lunedì 30 ottobre 2017

"Rory Gallagher- il bluesman bianco con la camicia a quadri"- il libro di Fabio Rossi: intervista all'autore



Fabio Rossi è l’autore del libro di fresca uscita “RORY GALLAGHER- il bluesman bianco con la camicia a quadri”, Chinasky Edizioni.
Non esistono biografie complete nella nostra lingua e questo credo sia già utile a sottolineare il paradosso che appare evidente quando di parla di Gallagher: un artista fondamentale per il blues e per l’utilizzo della chitarra in generale, ridotto al minimo della visibilità in un periodo in cui i musicisti coevi hanno creato il proprio mito. Ma Rory non aveva bisogno di essere considerato un “Dio” - lo è diventato suo malgrado - perché il suo unico interesse era la musica, quella che creava attraverso la sua inseparabile Stratocaster. 
Lontano dallo star system, refrattario alla pubblicità spicciola, distante anni luce dalla facilità commerciale del 45 giri, fu innovatore e precursore dei tempi, stimato da tutti ("rischiò" anche di diventare un possibile Stones!), indicato persino da Hendrix come migliore nel mondo; portò avanti un disagio che culminò in una dipartita prematura a seguito di un trapianto di fegato.
Nessuna comparazione con gli artisti maledetti dell’epoca, ma il malessere interiore trovò sola attenuazione nello smodato uso di alcolici, tipico di quei tempi, spesso testimoni di miscele letali.
E poi un irlandese che non beve non si era mai visto! Già, un irlandese che fa blues, che trae ispirazione dai suoi maestri d’oltreoceano e raccoglie i gradi sul campo, prendendo le distanze da ogni tipo di visibilità a tutti i costi, favorendo al contrario la sostanza e il contatto con il pubblico. Un uomo semplice, differente in tutto e per tutto dai modelli imposti, musicista unico.
Dobbiamo ringraziare Fabio Rossi per il grande tempo dedicato alla raccolta documentale che, unita alla sua immensa passione, fanno sì che la vita di Rory Gallagher venga raccontata oggi in Italia con una sequenza logica e oggettiva, condita dai giudizi personali, con elementi di vita che si fondono al commento degli album, tutti vincenti, come evidenzia Rossi.
Il book è anche carico di aneddoti significativi che riguardano quel mondo ormai alle spalle, e che vale la pena di ricordare. 
Eccone uno particolarmente divertente.

L’aneddoto che segue è un’ulteriore testimonianza della “pericolosità” di Jerry Lee Lewis (The Killer), nonché un mirabile esempio delle doti umane che contraddistinguevano Rory Gallagher. Nel 1974 fu invitato a un concerto di Jerry al Roxy di Los Angeles. Tra gli spettatori c’era anche John Lennon che già solo con la sua presenza finì per oscurare il Killer. Rory rievoca così quell’incredibile serata: “Lennon si trovava a Los Angeles in quel periodo, i suoi capelli erano davvero corti, ma tutti lo riconoscevano e si voltavano a guardarlo mentre prendeva posto al Roxy. Inutile dire che questo fatto lo aveva “messo in ombra” e Jerry 47 Lee stava perdendo la testa. Iniziò a suonare Jerry Lee Rag, ma tutti stavano ancora guardando Lennon e parlando di lui. Improvvisamente Jerry Lee si fermò e iniziò a dire che i Beatles e i Rolling Stones erano “merda” e che nessuno poteva fare vero rock’n’roll nel modo in cui lo faceva lui. Lennon si divertiva e iniziò a incitare Jerry Lee gridando “sì, hai proprio ragione, i Beatles sono merda!”. La gente cominciò a ridere, ma Jerry Lee pensava che lo stesse insultando, così andò fuori di testa del tutto. Scansò il pianoforte sul palco e divenne una furia. Il clima nel Roxy era teso, la maggior parte delle persone lasciarono il locale temendo che Jerry Lee potesse andare pericolosamente fuori dai gangheri e usare una delle armi da fuoco che si diceva portasse sempre con sé, mentre gli altri rimasero lì per vedere che cosa sarebbe accaduto. Non avevo paura di Jerry Lee perché avevo lavorato con lui, ma tutti gli altri erano ovviamente molto spaventati. Non c’era nessun altro quando io e Tom O’Driscoll (suo amico e guardia del corpo non ufficiale) ci recammo nel camerino. Iniziammo a chiacchierare con Jerry rievocando le sessioni di registrazione. Tutto ad un tratto la porta si aprì ed entrò John Lennon. Ci fu un silenzio di tomba per un paio di secondi. Fissai Jerry Lee per vedere come avrebbe reagito. Tom non poté resistere a quest’opportunità, era stato un grande fan dei Beatles e non appena si avvicinò a Lennon si lasciò cadere in ginocchio, baciò la sua mano e disse: “Ho aspettato vent’anni per ottenere l’autografo del re del rock and roll”. Naturalmente questo scatenò una profonda ira in Jerry Lee che dapprima si tastò il calzino come per prendere la pistola e poi iniziò a guardarsi intorno per trovare qualcosa da gettare o rompere. Lennon, nel mentre, autografò rapidamente un pezzo di carta a Tom e poi, per stemperare la situazione, prese la penna e un altro pezzo di carta da Tom e andò da Jerry Lee. Fece esattamente quello che Tom aveva fatto con lui: si inginocchiò, baciò la mano di Jerry Lee e disse: “Ho aspettato vent’anni per ottenere l’autografo del vero re del rock and roll!”. Jerry Lee era felice: autografò il pezzo di carta, iniziarono a parlare e poi tutto andò bene. È stato un momento meraviglioso.”

Un libro scritto con molta cura, che ha il pregio di far convivere la testimonianza oggettiva con la giusta personalizzazione, dando luce ad un musicista che dovrebbe essere conosciuto da chiunque decida di avvicinarsi al mondo dei suoni.
Magnifiche le fotografie allegate.
Fabio Rossi con il suo scritto ci dà una grossa mano nell’opera di diffusione di Rory Gallagher, un uomo bianco di blues, un uomo, quasi sempre, con la camicia a quadri.



L’intervista a Fabio Rossi

Domanda d’obbligo: ti ho conosciuto come progger appassionato e ti ritrovo col blues nel sangue… quali sono i sentieri musicali che ami percorrere?

Sono un grande appassionato di musica da quasi mezzo secolo ormai, e spazio dal rock all’heavy metal, passando per il blues, la fusion, il progressive e il punk. Diciamo che ho una gamma di gusti piuttosto estesa che comprende anche la classica. A casa possiedo oltre un migliaio di titoli tra long playing, CD e DVD, nonché una cinquantina di libri sui generi citati e monografie di band e artisti famosi. Amo la musica, quella con la M maiuscola.

Il libro che hai appena rilasciato ha come fulcro la storia di Rory Gallagher, un uomo di blues, uno che ha lasciato il segno pur restando ai margini della grande visibilità, in un periodo in cui, qualcuno di importante ha detto, “… bastava essere giovani per essere delle star!”: ti sei fatto un idea precisa sul perché di questo successo a metà, nonostante il grande talento?

Questo tema è uno dei fulcri del mio libro. Appare incredibile che un talento puro come Rory Gallagher non si sia affermato come star di primo livello nel rutilante mondo del rock, basti solo considerare l’incondizionata ammirazione di tanti personaggi del calibro di Gary Moore, Jimmy Page, Brian May, Joe Bonamassa, The Edge e altri ancora. Lo volevano nei Rolling Stones e nel 1972 è stato premiato come miglior chitarrista; nonostante tutto ciò, e a fronte di una discografia eccellente, Rory Gallagher viene sovente relegato in secondo piano. Perché? Di certo lui era refrattario allo star system, detestava i 45 giri, i passaggi radiofonici, e non dedicava troppo tempo alla registrazione dei suoi album, tutti di valore ma nessuno in grado di essere ricordato alla stregua di “In Rock” dei Deep Purple o “II” dei Led Zeppelin. L’avidità e l’incapacità del manager dei Taste ha provocato lo scioglimento di una delle band più promettenti di quel periodo e i musicisti che hanno accompagnato Gallagher nella sua carriera non erano al suo stesso livello, oltre a non possedere il carisma giusto per cercare di centrare il successo pieno, insomma gente tipo Roger Glover o John Paul Jones. Come vedi alla tua domanda non è facile rispondere. Forse chissà, anche il fatto di essere irlandese potrebbe averlo penalizzato, ma sono solo congetture, resta la sua superba musica e il mio sforzo letterario è teso a farla conoscere il più possibile.

Perché hai deciso di focalizzare le tue idee su Gallagher? C’è qualcosa che ti ha colpito in modo particolare rispetto ad altri artisti coevi?

Per me Gallagher è sul podio come miglior chitarrista con Jimi Hendrix e Duane Allman. E’ un artista che ascolto da sempre senza mai stancarmi, e non sopportavo l’idea che nessuno in Italia si fosse mai degnato di dedicargli un libro. Ci ho pensato io!

Quali sono state le difficoltà maggiori che hai trovato nel reperire documentazione e testimonianze?

Le difficoltà sono state molte, perché da noi si trova poco e niente. Ho dovuto setacciare il web e procurarmi le riviste dell’epoca, quasi tutte straniere, dove si parlava di lui. Ho acquistato anche alcuni libri in inglese da dove ho estrapolato molte delle testimonianze che ho poi inserito nel mio saggio. Una faticaccia, ore e ore a tradurre dall’inglese, ma il risultato finale penso sia soddisfacente.

Il blues è musica tecnicamente semplice ma che spesso è rifiutata quando è proposta da gente di pelle bianca… c’è diffidenza verso chi, qualcuno ritiene, non ha storicamente sofferto abbastanza per comprendere l’anima del blues: che cosa avevano in più Gallagher, Mayall, Clapton per essere accettati a pieno titolo?

Sono stati accettati perché erano dei veri e propri talenti e dove c’è il talento non conta il colore della pelle.

Gallagher è stato anche un innovatore, e sono memorabili, ad esempio, le sue performance col mandolino, uno strumento legato ad altre tradizioni: cosa ti ha sorpreso di lui studiandolo a fondo?

Gallagher era mostruoso con la slide, forse il migliore addirittura, ha abbracciato il jazz con i Taste (suonava anche il sassofono), il folk, il rock’n’roll, l’hard rock e naturalmente l’amato blues con risultati sorprendenti. “Going to my Hometown” è il pezzo maggiormente apprezzato dai fan che lo hanno visto dal vivo; ho raccolto le loro testimonianze inserendole nel libro e tutti ricordano vividamente il mandolino che primeggia in quel pezzo trascinante.


Esiste un album che ti sembra sia più importante di altri?

I tre live ufficiali: “Live! In Europe”, “Irish Tour ’74” e “Stage Struck”. Tre dischi imperdibili!

Scrivendo un libro come il tuo, una biografia, inevitabilmente si vive per un certo periodo in simbiosi col personaggio di cui si parlerà: cosa ti ha lasciato nel profondo questa esperienza?

Al di là della valenza artistica, Rory mi ha colpito per la sua semplicità, riservatezza e altruismo. Era davvero un’antistar, era uno di noi, era “il proletario irlandese”, era un grande e solo il fatto di essere andato a Belfast a suonare mentre tutti evitavano quella città per paura degli attentati fa di lui un mito. 

Come spiegheresti in poche parole ad un giovane la figura di Gallagher, provando a stimolare la curiosità che dovrebbe spingere ad un futuro ascolto?

In questo vuoto assoluto che permea l’universo delle sette note, un giovane deve solo guardarsi indietro e cercare di comprendere la filosofia di artisti veri come Rory Gallagher. Oltretutto la sua proposta musicale è davvero unica e merita attenzione da parte di chi non lo conosce ancora. Ci tengo a precisare che, come nel caso del mio primo libro sul rock progressivo, scrivo essenzialmente per i giovani affinché conoscano quali sono le loro radici e quello che per motivi anagrafici si sono persi.

Come hai pianificato la pubblicizzazione del libro? Sono state pianificate delle presentazioni?

Il libro è stato presentato il 7 ottobre a Cerea (Verona) nell’ambito dell’8° raduno Blues Made In Italy grazie all’interessamento dell’organizzatore Lorenz Zadro che ringrazio pubblicamente. Il 31 ottobre parteciperò al Rory Gallagher Italian Meeting 2017 che si svolgerà a Bologna presso la Sala “Serena 80”, l’8 dicembre si terrà il secondo festival italiano in onore dell’artista di Ballyshannon e mi troverete a Bergamo presso l’O’Dea’s Pub... insomma gli impegni sono tanti e se ne prevedono altri analoghi a Roma a fine dicembre e forse a Torino, Napoli, Livorno e Genova.


domenica 29 ottobre 2017

"Drug & Music"-2° puntata al Giardino Serenella


Non bastano certo un paio di ore per sviscerare il legame esistente tra droghe e musica, e per un minimo di approfondimento si è resa necessaria una seconda puntata al Giardino Serenella di Savona
A condurre nuovamente Mauro Selis, musicofilo ed esperto di dipendenze per motivi professionali.
Interessanti gli aspetti più scientifici e storici emersi, perché capaci di oltrepassare i luoghi comuni dando peso e sottolineatura a ciò che a volte appare sottovalutato, e quando brani musicali e artisti entrano in gioco nasce l’occasione per ripercorrere sentieri spesso dimenticati, che tornano a galla con piena forza.


Da Lou Reed e i Velvet Underground a John Lennon e Yoko Ono, passando per i Love di Arthur Lee, Tim Buckley, The Byrds, The Doors, Steppenwolf, The Other Half, Townes van Zandt… un lungo ventaglio di protagonisti che hanno legato la loro arte ad abusi più o meno consci.


Come sarebbe stata la loro musica se la loro vita fosse stata più lineare non ci è dato di saperlo, nemmeno immaginarlo, ma è certo che avremmo avuto più tempo per seguire un percorso evolutivo accorciato da uno stile di vita diventato per molti un esempio da emulare e che, ieri come oggi, appare totalmente condannabile e privo di alibi e e giustificazioni.
Nel video a seguire uno stralcio della serata, davvero piacevole, tra suoni e didattica.





lunedì 16 ottobre 2017

Da Captain Trips: live al Beer Room di Pontinvrea


I Da Captain Trips arrivano nel luogo più appropriato, Savona, luogo in cui è nata la loro etichetta discografica, la Vincebus Eruptum di Davide Pansolin.
E spetta proprio a Pansolin il compito di organizzare il concerto, frutto della collaborazione con il Beer Room di Pontinvrea.
E’ una buona occasione per ascoltare dal vivo il nuovo album, “Adventures in the upside down”, anche se un concerto dei “capitani” va pensato in termini di assoluta libertà, perchè su di un canovaccio prestabilito si costruiscono improvvisazioni che sono il frutto del momento contingente, dello status personale e degli elementi al contorno.

Pochi mesi fa, nel corso di un’intervista, chiesi ai DCT cosa rappresentasse per loro il live, domanda scontata ma d’obbligo, vista la natura della band, e la risposta fu più o meno questa: “Puntiamo tutto sulla musica, il palco è il luogo dove ci sentiamo più a casa. I nostri live possono essere molto differenti l'uno dall'altro, basati molto sull'improvvisazione; dipende tutto dal nostro stato psicofisico e dall'atmosfera che si crea all'interno del locale, e così le canzoni possono mutare ed espandersi o semplicemente essere quelle del disco. Quindi una cosa che potete sentire e percepire nei nostri live e lo specchio di chi ci sta davanti riflesso nelle nostre canzoni”.

Il pubblico dell’occasione è risultato contenuto - la domenica e gli eventi calcistici non hanno certamente giovato alla causa - ma i presenti hanno dimostrato un buon calore partecipativo e la giusta concentrazione. Eh sì, occorre provare ad entrare in sintonia con chi si ha davanti, trovare la giusta lunghezza d’onda che possa unire alla band sul palco, quattro musicisti che non hanno bisogno di parole per comunicare, tra loro e con chi è lì per vivere il concerto.

Formazione classica con una buona dose di effetti, sia tastieristici che per chitarra, ed un mix strumentale tra il vintage e la contemporaneità, ma il suono globale che ne deriva è qualcosa di antico, ascoltato in diverse forme, esperienza che è somma di esperienze, un gioco di suoni dilatati e di ritmica creativa spinta, un disegno ipnotico a cui mancano gli aspetti visual - ma in questo caso non sarebbe stato possibile proiettare alcunché -, ma di grande efficacia.
Possibile mettere in atto la liberazione dell'Io e l'espansione della coscienza utilizzando “solo” la musica e i suoi derivati? I Da Captain Trips forniscono la loro visione e rispondono al quesito in modo positivo.

Un’ora e mezza di suoni, ritmi, sperimentazione e libertà, come il video a seguire potrà testimoniare…



Formazione:

Cavitos - chitarra
Peppo - basso
Tommy – batteria e percussioni
Bachis –Sintetizzatore e tastiere + basso in “Mother Earth”

INFO




domenica 15 ottobre 2017

Nuova puntata al Giardino Serenella di Savona: "Musica e Sostanze"


Serata didattico-musicale quella del 13 ottobre al Giardino Serenella di Savona: l’argomento era “Musica e Sostanze”, ovvero l'analisi del legame esistente tra la sollecitazione emozionale legata all’uso delle droghe e la creatività musicale: ma è così stretta la connessione? Alibi che nasconde incoscienza e disprezzo di regole e buonsenso o effettivo collegamento involontario?
A parlarne un esperto musicofilo e autorevole professionista nel campo delle dipendenze, Mauro Selis, che ha guidato la serata tra aneddoti e storia, tra filmati e interazione con gli amici presenti, come sempre partecipativi e interessati.
Dal beat alla sperimentazione, soffermandosi su elementi fondamentali di quella scena che appare lontanissima, ed ha il contorno dell’illusione del cambiamento. Il mondo si è evoluto ma il problema appare più serio che mai… resta la musica, come testimonianza di un’epoca comunque irripetibile…


Tra gli artisti di cui si è parlato troviamo Peter Green e Jerry Garcia… qualche pillola su di loro:

Peter Green

Stimatissimo cantautore e chitarrista di enorme talento, Peter Green si trovò impreparato a gestire il grande successo che gli piovve addosso: cominciò ben presto a fare uso di LSD, in maniera sempre più massiccia e scriteriata, accusando seri problemi di tenuta psichica.
Fu costretto ad abbandonare i Fleetwood Mac, che invece andranno avanti ancora per anni e coi quali in avvenire collaborerà solo occasionalmente, per dedicarsi a progetti minori, specie in qualità di session man nelle produzioni di altri artisti.
In seguito, paranoia ed allucinazioni inasprirono sempre maggiormente gli ormai indefettibili problemi di schizofrenia, costringendolo al ricovero in ospedale psichiatrico dal 1977.
Dopo una lunga fase di cura, tornò di nuovo protagonista del circuito musicale nei primi anni ottantasia incidendo alcuni lavori da solista, sia in qualità di session man.


Jerry Garcia

Nella seconda metà degli anni Cinquanta, Jerry Garcia sperimenta l’utilizzo della droga leggera (marijuana), mentre nei primi Sessanta inizia a diffondersi l’LSD ed anche il giovane chitarrista californiano non risulta immune alla moda del momento. 
Nella metà dei Settanta prende a fare uso di eroina e cocaina. Ne diventa sempre più dipendente, aumenta di peso e finisce per compromettere la sua salute a livelli preoccupanti, tanto che, nel 1985, i Grateful Dead gli chiedono di disintossicarsi, oppure di rinunciare al suo posto nella band. Jerry accetta di sottoporsi a un trattamento di disintossicazione, ma viene arrestato pochi giorni dopo per possesso di droga.
Garcia perde la vita il 9 agosto 1995 a causa di un infarto, ma la sua scomparsa è una sorta di morte annunciata: non ha mai abbandonato davvero le droghe e negli ultimi anni le sue condizioni di salute sono ormai precarie. (Pochi giorni prima della sua morte decide di recarsi in un centro di disintossicazione di Forest Knolls ma, sfortunatamente, è troppo tardi...).




giovedì 12 ottobre 2017

Acqua Fragile- "A New Chant"



E così ci siamo, “A New Chant”, il terzo album di Acqua Fragile prende vita e sostanza dopo una lunga attesa. Quale sarà il nuovo volto (“Mass Media Stars” risale al 1974)? Come si manifesterà la maturazione, il cambiamento, l’adeguamento ad un sistema nuovo pur mantenendo il credo antico?
Bernardo Lanzetti era ed è rimasto l’anima della band, e la sua progressione non ha subito momenti di pausa, e anche i rari momenti di “stasi musicale” sono stati compensati da differenti passioni artistiche, quelle che lo rendono completo, una condizione che unisce talento ad esperienza, impensabile quando si è agli inizi di una carriera.
Di questo nuovo capitolo fanno parte due dei membri originali, Franz Dondi, professione bassista, e Piero Canavera alla batteria.
Nel prossimo numero di MAT2020 Lanzetti risponde alle miei domande e fornisce una visione realistica di questo evento… sì, lo considero tale, un atto dovuto dopo il VOX 40 del 2013, celebrazione della voce e della musica, progetto a cui si lega in modo evidente il disco attuale.
E’ compito del recensore fornire un commento personale abbinato all’oggettività, ed è bene sottolineare come spesso lo sforzo intellettuale e realizzativo che si “nasconde” dietro ad una nuova musica sia più apprezzabile degli aspetti meramente emozionali, ovvero il racconto di ciò che normalmente non viene percepito dall’ascoltatore diventa appagante, come e più dell’ascolto stesso.
In questo caso mi riesce davvero difficile provare a fare opera di dicotomia, tutto mi appare affascinante, sia gli aspetti progettuali - che ho conosciuto prima dell’ascolto - sia l’impatto sonoro.
Provo a partire da un giudizio di sintesi, che si fonda su un dato storico.
Uno dei motivi per cui l’Acqua Fragile ha trovato vita dura nei primi seventies è l’utilizzo della lingua inglese, una situazione favorita dalle skills linguistiche di Lanzetti, competenze che lo porteranno successivamente a ricoprire un ruolo importante nella PFM e ad essere preso in considerazione dai Genesis come possibile sostituto di Gabriel, al suo abbandono dal gruppo.
Anche “A New Chant” è caratterizzato dai testi in inglese ma… c’è un’eccezione, il brano “Tu Per Lei”, uno spazio in cui si utilizza la lingua italiana per formulare un pensiero centrale, la linea guida di una vita intera, una dichiarazione d’amore incondizionata verso la MUSICA, ma al contempo una denuncia e un’esortazione alla riflessione e al cambiamento tratta dal pensiero di Jamie Muir: Quando ti avvicini alla musica non devi pensare a quello che essa può fare per te. Pensa invece a ciò che tu puoi fare per lei”. Recita il testo: “Quando il tuo destino incrocia la musica, non pensar soltanto ai vantaggi che ti dà, ma sii pronto a donare tutto per lei…”. Una rivoluzione di questi tempi!
Tutto è permeato da questo concetto, ed ogni singolo dettaglio, anche quello tecnico, tende al perfezionismo non fine a sè stesso, perché il senso dell’estetica di cui profuma tutto l’album è un dono che Acqua Fragile fa al mondo della musica, quella più genuina, mantenendo le debite distanze da ogni possibile calcolo o interesse, se non quello artistico.
L’impronta è quella di fabbrica, e ho trovato forti legami tra il passato e l’attualità, un comune denominatore che risiede nell’ariosità di alcune trame, nell’eleganza del fraseggio sonoro, nella miscela tra una certa classicità e l’utilizzo di ritmiche composte, con una voce che, fatto davvero inusuale, appare più modulabile e toccante di un tempo: talento naturale sommato a professionalità!

Mi sono emozionato già dal primo ascolto, e anche se non credo sia questo rappresentativo del valore assoluto di un album, resta in ogni caso quello che io cerco nella musica. L’ascolto ripetuto mi ha poi permesso di tracciare un giudizio molto più generale, legato al fatto che “A New Chant” mantiene le debite distanze rispetto agli stereotipi imposti, diventando invece un ricongiungimento, un bridge tra epoche diverse che, a ben vedere, rendere Acqua Fragile campione di coerenza e di creatività… prog o non prog questa, signori, è la Musica con la M maiuscola.

In questo viaggio intrapreso dai tre musicisti originali troviamo notevoli contributi esterni, alcuni dei quali altisonanti. Parto dagli ospiti stranieri.
Nel primo brano, “My forte”, è presente il drummer Jonathan Mover. Dice a tal proposito Lanzetti: “La sua idea di scomporre ulteriormente un mio brano già in tempo dispari (11/8) sotto gli archi di Tango Spleen e le voci di Acqua Fragile, si è rivelata pura avanguardia; di fatto Mover, catturato dal brano, addirittura ha rilanciato, proponendo un ritmo in 22/16, ma soprattutto suddividendo 22 in 4 battute, rispettivamente di 7+6+5+4. Ogni battuta è diventata così diversa dalla precedente e da quella a seguire…”.

Altro nome nobile è quello di Pete Sinfield, dalla cui opera è tratto un testo musicato da Bernardo, “Rain Drops”, alta poesia innalzata alla “forma canzone”, una folgorazione casuale che ha trovato piena approvazione da parte del mitico artista inglese.
Chiude il ciclo degli stranieri Nick Clabburn, famoso paroliere inglese che ha toccato la sensibilità di Lanzetti (“Tutti i dormienti ti mandano i loro sogni”, sono queste le parole di Clabburn catturate da Steve Hackett e Jo Lehmann e inserite nel loro brano “Sleepers”) e che ha fornito la lirica per “The Drowning”, una delle tracce più lunghe e articolate dell’album.


Fondamentale la presenza della Tango Spleen Orquesta (già protagonisti del VOX 40) che sostituisce le tastiere in brani significativi con la magica sezione d’archi, il bandoneon, il contrabbasso, il tutto coordinato da loro direttore Mariano Speranza al pianoforte.
Un altro ponte col passato è caratterizzato dalla presenza di Alessandro Mori, esperto batterista, figlio di Maurizio, storico tastierista di A. F.
E ancora Alex Giallombrado - chitarra e tastiere -, il tastierista Alessandro Sgobbio, il chitarrista Michelangelo Ferilli e Andrea Anzaldi, che ha partecipato al testo di “Wear Your Car Proudly”, un pezzo da oltre 7 minuti che fornisce un certo parallelismo col momento più illuminato del “Gentle Giant moment”.

Di forte impatto l’art work curato da Gigi Cavalli Cocchi, con una cover simboleggiante l’“Invito a un concerto”, realizzata a china e tempera da Alberto Baroni, autore della copertina del primo album, “Acqua Fragile”, del 1973.

Proseguendo con il racconto dell'album segnalo momenti di puro intimismo dove Lanzetti, presente in tutti i brani come autore, si propone nella sua forma più “nuda”, voce e chitarra: “Howe Come” è un frammento di pura magia.
All Rise” riporta a repentine mutazioni di mood ritmico e sonoro e al cambiamento della vocalizzazione, e va evidenziato come lo strumento personale di Lanzetti si dimostri per tutto il disco l’apice di attimi romantici che si alternano ad altri più drammatici, e il passaggio tra differenti stati diventa una delle peculiarità dell’intero lavoro, come dichiarato dall’autore: “I brani sono strutturati come micro-suite oppure come semplici canzoni non convenzionali e ancora inni, strumentali ostinati, canti propiziatori e addirittura… una marcetta…”. 
E non mancano le particolarità tecnologiche: "Altra piccola novità è l’introduzione dell’animoog, sintetizzatore App usato per colori o piccoli fraseggi “psichedelici”.
In chiusura la title track, "A New Chant", momento aulico, dove uno status quasi "hammilliano" si sposa all'unicità del testo che chiude il concetto espresso nella già citata "Tu Per Lei", e che sintetizzo in poche righe: "Ho bisogno di un nuovo canto, un canto nobile, la cui eleganza mi possa riconciliare con il mio destino...". 

Quaranta minuti di musica suddivisa su otto brani, per un album pubblicato dalla britannica Esoteric Antenna e dalla statunitense Cherry Red Records.

Quaranta minuti di una musica che stimola la razionalità e costringe ad un superlavoro il sistema limbico dell’ascoltatore sensibile.

I fan dell’Acqua Fragile, da sempre sparsi per il mondo, saranno soddisfatti di un album che non è certo quello della nostalgia o della ricerca di un fermo immagine temporale, ma piuttosto della consapevolezza e della qualità e genuinità ad ogni costo.

L’Acqua Fragile è tornata. All Rise... tutti in piedi!









domenica 8 ottobre 2017

Locanda delle Fate live: 7 ottobre, Genova, Teatro Govi


Come descrivere un concerto che decreta una fine dichiarata? Possibile fermarsi agli aspetti meramente musicali?
Non è stata una serata triste, ma nell’aria c’era profumo di cambiamento, di bridge teso tra ere differenti, di avvicendamento generazionale, di persone - non solo quelle sul palco - che non saranno mai più le stesse, di sogni infranti, di delusioni e dolori ma… anche di consapevolezza di aver fatto grandi cose; nessuna corsa verso il primato, ma c’è l’idea, anzi, la certezza, di aver lasciato traccia profonda in un mondo che ci vede testimoni di passaggio… e cosa si può voler di più dalla vita!?
Quando qualcuno, al termine del concerto, ha chiesto in modo spontaneo e legittimo il motivo per cui una band così grande sia prossima ad arrestare l’attività, sono entrato senza dubbio alcuno nella testa di Luciano Boero, conoscendo di già il suo pensiero: “Non siamo noi che dovremmo copiare dagli Stones, ma viceversa!”. Non so se ha ragione oppure no… come si possono carpire le dinamiche interne di una band nata, più o meno, 47 anni fa? Si può spiegare tutto con la sola naturale progressione fisica?
Per chi non lo avesse capito sto parlando della Locanda delle Fate, che sta portando a compimento il “Farewell Tour”, quello di addio, che prevede ancora una tappa brasiliana prima dell’epilogo del 9 dicembre, ad Asti, il luogo in cui tutto iniziò.
La serata in questione è quella del 7 di ottobre, a Genova, luogo in cui la Locanda non aveva mai suonato, e la risposta di pubblico è stata buona, se si considera che si tratta di prog, ovvero musica riservata ad una nicchia di appassionati.
In realtà la complessità delle trame musicali della band si appiana attraverso gli elementi lirici - i testi non sono mai banali o scontati - e uno sviluppo melodico che è caratteristico delle grandi band prog italiane.
Sono tre gli elementi fondatori on stage (Luciano Boero al basso, Oscar Mazzoglio alla tastiere e Giorgio Gardino alla batteria), a cui si sono aggiunti nel tempo Leonardo Sasso - vocalist già dal 1977 e poi presente nel nuovo corso -, Maurizio Muha - tastiere, membro “nuovo” -  e Max Brignolo - chitarre, anche lui in forza a partire dal 2010.
Si è aggiunto nell’occasione, in un paio di brani - ma capita ogni volta che è possibile -, un altro “locandiere” doc, Alberto Gaviglio - flauto, chitarra e voce -, che iniziò nel ’73 e ha fatto parte del gruppo in diversi momenti della sua storia.
Nella scaletta che propongo a fine post emergono le perle del loro repertorio, con un paio di escursioni nel fantastico secondo album, “Homo homini lupus”, realizzato allo scadere del secolo, e meno considerato dai puristi del prog: oltre alla title track, “Certe cose”.
D’obbligo la riproposizione integrale di “Forse le lucciole non si amano più”, al compimento dei 40 anni dal rilascio, e di qualche “lucciola mancante” tra quelle rispolverate nel 2012: “Crescendo”, “La giostra” e “Sequenza circolare”.


Provo a dare un giudizio di sintesi: skills dei singoli elementi stratosferiche, anche se è risaputo che ci vuol altro per caratterizzare il sound di una band.
Le doppie tastiere - o meglio, i doppi tastieristi, giacchè la loro strumentazione complessiva è degna della ridondanza di un Wakeman anni ’70! - garantiscono una varietà sonora difficile da spiegare, una peculiarità ormai unica nel panorama nazionale; la sezione ritmica è collaudata da mezzo secolo di vicende di vita vissute assieme, con un Gardino che si misura con tempi impossibili, che appaiono easy tanto sono naturali, e un Luciano Boero che completa il motore ritmico, ma funge anche da collante, come d’altronde capita anche quando la Locanda scende dal palco. A lui anche il merito di aver messo su carta le vicende del gruppo, realizzando un documento importantissimo per chiunque volesse avere la misura di quanto accadeva a quei tempi dietro alle quinte, e di quale sia sta stata la storia di certa musica italiana. Ma questo è un altro capitolo.
Bravissimo il “giovane” chitarrista Max Brignolo, uno capace di eseguire con naturalezza e sorriso parti complicatissime.
La voce di Leonardo Sasso non ha perso né qualità né fascino. Grandi le sue doti attoriali e le sue esternazioni e commenti si tramutano in piacevole modus didattico e didascalico, ma è dal canto che arrivano le grandi emozioni, mentre le miriadi di ricordi diventano un boomerang che colpisce Leo, facendolo a tratti commuovere.
Piacevole e doverosa la presenza di Gaviglio, un’altra mente illuminata che pare a completo agio quando trova lo spazio nella “sua” band.
Il pubblico apprezza incondizionatamente, ogni fine brano è contrassegnata dal lungo applauso e oltre alla musica assistiamo ad un vero scambio con il pubblico, perché per ogni traccia viene delineata l’antica fase creativa.
Un tiro pazzesco”, direbbe qualche giovane uomo di rock… è vero: ritmo, tempi composti, atmosfere sinfoniche e serenità da palco, con qualche attimo di tristezza quando, mentre la musica corre, si realizza che tutto questo, di lì a poco, non sarà più possibile, e non ci saranno cofanetti o DVD che potranno diventare corretto riempimento di un vuoto incolmabile.
Ma questa è la vita, è il nostro passaggio di cui spesso, ahimè, nessuno si accorge.
Non è il caso della Locanda delle Fate, un gruppo di anime che hanno avuto una grande fortuna - e capacità -, quella di realizzare e regalare al prossimo qualcosa capace di creare emozioni fortissime, che si potranno riprovare ogni volta che si deciderà di rimettere in circolo la loro musica.
Quelli del pubblico, presenti ieri sera erano al Teatro Rina e Gilberto Govi di Bolzaneto, potranno in futuro gongolarsi ricordando a sé stessi e agli amici assenti che… sì, loro c’erano, quella volta al Govi.
Personalmente mi lascio un’ultima possibilità, quella di partecipare all’atto conclusivo di dicembre, ad Asti, e lì è probabile che qualche lacrimuccia possa partire in automatico!

Quando mi chiedono che cosa cerco in un concerto, che tipo di soddisfazione mi determini, descrivo sempre qualcosa che ha poco a che fare con l’elemento tecnico ma tocca maggiormente la sfera emotiva: sono passate ormai ore, la musica è alle spalle eppure non riesco a togliermi di dosso uno stato difficile da descrivere, una miscela melanconica che, in un caso come questo, giocoforza resta amplificata, e risentendo parte di ciò che ho vissuto ritrovo frammenti di magia, che mi piace condividere con chi abbia la fortuna di possedere una buona sensibilità musicale… ecco alcuni pezzi del mosaico…


BRANI IN SEQUENZA:

Intro - A Volte un istante di quiete
A volte un istante di quiete
Forse le lucciole non si amano più
Profumo di colla bianca 
Sogno di Estunno 
Certe cose
Non chiudere a chiave le stelle
Mediterraneo
Lettera di un viaggiatore
Cercando un nuovo confine
Crescendo
Sequenza circolare
La giostra
Homo homini lupus

BIS:
Vendesi saggezza

sabato 7 ottobre 2017

Big One a Savona-6 ottobre 2017


Ci eravamo lasciati esattamente QUI...

Era il 21 luglio e i Big One erano di scena per la seconda volta a Savona, sempre nella fantastica cornice delle Fortezza del Priamar. Quella sera tutto terminò dopo un’ora di musica perché i presenti, tantissimi come al solito, incapparono in quella che probabilmente è stata l’unica serata seriamente piovosa di tutta l’estate.
Grande rammarico, ovvio, e dal palco spunta immediatamente la promessa che ci sarà per tutti la possibilità di ripartecipare allo stesso evento, un proclama che aveva il sapore della reazione di pancia, perché realizzare un concerto è qualcosa di estremamente serio, complicato, e necessita di capacità organizzative e lavoro in team.
Ma Massimiliano Rossi è tipo tosto e tenace, e dopo pochi giorni arriva la conferma che il concerto si farà a distanza di tre mesi, nel salotto buono cittadino, il Teatro Chiabrera.

E veniamo a venerdì 6 ottobre, la nuova data, sold out annunciato, ma non è una novità, ovunque io veda i Big One il pienone è assicurato, perché il connubio tra la musica di Pink Floyd e la maestria della band veronese è sinonimo di successo.

Ecco come si presentava la piazza del Teatro - mattina e sera -, con una lunga coda in attesa dell’apertura.
Ore 11
Ore 20,30

Dopo la dovuta introduzione di Max - presente nel video -  attorno alle 21,30, il concerto inizia.
A seguire propongo il set di serata, costituito da una riproposizione di “Animals”, nel ricordo del quarantennale dall’uscita dell’album, a cui si è aggiunto un repertorio molto vario, che ha pescato nella grande produzione dei P.F..


Il gruppo ha subito negli ultimi tempi delle modifiche e lascio alla visione del filmato la presentazione dei membri da parte di Leonardo De Muzio, il David Gilmour italiano, il musicista attorno al quale gira la band, un gruppo numericamente nutrito, con doppia tastiera, coriste, sax, sezione ritmica e un secondo chitarrista che coadiuva De Muzio, anche, in alcune parti solistiche.
Amalgama perfetto e utilizzo di tecnologia visual il cui regista è Gian Paolo Ferrari, il membro aggiunto, prezioso ausilio dalla retrovie.
Il pubblico sottolinea ogni cambio brano con evidenti dimostrazioni di soddisfazione, mentre assiste incantato alla performance. Difficile da spiegare la magia che nasce in queste occasioni… non esistono gli eccessi tipici del concerto rock, ma piuttosto una partecipazione discreta, come se si rivivesse in piena comunione una storia, scritta da altri, ma che improvvisamente diventa la nostra, e alla fine si viaggia a ritroso nel tempo, rivivendo attimi fantastici del passato. Tutto ciò non vale per i tanti giovani presenti che, forse attirati dalla musica dei Floyd, hanno avuto l’occasione di vivere un lungo momento di piacere sonoro.
Lungo, sì, perché abbiamo assistito ad almeno due ore e mezza di concerto, un prolungato set inframmezzato da una sosta tra un tempo e l’altro.
Skills personali di alto livello e miscela perfetta tra i vari elementi… ogni volta che ascolto i Big One riesco ad entusiasmarmi, e la risposta del pubblico è sempre la stessa, in qualunque città, in qualunque location.
Grande merito a Massimiliano Rossi, uno che ci ha creduto fino in fondo e, ne sono certo, non ha trovato vita facile.
Bellissimo vedere il Chiabrera sotto una luce diversa, ma non inusuale. Qualcuno ha detto: “finalmente il rock nel nostro teatro…”, ma non è proprio così… tutti i grandi gruppi rock italiani hanno calcato il palco nobile di Savona, dalla PFM al Banco, dalle Orme ai New Trolls passando per gli Osanna, senza dimenticare un certo Steve Hackett!
Per ora godiamoci ciò che abbiamo appena vissuto, ma uno sguardo al futuro viene quasi spontaneo… e intanto grazie a Max e ai Big One!




domenica 1 ottobre 2017

Luciano Boero al Giardino Serenella di Savona

Dopo la sosta estiva sono ripresi gli incontri a carattere musicale al Giardino Serenella di Savona.
Una puntata diversa dalle precedenti quella realizzata il 29 settembre, per la presenza di un ospite che ha permesso di ripercorrere una lunga storia, quella che, iniziata nei primi anni ’70, arriva sino ai giorni nostri.
Il guest in questione è Luciano Boero, bassista e autore, uno dei cofondatori della Locanda delle Fate, band piemontese che ha lasciato un solco indelebile nel panorama della musica progressiva, con un album storico, rilasciato nel 1977, “Forse le lucciole non si amano più”. A completamento della loro discografia - contenuta, a causa di un cospicuo tempo di arresto dall’attività- segnalo “Homo homini lupus” - del 1999 -  e il più recente The missing Fireflies”.
Sono passati quarant’anni dall’uscita di “Forse le lucciole” e la Locanda propone, purtroppo per i fan, il 2017 Farewell Tour, una serie di concerti che decretano la cessazione dell’attività live della band. Al completamento del ciclo mancano ancora tre date, quella del 7 ottobre a Genova (Teatro Govi di Bolzaneto), una in novembre in Brasile e il 9 dicembre ad Asti, luogo in cui tutto iniziò. La storia della Locanda è ora messa su carta, perché Luciano Boero ha anche la passione della scrittura e nel suo terzo libro (“Prati di lucciole per sempre”) racconta la genesi, l’evoluzione, le cadute e le riprese che hanno caratterizzato la storia della band, un’analisi che diventa fatalmente rappresentativa di un periodo storico irripetibile.
E proprio partendo dal nuovo book Boero si è messo a nudo, entrando nei dettagli di vicende personali, incrociando le parole alle testimonianze video rappresentate da un documento originale della RAI risalente alla realizzazione del primo disco - in uscita in formato DVD nel prossimo anno -, da altri spezzone dell’epoca e da due novità, regalo della Locanda per tutti i seguaci.  A seguire propongo “Lettera di un viaggiatore”.

Buona la partecipazione, con un pubblico attento e competente, ma in fondo lo scopo dichiarato era quello di utilizzare la musica come elemento aggregante, e Luciano Boero si è dimostrato un ottimo catalizzatore.


Mauro Selis ha catturato una buona fetta di serata che propongo come ricordo…


Ma da dove partì la Locanda delle Fate?