzati dai grandi gruppi progressive degli anni settanta, maggiormente E.L.P., Genesis e Jethro Tull. Ovviamente il tutto traspare dalla nostra musica, ma non voglio più ricalcare le orme del passato. In questo disco ancora di più cerchiamo un'identità personale, che può avere indubbiamente qualche richiamo ai nostri primi amori, ma che comunque tende ad allontanarvisi. Non voglio la polvere o l'odore di naftalina sulla nostra musica, anche se in questo genere è un'impresa molto ardua. E poi rimango della convinzione che la mia idea di musica dentro di me sia molto più influenzata da Bach e Beethoven più che da qualsiasi altro. Magari anche dai Beatles ?

Provate a proiettarvi verso un futuro… medio, che cosa potrebbe accadere ai Barock Project nei prossimi tre anni?

Considerando ciò che è successo solamente in questo ultimo anno, nei prossimi tre anni potrebbe accadere qualsiasi cosa! La cosa che escluderei è quella di un cambio di formazione, dato che ora abbiamo raggiunto una stabilità e un'armonia di gruppo che ci permette finalmente di poter lavorare in modo sano e proficuo. Questo posso assicurare che non è poco per la nostra band. Escluderei anche cambi di nomi, di sesso, di fedi calcistiche da parte di qualcuno di noi... potrei invece aspettarmi cambi di direzione sui gusti musicali. Odio fare le stesse cose, ripetermi e non avere quella sorta di ''sfida'' musicale che ho con gli altri membri del gruppo, la quale mantiene accesa la fiamma del confronto in modo costruttivo e ci permette di non annoiarci mai. Come in una sana relazione di coppia, no? Anche in un gruppo musicale bisogna mantenere vivo l'entusiasmo, cercare sempre il nuovo e il mai raggiunto prima di quel momento. Mi piace sorprendere e soprattutto sorprendermi.


La fase di pre-vendita si apre da ora attraverso il sito :

LA BAND:
Luca Zabbini - Tastiere, basso e cori
Luca Pancaldi - Voce
Eric Ombelli - Batteria
Marco Mazzuoccolo - Chitarre

CONTATTO: Claudio Cutrone claudio@starsofitaly.com

martedì 26 maggio 2015

Camelias Garden-"Kite"


A distanza di un paio di anni i Camelias Garden ritornano all’impegno discografico, e dopo il sorprendente You Have a Chance realizzano Kite.
Come evidenziato nell’intervista a seguire la scelta dell’EP nasce dalla necessità di creare un bridge tra passato e futuro, un trait d’union legato alla naturale evoluzione e maturazione della band, alla ricerca della conferma di un’identità che sorprese all’esordio.
Le modifiche alla line up e la pianificazione musicale di un percorso non certo semplice ha portato a risultati eccezionali.
Inizio col dire che ascoltando Kite il mio più grosso rammarico è quello di non poterlo avere… tra le mani, perché è un gioiello che brillerà solo sul web, e il contatto fisico mi pare indispensabile quando si parla di musica nobile come quella proposta dai C.G.
Le etichette si sprecano nel tentativo di dare una collocazione conosciuta a questi giovani e virtuosi romani, e chiacchierando si scopre che il termine post-progressive è quello preferito, ma trovo che la necessita di agire in progressione, parlando di musica, sia qualcosa che prescinde dal mellotron, dal moog, dalla storia concettuale e dalle immagini fantastiche, e diventi una vera e propria filosofia di lavoro, fatta magari di ricerca di armonie, di utilizzo di nuovi ritmi, di approccio tecnologico e strumentistico, ma soprattutto di sviluppo continuo di idee atte a creare un benessere di cui, purtroppo, solo le anime sensibili potranno godere.
Brani come Mellow Days, tanto per citare una perla dell’album di esordio, sono momenti di pura felicità da ascolto, ma ciò che troviamo in Kite è in buona parte un salto in avanti, una diversa visione della “faccia Camelias”, che ingloba il recente passato e prepara il terreno per il futuro, in un continuous improvement che affascina, per sforzo e risultato.
La musica dei Camelias Garden bussa alla porta prima di entrare, ma quando l’uscio si schiude irrompe con forza dirompente e penetra in tutti i pori, ma resta sua peculiarità il trasporto di note ed armonie del tutto sospese, come se il concetto di forza di gravità fosse sconosciuto, o solo adatto alla musica normalizzata.
Vorrei abbinare al sostantivo “Musica” l’aggettivo “educata”, perché la proposta dei C.G. conosce le buone maniere, un formidabile passepartout capace di aprire le serrature del cuore e della mente, volando alto, magari utilizzando l’aquilone/kite che, forte della sua posizione privilegiata, suggerisce la migliore strada possibile.
Sì… musica educata mi piace!
Ascoltando Kite, tra le tante contaminazioni ne ho trovato una rilevante, forse inconscia, ma sono immediatamente tornato con la mente a quel  Ashes Are Burning dei Renaissance che tanta gioia mi diede da adolescente.

Ma quanto sono bravi i Camelias Garden!!!


L’INTERVISTA

Mi pare d’obbligo chiedervi una sintesi della vostra storia che, se pur giovane, appare già ricca di elementi significativi.

Nasciamo tre anni fa, dentro una cameretta piena di strumenti, con l'intento di liberarci di esperienze musicali poco produttive e di raccogliere quanto di buono appreso dai lavori passati e dalle altrettanto importanti fruizioni come ascoltatori. Dopo aver fatto girare una manciata di brani demo ed aver raccolto buoni feedback da parte di qualche label prog-rock, abbiamo realizzato il primo disco con l'aiuto di AltrOck e soprattutto di Massimo Dolce dei Gran Turismo Veloce, che ha curato nel minimo dettaglio la produzione dell'album quando eravamo ancora un trio pieno di punti interrogativi e di arrangiamenti troppo pesanti per essere eseguiti in un set così ridotto. Dopo l'uscita di 'You Have a Chance' la band ha assunto la conformazione che l'ha accompagnata per l'anno e mezzo successivo, e cioè una combo di cinque elementi che si è trasformata continuamente per quasi due anni - ad eccezione di Valerio - e che nel corso degli ultimi mesi, come conseguenza della lavorazione del nuovo Ep, si è stabilizzata nell'attuale formazione a quattro che da quest'estate porterà 'Kite' in giro per i palchi di tutta Italia.    

Come descrivereste la vostra musica a chi non ha mai avuto l’opportunità di ascoltarla?

Abbiamo dato tanti appellativi alla nostra musica, che tecnicamente è un ibrido tra prog vecchio stampo, neo folk e qualche sferzata postrock. Il termine più adatto e sintetico che ci piace usare è quello che ultimamente va molto di moda, cioè post-progressive, che riassume abbastanza chiaramente l'idea di costruire musica con diverse contaminazioni e che non si fermi ai classici stilemi che caratterizzavano l'idea di progressive e jazz-rock nel passato.

L’album di esordio, You Have a Chance, ha destato molto interesse e stimolato confronti: quali sono le vostre fonti di ispirazione? Esiste un artista/band del passato che vi mette tutti d’accordo?

Di fonti d'ispirazione ce ne sono tantissime, dai Fleet Foxes ai Genesis per partire da quelle basilari, fino ad arrivare agli Explosions in the Sky o ai God is an Astronaut per quanto riguarda l'ultimo periodo. Ma anche James Blake, Tame Impala, Steven Wilson, Beach Boys, tutte cose che si notano se si ascoltano attentamente i nostri brani.
Credo che la band del passato che ci mette tutti d'accordo siano i Beatles!

Veniamo al nuovo lavoro, KITE: l’utilizzo della media lunghezza è una precisa scelta discografica?

Sì, abbiamo pensato a questo lavoro come un punto di raccordo fra il primo disco e qualcosa che inevitabilmente arriverà in futuro, e che probabilmente continuerà questo processo di ibridazione stilistica che abbiamo intrapreso fortemente con 'Kite'. La media lunghezza ci sembrava un'ottima soluzione per cominciare questo processo con naturalezza.
A livello pratico, la metà dei brani inclusi in 'Kite' sono nati in contemporanea con l'uscita di 'You Have a Chance', tanto che sarebbero stati benissimo in una versione Deluxe di quest'ultimo, e abbiamo sempre pensato che erano ancora molto legati alla cifra stilistica di esso.
L'altra metà è frutto di elaborazioni complesse su materiale vecchio e nuovo e che sono sfociate poi in particolari soluzioni presenti in Kite (la title-track) o in un brano come Useless, cose che sono abbastanza diverse da quello che abbiamo fatto in passato e che probabilmente porteranno ad un'ulteriore evoluzione futura.

Qual è l’anima dell’album? Trattasi di concept?

No, l'album non è un concept nel senso più stretto del termine. Ci sono dei rimandi melodici, anche qualcosa nei testi che tiene legato il tutto, ma non è stato pensato né messo a punto per essere un concept.

Sono sempre interessato all’artwork, che in questo caso non posso vedere: mi date qualche elemento?

L'artwork è esattamente quello che si vede sul web.
Questo Ep (tolta qualche copia fisica stampata appositamente per il release party) è stato studiato per un'uscita esclusivamente digitale, e l'artwork si compone sostanzialmente della front-cover che tutti possono vedere ovunque su internet.
La cover è ovviamente incentrata sulla title-track che da anche il nome all'album, 'Kite', ed è stata realizzata da una bravissima artista romana che si chiama Isabella Latini.

Quali sono le maggiori differenze tra il primo atto e quest’ultimo?

Se il primo lavoro evidenziava una miscela di progressive e folk acustico, il secondo ha sicuramente un approccio più elettrico e sperimentale. Il rivoluzionario cambio di line up ha apportato all'arrangiamento nuovi spunti e approcci musicali. L'ep disegna vari paesaggi sonori e potremmo definirlo trasversale, perché spazia dal progressive psichedelico passando per ritmiche funky/ pop fino a sfociare nel postrock: è un disco molto colorato.

Mi date un vostro giudizio sullo stato della musica?

La situazione musicale, specialmente a livello nazionale, affronta un grosso periodo di crisi dal punto di vista finanziario e strutturale. Le condizioni dei locali dove si suona dovrebbero essere migliorate, si suona spesso in spazi non destinati alla musica, ma per lo più focalizzati sulla moda del momento. Il pubblico sicuramente va ad influenzare il mercato, spesso si va ad ascoltare la persona e non la musica che uno propone. Non vogliamo generalizzare troppo, ci sono delle eccezioni, ma in linea di massima è una buona descrizione dello stato attuale delle cose. Nonostante tutto, rimaniamo fiduciosi.

Siete più analogici o digitali, quando si parla di musica?

Siamo un mix e il disco lo evidenzia in pieno.

Come sono i Camelias Garden on stage?

On stage la formazione si è alleggerita, si è passati da 5 a 4 elementi, il che è tanto per un gruppo che girava portandosi dietro una innumerevole quantità di strumenti. Ora siamo più essenziali e più diretti, la formazione si è asciugata un po’, ma dal punto di vista logistico ne abbiamo tratto un grande giovamento

Possibile pensare già a scenari futuri?

Ovviamente sì. Per quanto riguarda il futuro prossimo abbiamo in programma di suonare live il più possibile, nei club e in tutte le occasioni che ce lo permetteranno, e a tal proposito stiamo preparando un calendario ricco di date. Un altro obiettivo che ci siamo prefissati è quello di suonare fuori dall'Italia: i feedback e le recensioni che ci arrivano d'oltralpe ci hanno decisamente motivato ad affrontare la dimensione Europea. Sarà dura, ma il percorso che abbiamo intrapreso è destinato a portarci fuori dai confini nazionali. Infine, come forse si è intuito, è già in cantiere l'idea di un nuovo lavoro discografico... ma ci penseremo meglio dopo l'estate!


Tracklist
Rise (2:05)
            Making Things Together (5:10)
            Kite (8:27)
            Red Light (3:22)
            The World Inside You (3:55)
            Useless (6:34)

Lineup:
Valerio Smordoni: voce e cori, tastiere, chitarra acustica
Simone Contini: batteria
Alberto Cari: basso
Claudio Bruno: guitars

Contatti:



lunedì 25 maggio 2015

Andrea Braido Band plays Deep Purple & Rainbow: Live in Hard!


Ancora una volta mi accingo a parlare della musica di Andrea Braido, passando dal jazz all’hard rock. Spesso la suddivisione in etichette diventa vezzo intellettuale, ma è indubbio che le caratteristiche e la libertà del primo genere citato determinano un approccio differente rispetto alla “durezza” e ai ritmi del secondo.
In questo caso siamo al cospetto di una dichiarazione d’amore, quella per certa musica nata ad inizio seventies e ormai diventata storia: nello specifico Braido e i suoi compagni di viaggio ci raccontano storie di Deep Purple e di Rainbow.
Mi piace commentare l’album “Live in Hard!” -Andrea Braido Band plays Deep Purple & Rainbow- a distanza di pochi giorni dai concerti del FIM, dove ho assistito ad una performance di Joe LynnTurner -assieme a lui Andrea Ranfagni e Alessio Vitali, che sono parte di questo disco- e a pochi metri dal Palasport dove vidi il concerto dei D.P. dell’11 Marzo 1973: gli “ammalati” di musica credono anche alle congiunzioni astrali più o meno favorevoli, e i collegamenti tra episodi significativi sono spesso favoriti dagli eventi musicali.
Live in Hard non era in preventivo, ma il risultato della serata è andato oltre le più rosee previsioni e così il concerto al Kulturwerkstatt Kammgarn in Hard (Austria) è diventato un album.
Il titolo completo svela la proposta, un mix di brani, tra Deep Purple e Rainbow, che vengono rivisitati mantenendo il canovaccio originale, ma con l’arricchimento personale, che è fatto di idee diverse, di epoche cambiate, di talenti alternativi e di voglia di mantenere vivo un filone che per alcuni tratti è diventato classico.
Tracklist sbilanciata sul mondo D.P., con l’album “Machine Head” fornitore del maggior apporto, ma con momenti topici tratti da Stombringer, Fireball e In Rock (nel video a seguire propongo l’intramontabile “Black Night”). Per il lato Rainbow sono presenti Spotlight Kid e la terminale Blues/Startruck. A fine post è presente la scaletta completa.
Andrea Braido propone uno dei suoi tanti volti, regalandoci una versatilità che suscita sana invidia. Grande chitarrista, dalla storia illustre, realizza un album di vero rock, dove le sue doti virtuosistiche emergono e si dilatano, intersecandosi con quelle di un team di grande livello. Anche il tema rock, in fase live, si presta all’improvvisazione, e le dilatazioni musical-temporali che fanno parte dell’album entusiasmano l’ascoltatore, che viene riportato indietro nel tempo, verso un periodo musicalmente eccitante riproposto con nuova tecnica, altra linfa, differente contesto.
Braido si dimostra il perno di tutto l’impianto, uno dei migliori chitarristi in circolazione, capace di colorare ogni tipo di sonorità, divertendosi e divertendo.
Un “live” sfugge alle normali regole di valutazione, perché l’atmosfera che si viene a creare è spesso elemento che supera la qualità della proposta e il metodo utilizzato; ciò che ho personalmente percepito è il giusto feeling di serata -la scelta di fissare il concerto su supporto fisico conforta la mia idea-, e la nascita di un rapporto osmotico tra band e audience, quello scambio vicendevole che porta a momenti magici, difficilmente spiegabili, ma che sono -o dovrebbero essere- obiettivo primario di ogni manifestazione a carattere musicale.
In questo caso il giusto mood è rimasto intrappolato nell’incisione, per la gioia di qualsia ascoltatore sensibile.
Musica immortale, inarrivabile, e una band, quella di Andrea Braido, capace da far rivivere il mito e di fornire una buona dose di felicità.
Black Night mi pare un buon assaggio!


L’INTERVISTA

Circa quattro anni fa ho commentato  un tuo lavoro discografico e nell’occasione ti avevo posto alcune domande: che cosa ti è accaduto, musicalmente parlando, in questo lungo periodo?

C’è stato un altro progetto molto ambizioso che ha visto la realizzazione con Videoradio del CD Andrea Braido with Bulgarian Symphony Orchestra, con brani originali e la conduzione ed orchestrazione di Marco Grasso in cui suono varie chitarre, come la classica, l’acustica, l’elettrica, il sitar elettrico ecc. Per il resto concerti vari con tema… il rock, il jazz, stage e sempre tanto studio di tutta la Musica, tempo permettendo!
Per una questione di equilibrio, quasi yoga, cerco di suonare la batteria acustica un’ora al giorno!

La versatilità di cui mi parlasti giustifica il fatto che il disco attuale non è di jazz, come accadde allora, ma un puro rock targato Deep Purple e Rainbow: quanto ti diverti nella parte di Blackmore?

Sinceramente il Jazz nella mia vita esiste in egual misura insieme al rock, al blues e ad altre musiche etniche; la grande Musica è una, poi ci sono linguaggi diversi che si intrecciano spesso!
Riguardo ai Deep Purple e Rainbow iniziai a suonarli live già verso i 16 anni con band locali del Trentino. Blackmore è entrato nella mia vita chitarristica subito dopo Hendrix,  e quindi ha accompagnato un periodo difficile ed irrequieto come l’adolescenza. In quel periodo cercare di suonare al meglio brani come Speed King, Fireball, Space Trucking era una liberazione contro il quotidiano della scuola e altri spregevoli Skrull (individui) che si incontrano già in tenera età! Perciò risuonare certi brani è molto viscerale per me, ed ormai nel mio DNA musicale, infatti anche quando suono Jazz e blues certe sonorità più dure escono fuori molto chiaramente.

Il disco non era stato preventivato, ma è il frutto della valutazione di un dopo concerto: che cosa ti ha convinto maggiormente della registrazione?

La decisione è partita in primis per la bella serata ricca di emozione e sinergia con il pubblico, e poi ho sentito delle cose che mi piacciono musicalmente, sia mie che della band! Tra l’altro in un bella location dove quando suono ricevo moltissime soddisfazioni,  ossia il Kammgarn di Hard,  in Austria!

Come è stata realizzata la scaletta del concerto diventato album?

L’ordine in realtà era quello dei pre-ascolti, dove era stata fatto un bel taglio sui brani meno convincenti, quindi a forza di ascoltare i pre mix abbiamo lasciato quell’ordine che in parte rispecchia anche il programma della serata.

Pochi giorni fa ho visto personalmente l’entusiasmo del pubblico mentre si esibivano Joe Lynn Turner e successivamente Ken Hensley, eroi rock dei seventies, mentre alle loro spalle si ergeva  il Palasport in cui vidi i Deep Purple nel ’73: pareva tutto immutato ma… come è cambiata la musica in questi quarant’anni?

E’ curioso il fatto che sul palco di Turner, riguardo alla serata a cui ti riferisci, ci siano due musicisti presenti nel mio live, ossia Andrea Ranfagni (vocals) e Alessio Vitali (bass/backing vocals) che ha dato un significativo contributo come editing e mastering delle tracce avendo una notevole esperienza ed un eccellente capacità d’ascolto!
Riguardo alla musica, è cambiata rispetto a come viene presentata e confezionata.
Una volta i video erano semplicemente una ripresa della band mentre suonava il brano sia live che in playback. Oggi i brani sono fatti in funzione di video che sembrano film in miniatura, probabilmente se non ci fossero ci si dimenticherebbe sia del brano che di chi lo canta! E’ evidente la volontà di mercificare la musica e renderla meno profonda rispetto a quel periodo, sta ad ognuno capire che cosa vuole avere dalla musica e a quale livello emotivo.

Mi racconti qualcosa sulla squadra che ti accompagna, produttore compreso?

L’idea di risuonare brani dei Purple e Rainbow venne ad Andrea Ranfagni (lead vocals) e dopo la sua proposta facemmo alcuni concerti con un esito molto positivo.
In seguito a varie valutazioni abbiamo creato un nucleo fisso del progetto, ossia il sottoscritto, Andrea Ranfagni e Alessio Vitali (bass/background vocals), mentre la parte rimanente, organo e batteria, viene cambiata rispetto alle zone geografiche.
In questo caso nel CD alla batteria c’è Fabio Nora ed alle tastiere Paolo Silvestri “Silver”.
Con Beppe Aleo (produttore) della Videoradio abbiamo fatto molti lavori insieme e ce ne sono  altri in serbo, ci accomuna la passione, l’impegno, la serietà ed il piacere di fare sempre progetti diversi!

Quale sarà il seguito dell’album? Proseguiranno i concerti per pubblicizzarlo?

Ci sono già almeno 3-4 concerti in programma dove sicuramente sarà pubblicizzato il CD!



Tracklist
1 - Picture Of Home
2- Spotlight Kid
3- Soldier Of Fortune
4- Lady Double Dealer
5- Space Trucking
6- Black Night
7-Highway Star
8-Lazy
9-Smoke on the Water
10- Stormbringer
11- Demon’s Eye
12- Blues/Startruck

Line up
Alessio Vitali: bass/vocals
Andrea Ranfagni: lead vocal
Paolo Silvestri: keyboards
Fabio Nora: drums




domenica 24 maggio 2015

Max Fuschetto-"Sùn Ná"


A distanza di cinque anni dall’uscita di Popular Games Max Fuschetto propone il suo secondo album, Sùn Ná, quaranticinque minuti di musica suddivisa su dieci episodi.
Il considerevole vuoto discografico si giustifica appieno quando si entra, in punta di piedi, nel mondo compositivo e nella ricercatezza dell’opera dell’autore.
Provare a spiegare in modo esaustivo questa nuova tappa mi pare cosa ardua, proverò quindi a concentrarmi sul feeling d’ascolto, con l’aggiunta di alcune note obiettive.
Esiste una continuità tra i due lavori, ma le differenze sono evidenziate dallo stesso Fuschetto, che battezza Popular Games come una raccolta di elementi, quasi disordinati, mentre uno degli obiettivi legati a Sùn Ná è  proprio lo sforzo di organicità e compattezza.
Ma gli ingredienti basici sono a mio avviso gli stessi, e caratterizzano tutta la musica ed il “personaggio Fuschetto”: profumo esteso di cultura aperta, senso della misura, gusto per l’estetica, amore per la ricerca, ouverture mentale e voglia di osare.
Ascoltando l’album fluttuano numerose le immagini, e la più consistente proietta Fuschetto in un continuo viaggio etereo, a cavallo di note e strumenti musicali quasi silenziosi, anche quando si resta nel campo della tradizione.
Sùn Ná sono due parole di  lingua Yoruba presenti in un canto africano raccolto da Gerhard Kubik che significano “dormi ora”, ma il “sunna” napoletano significa “sognare”, e tutto l’album si snoda su di una dimensione onirica che viaggia su binari musicali e letterali, e la centralità di Fuschetto si consolida con la materializzazione del crocicchio tanto caro al blues, punto di incontro di tante culture e di molteplici lingue, con l’inglese ed il francese che si mischiano ai dialetti campani, con spruzzate antiche di arbereshe e africano.
E’ un viaggio globale, alimentato dalla tradizione, dalla ricerca etnica ed elettronica, dall’utilizzo di una voce quasi aulica, quella di Antonella Pelilli, in grado di stordire anche quando il messaggio è giocoforza inarrivabile.
Max Fuschetto inventa un disegno musicale che riporta alla geografia della sua vita serena -e mi spingo a pensare che giovinezza e serenità costituiscano un connubio inscindibile, almeno in linea di principio-, ai suoi luoghi, alle esperienza di vita e, da ribadire, al sogno, vissuto senza limiti, perché patrimonio personale illimitato, concetto reale che permette ogni esagerazione, ogni amore, ogni viaggio e ogni sana sciocchezza infantile.


Trovo Sùn Ná un album magnifico, sinestesico, ancora una volta non facile, ma alla fine la musica, tutta quanta, la si può apprezzare anche senza conoscerne i dettagli e le peculiarità… senza capire gli sforzi compositivi enormi o i sacrifici continui… chi cerca cure e si affida al mondo dei suoni, in fondo, deve solo lasciarsi andare…


Hanagoori Music/distr. Audioglobe

Antonella Pelilli: voce
Pasquale Capobianco: chitarre
Giulio Costanzo: percussioni
Silvano Fusco: violoncello
Irvin Vairetti: voce
Valerio Mola: contrabasso
Andrea Paone e Marco Caligiuri: batteria
Vezio Iorio: viola
Franco Mauriello: clarinetto
Luca Martingano: corno
Giuseppe Branca: flauto
Andrea Chimenti: voce
Max Fuschetto: oboe, sax soprano, pianoforte, piano rhodes

Info:
Max Fuschetto:
Audioglobe:
Synpress44 Ufficio stampa:


sabato 23 maggio 2015

Steve Hackett: "Spectral Mornings" Charity EP


Spectral Mornings 2015 EP

Steve Hackett: "Spectral Mornings" Charity EP

Notizie catturate dalla rete…

Spectral Mornings è uno strumentale di Steve Hackett, che dà il titolo ad uno dei suoi album più amati. Ora il brano è stato rielaborato in versione cantata con un super cast di all stars per finalità benefiche.
Il video è stato puramente girato a scopo benefico per sostenere una nobile causa e per supportare coloro che sono affetti dal morbo di Parkinson e vede la partecipazione di illustri ospiti quali Rob Reed (Magenta), Christina Booth, David Longdon, Nick D’Virgilio, rispettivamente nei Big Big Train, e Nick Beggs (Steven Wilson).


L’iniziativa è nata in seguito alla decisione del frontman dei Magenta nel voler coverizzare la titletrack dell’album di Hackett del 1979, poiché, come lo stesso artista afferma, ha da sempre amato quello specifico brano, affermando:

Ho pensato che fosse favoloso poter ri-registrare quella canzone aggiungendo un testo. David ha scritto agli artisti e insieme abbiamo abbozzato una demo, il cui risultato era strepitoso. Avevo in mente l’idea di realizzare un duetto per cui mi sono rivolto a Christina. Gentilmente Steve ha dato l’okay per suonare le parti di chitarra nel brano e il tutto è risultato meraviglioso. Penso che abbiamo rispettato il brano originale e fortunatamente siamo riusciti anche a dare qualcosa di nuovo”.