Nel periodo di sosta forzata, chiuso
in casa, sono andato alla ricerca di musica che non conoscevo, nonostante
coincidesse con il mio periodo più attivo, quello in cui mi sono formato.
Molti validi gruppi italiani dei
seventies sono rimasti nell’anonimato, e solo i più fortunati sono riusciti a
lasciare una testimonianza concreta. Per altri è accaduto che la musica rimasta
per lustri nel cassetto - sotto forma di registrazione scadente - sia stata rimessa
a nuovo in tempi recenti, grazie alla tecnologia e alla voglia di riappropriarsi
di uno spicchio di passato fatto di arte concreta che rinnova la memoria.
Era quello il periodo di un subbuglio
generazionale che trovava sbocco - parlando di musica - nella forma canzone, ma
il movimento discografico tendeva a mantenere le distanze dall’impegno sociale,
perché per molti la politica e il businnes musicale, dovevano avere una decisa
linea di demarcazione.
Nel corso della mia ricerca ho
trovato nel mare magnum delle band dell’epoca i Gramigna,
e dopo l’ascolto del loro unico album del 1977, “Gran
disordine sotto il cielo”, ho deciso di approfondire, acquisendo
qualche notizia dalla rete.
L’ascolto mi ha portato verso la
formazione, abbastanza singolare, sia per numero che per tipologia
strumentistica, e nelle righe a seguire si comprenderà il motivo.
Nella lineup spunta un nome femminile,
quello di Françoise Goddard (voce e chitarra), che ho contattato, e con lei ho provato ad
approfondire l’argomento.
La chiacchierata risultante mi pare interessante e
icastica di un mondo che non esiste più, che personalmente ricordo con grande nostalgia, e non
solo per un ovvio dato anagrafico.
Chiacchierando con Françoise Goddard...
Il mio commento a seguire incomincia così: “I GRAMIGNA fanno parte di quelle band
arrivate tardi all’appuntamento… troppo tardi per essere allettanti nella sfera
del prog, e fuori tempo rispetto al cantautorato italiano e al punk in arrivo
da Oltremanica.”
Sei d’accordo?
Effettivamente, il tuo punto di vista non è
sbagliato, ma penso che nessuno di noi fosse interessato ad essere messo in una
o l’altra categoria. Volevamo solo suonare, esprimere dei concetti che ci
parevano importanti, e qualcuno ci ha pubblicato.
Come nacque la band? Che tipo di modelli
avevate, dal momento che non era usuale vedere un gruppo di otto/nove elementi?
La band nacque da una tournée con Patty Pravo
in cui per caso c’ero anch’io come corista, e dove ho conosciuto Alberto
Mompellio e Maurizio Martelli. Io divenni la pisquella della band, altri,
come Maurizio Martelli o Alberto Mompellio, invece erano molto preparati e
dovresti chiedere a loro quali erano i modelli di riferimento. Alberto è un
musicista “serio” che aveva già ascoltato e anche prodotto musica
“contemporanea”. Maurizio aveva un gusto straordinario che poi ha sviluppato
nella musica antica (credo…). I due fiati studiavano classico. Poi c’erano gli
altri, anche loro bravissimi. Io al massimo cantavo (male…) le canzoni di
Cat Stevens, Joni Mitchell, Beatles e West Coast.
Basta dare una lettura rapida della vostra
strumentazione e appare chiaro il piacere della contaminazione, tra rock, folk
e classica: come definiresti la vostra musica?
Eravamo anche molto politicizzati: “polprog”
ti va bene come definizione? C’era comunque un gruppo al quale ci
accomunavano, ed erano gli “Henry Cow”.
Avete in ogni caso avuto l’opportunità di rilasciare
un album significativo nel 1977, “Gran disordine sotto il cielo”, con un’attenzione
particolare al messaggio e alle liriche: cosa ricordi del disco? Come riusciste
a pubblicarlo e che soddisfazioni vi diede?
Eravamo “impegnati” e disordinati. Erano i
famosi anni di piombo, ed eri o da una parte o dall’altra, ma secondo me rimanevamo più musicisti che politicanti. Per pubblicare il disco arrivò Nanni Ricordi,
che aveva un’etichetta, “L’Ultima spiaggia”. Penso che fosse naturale per lui
aiutarci, perché c’era molta carne al fuoco e molta energia.
L’album non è facilissimo da trovare, e mi
pare non sia mai stato ristampato in alcuna forma: non varrebbe la pena
riesumarlo e portarlo a conoscenza del pubblico ignaro?
Why not…
Mi racconti qualche aneddoto che possa far
capire quegli anni, l’atmosfera vissuta dalla parte del musicista?
Io arrivavo direttamente dalle atmosfere della
swinging London e della West Coast, e per me, malgrado l’estremizzazione delle
lotte politiche in Italia, era comunque un momento di libertà. Allora non me ne
rendevo conto, ma me ne accorgo adesso, dove tutto è estremamente compresso e
vengono messi blocchi e limiti dovunque ti giri. Magari la mia è solo la
percezione di una persona che sta invecchiando, ma ne dubito. La mia
generazione è la seconda dopo la guerra. Già mia madre si era mossa a “colpi di
testa” e io arrivavo subito dopo con una bella porta aperta davanti a me. Le
donne tra l’altro avevano tutto da conquistare, ma era tutto molto semplice. Se
dovevi lavorare lavoravi, se volevi studiare studiavi, se volevi suonare
suonavi…
Non erano molte le figure femminili nelle rock
band, in Italia come nel resto del mondo: come arrivasti nei GRAMIGNA? Avevi un
ruolo anche nella fase compositiva?
Beh… non è che “sono arrivata nei Gramigna”,
ma la band fu formata assieme a me. Io suonicchiavo la chitarra per cui feci la
musica sui pezzi di Alice (non mi ricordo quali…). Non ero iscritta alla SIAE,
così li firmò Alberto. I testi erano di Paolo Farnetti.
Tu e il resto della band avevate alle spalle
delle buone basi musicali?
Chi più chi meno, ma con la guida di Alberto
sicuramente miglioravamo.
Perché vi scioglieste e cosa ne è stato dei
tuoi compagni di viaggio?
Non saprei dirtelo. Tenere assieme un gruppo è
comunque molto faticoso, e credo che ognuno avesse un proprio percorso da
affrontare.
Che svolta ha preso la tua vita dopo quei
giorni? Hai continuato a restare nel mondo della musica? È rimasta una tua
grande passione?
In quel periodo mi ero messa a studiare
seriamente canto, e questo mi ha portato a fare un giro lunghissimo nella
musica classica grazie alla mia meravigliosa insegnante. Da allora mi sono
diplomata, ho scritto dei libri sulla voce, ho insegnato canto per tanti anni
(lo faccio ancora, ma meno), collaboro tuttora con una casa editrice musicale
(la migliore…) e il canto è diventato per me una forma di meditazione.
Ultimamente mi sono immersa nel mondo vocale barocco, e di conseguenza ho
scritto un racconto che si svolge agli inizi del Settecento e che sta per
essere pubblicato. Per cui definire il canto come una passione è
riduttivo, direi piuttosto che è la mia vita parallela.
I
GRAMIGNA fanno parte di quelle band
arrivate tardi all’appuntamento… troppo tardi per essere allettanti nella sfera
del prog, e fuori tempo rispetto al cantautorato italiano e al punk in arrivo
da Oltremanica.
La
band milanese era formata da otto elementi che proponevano, oltre ai classici
strumenti della tradizione rock, mandolini, sitar, cetre, salteri, violini, un
fagotto e un oboe. Insomma, una perfetta miscela di rock e tradizione, quella
che avrebbe aperto molte strade se si fosse rivelata un lustro prima. E la
qualità c’era!
Il
gruppo non avrà quindi molta fortuna, ma nel 1977 rilascerà un bell’album, “Gran disordine sotto il cielo”, molto convincente,
anche dal punto di vista del messaggio e del contesto del momento:
“Il
racconto di una donna, Alice, che prima analizza la sua e l’altrui condizione
di donna per scoprire di essere schiava di ruoli e cliché (amante, ma succube
di un uomo; seducente ma ingabbiata nella propria bellezza). Poi, raggiunge la
consapevolezza di non voler niente e nessuno al di sopra di sé, né regine, né
re, e da quel punto in poi, è tutta un’analisi sulla società e i suoi modelli. La
speranza, naturalmente, è che un giorno arrivino dei “nuovi barbari rossi” a
far piazza pulita di qualunque ipocrisia”.
Vediamo
la formazione...
Umberto Calice (voce, percussioni)
Françoise Goddard (voce, chitarra)
Maurizio Martelli (chitarre)
Alberto Mompellio (tastiere, violino,
voce)
Dino Mariani (fagotto)
Mario Arcari (oboe)
Raoul Scacchi (basso, chitarra)
Mario Ultre (batteria)
Nel gruppo entrò, subito dopo la
registrazione, un nono elemento, il vibrafonista Valentino Marrè.
Album
non facilissimo da trovare, ma assolutamente non costoso, non è mai stato
ristampato in alcuna forma, vale la pena riesumarlo e portarlo a conoscenza del
pubblico ignaro.
Gran
disordine sotto il cielo (1977 )
Ultima Spiaggia
Lato A
Per / Alice nel pozzo / Alice e le
Regine / Alice oltre lo specchio / Piccole voci
Lato B
Ombre rosse / Per il bene della patria
/ È una notte / Arrivano i barbari / Tarantola
Testi di Paolo Farnetti (con la collaborazione di
Giovanna Pezzuoli e Francoise Goddard per Alice nel pozzo e Alice oltre lo
specchio e di Cesare Brie per Per il bene della patria)
Musiche di Maurizio Martelli: Ombre rosse, Tarantola e
di Alberto Mompellio: Per, Alice nel pozzo, Alice e le regine, Alice oltre lo
specchio (su temi di Francoise Goddard), È una notte, Per il bene della patria,
Arrivano i barbari (da idee di Roul Scacchi), Piccole voci (con la
collaborazione di Maurizio Martelli e Franco Mompellio).
Con la collaborazione di Flaviano
Cuffari (batteria in Alice nel pozzo, Piccole voci, Ombre rosse, Per il bene
della patria) e Nanni Ricordi, Lella Cardente, Gianfranco e Roberto Manfredi
(voci recitanti in Piccole voci e Per il bene della patria).
Coordinamento ed elaborazione musicale
di Alberto Mompellio, con l'aiuto in studio di Gianluigi Pezzera.
Registrazioni effettuate a Milano nel marzo-aprile 1977 presso
gli Studi Ricordi.
Tecnico del suono
e missaggi: Gianluigi Pezzera (con l'aiuto di
Giorgio Anastasi e Walter Patergnani)
Commentare i progetti dei The Samurai
Of Prog e dei vari spin-off richiede sempre ampio spazio, e le indicazioni dei
protagonisti - comunicati, interviste, didascalie varie - risulteranno alla
fine necessarie per la comprensione degli intenti basici, perché parlare solo
delle sensazioni derivanti dalla musica sarebbe limitativo.
L’album che presento oggi è da
attribuire al duo BERNARD & PÖRSTI(Marco e Kimmo), ovvero a due terzi dei Samurai (la
sezione ritmica), anche se Steve Unruh - l’ultimo terzo della band - compare
come gradito ospite.
Il titolo è “La Tierra”, e i contenuti si presentano come
al solito corposi, con un gran numero di collaborazioni - quasi tutti musicisti
di madre lingua spagnola -, tra cui spiccano alcune “nobiltà” musicali, come John
Hackett e il “nostro” Oliviero Lacagnina.
Tema centrale la condizione dell’uomo
all’interno di un mondo che lui stesso ha contribuito a degradare, un continuo
viaggio tra passato e speranze future, tra realtà e immaginazione, un iter fantastico
e fantasioso che sottolinea stati d’animo caratteristici della specie umana.
Una critica a modelli di vita a cui
siamo abituati, un “j’accuse” esposto elegantemente che spinge alla
riflessione.
La musica è come sempre molto
articolata e capace di esemplificare il concetto di “prog”, almeno per come lo
intendo io, e anche il cantato totalmente in spagnolo diventa indispensabile
per il compimento pieno degli intenti che alimentano il progetto.
Vediamo brano dopo brano, con l’aiuto
delle note del booklet; nella seconda parte dell’articolo l’intervista a Marco Bernard
e Kimmo Pörsti completerà la comprensione del progetto.
Si parte col botto, “Vuelo
sagrado”,un brano di quasi nove minuti ad ampio respiro, dove
troviamo tutti gli elementi simbolo della musica progressiva, con una sezione
tastieristica che padroneggia, mentre la ripetizione degli ascolti porta al
totale apprezzamento della voce accattivante di Ariane Valdiviè. Intervento al
violino per Steve Unruh.
Le parti strumentali disegnano
l'intensità della contesa e della contrapposizione spinta inclusa nella
storia.
Musica e liriche: Eduardo G. Salueña
Marco Bernard · basso
Kimmo Pörsti · batteria e percussioni
Eduardo G. Salueña · piano, organo, mellotron,
sintetizzatori
Ariane Valdivié · voce
Rubèn Alvarez · chitarra elettrica e
acustica
José Manuel Medina · arrangiamenti
Steve Unruh · violino
“Vuelo Segrado” si ispira
direttamente alle cerimonie sacre degli indigeni Rapa Nui, che coinvolgono il
cosiddetto uomo-uccello (Tangata manu o hombres pájaro). La maggior parte delle
volte questi rituali erano molto pericolosi a causa dell'enorme forza fisica e
abilità mentali richieste ai partecipanti. Nuotare vicino agli squali,
arrampicarsi in alto sulle scogliere e correre attraverso rocce appuntite erano
alcuni dei punti salienti più rischiosi, ma anche vincenti. Il rispetto del
resto della tribù e la considerazione di una divinità erano fattori importanti capaci
di incoraggiare gli aspiranti uomo-uccello.
Le liriche descrivono l'esitazione, la
motivazione e le riflessioni delle persone che prendono parte alla gara, stati
d'animo comuni a tutti.
La seconda traccia prende il nome di “El Error”, oltre
undici minuti per raccontare il seguente accadimento…
Due scienziati - che sono una coppia nella vita e una squadra
al lavoro - prendono parte a un concorso per creare una nuova forma vivente da
inserire in un nuovo ed evoluto ecosistema. Finiscono per creare qualcosa che
chiamano "Uomo". L'uomo viene assegnato al pianeta Terra e un
comitato segue da vicino il suo sviluppo per valutare il lavoro degli
scienziati. Ben presto si accorgono che l'Uomo non si integra nell'ecosistema,
anzi, con il passare del tempo, distrugge lentamente l'ecosistema stesso,
nonostante sia l'unica cosa che lo mantiene in vita. A causa di questo
incredibile fallimento gli organizzatori sospettano che gli scienziati possano
aver fatto qualcosa di sbagliato. Indagano e scoprono che uno di loro ha
aggiunto un codice del proprio DNA a quello dell'uomo, per accelerare il
processo di creazione, e ciò ha reso l'uomo difettoso. Questo metterà a
repentaglio la carriera degli scienziati e porrà fine alla loro relazione.
Il brano - musica e liriche dell’italiano
Alessandro Di Benedetti - propone l’entrata in scena di John Hackett
al flauto.
Pezzo diviso idealmente in due
sezioni atte a caratterizzare i diversi momenti della storia. Pregevole la
capacità di realizzare quadri sonori che raccontano l’eccitazione della scoperta
e la successiva drammaticità legata al fallimento. Una chicca!
Musica e liriche: Alessandro Di Benedetti
Marco Bernard· basso
Kimmo Pörsti· batteria e percussioni
Alessandro Di Benedetti· tastiere
Ariane Valdivié ·voce
Rafael Pacha · chitarra elettrica e
acustica
Rubèn Alvarez · chitarra elettrica solista
John Hackett· flauto
Con “Voz de Estrella que Muere” (5:30) ritroviamo un habitué
di questo “ambiente”, Oliviero Lacagnina, che firma la musica mentre il testo è
da attribuire a Sonia Vatteroni.
Ed è proprio l’autore che mi ha raccontato la genesi del
brano, il cui significato è racchiuso nelle seguenti note di copertina:
Una terra cibernetica nel deserto di
Acatama. Lui è un uomo ricostruito che migrò nello spazio insieme ad altre
intelligenze artificiali quando la Terra divenne inabitabile. Nel suo cervello
non ci sono ricordi di chi qui ha vissuto, amato, odiato, persino ucciso.
Viene in pace, vuole solo conoscere
la loro storia e le storie, come un'ape cosmica. In questo modo, costruirà la
sua anima, nata da una serie di ricordi che creano emozioni, sensazioni.
Seguendo il suo esempio, verranno create nuove storie attraverso le galassie,
che saranno la base per una musica delle stelle che risuonerà all'infinito,
fino alla morte dell'ultima stella, perché la musica è a linguaggio universale,
divinamente umano.
Oliviero Lacagnina ricorda così il
suo intervento: “Quando mi venne proposta la storia sul deserto di Atacama
mi apparve come particolarmente complessa, nel senso che mi risultava difficile
estrapolare quelle immagini evidenti che, in altri contesti, mi avevano offerto
la possibilità di un commento musicale, e la mia attività musicale è
prevalentemente dedicata all'immagine. In più l'ambiente immaginifico che
solitamente i “Samurai” preferiscono qui diventa meno evidente, pertanto il mio
compito risultava un po' più in salita. Ho dovuto allora chiedere ad una
poetessa come Sonia Vatteroni di offrirmi delle stimolazioni che solo la parola
poteva offrirmi. “Voz de estrella que muere”, testo prima concepito in italiano
e poi tradotto in spagnolo, racconta più di sensazioni che delle situazioni a
cui far riferimento, un processo creativo al di fuori della routine alla quale
il prog ci ha abituato. Il procedimento da cui sono partito è stato quello
della “crittografia musicale”, quella usata già nei secoli passati da vari
compositori. Il nome “Atacama”, con una nota per ogni lettera, costituisce
l'avvio del brano con un riferimento strumentale a strumenti etnici del Sud
America e da lì sono partito. Il brano è composto da due parti, una lenta
iniziale dove l'utilizzo di una certa orchestrazione cerca di dare l'idea
dell'immensità del deserto cileno, e la seconda parte, più veloce, che stacca
completamente, con evidenti parti affidate al violino e alla lead guitar, parte
che poi, mantenendo il ritmo, si apre con melodie più larghe, una sorta di
ritorno alle atmosfere della parte iniziale. La chiusura è affidata alla
chitarra elettrica, strumento indispensabile che non manca mai nel mio
repertorio prog”.
Musica di Oliviero Lacagnina, testo di Sonia Vatteroni
Marco Bernard · basso
Kimmo Pörsti · batteria e percussioni
Oliviero Lacagnina · tastiere
Steve Unruh · violino
Ariane Valdivié · voce
Rubén Alvarez · chitarra elettrica
Rafael Pacha · chitarra acustica
Marc Papeghin· corno francese e
tromba
“Ansia de Soñar” (10:20) propone il cambio di vocalist, e
tocca a Marcelo Ezcurra (autore del testo) finalizzare una parta strumentale ricca
di fughe tastieristiche inframezzate dai virtuosismi chitarristici di Pablo
Robotti.
Una donna ci guarda con i suoi occhi puri e luminosi. Tutto
il nostro dolore se ne va, goccia dopo goccia come la pioggia sul vetro di una
finestra, come le sabbie del tempo nella clessidra dell'eternità. Non esiste
niente altro tranne la voglia di sognare, e con essa la luce che bandisce
l'oscurità, quella ci sveglia, questo ci fa uscire, mettendo fine al sogno o
forse rendendolo reale. È nostra anima, è l'anima del mondo, l'anima
dell'universo, l'anima della vita stessa.
Musica di Octavio Stampalìa, testo di
Marcelo Ezcurra
Marco Bernard · basso
Kimmo Pörsti· batteria e percussioni
Octavio Stampalìa · tastiere
Marcelo Ezcurra · voce
Pablo Robotti · chitarre
John
Hackett · flauto
“Canción desde la Caravana” (3:30) è uno strumentale ideato e
suonato al grand piano da David Myers, un frammento di quiete e pensiero libero
prima di affrontare la seconda parte del progetto, quella che dà il titolo all’album.
Musica di David Myers che suona il grand piano
E arriviamo a “La Tierra”,fulcro del disco,una lunga suite di trenta minuti divisa concettualmente in tre parti,
ispirata da una visita di alcuni anni fa nel deserto di Atacama, in Cile, da
parte dell’autore, il cileno Jaime Rosas, il cui pensiero icastico viene
proposto nel corso dell’intervista.
La sua idea viene sviluppata in modo quasi cinematografico, e
la conoscenza dello spunto narrativo, collegata agli aspetti sonori, fa sì che
nel corso dell’ascolto le immagini nascano spontanee, commentate da una musica
superlativa che risulterà un vero godimento per gli amanti del genere, una
giusta complessità legata a trame melodiche, con una larga contaminazione che
sfocia in nicchie auliche, perfettamente cesellate dagli interventi corali
guidati da un nuovo vocalist, Jaime Scalpello.
Si apprende dal booklet…
L'ispirazione è sempre stata una parte centrale del mio
processo musicale in un modo non tradizionale. La maggior parte dei compositori
presenta un momento mistico di ispirazione che poi si spinge in profondità, nel
processo di creazione, con l’applicazione delle tecniche che sono state
insegnate. Io, al contrario, ho bisogno di un flusso continuo di ispirazione,
ecco perché l'ambiente in cui creo è importante quanto la composizione,
un’abilità che il mio maestro mi ha insegnato. In tutti i miei lavori recenti
devo andare nel deserto di Atacama, dove posso comporre e registrare, perché è
un luogo magico, con energia, profondità e il più bel silenzio che si possa
desiderare.
17 settembre.
Siamo nel deserto da ormai due settimane, siamo un gruppo di sette
amici, musicisti, ingegneri e le nostre compagne. In questo luogo magico
meditiamo, componiamo, registriamo la musica. Qualcosa è accaduto di insolito:
non siamo soli. In questo ultimo viaggio ho sentito una presenza, come se
qualcuno ci stesse osservando. Quando ho meditato questa mattina, ho visto un
sentiero che conduceva a un ingresso nascosto in una montagna vicina. Stasera,
dopo le sessioni di registrazione, ho seguito il percorso e sono entrato di
soppiatto nel cunicolo, ed eccolo lì ad aspettarmi. Kryx è un membro anziano
dei Gentili, simile agli umani, razza che ha abitato la Terra sin dall'inizio
dei tempi. Hanno avuto diversi incontri con gli umani nel corso della storia,
ma negli ultimi cento anni hanno preferito rimanere nascosti: da allora la
violenza umana li spaventa davvero e restano lontano dalle persone. Sono
testimoni dell'olocausto; loro videro l'orrore. Una razza nobile che vuole
vivere in pace, prendendosi cura della nostra Terra, vita, evoluzione, amore. Da
quel giorno, Kryx e la sua gente sono diventati nostri amici.
20 novembre.
Siamo diventati molto vicini ai nostri nuovi fratelli. Hanno
deciso di venire da noi perché rispettano cosa facciamo. Cerchiamo di vivere in
armonia con l'ambiente, cerchiamo di vivere con onore, proviamo a lasciare
un'eredità. Arte, amore, passione, rispetto per la natura. Si sentiono parte
della nostra visione. Ce ne sono pochi, perché stanno lasciando questo pianeta.
Il sole è malato, dicono. Le persone si ammalano dalla stessa luce che ha dato
loro la vita in passato. A poco a poco lasciano la Terra per andare a vivere
con altre razze su diversi pianeti nella costellazione della Vergine. Kryx, mentre
mi salutava da lontano, mi ha chiesto di andare con loro. La vita sulla Terra è
al momento difficile, a causa dell’avidità, della violenza, dell’individualismo,
della corruzione, di politici incompetenti e così via. È una offerta
allettante…
24 dicembre.
Siamo andati a Santiago per salutare le nostre famiglie,
poiché la maggior parte di noi lascia la Terra per sempre. Non sappiamo quando
o se torneremo. La mia ragazza sta partendo con me, quindi questo viaggio
diventerà un'avventura che condivideremo con amore e speranza. Ci è stato detto
che altri umani stanno già vivendo in quei luoghi, e la presenza umana risale
al Rinascimento. Forse possiamo costruire una massa critica per poi tornare
sulla Terra e avere la possibilità di cambiare la situazione in questo mondo
travagliato. Forse dovremmo continuare con l'evoluzione della nostra razza al
di fuori della Terra. Non possiamo saperlo in questo momento.
Musica e testo di Jaime Rosas
Marco Bernard · basso
Kimmo Pörsti · batteria e percussioni
Jaime Rosas · tastiere
Jaime Scalpello · voce
Rodrigo Godoy · chitarra e cori
Rafael Pacha · chitarre
Marek Arnold · sax
Nonostante l’assenza di un
collaboratore storico, il grafico Ed Unitsky, appare particolarmente vincente
l’artwork, affidato ancora una volta (era già accaduto in "Wayfarer")
alla tedesca Nele Diel, e occorre segnalare come la famiglia dei Samurai
sia molto attenta agli aspetti visual: un consiglio è quello di provare ad
ascoltare i singoli brani avendo davanti le immagini relative.
Grande lavoro come al solito per
Marco Bernard (basso) e Kimmo Pörsti (batteria), il cui merito oltrepassa i
meri aspetti musicali, perché coniugare qualità, quantità (circa 68 minuti di
musica) e prolificità alla gestione di una squadra dislocata - come sempre - in
giro per il mondo, richiede un impegno e una passione che mi appaiono
giganteschi.
Ancora un grande album per la sezione
finlandese della musica progressiva!
L’intervista a BERNARD & PÖRSTI
Come e quando nasce l’idea del
progetto “La Tierra”?
Nel 2019 il cileno Jaime Rosas ci ha
inviato una demo di una suite di mezz'ora composta durante la sua visita nel
deserto di Atacama (Cile) alcuni anni fa. Il canto era già previsto in
spagnolo, quindi abbiamo deciso di mantenere la stessa lingua per l'intero
album. Per dare ulteriore continuità, abbiamo cercato di mantenere la stessa
sensazione / idea anche con le altre tracce.
Rosas ha scritto alcune note riguardo
al suo brano concept intitolato "La Tierra":
“Questa è la storia di “The
Seekers”, un gruppo di musicisti che trovano ispirazione nell'archeologia;
cercano una connessione con l'ancestrale, scoprendo racconti e miti nel deserto
di Atacama. L'importanza di salvare la storia antica è un modo per unire il
passato con il futuro; il loro obiettivo è scoprire testimonianze antiche come
un modo per nutrirsi con l'energia del passato. Si concentrano sull'importanza
di proporre narrazioni attraverso la musica, nell’intento di collegare la
storia direttamente all'anima. La band ha uno studio mobile quindi si addentra
nel deserto in cerca di ispirazione. Compongono e registrano sul posto”.
Come avrai ascoltato la suite è
divisa in tre parti, ciascuna di circa dieci minuti (Los Gentiles - Sol - Adios
a la Tierra), forse un giorno faremo uscire La Tierra in versione inglese, ma
non a breve.
1. Los Gentiles
Riguarda una razza che precede gli homo
sapiens. Sono piccoli esseri umani, la cui origine si perde nel tempo. Vivono
nelle montagne del deserto di Atacama e generalmente non si fidano degli umani.
Ma vengono attratti da "The Seekers" per la curiosità che provano
quando ascoltano la loro musica. Lentamente, diventano amici e iniziano a
fidarsi.
2-3. Sol- Adios a la Tierra
Il sole colpisce sempre di più i
Gentili, portandoli a credere che le radiazioni producano tra loro molti
malati. Ma hanno conoscenza dei viaggi intergalattici, e così a poco a poco
lasciano la Terra per andare a vivere con altre razze su diversi pianeti nella
costellazione della Vergine.
Anche questa volta gli ospiti sono
numerosi e sparsi per il mondo: come è nata la scelta?
Avendo invitato per questo progetto,
per la maggior parte, compositori madrelingua spagnoli, come Rosas dal Cile,
Stampalìa dall'Argentina, Saluena dalla Spagna, abbiamo scelto di coinvolgere
cantanti e musicisti che abbiano conoscenza della lingua e dei luoghi.
Steve Unruh compare solo come ospite:
lo vedremo presto appieno nei Samurai?
Steve sta attualmente registrando due
nuovi album per The Samurai of Prog ed è anche impegnato con altri suoi
progetti, quindi la sua partecipazione con Bernard e Pörsti, in questo caso, è
solo come ospite.
Scorrendo il booklet le immagini
appaiono fantastiche, da osservare mentre si ascolta: mi parlate dell’artwork?
Questa volta, a causa del fitto
calendario di Ed Unitsky, ci siamo rivolti all'artista tedesca Nele Diel, che
ha già lavorato per l'album solista di Kimmo, "Weyfarer", e troviamo
il suo stile molto stimolante; d'altra parte la parte grafica è gestita da
Kimmo Heikkilä dalla Finlandia.
Quali sono gli imminenti progetti
futuri che, ho inteso, sono molteplici?
Dopo "La Tierra", e la
riedizione in edizione limitata di "The Demise of the Third King's
Empire", stiamo attualmente mixando l'album di debutto di The Guildmaster,
"The Knight and the Ghost"; è questo è un progetto che include Ton
Scherpenzeel, Rafael Pacha, Kimmo Pörsti e Marco Bernard, e come al solito
diversi musicisti ospiti. Lo stile è più verso il Prog-Folk. Come accennato,
Steve sta attualmente lavorando al nuovo The Samurai of Prog, “Beyond the
Wardrobe,” che è previsto per novembre, e “The Lady and the Lion” (ispirato ai
racconti dei fratelli Grimms), in uscita all'inizio del 2021.
A parte il difficile momento
contingente, c’è la speranza di vedervi dal vivo?
Al momento non abbiamo in programma
concerti dal vivo ma non sai mai cosa porterà il futuro.
Dopo il Porto Antico Prog Fest dello
scorso 11 luglio, primo evento live del post lockdown, Black Widow si
ripete in occasione della celebrazione dei 30 anni di attività e propone un
altro evento sontuoso all’interno dell’ABRACADABRA FESTIVAL, seconda
edizione di una manifestazione dedicata alla magia, alla creatività e alla
musica.
Un programma spalmato su due giorni -
12 e 13 settembre - basato non solo sul palco rock, ma anche su di una attività
fatta di laboratori per i più piccoli, banchi di oggettistica e cartomanzia,
specialità culinarie tipiche della zona e molte altre attività adatte ad ogni
palato ed età.
Ma la cosa magnifica riguarda
l’ambientazione scelta, la Villa Serra di Comago, con un parco meraviglioso,
definito da qualcuno come un “pezzo di Inghilterra verde installata a Genova”.
In questo luogo da sogno avevo già
assistito ad un doppio concerto estivo di BANCO e ORME, qualche anno fa, ma
girare tra i curatissimi prati verdi in pieno giorno, in una giornata di sole e
cielo limpido, mi ha permesso di apprezzare maggiormente i dettagli.
Qualche immagine “mossa” per fornire
un’idea della location…
A partire dalle ore13 si sono susseguite
sul palco sei band, alcune locali ed altre in arrivo dal Piemonte, ma il comune
denominatore è stato il rock nelle sue varie sfaccettature, e non sono mancate
le sorprese.
Non sono in grado di proporre un
reportage completo - come cerco di fare normalmente - perché la mia presenza è
stata temporalmente limitata, ma un commento completo verrà fornito su di un
futuro numero di MAT2020, ad opera di Evandro Piantelli, presente per tutta la
giornata.
Al mio arrivo trovo sul palco la Small Band- che
non conoscevo - che propone cover famose che vanno da Hendrix ai The Doobie
Brothers passando per i Creedence Clearwater Revival.
Ho potuto ascoltare solo un paio di
brani, ma il tutto mi è sembrato gradevole, e la presenza di quattro ballerine
dall’abbigliamento seventies ha contribuito a “fare ambiente”.
È molto presto, il sole acceca i
musicisti, e la calura che incombe sull’ampio spazio dedicato al pubblico fa sì
che la maggior parte delle sedie “in front of the band” sia vuota, ma il
pubblico c’è - nonostante l’ora -, solo che trova riparo sui lati, all’ombra
degli alberi protettivi.
Una tempistica rigorosa, gestita da Ricky
Pelle e dal suo team tecnico, fa sì che allo scadere del tempo a
disposizione della Small Band sia già pronta la seconda band, The Ikan Method,
Trattasi di un progetto recente del
batterista Luca Grosso che ha trovato sintesi nel disco di esordio, “Blue Sun”,
un prog sinfonico con venature di puro rock, tra gli album più significativi
del 2020 in ambito Prog.
Band proveniente dal Piemonte ma
dalle origine ibride - il vocalist Davide Garbarino è di Savona - ha confermato
le sue caratteristiche e la validità dal vivo, un momento in cui le correzioni
tecnologiche hanno meno valore rispetto alla confortevole registrazione in
studio. Una buona miscela anagrafica, con una chitarra solista di lungo corso,
quel Marcello Chiaraluce che, nonostante la giovane età, ha bazzicato la
nobiltà del prog e del rock Internazionale.
Ho gradito il mix, e il modo in cui è
stato proposto.
A seguire i Melting Clock, giovane band genovese che avevo già
visto - e presentato - sul palco del Porto Antico Prog Fest, nel 2017.
Il loro set è diviso in due parti: si
inizia con un piacevole e sostanzioso tributo ai King Crimson per poi
proseguire con estratti dal loro album del 2019, “Destinazioni”. Rispetto a tre
anni fa presentano una ovvia maggior sicurezza da palco, e la frontwoman Emanuela
Vedana, nonostante il genere non richieda irruenza, dimostra la scioltezza necessaria
al ruolo, situazione che si acquisisce solo nel tempo.
La sintesi del loro disco di esordio
sottolinea le loro peculiarità: una bella conferma.
E arriva il turno di un’altra band
locale, i Fungus Family, oramai veterani
e capaci di tenere il palco come pochi altri. Mentre li ascoltavo pensavo alla
capacità del frontman Dorian Deminstrel di trasferire al pubblico lo stato di
tensione - positiva - che deriva dalla sua performance.
Ma è l’insieme della loro musica che
colpisce, un genere che, soprattutto nella fase live, avvolge l’audience, che
viene trasportata in un viaggio che ha forte tinte psichedeliche.
Molto bravi anche questa volta.
Entrano poi in scena i RAMROD, e qui il mio giudizio si ferma al primo
brano, l’unico che ho potuto ascoltare. Loro sono di Novara e, nonostante la
giovane età, sono in attività da alcuni anni. A colpirmi d’acchito è il loro
abbigliamento, tipico dei “miei” anni ’70, ovvero ciò che anche io indossavo in
quei giorni. Questo per dire come un dettaglio visuale apparentemente insignificante
possa essere al contrario l’introduzione ad una proposta musicale, un biglietto
da visita, una passione certificata che emerge prima ancora di dare potenza
agli ampli.
Da quel poco che ho ascoltato ho
tratto grande soddisfazione, un rock coinvolgente, e anche in questo caso è una
voce femminile a condurre il gioco, quella della grintosa Martina Picaro.
Ho chiesto a chi si è fermato sino
alla fine - Evandro Piantelli - di darmi un giudizio al volo:
“Ottima
band rock-blues con venature prog. Piacevole sorpresa, con ottimi musicisti e una cantante
grintosa e coinvolgente. Non il solito blues, ma brani lunghi e articolati con
testo in inglese (il pezzo conclusivo, "Leda", ad occhio e croce è
durato una ventina di minuti. La rivelazione del festival!”.
Mi è mancata, ovviamente, anche la
band conclusiva, ma è certo che la musica dei Pink Floyd appare perfetta per l’ambientazione,
e ho immaginato un prato verde carico di anime al calar del sole, in attesa
della musica che mette tutti d’accordo, in questo caso quella degli Empty Spaces.
Ancora una volta Evandro è venuto
in mio aiuto:
“Per quanto riguarda gli Empty
Spaces, si tratta della classica tribute band dei Pink Floyd, con un gran
numero di componenti (2 chitarristi, 2 tastieristi, basso, batteria e 3
coriste), che ha presentato una scaletta incentrata sui brani più conosciuti (Money,
Time, Another brick, Confortably Numb, ...), con in più una (troppo) lunga
versione di Echoes.
Comunque, è il set che ha registrato
il maggior numero di spettatori.”
Una bella e inaspettata giornata di
musica proposta in un luogo incredibile, nonostante le difficoltà sanitarie; un
evento musicale che merita un seguito, anche se, guardandomi attorno, mi è
parso di rilevare numerose defezioni di un mondo che conosco molto bene e che
so… contare! Chissà se nel futuro Black Widow potrà attrezzarsi per realizzare
concerti a domicilio!
Un ringraziamento ad Ago Sauro
per le splendide immagini.
Nel video a seguire un piccolo - E SCADENTE
- ricordo video della giornata (un grazie a Giorgio Nasso per la registrazione
degli Empty Spaces).
O.A.K. Jerry Cutillo "Nine witches under a walnut
tree"
Jerry Cutillo/OAK termina quella che lui stesso definisce la “Trilogia
Prog Esoterica degli O.A.K”, e lo fa in modo sontuoso, per forma e contenuti.
Nella lunga intervista rilasciata, proposta a seguire, il
polistrumentista affronta ogni dettaglio che ha portato alla realizzazione del
nuovo album, e ne approfitta per delineare un quadro completo del suo pensiero
trasposto in arte.
Cutillo ha numerose vite musicali, ed è bene sottolineare
il suo volontario abbandono di un quasi certo successo musicale in ambito pop -
in tempi remoti -, a favore di una genuinità che tiene lontani i compromessi,
almeno quelli che inciderebbero negativamente su di un percorso fatto di musica
libera, cultura e miscela delle tante espressioni artistiche possibili.
Conosco bene Jerry e i suoi lavori, e credo che il suo
più grande pregio sia quello di aver disegnato un genere estremamente personale
all’interno della nicchia del prog, termine che racchiude un mondo di
significati e che, proprio per questo, può dare a volte l’idea di confusione
espressiva.
“Nine witches under a
walnut tree” trova spunti nella storia, nella leggenda, nel
mondo esoterico, ma è soprattutto lavoro concentrato sul fornire amplificazione
all’urlo straziante delle donne giustiziate nel lontano passato per futili
motivi, atti temporalmente superati, ma pronti a riemergere nell’attuale
quotidiano sotto forma di rinnovate violenze.
L’album è disponibile per il download digitale, con un
numero contenuto di vinili in circolo dal 9 settembre (1000), e con una
quantità limitata di Cd - con dedica autografata - funzionali allo scopo
promozionale.
Nove episodi quindi, nove perle dedicate ad altrettante
“streghe” che trovano un punto di incontro in una data precisa del medio evo. E
poi un albero, un “noce”, misterioso e maledetto, indistruttibile, luogo
principe per rituali caratteristici di diverse culture e religioni, testimone
di brutalità trasversali e incancellabili.
In un commento di carattere generale è bene sottolineare
alcune cose basiche:
-L’assoluto padroneggiare della scena da parte di
Cutillo, che inventa, suona e canta - in più lingue -, dando l’impressione di
una grande capacità di autarchismo positivo (non sempre lo è!);
-La ricerca di elementi storico culturali che prendano le
distanze dal concetto di “facilità musicale”;
-La capacità di sapersi contornare di elementi di grande
valore e funzionali al progetto, e nel caso specifico non si può non porre
l’accento sulla nobiltà curriculare di David Jackson e Johathan Noyce.
-L’abbinamento tra l’elemento acustico (il largo uso del
mandolino azzera il tradizionale impiego della chitarra) e il mellotron, con il
flauto traverso meno presente rispetto al passato.
Ciò che nasce in questo quadro - compendio di esperienze
qualificanti, studio specifico ed esagerato know how musicale -, è quello che
definivo inizialmente come sound “diverso”, fatto di atmosfere di difficile
descrizione verbale, tra sogno e immagini di tempi antichi, capace di
descrivere sentimenti contrastanti, sensazioni che si mantengono vive nel
susseguirsi delle diverse epoche, e che appartengono ad ogni essere pensante.
L’ascolto scorre, traccia dopo traccia, e provo a
descriverlo con l’aiuto delle note dell’autore.
Apre l’album CHLODSWINDA: “Provenienti dalla
Scandinavia meridionale, i Longobardi si insediarono nel territorio del Sannio
dando origine al Ducato di Benevento. Veneravano gli alberi come elementi sacri
e incarnazioni di divinità. Nei loro rituali appendevano brandelli di carne ai
rami e, mentre cavalcavano i loro cavalli, li infilzavano con lunghe lame.
Sotto il magico albero di noce Chlodswinda evoca le loro gesta brandendo la
spada dei suoi antenati.”
È questo l’impatto con la filosofia acustica del
progetto, col mandolino in evidenza e la creazione sonora di un ambiente quasi
surreale, dove il galoppo dei cavalli si intreccia a battaglie epocali, con la
voce di Cutillo anch’essa strumento, oltre la funzione di racconto.
Brano di forte impatto che permette di inquadrare in pochi
attimi le atmosfere che caratterizzeranno il resto del percorso.
A seguire GIOCONNA: “Gioconna è una discendente
della “Zucculara”, una strega del folklore beneventano. Come la sua antenata,
cammina rumorosamente indossando pesanti zoccoli e portando cesti pieni di cibo
ed erbe rare da consumare il sabato con i suoi compagni. Gli spiriti da lei
evocati quella notte predicono i disastri ambientali causati dall'impatto
antropico nei secoli a venire.”.
Un modus fiabesco, un toccante duetto vocale tra Cutillo
e Tetyana Shyshnyak in versione “soprano”, un incrocio tra situazione aulica e
psichedelia, un perfetto spaccato di equilibrio situazionale e strumentale che
lascia un senso di angoscia da attesa, in tensione/preoccupazione per il
seguente giro di giostra.
DAME HARVILLERS: “Ha viaggiato dal nord
della Francia sino a Benevento con la giovane figlia Rosalie e ora sono ferme
con la loro carrozza sul costone roccioso chiamato “The Janare Cliff”. Portano
vasi, piume e polveri magiche per mostrare agli altri come preparare le
pozioni. Sei anni dopo la notte di Benevento, Madame Harvillers sarà processata
a Ribemont per l'uccisione di alcune persone e animali, che la condurrà al rogo.”
Cambio di lingua con passaggio a quella francese, e
l’entrata in scena di Daniele Fuligni e il suo Grand Piano. Brano
caratterizzato dalle tastiere e da ritmi tipicamente “prog”, ma, come si dice
in queste occasioni, “il tutto è maggiore della somma delle parti”, e la
melodia struggente e trascinante che imperversa sino all’epilogo è qualcosa che
entra dentro e ci rimane a lungo.
JANET BOYMAN: “Nascosta nella stiva
di una nave, Janet salpa da Edimburgo e arriva a Napoli e poi percorre sessanta
miglia per unirsi agli altri. Sveglia le fate del vicino fiume “Sabato” e
scatena vortici e onde anomale per impressionare i suoi amici. Dopo il suo
ritorno in Scozia verrà processata e giustiziata per stregoneria.”
Il brano più corto, uno strumentale che fornisce il
sapore della narrazione fantastico storica, con strumenti a fiato che si
inseriscono sulla base di archi artificiali, con tempi composti che appaiono
come un’immaginifica segmentazione di percorso.
Meraviglioso!
A chiudere il side A FRANCHETTA BORELLI: “Questa
nobildonna di Triora intrattiene piacevolmente gli altri con le sue storie di
amori. Tuttavia, spesso interrompe i suoi racconti per inseguire le farfalle
che svolazzano intorno ai rami del noce cercando di toccarli con la lingua.
Tutti ridono di questa scena, ma un sottile velo di tristezza oscura il volto
di Franchetta. Ha la sensazione che presto gli inquisitori la riterranno
responsabile della carestia che devasterà il territorio ligure. Al pensiero
della tortura che subirà, una smorfia di dolore deforma il suo sorriso.”
È il brano più lungo del disco, intimistico, ispirato, a
tratti lancinante, con l’apertura ad una sezione jazzistica caratterizzata dal
piano elettrico e da un martellante Noyce, una fuga decisa che termina con la
raggiunta tranquillità vocale di Cutillo.
Giriamo lato e troviamo di un altro strumentale, POLISSSENA:
“Epilessia, voli astrali e viaggi nel tempo sono solo alcune delle prove a
cui è sottoposta questa giovane donna; ma questa notte raggiunge davvero il
massimo! Tenendosi su due funi appese a un alto ramo del magico noce, inizia a
oscillare, accelerando ad alta velocità per deformare lo spazio/tempo sui suoi
fianchi. In questo modo viaggia avanti nel tempo e sperimenta una rapida
sequenza di eventi. Quando tornerà a Lucca, sarà processata per stregoneria,
torturata e bruciata sul rogo.”
Tinte dark, musica oscura, un’ispirazione musicale
“vandergraffiana” su cui interviene pesantemente l’esposizione del flauto
traverso… i maestri di una vita che ritornano per far riaffiorare le origini di
una passione trasformata in devozione.
Arriviamo a DONNA PRUDENTIA: “In Tuscia tutti
credono che Donna Prudentia sia una Lamia. In realtà è solo un’esperta di erbe
e un'ostetrica. Prudentia arriva a Benevento con in mano un libro: Il Malleus
Maleficarum! In quelle pagine c'è scritto come riconoscere le streghe, come
torturarle per le confessioni e come bruciarle. In un cerchio di candele nere,
Prudentia dà fuoco a quel libro maledetto. Quando tornerà a Blera, sarà
imprigionata e torturata con l'accusa di infanticidio.”
La firma di David Jackson per un pezzo che si avvicina
maggiormente alla forma canzone, ma ciò non impedisce di rimanere ancorati al
sentiero delineato, e le atmosfere sono a tratti strazianti, come dolorosa è la
storia raccontata.
NADIRA: “Discendente di una sacerdotessa
di Iside, Nadira balla per la dea egizia rievocando il suo epico tentativo di
rimettere insieme il corpo lacerato di Osiride. Come negli antichi rituali
sannitici dedicati al culto della dea Iside, la danza ipnotica culmina con
Nadira che allarga le braccia in posizione alata e cade in trance. Attraverso
questo stato alterato di coscienza, Nadira si riunisce con la divinità.”
Spaccato di world music, carica di contaminazioni, ritmi
e assimilazioni da differenti culture.
A concludere il side B - e l’album -, REBECCA LEMP:
“Bruciata sul rogo a Nordlingen il 9 settembre 1590. Dalla cima della
scogliera del Janare, punta il dito sull'aureola luminosa della Supernova di
Tyco mentre le altre streghe si tengono per mano.
Presto cammineranno verso la nuova alba cantando il loro
addio all'incantesimo e soffiando contro i venti della distruzione bussando
alle porte ... Ma il loro canto sarà smorzato dalla violenza.”
Jerry Cutillo si propone in lingua tedesca, coadiuvato
dal recitato di Gerlinde Roth (che ha scritto il testo) e, a dispetto del
racconto cupo e drammatico, conclude in modo quasi gioioso, mentre Rebecca
guida il resto del gruppo in una marcia dal sapore trionfale e allegro, epilogo
diverso da quanto ci si potesse aspettare.
Da segnalare il contributo vocale di altre due vocalist, Cristiana
De Bonis e Marta Perozzi.
Un album magnifico, originale, carico di significati,
frutto di studio e di applicazione costante, un contenitore che, come sempre
accade quando è Jerry Cutillo l’autore, propone il tema del viaggio - reale,
spirituale -, della miscela di etnie e culture, di religioni e conflitti
collegati… come sempre uno sguardo al passato per intravedere il futuro.
La colonna sonora di un film tutto da scrivere.
Ecco cosa mi ha raccontato…
L’INTERVISTA
Andiamo alla scoperta del tuo nuovo lavoro, “Nine witches under a walnut tree” …
Partiamo dal titolo e dal tuo amore per certi aspetti che
si pongono tra esoterismo e magia: di cosa parla l’album e cosa ha dato
l’accensione al tuo nuovo progetto?
Intanto partiamo dai due elementi cardine che hanno
tracciato i profili dell’album: Il numero “nove” al quale sono legato dalla
nascita e il “noce”, due termini paronimi la cui associazione esalta la
musicalità del titolo e veicola l’ascoltatore su di un terreno dal sapore
bucolico. Non sono mai stato un appassionato del paranormale o un collezionista
di film horror, ma il mio luogo di nascita si trova a poche miglia da
Benevento, antico crocevia di culture e traffici commerciali che attraversavano
la penisola da nord a sud, e l’albero a cui faccio riferimento è stato il totem
ai piedi del quale, nei secoli, si sono inginocchiati Sanniti, Romani, Celti,
Longobardi e Bizantini. La storia del Noce di Benevento è documentata a più
riprese nel corso degli anni, da qui la fama di albero magico e maledetto in
quanto risorgeva nello stesso punto anche quando le radici gli venivano
estirpate. I rituali che avevano luogo sotto i suoi rami erano molteplici e
abbracciavano culture e religioni diverse. In base alle mie ricerche
bibliografiche ho elaborato come probabile data dell’incontro delle nove
divinatrici protagoniste dell’album il 14 novembre 1572, e l’esplosione della
supernova Tyco, con il conseguente oceano di luce proiettato sulla Terra in
quei giorni, come suggestivo scenario per il loro sabba. Non c’è stata una
scintilla che ha dato origine al progetto ma piuttosto un lavoro lento che si è
dipanato progressivamente. Vorrei aggiungere inoltre di non avere avuto a
tutt’oggi alcun rapporto cosciente con il mondo esoterico o con la magia. Devo
tuttavia ammettere di avere alcuni aneddoti, piuttosto inquietanti, accumulati
nel corso della mia vita.
Poco tempo fa un noto occultista inglese, Andrew Keeling,
mi chiedeva un parere sui motivi delle presenze esoteriche nella musica prog e
su cosa spingesse alcuni musicisti ad abbracciarne i processi iniziatici.
Non vi nascondo che fui alquanto lusingato di ricevere un
tale attestato di stima dall’autore a cui Robert Fripp si era rivolto per la
scrittura delle guide musicali relative ai suoi primi album nei King Crimson.
Non esitai a rispondergli e riporto qui alcuni frammenti della mia replica.
“… Io credo che la musica sia la quintessenza
dell’occultismo. Naturalmente ha subito contaminazioni e distorsioni nel tempo
ma il suo principio base rimane quello di stabilire un contatto con l’invisibile
e l’inesprimibile. Nel ’69 Bob Fripp e i suoi compagni di band ebbero numerose
visite da parte di entità soprannaturali. Durante la realizzazione del loro
primo album sembra infatti che il gruppo avvertisse costantemente presenze
guida che sembravano veicolare gli sforzi musicali della band…
…Quando alla fine degli anni Sessanta Peter
Hammill fece visita a Graham Bond, quest’ultimo comprese come quell’incontro
potesse rappresentare un vero e proprio passaggio di consegne.
Il fondatore della Graham Bond Organization
era infatti da molto tempo alle prese con una grave dipendenza da droghe e
alcol e i suoi giorni erano contati; passò quindi “the magik torch” a Peter…
…Sembra vi sia una sorta di naturale “identificazione”
tra individui con sensibilità simili, capacità percettive analoghe e
predestinazioni corrispondenti…”
Da cosa è rappresentata questa volta la concettualità?
Ci sono dei crimini che sono passati quasi inosservati
nella storia. Questo a causa di poteri forti che hanno custodito segretamente
scomode verità. Ci sono troppe responsabilità rimaste ancora impunite. Facendo
riferimento alla “caccia alle streghe”, si stima che nell’arco di quattro
secoli circa 50.000 donne siano state giustiziate per futili motivi e ancora
oggi queste vittime non hanno trovato una voce. E la cosa che preoccupa di più
è che sebbene le cause di tale massacro sembrino ormai appartenere a vicende
lontane, in realtà stazionano nell’oblio dell’odierna indifferenza, pronte a
riemergere in forma di nuove violenze fisiche e psicologiche ai danni delle
donne.
Il concetto generale che permea l’intero lavoro è quello
del “sapere” contrapposto a quello del “potere”. Ed è quest’ultimo a inibire la
diffusione della conoscenza per mantenere il predominio di pochi privilegiati
ai danni delle fasce più vulnerabili della popolazione (tema di grande attualità).
Ma nei secoli bui del Medio Evo questo scontro generò un’estrema misoginia, un
forte pregiudizio e una discriminazione che fu causa di morte per un numero
smisurato di vittime innocenti.
Le lingue che utilizzi sono diverse: da cosa dipende la
scelta?
La condivisione delle conoscenze sui segreti della natura
ha sempre unito gli sciamani di ogni latitudine. Uno stesso linguaggio,
relativo al sapere esoterico e alle arti occulte si è diffuso in tutti i
continenti e le nove streghe protagoniste del sabba provengono da varie parti
d’Europa. Il background multietnico legato alla storia del territorio sannita
ha inoltre esaltato da un lato la centralità del magico noce, e dall’altro il
cosmopolitismo degli eventi narrati nell’album.
La opening track “Chlodswinda” ha radici nordiche e
risuona degli antichi culti Longobardi, un popolo proveniente dalla Scandinavia
che si stanziò nel Sannio per quattro secoli dando vita al Ducato di Benevento.
Insieme a “Gioconna”, discendente della “Zucculara” nota strega del folklore
beneventano, Chlodswinda è frutto della mia fantasia mentre “Dame Harvillers” è
una dedica a una alchimista francese bruciata sul rogo a Ribemont nel 1578. Su
questa traccia ho provato a cantare in francese ed è stato il mio primo
tentativo in assoluto in questa lingua (e forse l’ultimo!!!).
“Janet Boyman” è uno strumentale che traccia il profilo
di una strega scozzese giustiziata nel 1572 mentre “Franchetta Borelli” è una
nobildonna di Triora accusata d’aver causato la carestia nella zona ligure nel
1587.“Polissena” proviene da Lucca ed è
affetta da epilessia e per questo condannata al rogo in quanto ritenuta
demoniaca. Le ho cucito addosso il ruolo di viaggiatrice del tempo con la sua
altalena stregata. “Donna Prudentia”, la lamia di Blera accusata di
infanticidio, l’ho vista invece mettersi in viaggio alla volta di Benevento con
le pagine del “Malleus Maleficarum” strette nella mano. La penultima è “Nadira”
una mia rappresentazione del culto della dea Iside, molto diffuso nel Sannio
antico. Ed infine “Rebecca Lemp”, proveniente da Nordlingen e bruciata sul rogo
il 9 settembre 1590, alla quale ho dato un profilo d’astronoma. È lei che guida
la marcia finale dopo aver mostrato alle altre la luce della supernova
dall’alto della rupe delle janare. Il brano chiude l’album con una serie di
esplosioni tra il cosmico e il ridanciano ed è cantato da me in tedesco con un
breve intervento parlato di Gerlinde Roth che ne ha scritto il testo.
In “Giordano Bruno” avevo fatto del mio meglio per
cantare “Wittenberger fuchstanz” in lingua teutonica e in quest’ultimo brano di
“Nine witches under a walnut tree” ho provato a ripetere l’impresa.
Differentemente dal precedente album che terminava con l’angoscioso crepitio
del rogo nel quale si spegneva la vita del filosofo nolano, questo nuovo
progetto ha invece un epilogo di intensa allegria e vitalità.
Mi parli dei tuoi ospiti (e di come li hai coinvolti),
tra i quali vedo spiccare facce molto conosciute?
Oltre all’onnipresente David Jackson, a cui rivolgo tutta
la mia gratitudine per avermi sostenuto in tutti questi anni, c’è la new entry
di Jonathan Noyce, con il quale avevo condiviso nel 2010 le session di
registrazione di “My old man” a Banbury UK. Poi Daniele Fuligni al Grand Piano,
Tetyana Shishkaya voce soprano, Cristiana De Bonis vocalizzi, Gerlinde Roth
recitato, Marta Perozzi ed Eclisse di Luna cori. La lista avrebbe potuto essere
più lunga, ma i lunghi e complessi tentativi per la definizione del progetto,
peraltro effettuati con personalità di spicco del panorama musicale, hanno
portato a scelte drastiche nel finale. Come già avvenuto per “Giordano Bruno”,
non tutti gli elementi elaborati nella lavorazione del progetto hanno finito
col trovare spazio nell’album. Ci sono state poi delle assenze dettate da
motivi ben noti, come la scomparsa di Glenn Cornick, Rodolfo Maltese, Claudio
Rocchi e quella più recente di Maart Allcock. Con loro avrei continuato
volentieri a cooperare ma non sarà mai più possibile. E per concludere, vorrei
ringraziare il fan club spagnolo dei Tullianos per avermi fatto conoscere molti
dei musicisti con i quali sono in collaborazione.
Pensi ci sia una continuità naturale rispetto a “Giordano
Bruno”, non solo riferita al pensiero ma anche agli aspetti meramente musicali?
Quando nel 2016 uscì “Viandanze”, il primo album di
quella che io definisco la trilogia prog esoterica degli O.A.K., mi resi conto
di aver trovato il mio ramo di appartenenza al genere prog. Infatti, una volta
abbattuto il concetto di “presente” artistico, ho cominciato a far volare le
mie narrazioni musicali senza inibizioni, esigenze di mercato o ambizioni di
successo. Sono tornato, per esempio, ad esprimere la mia verve tastieristica
seventies (nasco come apprendista organista nel 1973) e a riscoprire una serie
di strumenti vintage. Senza avere la presunzione di presentare un nuovo genere
musicale o qualcosa di mai ascoltato prima, posso in tutta modestia definire la
mia musica “derivativa” come è del resto per tutto il prog italiano, vecchio e
nuovo. Io appartengo alla Generazione X, quella falcidiata da eventi
catastrofici (terrorismo, eroina, aids) e del prog non ho vissuto gli inizi ma
soltanto la fase centrale (straordinari i concerti a cui ho assistito dei
Gentle Giant ’73 ed oltre, Genesis e King Crimson ’74, Yes e VDGG ’75) e la sua
fase discendente con l’inarrestabile avvento del punk che allontanava a suon di
sputi i dinosauri del prog.
Riguardo alle caratteristiche strumentali di quest’ultimo
lavoro, ho riconfermato l’assenza delle chitarre elettriche lasciando spazio,
come avvenuto nel precedente “Giordano Bruno”, soltanto all’e-bow (il magnete
che posto su una corda dell’elettrica ne prolunga il suono “alla Fripp”). Ho
ulteriormente esagerato con il mellotron, strumento di difficile utilizzazione
se non si hanno adeguate basi di armonia musicale, e ho rispolverato le otto
corde del mandolino che di fatto ha sostituito gran parte delle chitarre
acustiche. Anche il flauto traverso è stato utilizzato con grande parsimonia.
Nonostante io sia considerato da qualcuno un flautista, devo ammettere di
riconoscermi sempre meno nello strumento che ha fatto la fortuna di Ian
Anderson. Vorrei concludere col dire che questi tre album (“Viandanze”,
“Giordano Bruno” e “Nine witches under a walnut tree”) formano un quadro unico
nella discografia degli O.A.K. essendo legati da uno stesso comune
denominatore: Il tema del viaggio, sia esso transumanza, esodo, ricerca
artistico esoterico filosofica, avventura cosmica o guerra per il predominio etnico,
culturale, economico o religioso.
In “Giordano Bruno” la figura del filosofo è il punto
focale su cui ruotano i 74 minuti dell’opera e gli arrangiamenti sinfonici ne
tracciano una cornice cinematografica che definisce gli eventi che si
susseguono nell’album. Il folk e la psichedelia “beatlesiana” che ho cercato di
riprodurre nel doppio album alzano una nebbia anglosassone che avvolge le
sonorità dell’album. Ma credo che sia con quest’ultimo “Nine witches under a
walnut tree” che le mie intuizioni ritmico geometriche dispari si realizzano,
incrociandosi con i suoni folk del mandolino, con il prog dei mellotrons e con
la psichedelia dei sintetizzatori creando atmosfere ancora più filmiche e
sospese nel tempo.Lo scopo era
rappresentare nove profili di donna con colori diversi, inserendoli in un
caleidoscopio formato da tante luci generate da una stessa materia.
Mi pare di capire che attualmente gli OAK siano Jerry
Cutillo & Friends piuttosto che una formazione fissa. Sbaglio?
Quando si è concentrati sul proprio lavoro e gli
obiettivi si fanno sempre più impegnativi, rimane poco tempo per analisi sul
chi e sul dove. L’importante è andare avanti e portare a termine i progetti,
cosa che di questi tempi ha del miracoloso. Continuo tuttavia a coltivare il
sogno di amalgamare un combo sonoro presentabile anche dal vivo ma il cammino
si fa sempre più nebuloso. Temo che la stagione dei “gruppi” musicali sia
definitivamente morta e sepolta ma che non si abbia abbastanza coraggio per
ammetterlo. Sempre più spesso ci si scontra con le rigide esigenze degli
organizzatori di eventi e con la presunzione di musicisti convinti di poter
raggiungere obiettivi impegnativi in poco tempo e con il minimo sforzo. È dal
’93, data della formazione del gruppo, che monitoro la situazione musicale con
molta attenzione ed il fatto che dall’origine del gruppo si siano avvicendate
decine e decine di line ups sotto la sigla O.A.K. ha sviluppato in me una
grande consapevolezza. Con gran parte dei miei amici musicisti continuo ad avere
scambi artistici e una sincera amicizia e appena pochi giorni fa ho ricevuto la
telefonata da parte di Michele Vurchio, uno dei batteristi più dotati ed
esperti del panorama italiano, che mi ricordava con un pizzico di nostalgia i
concerti realizzati insieme e di quanto fosse stata positiva la sua esperienza
negli O.A.K. Fa piacere apprendere che la mia creatura artistica possa aver
legato tanti bravi musicisti a una serie di episodi che si sono rivelati
significativi per le loro vite. Temo che per il trentennale degli O.A.K. nel
2023, sarà necessaria una portaerei come palcoscenico per disporne tutti i
rappresentanti, covid permettendo…
A chi ti sei affidato questa volta per gli aspetti
tecnici (produzione ecc…) e quelli distributivi?
È già da tempo che ho scoperto il meraviglioso mondo
dell’autoproduzione ed è dal 1980 che realizzo arrangiamenti musicali per scopi
professionali. Essere stato da sempre un polistrumentista mi ha aiutato molto
per tracciare le architetture delle mie composizioni e per manifestarne lo
spirito autentico, quello scatenato dal sacro fuoco della visione. Inoltre ci
si è dovuti emancipare nei confronti delle conoscenze tecniche per finalizzare
adeguatamente i progetti (soltanto la masterizzazione è stata effettuata da Alex
Barocchi e Danny Monk del Regent Street Studio di Londra) e proseguire poi con
gli altri step che riguardano stampa, distribuzione, promozione etc…(Goodfellas
è un semplice prestanome in quanto non ha fatto altro che spedire il master ai
suoi contatti nella stamperia milanese affinché i vinili possano essere pronti
entro il 9 settembre). Le etichette discografiche sono ormai delle riserve
indiane che conservano l’ombra della luce del big bang che esplose negli anni
’60 con il mercato discografico alle stelle. Ma ora i musicisti si sono resi
autosufficienti e guardano con “tenerezza” i discografici che tentano ancora di
esercitare una qualche influenza su di loro, sui loro progetti e sulle loro
produzioni musicali.
In che formato uscirà l’album e da quando sarà possibile
acquistarlo o ascoltarlo?
Nel mese di luglio è partita la stampa di 1000 copie in
vinile con copertina apribile (gatefold) e saranno pronte per il nove
settembre. Incrocio le dita ed aggiungo altre gestualità scaramantiche anti
lockdown! Mentre per il download sui digital stores, questo sarà disponibile
già dal primo settembre. Soltanto per scopi promozionali inoltre, è già stato
realizzato un numero limitato di copie in formato cd con tanto di dedica
autografata…
I tuoi lavori sono molto complessi e richiedono tempo, e
il disco precedente è stato rilasciato un paio di anni fa: stai vivendo una
fase più creativa rispetto al tuo passato?
Con la giusta attitudine al lavoro la volontà si
raddoppia e la resistenza agli stress aumenta. Ci si riesce meglio a
destreggiare tra collaboratori e tecniche di produzione e se la musa non ci
abbandona, si rimane sempre ricchi di stimoli e nuove idee. Le tempistiche
diventano quindi più rapide e si finisce col sorprendere gli addetti ai lavori…
col rischio di diventare antipatici!
Ma se ripensiamo alla stagione d’oro del prog,
realizziamo che si viaggiava ad una media di un Lp all’anno e quindi… a qualche
modello devo pur ispirarmi!
Che cosa resta di quel Jerry Cutillo che ho visto suonare
nel 2008 ad Alessandria, immerso nel mondo dei Jethro Tull?
Quando decisi di rinunciare ai vantaggi ottenuti dal
successo discografico derivato dalla mia svolta “pop” nella metà degli anni
’80, sapevo che non sarebbe stato facile intraprendere un percorso controcorrente
rispetto alle tendenze del momento. Senza un produttore, un manager, una casa
discografica di supporto e una promozione radiofonica e televisiva che
abbracciasse i maggiori canali popolari (tutte cose che avevo avuto
precedentemente) le probabilità di realizzare progetti musicali si sarebbero
ridotte al lumicino. Questo è sempre stato il panorama della musica in Italia,
e quindi soltanto un pazzo poteva sperare di bissare un successo ottenuto già
di fatto in circostanze miracolose. Il mio amico Tony Forgione mi ricordava
come negli anni ’90 poi, per calcare più palcoscenici, ci si dovesse adeguare
all’abbrutimento dettato dagli “operatori” della musica che di fatto non
promuovevano altro che cover band. Riporto in breve quanto aggiunto da Tony: “…ma
anche in una siffatta situazione musicale, Jerry Cutillo riuscì ad emergere
come emulo di Ian Anderson e a far ottenere ai suoi OAK notevole risonanza
nella sfera degli appassionati dei Jethro Tull. Ma i limiti contingenti ad una
situazione promozionale sciagurata non possono a lungo sbarrare il passo alla
creatività ed ecco che nel nuovo millennio Jerry e la sua sigla O.A.K.
riappaiono con una serie di album che confluiscono nella recente trilogia prog…”
Ringrazio Tony per la sintesi estrema sugli eventi intercorsi nel tempo e
ringrazio te, Athos, per ricordarmi la convention de iTullians ad Alessandria
nel 2008 sottolineata (pensavi me ne fossi dimenticato?) con questo tuo
commento: “…Viene poi il turno degli OAK e tra i tanti musicisti che si
avvicendano sul loro palco, nota di rilievo per Glenn Cornick e Barrie Barlow,
un gigante con le bacchette in mano, per i Sossity e Josè Melòn. Ma la vera
rivelazione, almeno per me che non lo conoscevo, è Jerry Cutillo. Da quindici
anni guida gli OAK e, da quanto visto e sentito, non è solo “copiatore” di
altra musica ma anche propositore di grandi novità. È anche l’unico che si può
accostare pienamente a Ian, nella ripetizione del ruolo, in quanto cantante,
chitarrista e flautista. Last but not least, è un animale da palcoscenico e si
muove con spettacolarità ed energia. Gli OAK ci propongono uno spettacolo
completo con balli, travestimenti, musica e mimica da cabaret. Un grande voto a
questo gruppo, nessuno escluso, compresa la piccola Isabel, la più piccola del
gruppo (4 o 5 anni) e figlia di Jerry che si esibisce sul palco come ballerina
e soprattutto resiste alle fatiche della giornata. La set list degli OAK è
variegata e comprende brani che non siamo più abituati ad ascoltare dal vivo.
All’interno, una canzone scritta da Jerry (Sandali rossi) che non sfigurerebbe
in nessun album prog di musicisti più affermati. Ma la mia preferenza va a “My
God”, ovvero il brano dei JT che più amo e che nell’occasione presenta un
fraseggio centrale di flauto che non avevo mai sentito, davvero coinvolgente,
probabilmente un tocco personale di Jerry. Arriviamo in un lampo alla fine (tre
ore volate via in un attimo) e guadagno il palco per qualche foto, mentre Jerry
mi presta la sua balalaika per regalarmi un tono da musicista.
Una Convention di condivisione assoluta e se
il “bene” si chiama musica non credo ci sia niente di “sacrilego” essendo la
musica compagna di vita nostra, di chi ci ha preceduto e di chi verrà dopo di
noi…Questo mi riporta ai meriti di IAN ANDERSON. Lui ha creato tutto ciò che io
e molti milioni di fan desideravano con forza. Nella mia adolescenza ho cercato
con forza di sostituire i JT, di trovare alternative, di metterli in
discussione per il solo gusto del nuovo. Ho trovato tanti meravigliosi artisti
che ascolto ancora ma nessuno ha mai eguagliato LORO.”
Grazie caro Ath. Mi hai tolto le parole di bocca! Quello
che esprimi mi provoca brividi e commozione.
Alessandria fu per me la terza tappa relativa alle
iniziative de iTullians: Avevo vinto il flute contest alla Convention di Castel
Ceriolo nel 1997 (l’unico ad esser riuscito a suonare con una gamba alzata!) ed
ero stato headliner con la top OAK band con in formazione Glenn Cornick, Robert
Illes ed altri, alla Convention di Felizzano nel 1998.
Ringrazio tutto lo staff de iTullians con a capo Aldo
Tagliaferro e Franco Taulino per avermi dato tante e simili opportunità per
esprimere la mia più profonda tulliagine.
Che cosa resta di quel Jerry Cutillo?
Resta l’impegno profuso per farsi trovare sempre pronto
all’appuntamento, sia esso piccolo o grande.
Resta il concetto di gruppo aperto e di condivisione di
un evento artistico sia esso concerto o album.
Resta l’aspetto dissacratore quando in gioco c’è la
propria identità (nel ’98 Glenn mi presentò Clive ed aggiunse: “He’s Ian’s
clone” e la cosa non mi inorgoglì affatto, anzi… replicai seccato: “I’m not a
clone!”, gelando il sorriso sul volto dei miei due interlocutori).
Resta il piacere nel ricreare l’incanto della musica di
Anderson ogni qual volta se ne presenti la giusta occasione (l’ultimo tributo
degli O.A.K. è avvenuto appena un anno fa).
Porterò per sempre nel cuore il mio sogno tulliano e questa
visione non si incresperà mai pur essendo cosciente che si tratta di una
leggenda, dell’immagine di me stesso riflessa in un cespuglio di capelli ricci
posato su di un pastrano a quadri che termina con un paio di stivali uno dei
quali alzato ad altezza ginocchio.
Lo scorrere del tempo può arrivare a cancellare anche
qualcosa di magico e sembra essere questa l’esperienza dei diretti protagonisti
che ha viaggiato su binari diametralmente opposti da quelli di un fan. Ad
Alessandria Barriemore Barlow, ormai passato da tempo al lavoro di produttore
musicale, guardava disorientato il nostro batterista a bordo palco affinché gli
suggerisse gli stacchi di “Aqualung”, a John Evan invece dovettero scrivere gli
accordi di “We Used To Know”, uno dei giri armonici più “telefonati” della
storia del rock, the good old Clive è in giro per sagre (unici momenti,
peraltro, dove si può trovare un pò di sapore rustico tulliano), Martin Barre
ha finalmente trovato il carattere (e la faccia tosta) dopo essere stato per 42
anni uno tra i chitarristi più fortunati della storia del rock e Mr. Anderson,
il genio, colui che ha sempre volato più in alto di tutti, è invece sempre alle
prese con i suoi ripetitivi live-terapia-anti invecchiamento, impiastricciato
in liti condominiali, controindicazioni generate dalle sue stesse creature.
Ebbene sì, lo scorrere del tempo può trasformarci in
qualcos’altro e a volte la strada può biforcarsi in modo impietoso. Si diventa
allora migliori o peggiori, ma mai uguali a ciò che eravamo.
Dei JT ho ammirato dodici anni di poderosa energia e
creatività prevalentemente Andersoniana ma anche di altre personalità dotate di
estrema potenzialità, coerenza, trasparenza e sensibilità: Sto parlando di
Jeffrey Hammond. L’unico ad aver fatto un passo indietro in tempi non sospetti.
Un esempio di artista! Quando si pronuncia il nome Jethro Tull bisognerebbe
volgere più spesso l’attenzione a questo ex studente d’arte di Blackpool che
osservava per ore i senzatetto nella stazione dei bus di Blackpool, che
ascoltava il jazz e il blues provenienti dall’America, che manifestava i
sintomi della sindrome di Asperger e ne subiva tutte le relative conseguenze in
termini di socializzazione, che si lasciava travolgere dagli eventi senza
opporre resistenza e con gli occhi sgranati di un bambino ne rimaneva a
guardare gli effetti, che partoriva in una notte un quotidiano fitto di notizie
surreali, che ideava la figura del crooner cornuto che introduceva le
bestialitá umane. E per chi pensa che Jeffrey Hammond non sia stato uno
straordinario bassista rispondo: In 27 anni di concerti tributo ai Jethro Tull,
con la maggior parte del tempo passato a cercare musicisti, strumentisti,
rimpiazzi, turnisti, appassionati etc…io non ho mai trovato un bassista capace
di suonare “Aqualung”, “Thick as a brick”, “Living in the past”,“A passion
play”, “War child” e “Minstrel in the gallery” come faceva lui. Il fatto che si
sia inabissato per sua personale vocazione all’ascetismo artistico ha
probabilmente creato il mito del non-musicista. Allora provate a riascoltare la
sequenza degli album sopracitati! Probabilmente la sua estrazione chitarristica
ne ha influenzato lo stile (avrebbe potuto suonare l’elettrica meglio e prima
di Martin Barre) ma il suo bass playing nei sei capolavori tulliani, quelli con
più influenze prog e con gli arrangiamenti più sofisticati, è qualcosa di unico
e autentico e va rispettato e considerato per quello che è: un vero capolavoro
di pittura musicale.
Tenendo conto delle difficoltà del momento, hai pianificato
momenti di presentazione o concerti ad hoc?
Ci sono in programma concerti nel mese di settembre che
elencherò a fine pagina ma ci sono anche numerosi altri appuntamenti che si
svolgeranno in forma diversa. Nel mese di giugno ho partecipato al World Wide
Virtual UK Prog Festival ed è andato benissimo sia dal punto di vista tecnico
che nei riguardi degli effetti promozionali.
Radio Terra Incognita in Canada ha già attivato le sue
frequenze l’8 agosto trasmettendo un’ora di musica degli O.A.K. a cura del dj
Michel Bilodeau e Jimmy Farley dell’emittente Rock de Neurones farà
altrettanto. In territorio canadese sembrano ultrasensibili rispetto alle mie
continue sollecitazioni artistiche. Forse il fatto di aver trovato la giusta
continuità nelle uscite discografiche ha facilitato gli addetti ai lavori a
stringere un rapporto di stima, fiducia e interesse nei miei confronti. Anche
nel Regno Unito c’è molta curiosità e coinvolgimento riguardo ai miei lavori.
David Hall di Reclaimed Radio e Bob Prigmore di Beat Route Radio hanno
insistito molto per voler essere i primi in Europa a presentare il nuovo disco
in radio. Questo avverrà il primo settembre e poi il 9 dello stesso mese sarà
la volta del Belgio con il dj Renè Malbranque di Musical Box Radio.
Anche in Sudamerica c’è molta attenzione per le mie nuove
uscite e Big Bang Radio di Buenos Aires ha già trasmesso musica e notizie
relative agli O.A.K.
In Italia abbiamo Andy Simoniello di Radio Altra Musica
che presenterà il nuovo disco il 3 settembre, poi Max Rock Polis & Marcio
Sà il 20 e molti altri che sono sempre puntuali nel riportare le iniziative
degli O.A.K.
In campo giornalistico poi, dopo questa tua “prima”
intervista seguiranno le altre, insieme alla sequenza di recensioni che sono
già arrivate, tutte estremamente lusinghiere, dal nostro paese, dall’Olanda,
dalla Germania e dalla Francia (non dimentichiamoci che la rivista francese
Koid9 titolò Giordano Bruno miglior album prog del 2018).
Il 31 agosto gireremo il trailer dell’album e in seguito
il materiale video coprirà interamente i 46 minuti del progetto per presentare
uno spettacolo multimediale che comprenderà musicisti, comparse e
visualizzazioni.
Grazie Ath, un saluto agli amici savonesi e a tutto lo
staff di MAT2020
Alla prossima uscita.
Prossimi
concerti:
12 settembre 2020 Moonart Labyrinth Festival (Roma)
18 settembre 2020 I Poggetti (Castel Giorgio VT)
Tracklist:
Side A
1 CHLODSWINDA 6:12
2 GIOCONNA 3:49
3 DAME HARVILLERS 5:10
4
JANET BOYMAN 3:32
5
FRANCHETTA BORELLI 6:25
Side
B
1
POLISSENA 4:41
2
DONNA PRUDENTIA 5:27
3
NADIRA 5:30
4
REBECCA LEMP 6:02
Tutti
I brani sono stati scritti da Jerry Cutillo eccetto:
“Dame
Harvillers”- liriche di Clementine Hobbes e musica di Jerry Cutillo
“Rebecca
Lemp”- liriche di Gerlinde Roth e musica di Jerry Cutillo
Tutti
gli strumenti e le voci sono di Jerry Cutillo eccetto:
Basso: Jonathan Noyce (tracks 1-2-3-5-6-7-8-9)
Sax: David Jackson (track 7)
Grand
Piano: Daniele Fuligni (track 3)
Soprano
voice e cori: Tetyana Shyshnyak (tracks 2-9)
Vocalizzi
e cori: Cristiana De Bonis (track 8-9)
Recitato:
Gerlinde Roth (track 9)
Cori:
Marta Perozzi (track 1) - Eclisse di Luna (track 9)