Pensi a Bali e senti
il profumo del mare, della vacanza, delle spiagge incontaminate, del sole e
della serenità!
Oppure il pensiero
corre verso la cultura artistica, la pittura, la scultura e l’intaglio del
legno.
Turismo, elementi
geografici, storia, ma… mai sarei arrivato a scoprire la musica di Balawan, se non mi fosse stata
segnalata.
Ecco cosa ho trovato
in rete su di lui…
I Wayan Balawan(nato il 9 settembre 1973 a Bali ), più noto con il nome singolo di
Balawan,
è un chitarrista e compositore indonesiano. E’ meglio conosciuto come Batuan Ethnic Fusion, ed è nota la sua
capacità di suonare la chitarra a doppio manico.
Balawan ha sviluppato
la tecnica 8 Fingers Touch Style, conosciuta
anche come Touch - Tapping Style.
E’ considerato uno dei
chitarristi più veloci in Indonesia, ed è chiamato anche The Magic Finger, un
chitarrista magico all'interno della comunità mondiale dei musicisti.
Balawan ha sviluppato
e ampliato la sua tecnica che gli permette di suonare due o anche tre diverse
progressioni musicali contemporaneamente, utilizzando lo stesso strumento. Un
altro chitarrista importante che applica questo tipo di tecnica è Stanley Jordan, un
musicista di jazz / fusion americana.
Balawan ha sviluppato
la stessa progressione di Stanley Jordan, che è in grado di produrre pianoforte,
basso e chitarra allo stesso tempo, utilizzando un solo strumento .
Di solito Balawan
utilizza tutte e quattro le dita della mano destra per creare le successioni
melodiche, e la sua mano sinistra per creare i bassi e suoni ritmici. Un'altra
cosa unica è che non vi è alcun motivo o ripetizione di sorta tra la mano
destra e sinistra.
L’esordio dei savonesiThe Lonesome Picking Pinesprende il
titolo di “Scanzoncina Folk”.
Lo scambio di battute a seguire aiuta nella
comprensione del loro mondo, conosciuto in termini di materia, ma qui proposto
in modo originale.
Non è difficile immaginare il genere, se solo si ha
la possibilità di visionare il CD, perché le immagini - e il tipo di strumentazioni
utilizzata - conducono senza alcun dubbio verso il mondo americano, quello
fatto di blues, di folk, di bluegrass. Termini generici, famiglie e
sottofamiglie, con divagazioni filosofico-musicali che, anche per i meno coinvolti,
hanno un significato molto preciso e uno spazio geografico ben delimitato.
Ma chi ha avuto l’opportunità di bazzicare quei
luoghi, un tempo quasi irraggiungibili, si sarà accorto di come sia difficile
ottenere una patente che possa assimilare il musicista “straniero” al verace country man
locale, qualunque esso sia: l’abilitazione non ha niente a che vedere col
talento e non è neppure una misura difensiva, ma la differenza risiede nella
capacità emozionale… è quella che viene giudicata, e superare l'esame potrebbe richiedere un tempo infinito!
I The Lonesome Picking Pines non si pongono il
problema… occorre vivere con i piedi per terra, la propria terra, ed ecco che
tutto l’amore per il continente americano viene rovesciato nel disco di
esordio, fatto di brani inediti, che presentano un grande elemento di
originalità, e direi anche un discreto manifesto: mi riferisco all’utilizzo in
toto della lingua italiana e, come vedremo, anche qualcosa di più ardito.
E quale sarebbe la novità? Una band italiana che
canta… in italiano?
Beh, a memoria non ricordo nessuno che lo fa, all’interno
di un genere così carico di paletti fissi, un contenitore fatto di libertà,
certo, ma solitamente imprescindibile da alcuni accordi/strumenti e da una
lingua ufficiale, che si mischia ad un’estetica precisa.
Questo esordio ci regala la freschezza - e il
coraggio - di un trio acustico che sembra arrivato direttamente da Nashville, o
dalla vicina Memphis, pronto a raccontare i comuni momenti di vita evidenziando
che le idee messe in campo non devono richiedere uno sforzo traduttivo, perché i
messaggi devono arrivare chiari e comprensibili, alla faccia delle tante
banalità - nei significati - che da sempre ci vengono propinate dall’ovest, mascherate
da un idioma fascinoso e particolarmente adatto alla forma canzone.
I The Lonesome Picking Pines scrivono le loro
canzoni anche nella lingua di Albione, ma nello specifico scelgono la purezza
comunicativa, trasmessa attraverso le loro ballad che colpiscono al primo
ascolto.
Sono macigni i loro maestri, salde le loro linee
guida, e lo studio e la passione verso certa musica emerge ad ogni nota.
Otto i brani, anzi, nove, perché la ghost finale fa
emergere un’altra caratteristica del gruppo, la riscoperta/mantenimento della
tradizione e della cultura locale, che nell’ultima traccia si manifesta
attraverso la riproposizione di “Ohi me mì”
- canzone numero sei - ma in lingua
dialettale, e l’effetto è sorprendente, di sicuro effetto.
Debutto incoraggiante, legato all’originalità e
alla vena creativa di questi musicisti, giovani, ma con una significativa
gavetta alle spalle. Per i crediti - Alessandro Mazzitelli, Alex Raso e Martin Cervelli - scendere di qualche riga....
E dal vivo l’emozione continua…
L’INTERVISTA a... Marco "Poldo" Poggio, Marco Oliveri e Andrea Oliveri
Mi raccontate un po’ la storia dei The Lonesome Picking Pines? Come
nascono e come si è evoluto il progetto?
I
Lonesome Picking Pines nascono nel 2009 da un'idea del nostro batterista Marco
"Poldo" Poggio, quella di formare un gruppo dedito alle sonorità
elettro-acustiche dell'alternative country americano di band come Wilco, Uncle
Tupelo e Whiskeytown. Negli anni l'assetto della band si è consolidato intorno
al trio acustico, e il suono si è ampliato al folk più classico, quello legato
ai cantautori come Woody Guthrie, Bob Dylan e Neil Young. Per parecchio tempo,
fin dalle origini, a nome "Lonesome Pines", solo di recente abbiamo
aggiunto il termine "picking", con il quale abbiamo firmato il nostro
primo album. Durante la lavorazione del disco, infatti, abbiamo scelto di
chiamarci con un nome che identificasse solo noi e non creasse confusione con
altre band omonime di bluegrass attive negli Stati Uniti.
Dopo una lunga gavetta fatta, se non sbaglio, di riproposizione di brani
altrui, siete arrivati all’album d’esordio, fatto di inediti: come è maturata
la scelta?
Per la
verità abbiamo scelto di proporre brani inediti fin dall'inizio: infatti, nei
nostri primi concerti e sui primi demo avevamo già alternato pezzi nostri a
covers rappresentative del nostro genere, pur sempre riarrangiate con due
chitarre acustiche e percussioni.
La
voglia di pubblicarne alcuni su un disco vero e proprio era forte quanto
indispensabile, dopo diversi anni di concerti. Così, ultimamente abbiamo deciso
di entrare in studio per concretizzare l'aspetto più "originale" del
nostro progetto.
Da dove nasce l’idea del titolo, “Scanzoncina Folk”?
"Scanzoncina
Folk" è una parola-macedonia di mia invenzione che indica la
"canzoncina" non troppo perfetta, sicuramente non seriosa, un pò
scalcinata e, appunto, scanzonata. Un'attitudine, piuttosto che una vera
intenzione, che, per certi versi, ritroviamo spesso nella nostra musica,
soprattutto in molti brani del disco e nella copertina un pò insolita.
La lingua che avete scelto è l’italiano, di solito non abbinato al
genere che proponete nel disco, molto West Coast, come indica anche la
strumentazione utilizzata: come siete arrivati a questa scelta?
Quando
abbiamo cominciato a lavorare a canzoni nostre, non ci siamo posti troppo il
problema di quale lingua utilizzare nei testi, perché abbiamo sempre scritto
sia in inglese sia in italiano. Però, al momento di pensare ad un primo disco,
abbiamo riflettuto su quanto poteva essere più originale cimentarci con la
lingua italiana in brani che risentono molto dell'influenza dei cantautori folk
e country americani, dal punto di vista della musica, del suono, dell'arrangiamento
e, come dici tu, della strumentazione utilizzata.
Inoltre,
per l'opera prima volevamo anche comunicare in qualche modo da dove proveniamo,
così la lingua con cui pensiamo e parliamo quotidianamente ci è sembrata la più
adatta.
Non solo italiano, ma anche una chicca in forma dialettale: quanto sono
importanti per voi la tradizione e la cultura locale?
La
tradizione e la cultura locale per noi sono importanti fino ad un certo punto:
nelle canzoni teniamo spesso in considerazione i modi di dire legati alla
nostra parlata locale, ma è comunque tutto in relazione alla musica. Nella
versione in dialetto savonese di "Ohi Me Mì", l'intento è sempre
quello di mettere insieme il nostro linguaggio con la canzone d'ispirazione
americana. In un periodo in cui il dialetto è - fortunatamente - sempre più
utilizzato in musica, ma in arrangiamenti moderni e meno legati ad una
tradizione, anche noi abbiamo voluto mettere in gioco in questo senso la
parlata della nostra terra.
Mi raccontate qual è l’anima dell’album?
Avevamo
in mente un album ispirato, impegnato ma non troppo serioso, fresco e
coinvolgente. "Scanzoncina Folk" doveva rispecchiare il nostro modo
di concepire la musica, che è anche diretto, intuitivo e, come dicevamo prima,
sanguigno, spiritoso, scanzonato. Così ci siamo messi al lavoro seguendo questa
idea, riscontrabile tanto negli arrangiamenti delle canzoni quanto nella
copertina e nel titolo del disco.
Avete pianificato presentazioni e live di pubblicizzazione?
Sì, a
partire dall'uscita dell'album, avvenuta ai primi di giugno, la nostra
intenzione è quella di portare "Scanzoncina Folk" in giro in tutti i
modi possibili, promuoverlo, farlo ascoltare e conoscere. Infatti, dopo averlo
suonato dal vivo in diverse occasioni quest'estate, recentemente lo abbiamo
anche presentato all'ultima edizione della Fiera Internazionale del Disco e del
Cd di Vinilmania a Milano, e proposto a radio locali e riviste di musica come
"Rockerilla", che l'ha recensito sul numero di ottobre. Il nostro obiettivo
è continuare in quest'ottica anche nei prossimi mesi e in futuro, e il prossimo
13 novembre queste canzoni saliranno con noi anche sul palco della rassegna di
musica d'autore "Su La Testa Contest".
Esiste qualcuno oltre a voi che giudicate fondamentale per il
raggiungimento dell’obiettivo “album”?
Sì, di
certo al raggiungimento di questo obiettivo, oltre a noi, hanno contribuito in
modo decisivo amici e collaboratori che ci hanno aiutato dal punto di vista
tecnico, su tutti il fonico Alessandro Mazzitelli, il grafico Alex Raso e il
fotografo Martin Cervelli, ma anche le persone che ci sono state vicino
moralmente, come le nostre famiglie e i tanti musicisti colleghi che ci hanno
dispensato i loro preziosi consigli.
Che tipo di futuro musicale immaginate per i TLPP?
In
futuro speriamo che il nostro primo album possa essere uno strumento per farci
conoscere da un pubblico sempre più vasto, farci muovere i primi passi in
ambienti importanti per il tipo di musica che facciamo, anche e soprattutto a
livello nazionale. Speriamo che ci permetta di attirare attenzioni, che ci dia
modo di crearci tante occasioni e nuove collaborazioni, ma anche motivi per
confrontarci, crescere, cambiare e migliorarci. Fondamentalmente, pensando ad
un futuro, speriamo di continuare a suonare insieme, scrivere altre canzoni,
compiere sempre più chilometri, avere sempre nuovi stimoli e nuove idee.
Ho passato l’estate del 2014 con il sottofondo di Back
To The Stars, dei Røsenkreütz:una scoperta sorprendente per chi, come me, ama un
certo genere musicale, all’insegna della qualità.
Ricordo di aver incocciato la t-shirt dei Røsenkreütz nel
maggio scorso, al FIM di Genova e, non sapendo trattenermi, ho commentato con
chi la indossava, Gianni Della Cioppa,
conosciuto nell’occasione, casualmente impegnato come me su uno dei palchi
della Fiera: “Grande gruppo!”. Fu questo il mio commento ad altra voce, e fu
facile iniziare a parlare di musica, partendo proprio dalla band veneta.
Non ho mai visto i Røsenkreütz dal vivo, e so di aver perso
qualcosa di piacevole, perché le immagini a seguire - il concerto intero al Club Il Giardino, all’interno del Verona Prog Fest 2015 - confermano tutte
le impressioni da ascolto precedenti.
E’ proprio a Della Cioppa spetta il compito di introdurre il
gruppo, che sarà poi protagonista di una performance notevole… guardare - e ascoltare
- per credere!
Articolo già apparso su MAT2020 del mese di Ottobre…
Fotografie di Francesco Monti.
Tra le novità che ho potuto rilevare al Festival di
Veruno - purtroppo la mia presenza riguarda solo la prima giornata - ci sono , band giapponese guidata dalla tastierista Yuka Funakoshi.
Ero curioso di sentire la musica proposta dall’Oriente,
un pese solitamente “attaccato” al genere prog, e molto interessato ai gruppi
italiani; generalmente si pensa che determinata musica, quando esce dai confini
tradizionali, abbia minor spessore, ma la globalizzazione in atto ci permette
di arrivare quotidianamente in paesi a cui abbiamo sempre abbinato immagini
stereotipate, scoprendo che, sì, anche loro, propongono musica pregevole.
E se i lettori di MAT2020 hanno avuto modo di seguire le
proposte di Mauro Selis e della sua musica itinerante, avranno scoperto cose
nuove, piacevoli e sorprendenti.
Anche la musica di Yuka &
Chronoship segue questa regola, o almeno quella che ho avuto modo di sentire
dal vivo nell’occasione del 2Day Prog +1 di Veruno. Prettamente strumentale, si
basa sul virtuosismo dei musicisti che propongono brani di lunga durata,
miscelando rock, fusion e variazioni dei tempi. Yuka conduce e tira le fila
della band, e per chi volesse saperne di più, propongo la mia testimonianza
diretta:
Ho posto qualche domanda a Yuka, molto gentile, virtù di
cui ha dimostrato anche sul palco, sforzandosi di leggere in lingua italiana… e
non è da tutti!
L’intervista…
Come e quando nasce Yuka
& Chronoship?
YUKA & CHRONOSHIP
nasce nel 2009 da una mia idea - che sono tastierista, compositrice e vocalist -
insieme a tre importanti musicisti di studio: il bassista Shun Taguchi, il
chitarrista Takashi MIYAZAWA e il batterista Ikko Tanaka. I membri sono stati scelti
dopo accurata selezione.
Che tipo di cultura
musicale avete alle spalle?
I nostri gusti musicali
sono completamente diversi, e forse questo si può captare ascoltando la nostra
musica. C’è chi ama il rock duro, chi la fusion, o chi identifica nel rock classico
dei seventies la strada maestra. Shun è esperto in Prog degli anni '70 e
Takashi, il chitarrista, è più focalizzato sul moderno prog metal.
Da dove nasce il vostro
amore per la musica prog?
Amiamo il rock
progressive perché è misterioso, un luogo ideale e magnifico, e
crearlo/suonarlo è come sentirsi sempre in viaggio, tra spazio e tempo.
Quali sono i gruppi
storici che vi hanno ispirato maggiormente?
L’influenza varia per
ogni membro, a secondo dello strumento che si suona, ma ciò che ci ha più colpito,
e che ci accomuna, sono le prog band degli anni ’70, e nutriamo per loro una
sorta di venerazione.
Mi puoi sintetizzare la
vostra discografia?
YUKA & CHRONOSHIP ha
pubblicato sino ad oggi due album: l'album di debutto, "Water
Reincarnation" ( Musea, Francia, 2011), raffigura un ciclo dell'acqua
sempre ricorrente. Due anni dopo la band propone sul mercato "Dino Rocket
Oxygen" (Musea Parallèle, 2013), illustrato da un logo disegnato
nientemeno che da Roger Dean; questo secondo album - per me fantastico - offre
l’immagine di tre differenti epopee filosofiche e mescola rock sinfonico,
jazz-rock, new-age e musica etnica. Inoltre, Yuka & Chronoship stanno
preparando il loro debutto inglese con il 3° album, " The 3rd Planetary
Chronicles (第三惑星年代記)", distribuito dalla Cherry Red
Records Ltd nel Regno Unito: data prevista il 25 settembre 2015.
Ho visto il pubblico di
Veruno molto esaltato per la vostra prestazione, e penso anche che abbia
apprezzato il tuo sforzo di esprimerti nella nostra lingua: qual è il tuo
giudizio circa l'esperienza appena conclusa?
Abbiamo consapevolezza
che l'Italia rappresenta una potenza nel mondo Prog, insieme al Regno Unito.
Siamo onorati di aver ricevuto un sacco di applausi dalle persone presenti al
festival, e questo diventerà un grande stimolo per il lavoro futuro. Abbiamo
sinceramente apprezzato tutto il pubblico presente a Veruno, che ci ha
sostenuti e ha dimostrato calore e competenza inusuale.
Che cosa propone il
Giappone a livello di band prog?
La maggior parte dei gruppi
rock progressive giapponesi si basano sullo stile e sulla tecnica. Penso che ci
siano davvero poche band che producono rock progressivo sinfonico come facciamo
noi, che pensiamo all’importanza del brano musicale in sé e non solo al
virtuosismo.
Come descriveresti a
parole la vostra musica, pensando a chi non ha mai avuto occasione di
ascoltarla?
A quelli che non hanno
mai sentito la nostra musica proverei a dire che… si tratta di rock in versione
sinfonica!
Meglio la musica dal vivo o il lavoro in studio?
I nostri fan dicono che
"… il CD è bello, ma il concerto è superbo e supera il lavoro in studio!”.
Noi amiamo molto di più il concerto rispetto al lavoro di registrazione, perché
sono le occasioni in cui possiamo capire immediatamente la reazione del pubblico.
Probabilmente possiamo essere considerati una “Live Band”!
Cosa c’è nel futuro di
Yuka & Chronoship?
Vorremmo rilasciare un
album di buona qualità, al massimo ogni due anni, continuando a pieno la nostra
attività con l’obiettivo di affermarci in Europa.
Proprio come gli
scienziati conducono esperimenti utilizzando le loro conoscenze per esplorare
l'ignoto, The
Aaron Clift Experiment combina elementi di natura classica e della
musica d'avanguardia sintetizzando in un tutto innovativo.
Le canzoni esclusive
della band attingono da un vasto contenitore di influenze - da classici gruppi
rock progressive come Genesis, Pink Floyd, e Rush sino a gruppi più moderni,
come Porcupine Tree e Opeth, arrivando sino a compositori classici e jazz come
Beethoven, Schubert, e John Coltrane. All’interno di un mondo sperimentale e in
evoluzione, parte della produzione è dedicata al soul, a un tipo di musica molto energica e ad un intensa
attività live.
Nel 2012, la band ha
pubblicato il suo album di debutto, "Lonely Hills",
ottenendo confortanti recensioni e riconoscimenti, sia da parte del pubblico
che della stampa specializzata, e la band è stato nominata tra le migliori nel
panorama di quelle emergenti, nel 2013, da parte di Prog Magazine.
Con l'uscita del
secondo album, "Outer Light, Inner
Darkness", rilasciato da pochi giorni, , The Experiment Aaron Clift continua a
seguire la strada dell’innovazione, fondendo la raffinatezza e la profondità
della musica classica con la passione e la potenza pura del rock and roll.
Quello che era
iniziato come un'idea embrionale, l’esigenza di creare musica “nuova”, è ormai
sbocciato in un esperimento vero e proprio, i cui risultati sorprendono e fanno
ben sperare per il futuro.
Ecco il pensiero del fondatore della
band, Aaron Clift…
Come e quando è stata fondata la band e perchè avete scelto il nome The
Aaron Clift Experiment”?
Gli inizi di The Experiment Aaron Clift risalgono al 2008, quando ho
iniziato a scrivere le versioni demo di canzoni che avrebbero trovato posto
successivamente nel primo album della band, "Lonely Hills". A quel
tempo avevo già scritto composizioni classiche, ma stavo cercando di mettere
insieme un nuovo progetto che sarebbe stato più rock-oriented. Originariamente
volevo una band di appoggio ad un progetto solista, ma ho pensato che sarebbe
stato troppo noioso presentarmi solo con il mio nome. Mi è piaciuta la
soluzione che trovò Jimi Hendrix, che chiamò il suo gruppo “The Jimi Hendrix
Experience”, e ho pensato che sarebbe stato bello riproporre un nome simile. Ho
scelto la parola "esperimento" perché questo è esattamente quello che
volevo diventasse la band, il tentativo di coniugare influenze musicali
complesse con altre più nuove, creando così sonorità uniche. Alla fine del 2011
ho assemblato la formazione originale della band, e nei primi mesi del 2012
abbiamo registrato il nostro album di debutto, "Lonely Hills. " Da
quel momento abbiamo avuto un paio di cambi di formazione, sviluppando così il
nostro sound, trasformandolo da progetto “solo” a quello di una band a tutti
gli effetti.
Quali sono le passioni musicali che legano i musicisti della band?
Una delle cose uniche che riguarda The Aaron Clift Experiment è che tutti
noi abbiamo una cultura basata sulla musica classica e sul jazz - io
(tastierista e vocalist) e Eric Gutierrez (chitarra) abbiamo ottenuto una
laurea in composizione musicale, Devin Nord (basso) sta per ottenere la laurea
in musica e Joe Resnick (batteria) ha fatto buona esperienza suonando in
un'orchestra sinfonica. Dal momento che abbiamo suonato tanti generi musicali
differenti, non solo rock, abbiamo coltivato gusti trasversali all’interno del
mondo musicale, e credo che questo aiuti nel dare un tocco di diversità al
nostro songwriting.
Vivete ad Austin, e quando penso a quella città mi vengono in
mente Janis Joplin e Steve Ray Vaughan: che spazio ha una musica così difficile
come la vostra in un paese come il Texas, più vicino al rock blues?
La nostra proposta, ovviamente, non si adatta sempre al
modello blues, country e indie rock per cui Austin è famosa, ma siamo stati in
grado di trovare uno spazio significativo che ci consente di proporre con
semplicità e continuità la nostra musica. Siamo stati molto fortunati a
lavorare con un sacco di talentuose band di rock progressive locali, come
Transit Method, Groove Think, Opposite Day, and Wonderbitch. Direi che questo è
un buon momento per venire ad Austin e verificare la crescita della scena
progressive rock.
Recentemente avete rilasciato il vostro secondo album, Outer
Light, Inner Darkness: puoi spiegarmi il significato del titolo e la sua
eventuale concettualità?
“Outer Light, Inner Darkness è un album sulla dualità. Tutte
le canzoni dell'album in qualche modo raccontano storie di forze opposte in
conflitto tra loro - i brani della prima metà dell'album si focalizzano sui
conflitti mentre le canzoni poste nella seconda parte del disco rappresentano
un viaggio verso la conciliazione. Il titolo dell'album si riferisce all'idea
che tutte le persone posseggano un lato chiaro e uno oscuro, insiti loro
natura, aspetti che fatalmente si intrecciano. L'ultima canzone dell'album,
"Bathed in Moonlight", è una canzone che parla di come l'umanità
possa imparare ad unire la sua luce esterna con l’oscurità interiore, facendo
diventare il tutto un’unica unità che contiene in sé entrambi i lati della sua
natura.
Come si è evoluta la vostra musica a partire dall’album di
debutto sino ad oggi?
Il più grande cambiamento nel nostro sound è avvenuto con
l'introduzione di Eric (chitarra) e Devin (basso), che hanno sostituito i
membri originali. Nel primo album ho scritto e organizzato io tutte le canzoni,
ma in “Outer Light, Inner Darkness" ho collaborato con Eric e Devin su
molte delle creazioni. Il vantaggio di avere altri due cantautori di grande
talento nella band è che il nostro sound è diventato molto più diversificato, e
che siamo stati in grado di spingerci l’un l'altro nello scrivere al di fuori
della nostra zona conosciuta.
Come definiresti, a parole, la vostra musica, per qualcuno
che ancora non la conosce?
The Aaron Clift Experiment è una moderna progressive rock
band con influenze diversificate, modellate attraverso l’hard rock, la classica
e il jazz.
Che cosa avete pianificato per il futuro?
Stiamo finendo il 2015 con una serie di concerti ad Austin.
Entro la fine dell'anno rilasceremo un EP live di registrazioni del nostro
album, "Outer Light, Inner Darkness", uscito il 27 agosto. Per il
2016 stiamo progettando di aumentare i nostri live shows, soprattutto al di
fuori di Austin. Abbiamo un sacco di fan in Europa e speriamo di partecipare ai
festival che si realizzeranno nei prossimi due anni. Oltre a pensare
all’incremento del numero dei concerti, stiamo continuando a scrivere e
registrare nuova musica: non possiamo aspettare che cosa il futuro ha deciso di
riservarci!
Mi sono avvicinato alla musica dei Conqueror nel
2010, quando commentai l’album “Madame
Zelle”. Successivamente mi parlò di loro Bernardo Lanzetti, ospite in un loro concerto, e il suo giudizio,
abbinato all’ascolto dell’album, mi ha permesso la definizione di un quadro
preciso, che trovo riassunto nel loro ultimo lavoro, Un’altra
verità.
Per chi si avvicinasse solo ora alla
loro musica, una rapida immersione nel sito di riferimento fornirebbe un’idea
di massima delle passioni comuni al gruppo, perché la sola lettura della
discografia, che conduce alla sezioni “partecipazione ai tributi”, permette di sentire odore di Genesis, Pink Floyd, YES, Marillion,
Mody Blues e Santana.
Insomma, soprattutto prog!
I Conqueror sono siciliani, e la
loro lontananza rispetto all’epicentro della musica progressiva, posto un po’ più
a nord, determina qualche problema supplementare che si aggiunge a quelli
conosciuti, che hanno trasformato, ormai da molto tempo, il genere in nicchia.
Gli spazi si accorciano e i
chilometri perdono il significato originale, la musica vola, la tecnologia fa
miracoli, ma la performance live resta un momento insostituibile, che permette
il contatto diretto col pubblico e diventa grande occasione di diffusione.
Dice il leader della band, Natale Russo: “Nella nostra
Sicilia la situazione è anche peggio che al nord Italia, infatti spesso nei
concerti siamo costretti nostro malgrado ad inserire cover dei gruppi famosi di
un tempo per accattivarci qualche simpatia. Addirittura suonando in zone più
decentrate siamo visti come dei “marziani”, poichè al sud i gruppi prog sono
una rarità…”.
Un’altra
verità colma in parte il vuoto concertistico
e assume molti significati.
Parto col dire che
si tratta di un live, realizzato il 16 maggio 2014 a Giardini Naxos: da quella performance sono stati estratti un CD e un DVD - molto completo e professionale, fatto non certo scontato per
i supporti visivi.
A seguire propongo
le tracklist, ma sintetizzo dicendo che il contributo maggiore arriva dall’album
Stems
(Gina, Di notte, False idee, Un’altra
realtà, Sicurtà, Echi di verità), disco uscito nel 2014, e quindi pubblicizzato dal vivo; due sono i brani tratti da 74
giorni, del 2007 (Cormorani e L'ora del parlare), mentre No photo è estrapolato da Storie
fuori dal tempo, del 2005. I brani più antichi (La
strada del Graal e Pensieri fragili)
nascono nel 2003 e sono contenuti in Istinto.
DVD davvero
superlativo.
Un concerto è sempre
l’apice del rapporto tra audience e musicisti, e la bellezza delle immagini,
abbinate alla musica dei Conqueror, permette di vivere, seppur in dimensione
ridotta, l’atmosfera dell’evento, e credo che dal punto di vista meramente
tecnico la registrazione sia una delle migliori che ho potuto vedere.
Da segnalare Inside
Conqueror, una lunga intervista a tre dei protagonisti (Natale Russo -batteria - Simona Rigano - tastiere e voce - Ture Pagano - chitarre.
Il quarto elemento è
il bassista Peppe Papa, che ha
lasciato la band dopo la registrazione.
Ed è proprio la
dinamicità di formazione una delle caratteristiche dei Conqueror. E’ sempre
Russo che racconta: “Dai cambiamenti di
solito guadagnamo sempre, perché ogni elemento porta del suo e quindi abbiamo
sempre qualche nuovo stimolo musicale. Non vivendo solo di musica purtroppo
qualcuno va e qualcuno viene, le basi ben piantate per terra ci sono sempre
state poiché tastiere, voce e batteria sono rimaste inalterate nel tempo”.
Come si potrebbe
definire la loro musica, indagando e scalfendo la patina prog, protettiva per
certi versi, ma usata spesso a sproposito?
Indubbia la capacità
delle band di rispettare i canoni del genere, che non significa allinearsi a
idee stereotipate, ma rispondere i primis a passioni personali, e la musica
progressiva pare il campo perfetto per la semina ed il successivo raccolto dei
Conqueror. Ma è molto forte la componente melodica, il mantenimento della
tradizione, la miscela dei generi, l’utilizzo di atmosfere semplici abbinate,
magari, a tempi composti, guidati dalla vocalità… educata di Simona Rigano, una
cesellatrice da molti punti di vista.
Pare non esistano
paletti ideologico musicali, a volte elementi capaci di conferire autorevolezza, ma non necessari alla
musica dei Conqueror che, occorre evidenziarlo, propongono questo Un’altra
verità dopo 5 dischi studio e numerosi altri episodi fruibili dalla
loro discografia ufficiale.
Si può considerare Un’altra verità la
fermatura del cerchio?
Loro raccontano: “L'uscita del live coincide con la chiusura
di un ciclo e l'apertura di una nuova fase: i Conqueror hanno ideato un
concerto speciale di rivisitazione dei classici di Fabrizio De André
debitamente "conquerorizzati" e hanno appena terminato la loro
versione di "Repent Walpurgis" per l'attesa compilation di tributo ai
Procol Harum della Mellow Records. Ma molte altre cose bollono in pentola...”.
In attesa di nuovi episodi godiamoci questo piccolo gioiello, che racchiude
una vita di passioni in musica: imperdibile per gli amanti della buona musica
rock!
Tracklist
DVD-1 Gina
DVD-2 Di Notte
DVD-3 False Idee
DVD-4 Un'altra Realtà
DVD-5 Sigurtà
DVD-6 Echi Di Verità
DVD-7 Pensieri Fragili
DVD-8 No Photo
DVD-9 La Strada Del Gral
DVD-10 Cormorani
DVD-11 L'ora Del Parlare (End Entropia)
Bonus Features
DVD-12 Inside Conqueror
(Interview With Simona; Natale; Ture)
Guest Valerio Valenti -chitarra acustica
CD-1 Gina 11:13
CD-2 Di
Notte 7:25
CD-3 False
Idee 7:31
CD-4 Un'altra
Realtà 6:29
CD-5 Sigurtà 9:37
CD-6 Pensieri
Fragili 7:48
CD-7 No
Photo 6:44
CD-8 La
Strada Del Gral 6:07
CD-9 Cormorani 1:07
CD-10 L'ora Del Parlare (End Entropia) 6:58
Companies, etc.
Mixed At – Ludnica Recording Studio
Credits
Bass – Peppe Papa
Drums, Executive-Producer, Supervised By [Audio & Video] – Natale Russo
Engineer [FOH] – Rocco Cassaniti
Film Technician [Assistant] – Chiara
Trimarchi
Film Technician [Video Operator] –
Marcello Panebianco
Film Technician [Video Operator],
Video Editor – Gianfranco Stracuzzi
Graphics, Design – Enzo Puglisi
Guitar – Ture Pagano
Lighting – Antonino Siligato
Photography By – Carmine Prestipino
Producer – Ma.Ra.Cash Records
Translated By [Subtitles] – Isabella Miano
Vocals, Keyboards, Synth – Simona Rigano
Written-By, Arranged By, Producer – Conqueror (5)
Notes
Recorded live in Giardini Naxos - Teatro Comunale May 16th 2014 - STEMS
tour. Audio & video editing from July 2014 to March
2015.
BIO
Da un'idea del batterista Natale
Russo, i CONQUEROR nascono nel
novembre 1994. Da subito la band si dirige verso composizioni originali che,
staccandosi dalla forma canzone, combinano variazioni armoniche e cambi di
tempo.
Il primo periodo (1994 > 99)
serve al gruppo per maturare la propria identità stilistica.
Non riuscendo a trovare un vocalist stabile, la band rende le proprie
composizioni sempre più elaborate prediligendo parti musicali a quelle vocali.
Dopo un periodo di riassestamento, nel 2002 arriva Simona Rigano, che oltre al ruolo di tastierista si incaricherà
anche delle parti vocali rendendo la proposta musicale più omogenea.
La band nel 2003 pubblica
(autoproducendosi) ISTINTO. Da qui in poi le pubblicazioni dei CONQUEROR saranno
curate dalla Maracash Records di
Vigevano, quindi nel 2005 uscirà STORIE FUORI DAL TEMPO. Nel 2007 i
CONQUEROR danno alle stampe il loro primo "concept-album" 74 GIORNI, lavoro che consolida l'ottima
reputazione internazionale della band. Nel 2009 viene pubblicato il mini CD SPRAZZI
DI LUCE, quasi un divertissement che la band realizza in attesa del
nuovo "concept" MADAME ZELLE uscito nel 2010, disco
che consacra il gruppo come una delle certezze del prog contemporaneo.
Parallelamente alla produzione
discografica i CONQUEROR sono anche molto attivi dal vivo. Presenti in vari festival di musica progressiva
organizzati in tutta Italia e anche qualche presenza all'estero. I CONQUEROR hanno
diviso il palco con grandi nomi del prog Italiano ed Internazionale, tra cui:
Pendragon, Metamorfosi, Arti e mestieri, Bernardo Lanzetti, Pure Reason
Revolution, Delirium. Diverse sono le compilation
di tributo a cui i CONQUEROR prendono parte con personali rivisitazioni di
grandi classici. La band ha
inciso per la Mellow Records brani di MOODY BLUES; SANTANA; MARILLION; STEVE
HACKETT; YES; PINK FLOYD; PROCOL HARUM.
Nel 2014 esce il 5° cd intitolato STEMS,
lavoro che riporta i CONQUEROR ad una formazione a 4 elementi: il cd viene
presentato al teatro al parco di Parma dove la band registra un clamoroso sold
out! Nel 2015 per festeggiare il 20° anno di attività, esce il primo live album
UN’ALTRA
VERITA’.
Dopo
aver scritto musica per 6 dischi, la band ha cercato di prendersi una pausa
creativa andando a scavare nella storia cantautorale Italiana, ed omaggiando
uno dei più grandi. La scelta è caduta su Fabrizio
De Andrè per ragioni quasi ovvie: la collaborazione di De Andrè con la PFM,
quindi arrangiamenti molto vicini al
progressive rock, mondo che i CONQUEROR hanno sempre rappresentato. Per
presentare in maniera completa le opere
di Fabrizio De Andrè la
formazione si per l’occasione si è allargata con due ospiti: violino e voce
maschile.