Meddle è il sesto album in studio dei Pink Floyd, pubblicato il 31 ottobre del 1971,
e merita un minimo di analisi, essendo un punto di svolta nella discografia
della band, un ponte tra il loro sound psichedelico iniziale e le
sperimentazioni più mature degli anni a venire.
Il disco rappresenta un passo avanti nella maturazione del
sound dei Pink Floyd, con arrangiamenti più complessi e una maggiore attenzione
ai dettagli sonori, con l'uso di effetti speciali, strumenti inusuali e
paesaggi sonori ambientali. L'atmosfera generale dell'album è onirica,
introspettiva e a tratti malinconica, capace di creare un'esperienza d'ascolto
unica e coinvolgente.
Vediamo le tracce…
Lato A
One of These Days – 5:57
A Pillow of Winds – 5:07
Fearless – 6:05
San Tropez – 3:40
Seamus – 2:15
Lato B
Echoes – 23:31
Formazione
David Gilmour: voce principale, cori, chitarra
elettrica, chitarra acustica, lap steel guitar, effetti sonori, armonica
Richard Wright: organo Hammond e Farfisa,
pianoforte, voce, effetti sonori
Roger Waters: basso elettrico, chitarra acustica,
voce, effetti sonori
Nick Mason: batteria, percussioni, piatti,
effetti vocali, effetti sonori
Accenno superficialmente ai vari tasselli, nella speranza di
stimolare la curiosità o la memoria… cliccare sui titoli blu per ascoltare l'audio.
Echoes: parto dalla fine, la traccia che occupa tutta la seconda facciata, il
pezzo forte dell'album, un'epopea sonora di oltre 23 minuti che si snoda
attraverso atmosfere oniriche, momenti di intensa emotività e sperimentazioni
sonore. È un viaggio introspettivo che invita l'ascoltatore a perdersi nella
musica.
One of These Days è un brano più aggressivo e ritmico, con un basso pulsante e
la celebre frase di Roger Waters. Un contrasto interessante rispetto alla
dolcezza di altri brani.
Pillow of Winds è una delicata ballata con la voce di David Gilmour che si
fa strada su un tappeto di armonie vocali e chitarre acustiche.
Fearless, brano sperimentale, con suoni ambientali e effetti sonori
che creano un'atmosfera misteriosa.
San Tropez, più ritmato e leggero, con un testo ironico che descrive
un'esperienza di vacanza.
Seamus, traccia particolare, un blues, con il cane di Steve Marriott (chitarrista degli
Humble Pie) che ulula come strumento musicale.
Meddle è considerato uno dei capolavori del progressive rock,
un album che ha influenzato generazioni di musicisti, fondamentale nella
discografia dei Pink Floyd, un punto di riferimento per tutti gli appassionati del
genere.
L'album ha segnato l'abbandono definitivo delle
sperimentazioni psichedeliche più estreme degli esordi, aprendo la strada a un
sound che è poi quello che ha caratterizzato il loro periodo più prolifico.
Pur non avendo avuto un successo commerciale immediato come
alcuni album successivi, "Meddle" ha contribuito ad accrescere la
popolarità della band, soprattutto nel Regno Unito.
Con questo lavoro i Pink Floyd trovano
la loro strada, creando un progetto su cui lavorare e spostando la forza
creativa dei singoli verso una direzione chiara. Tutti hanno la possibilità di
brillare di mettersi in mostra e certificare le loro skills, e ciò che ne esce
fuori è, a mio giudizio, un grande album, un must per chiunque apprezzi la
musica di qualità all’interno della variegata famiglia del rock. Ma questo è
molto di più!
Un viaggio tra le atmosfere del prog
nordico e la voce leggendaria di Stefano "Lupo" Galifi: la rinascita
in italiano dell’acclamato album di Lars Fredrik Frøislie
Con Quattro Racconti,Lars Fredrik Frøisliefirma il suo terzo lavoro solista in poco più di
ventiquattro mesi, confermandosi tra i più prolifici e visionari compositori
della scena progressive contemporanea. Fondatore e tastierista dei Wobbler,
Frøislie reinterpreta il suo acclamato debutto Fire Fortellinger
(2023) in una nuova veste: quella italiana, affidando la voce a una leggenda
vivente del prog tricolore, Stefano “Lupo”
Galifi, storico frontman del Museo Rosenbach.
Questa nuova incarnazione dell’album non è una semplice
traduzione: è una rinascita. L’apporto vocale di Galifi è travolgente, capace
di fondersi con le complesse architetture sinfoniche come se fosse stato parte
integrante del progetto sin dall’inizio. La sua voce, potente e carismatica,
dona profondità e pathos alle composizioni, elevandole a un livello espressivo
superiore rispetto alla versione originale cantata da Frøislie stesso.
Dietro le quinte, un altro nome illustre del prog scandinavo:
Jacob Holm-Lupo (White Willow), che ha curato il mastering e che da
tempo sostiene il percorso artistico di Frøislie. Il risultato è un disco che
unisce il rigore nordico alla passione mediterranea, in un connubio che sa di
magia.
L’album si articola in quattro movimenti, ciascuno con una
propria identità sonora e narrativa, come capitoli di un racconto epico.
Si
parte con una composizione dal respiro ampio e drammatico,Il Cavaliere dell’Apocalisse, che affonda le radici nella
mitologia nordica e ci conduce in scenari oscuri e solenni, dove la musica
evoca battaglie cosmiche e paesaggi ghiacciati.
Il secondo brano, Un posto sotto il cielo, apre una
parentesi più luminosa e contemplativa, con melodie che sembrano sbocciare in
un giardino incantato. Qui l’atmosfera si fa più intima, quasi sospesa, e la
scrittura musicale si tinge di colori rinascimentali, offrendo un momento di
respiro e meraviglia.
Il terzo episodio, Presagio, ci riporta in territori
più inquieti, dove il senso di presagio e tensione si fa palpabile. Le immagini
evocate sono potenti e suggestive: carrozze fantasma, cieli boreali, anime
erranti. La musica si fa intensa, con passaggi che colpiscono per forza espressiva
e profondità emotiva.
A chiudere il cerchio è una lunga composizione, Cattedrale della Natura, che celebra la natura selvaggia e il senso di isolamento. Qui
la musica si espande come un paesaggio nordico, dominato da suoni caldi e
avvolgenti, con momenti di sorprendente originalità che arricchiscono
ulteriormente l’esperienza d’ascolto.
Frøislie non si limita a comporre e produrre: suona una vasta
gamma di tastiere vintage, canta, dipinge la copertina e si cimenta anche alla
batteria. L’unico altro musicista coinvolto è il bassista Nikolai Hængsle
(Needlepoint, Elephant9), che completa il quadro sonoro con eleganza e
precisione.
Il lavoro di adattamento dei testi italiani è stato
meticoloso, con un nuovo mix e master che valorizzano ogni sfumatura. Il
risultato è un album che non solo conserva l’anima dell’originale, ma la
espande, grazie alla voce di Galifi e alla cura artigianale di ogni dettaglio.
Quattro Racconti è destinato a conquistare gli amanti del prog classico e dei
suoni analogici, ma anche chi cerca emozioni autentiche e interpretazioni
vocali memorabili. Galifi regala una performance da antologia, capace di
commuovere e stupire anche chi conosce già “Fire Fortellinger”.
Disponibile dal 24 ottobre 2025 su Karisma Records e sulla
pagina Bandcamp di Lars Fredrik Frøislie, questo album rappresenta uno dei
vertici del progressive italo-scandinavo contemporaneo. Un’opera che merita di
essere ascoltata, vissuta e celebrata.
Con profondo dolore, il mondo della musica saluta James Senese, pseudonimo di Gaetano Senese,
scomparso a Napoli oggi, 29 ottobre 2025, all'età di 80 anni.
Sassofonista, compositore, cantante e attore, Senese è stato
una figura iconica e un pioniere nella contaminazione sonora italiana, un vero
"nero a metà" che ha saputo fondere jazz, rock, soul e funky con il
cuore e l'anima partenopea.
Nato nel quartiere Miano di Napoli il 6 gennaio 1945, figlio
di un soldato afroamericano e di una ragazza napoletana, James Senese ha
trovato nella musica il suo linguaggio universale. Fin dai suoi esordi negli
anni '60 con i Gigi e i suoi Aster e poi con i celebri The
Showmen, ha contribuito a dare forma a quel movimento che sarebbe stato
battezzato "Neapolitan Power", una rivoluzione musicale
che ha rinnovato la tradizione partenopea.
La sua impronta più marcata arriva però con la fondazione
dei Napoli Centrale nel 1975, insieme all'amico Franco Del
Prete. La band è stata un crocevia di generi, mescolando progressive rock e
jazz, portando l'improvvisazione e la sperimentazione nel panorama italiano.
Amico e collaboratore storico di Pino Daniele (che
lo definì, appunto, "nero a metà"), Senese ha partecipato a dischi
fondamentali e tour memorabili, contribuendo a definire il suono di un'intera
generazione di musicisti.
La sua carriera solista, che lo ha visto protagonista dai
primi anni Ottanta in poi, pur tra alti e bassi, non ha mai smesso di essere
autentica. Nel 2016 ha vinto la prestigiosa Targa Tenco con
l'album 'O Sanghe, a testimonianza della sua costante rilevanza artistica e del
suo impegno sociale. Il suo sax tenore e soprano non era solo uno strumento;
era la voce graffiante e melodica di Napoli, capace di raccontare gioie, dolori
e contraddizioni della vita.
Ricoverato all'Ospedale Cardarelli di Napoli dal 24 settembre
per le complicazioni di una polmonite, James Senese ci lascia un'eredità
inestimabile, un corpus di brani che sono un inno alla libertà e all'identità.
Il suo impegno nel trovare un linguaggio personale e nel non copiare mai
nessuno, ispirato da giganti come John Coltrane e Miles Davis, lo ha reso uno
dei sassofonisti italiani più stimati a livello mondiale.
Il "sax che parlava napoletano" si è spento, ma la
sua musica rivoluzionaria e la sua verità sonora continueranno a far ballare e
riflettere intere generazioni. Ciao James.
Era il 1965 quando The Who scrissero
un inno generazionale, “My Generation”.
Per l’esattezza era il 28 ottobre, ben 60 anni fa, quando terminarono le
registrazioni del terzo singolo del gruppo.
Non voglio ripercorrere la storia della band, più volte
presente nei miei spazi in rete, ma evidenziare che Pete Townshend, Roger
Daltrey, Keith Moon e John Entwistle, hanno percorso un lungo
cammino, a dispetto del loro dichiarato, indecente e provocatorio proposito
iniziale.
Keith e John si sono fermati a precedenti tappe temporali, ma
continuano a vivere con noi che li abbiamo sempre e incondizionatamente amati.
Di certo non avrebbero mai potuto pensare che ciò che stavano per far nascere
avrebbe di fatto negato quel pensiero primitivo, perché attraverso la musica, e
che musica, hanno trovato il modo per diventare immortali.
“My Generation” è uno degli inni del movimento
mod. La canzone è caratterizzata da un riff d'introduzione di due note, seguito
da un'alternanza di voce e coro. Fece ovviamente scalpore all'epoca il verso: «I
hope I die before I get old» ("Spero di morire prima di diventare
vecchio").
Come in molte altre tra le prime composizioni del gruppo,
influenzati dalla cultura mod, sono presenti influenze del R&B
statunitense, più esplicitamente nella forma a "domanda e risposta"
dei versi della canzone con Daltrey che canta arrivando a balbettare dalla frustrazione
e la ripetizione ossessiva del coro "Talkin' 'bout my generation".
E il balbettio di Daltrey?
Keith Moon riferì che: «Pete aveva scritto le parole della
canzone su un foglio di carta e lo diede a Roger, che non le aveva mai lette
prima. Così, mentre le leggeva per la prima volta, balbettò. In studio c'era
Kit Lambert, che disse a Roger: "Quando canti continua a balbettare".
Così fu, e il risultato lasciò tutti senza fiato. E pensare che tutto
accadde solo perché Roger quel giorno aveva il raffreddore!».
Rivoluzionario l’assolo di basso elettrico di John Entwistle.
Quante canzoni contenevano assolti di basso elettrico nel
1965? Le altre band, del resto, non avevano John Entwistle. «Stava
diventando il più rivoluzionario bassista del momento» ha scritto Townshend
«e volevo fornirgli un mezzo per esprimere il suo incredibile modo di
suonare». All’epoca, Entwistle usava bassi Danelectro con corde sottili che
tendevano a rompersi ed erano difficili da trovare. Quando si rompevano,
cambiava basso. Nel corso delle varie session durante le quali il pezzo fu
inciso usò tre diversi bassi Danelectro e per la registrazione definitiva un
Fender Jazz.
Non resta che ascoltarla come sottofondo di immagini che riguardano quella generazione!
Il 28 ottobre del 1977 usciva per Virgin Records “Never Mind the Bollocks, Here's the Sex Pistols”,
unico album in studio dei Sex Pistols.
L’album è considerato uno dei più influenti e controversi
della storia del rock. Pubblicato in piena era punk, sconvolse l'establishment
musicale e sociale, dando voce a una generazione di giovani arrabbiati e
disillusi.
“Never Mind…” debuttò direttamente al
primo posto della Official Albums Chart, guadagnando in breve tempo il disco
d'oro nel Regno Unito. Nel 2013 è stato certificato doppio disco di platino
dalla British Phonographic Industry. La rivista Rolling Stone nel 2004 lo ha
inserito alla posizione n. 41 nella lista dei 500 migliori album di sempre. Nel
2006 l'album è stato selezionato dalla rivista Time come uno dei 100 migliori
dischi di sempre. Nel 2016 Rolling Stone lo inserisce al terzo posto dei
migliori 40 dischi punk della storia.
Cosa c’è alla base di band e album?
La musica dei Sex Pistols è caratterizzata da una semplicità
quasi brutale. I riff di chitarra sono essenziali, la batteria martella ritmi
incessanti e il basso fornisce una solida base ritmica. La voce di Johnny
Rotten è rabbiosa, graffiante e carica di un'energia che trascina l'ascoltatore
in un vortice di emozioni contrastanti.
I testi delle canzoni sono un vero e proprio attacco
all'establishment, alla monarchia, alla società consumistica e ai valori
borghesi. Brani come "God Save the Queen" e "Anarchy
in the U.K." sono diventati inni per una generazione che si sentiva
esclusa e disillusa.
L'uscita di "Never Mind the Bollocks" scatenò una vera e propria rivoluzione culturale. Il disco ha ispirato la
nascita di numerose band punk in tutto il mondo e ha influenzato generi
musicali come il post-punk, il grunge e l'alternative rock. La copertina
provocatoria e i testi espliciti hanno generato scandalo e polemiche, ma hanno
anche attirato l'attenzione dei media e dei giovani.
A distanza di decenni rimane un disco fresco perché i temi
affrontati dai Sex Pistols sono ancora oggi molto attuali e la loro musica
conserva tutta la sua energia e la sua potenza.
Sintetizzando "Never Mind the Bollocks" è un
album fondamentale per capire la storia del rock e la cultura giovanile degli
anni '70, un disco che ha sfidato le convenzioni, ha dato voce a una
generazione e ha lasciato un segno indelebile nella storia della musica.
Non resta che ascoltarlo (cliccare sul titolo) per avere un’idea precisa di un
movimento che, con la sua entrata in scena, mandava momentaneamente - e
rapidamente - in pensione la musica progressiva.
AUTOVELOX è un podcast
registrato al teatro Don Bosco di Fabriano (AN) e successivamente visibile su
YouTube, dove in ogni puntata si tratta un ospite. Sono stati analizzati nel
tempo Luca Mastrangelo, Francesco Pannofino, Giorgia Cardinaletti, Francesco
Repice e molti altri ancora.
Questa volta è
toccato a Massimo Max Salari, critico
musicale e scrittore.
Nella puntata viene
messa in luce la vita dell’ospite, con aneddoti e battute da parte di Giorgio
Stroppa (Motozzappa). Richiami alla vita passata e odierna, oltre che
approfondimenti sul genere Progressive Rock e musica in generale.
Analizzati alcuni
libri dell’autore e dischi fondamentali. Non mancano scherzosi giochi e frasi
da lasciare ad un eventuale popolo fra cento anni.
Conducono Fabio
Bernacconi e Mauro “Wikimaps” Mori.
Dove avrà
accelerato Max e invece rallentato? Curiosi? Lo scoprirete guardando il video a
seguire…
La band svedese Wolverine,
nota per il suo stile prog rock, ha annunciato l’uscita di un nuovo album in
studio, il primo dopo dieci anni di silenzio discografico. Il disco, intitolato
Anomalies, sarà pubblicato a
febbraio tramite l’etichetta Music Theories Recordings.
Il cantante Stefan Zell ha spiegato che il nuovo
brano presentato dalla band rappresenta la prima parte di una trilogia
all’interno dell’album: la seconda parte sarà Circuit, mentre la terza
coinciderà con la traccia di apertura, A Sudden Demise. Il batterista
Marcus Losbjer ha aggiunto che l’idea originale della canzone risale a circa
vent’anni fa, pensata per un concept album mai realizzato. Il pezzo si
distingue per diverse sezioni in tempo 5/4, che si intrecciano e si armonizzano
nel corso della composizione.
Anomalies sarà composto da nove tracce e la band ha già
condiviso il primo singolo, il cupo A Perfect Alignment. Secondo Zell,
uno dei temi ricorrenti nell’album è l’invecchiamento e la ricerca di
significato nella vita: “Mi sentivo perso, non sapevo dove stessi andando o
cosa avrei dovuto fare per dare un senso al futuro. Oggi, otto anni dopo, sono
in un posto migliore. Ogni nostra canzone è come un frammento di diario, e
guardando indietro al nostro catalogo, si può leggere la mia vita di scrittore.
Ora ci sono molte più domande su vita, invecchiamento e valori, cose a cui non
pensavamo quando avevamo vent’anni. Si evolve.”
Wolverine aveva già raggiunto una certa notorietà
con album come Still (2006) e Communication Lost (2011). Dopo
aver firmato con l’etichetta americana Laser’s Edge, hanno pubblicato Machina
Viva nel 2016 e l’EP A Darkened Sun nel 2021, ma negli ultimi anni
la loro attività è stata piuttosto limitata.
Wolverine: Anomalies
1 - A Sudden Demise
2 - My Solitary Foe
3 - Circuits
4 - Nightfall
5 - This World And All Its Dazzling Lights
6 - Automaton
7 - A Perfect Alignment
8 - Losing Game
9 - Scarlet Tide
"Quadrophenia"
dei The Who è un album rock epico e senza
tempo che meriterebbe un'analisi dettagliata. Ma credo che un disegno superficiale - il mio di oggi - unito al completo ascolto, possa essere più utile alla causa, quella che è finalizzata ad avvicinare i neofiti al rock.
Pubblicato nel 1973, l'album
rappresenta uno dei punti più alti nella carriera degli Who e un classico
intramontabile del genere.
Si tratta della seconda opera rock
della band dopo “Tommy”, ed è anche l'unico album degli Who
interamente scritto dal solo Pete Townshend.
L'opera è un concept album che
racconta la storia di Jimmy, un giovane mod nella Londra degli anni '60. La
trama esplora le sfide e le frustrazioni che affliggono il ragazzo mentre cerca di
trovare la sua identità in un mondo caotico e spesso ostile. L'album affronta
temi come l'alienazione, la ribellione giovanile, l'amore, l'autodistruzione e
l'accettazione di sé.
Musicalmente, "Quadrophenia"
è un tour de force. Gli Who dimostrano la loro abilità straordinaria nel creare
brani potenti e coinvolgenti, ma ciò che
rende l’album così speciale è l'abilità della band di trasmettere emozioni
attraverso la musica. La voce di Roger Daltrey è piena di passione e intensità,
catturando perfettamente il tormento interiore di Jimmy. I testi di Townshend
sono ricchi di poesia e offrono una narrazione coinvolgente e la sezione
ritmica è uno dei punti di forza del disco.
L'album presenta anche una varietà di
stili musicali, che vanno dal rock duro ed energetico di brani come "The
Real Me" e "5:15" alla delicata ballata "Love
Reign O'er Me". L'uso di strumenti orchestrali e arrangiamenti
complessi aggiunge ulteriore profondità e dimensione all'opera.
Uno dei punti salienti di "Quadrophenia"
è la produzione impeccabile di Kit Lambert e degli Who stessi, capaci di creare un
capolavoro assoluto.
L'album cattura l'anima e lo spirito di un'intera
generazione, offrendo una colonna sonora iconica per l'adolescenza ribelle. La
sua combinazione di musica eccezionale, testi profondi e narrativa coinvolgente
lo rende un album che merita di essere ascoltato e apprezzato ancora oggi.
È stato detto:
“Tutta la grandezza degli Who è
racchiusa qua dentro”
A distanza di qualche anno, nel 1979,
“Quadrophenia” è divenuto un film - diretto da Franc Roddam -, pellicola che ha
contribuito e mettere in risalto una cultura, un modo di vivere, un periodo
importante amplificato dalla musica degli Who.
Martin Barre: in arrivo
l’autobiografia dell’ex chitarrista dei Jethro Tull
Il prossimo 6 novembre, tramite l’editore McNidder &
Grace, uscirà A Trick of The Memory: The
Autobiography Of Jethro Tull's Guitarist, l’attesa autobiografia
di Martin Barre, storico chitarrista
dei Jethro Tull.
Barre non ha bisogno di presentazioni per gli appassionati di
rock progressivo: è stato il chitarrista della band britannica per oltre
quarant’anni, dal 1968 al 2012, contribuendo in modo decisivo al sound e al
successo internazionale del gruppo. Nel libro, Barre condivide riflessioni
sincere sulla vita “on the road”, sugli alti e bassi dell’industria musicale e
sulla creatività dietro alcuni dei momenti più memorabili del rock.
Il volume, in edizione con copertina rigida, ripercorre il
suo percorso musicale dagli esordi a Birmingham, dove suonava flauto e
sassofono prima di trovare la sua vera voce nella chitarra, fino alle tournée
mondiali e agli album classici incisi con i Jethro Tull. Il libro include anche
16 pagine di fotografie a colori, che documentano momenti salienti della sua
carriera.
“La storia del percorso musicale di Martin Barre, dai suoi
esordi a Birmingham fino al successo mondiale con i Jethro Tull e come artista
solista, è qualcosa che attendevamo da tempo”, ha dichiarato Pat Kent,
fondatore del gruppo Facebook Jethro Tull Group.
In concomitanza con l’uscita del libro, Barre sarà impegnato
in una tournée nel Regno Unito con lo spettacolo “An Acoustic Evening With
Martin Barre And Friends”, in programma per tutto dicembre. Ad aprile 2026
porterà in giro per l’Europa il suo show “A Brief History Of Tull”,
dedicato alla storia musicale della band.
Inoltre, il chitarrista parteciperà al festival letterario Louder
Than Words di Manchester il 16 novembre, e terrà sessioni di autografi in
librerie selezionate, i cui dettagli saranno annunciati prossimamente.
Un’occasione imperdibile per i fan del prog e per chi vuole
scoprire il dietro le quinte di una carriera leggendaria.
Martin Barre
UK and EU tour dates
Nov 6:
Alnwick Playhouse
Nov 7: Lytham St. Annes Lowther Pavilion
Nov 8: Edinburgh Voodoo Rooms
Nov 10: Barnoldswick Arts Centre
Nov 11: Barnoldswick Arts Centre
Nov 12: Barnoldswick Arts Centre
Nov 18: Shrewsbury Theatre Seven
Nov 20: Exeter Phoenix
Nov 21: London Bush Hall
Nov 27: Stourbridge Town Hall
Nov 28: Shoreham By Sea Ropetackle Arts Centre
Nov 29: Southampton The 1865
A Brief
History Of Tull
Apr 7: NOR
Oslo Herr Neilsen
Apr 8: NOR Oslo Herr Neilsen
Apr 10: SWE Gothenberg Musikens Hus
Apr 11: DEN Copenhagen Hotel Cecil
Apr 14: GER Bonn Harmonie
Apr 15: GER Isernhagen Blues Garage
Apr 16: GER Dortmnd Das Piano
Apr 17: NED Sneek Het Bolwerk
Apr 18: NED Bergen op Zoom Gebouw-T
Apr 19: NED Helmond Cacaokade
Apr 20: BEL Veviers Spirit Of 66
Recensione di un volo interiore tra
rock, poesia e verità sonora
Ci sono dischi che si ascoltano, altri che si vivono. ICARO, il nuovo lavoro di Alessio Trapella, appartiene alla seconda
categoria. Un progetto ambizioso e stratificato, che nasce da una riflessione
profonda sul tema della dipendenza e si trasforma in un racconto universale,
poetico e visionario. Trapella sceglie di non descrivere, ma di evocare. E lo
fa con una narrazione musicale che mescola rock progressivo, sensibilità
classica e una voce capace di guidare l’ascoltatore in un viaggio interiore.
Il titolo richiama il mito greco, ma qui Icaro non vola con
ali di cera: il suo slancio è alimentato da un razzo, simbolo di una fuga
moderna, di un’ascesa che è anche isolamento. L’album si muove su questa
tensione: il desiderio di elevarsi e il rischio di perdersi. Ogni brano è una
tappa di questo percorso, dove la musica diventa specchio e strumento di
introspezione.
Avevo già avuto modo di recensire l’esordio solista di
Trapella nel 2023, La ricerca dell’imperfezione, e già allora era chiaro
che ci trovavamo di fronte a un artista con una visione precisa e non
convenzionale. ICARO ne è la naturale evoluzione: più maturo, più
profondo, più rischioso. Ma anche più libero.
Trapella, musicista e produttore polesano, ha alle spalle una
formazione accademica solida (Contrabbasso e Composizione al Conservatorio di
Adria) e collaborazioni di prestigio con Riccardo Muti, Aldo
Tagliapietra, UT New Trolls e Le Orme. Ma è nel suo percorso
solista che emerge la sua vera voce artistica: libera, intransigente, capace di
unire rigore e sperimentazione.
In ICARO, la produzione è curata in ogni dettaglio,
con un approccio quasi artigianale. La copertina, ad esempio, è una scultura in
gesso realizzata da Bruno Martinuzzi, fotografata per diventare
immagine. Niente scorciatoie digitali, niente artifici: tutto è tangibile,
vissuto, reale.
Musicalmente, l’album si muove tra ballad intimistiche e
momenti più strutturati, con spruzzate di jazz, richiami classici e una base
melodica che sostiene testi importanti. Trapella non cerca la prova di tecnica,
né la seduzione immediata: la sua musica non nasce per far ballare, ma per far
pensare. E se emoziona — come spesso accade — lo fa senza forzature.
Il brano “Il gesto”, inizialmente pensato come titolo
dell’album, è il nucleo tematico da cui tutto si sviluppa. Da lì, la storia di
chi si allontana dagli affetti, dalla terra, dalla realtà, prende forma
attraverso metafore e immagini che ogni ascoltatore può reinterpretare secondo
la propria esperienza.
La scelta dei collaboratori è altrettanto significativa: Luca
Chiari e Filippo Dallamagnana portano personalità e audacia,
rispondendo al “guizzo” creativo di Trapella con libertà e competenza. Il
risultato è un disco che non si limita a raccontare, ma invita a guardare oltre, oltre i gesti quotidiani, oltre le maschere, oltre il rumore.
ICARO è un’opera che non si consuma in un ascolto. Richiede tempo, attenzione,
predisposizione. Ma chi accetta la sfida, scopre un mondo sonoro coerente,
profondo, capace di lasciare il segno.
Ma al di là dei miei pensieri risulterà probabilmente icastico ciò
che emerge dall’intervista che ho realizzato con l’autore…
Per iniziare, ci racconti in sintesi il tuo percorso
musicale? Quali tappe lo hanno definito e trasformato nel tempo?
Ho iniziato da bambino studiando tromba con il Maestro della
banda paesana. Poi con l’esplosione dei “karaoke”, verso i 16 anni mi sono
messo a cantare e sono stato reclutato nella mia prima band. Di lì a poco il
bassista mollò tutto e fu da quel momento che il legame basso-voce divenne
indissolubile! A seguire gli studi accademici di contrabbasso e composizione e
il periodo “classico” fino al 2012 dove ho militato nell’orchestra giovanile L.
Cherubini diretta dal Maestro Riccardo Muti. Da lì in poi sono ritornato sulla
strada del rock lavorando con Aldo Tagliapietra, UT New Trolls e poi Le Orme.
Dal 2022 ho intrapreso un percorso solista sia artistico che di produzione.
ICARO è un progetto ambizioso e visionario. Qual è stata la
scintilla iniziale che ti ha spinto a crearlo?
Tutto è nato da una conversazione con un carissimo amico. Mi
spiegava come le persone riescano a celare in maniera incredibile le loro
dipendenze e come gli abusi diventino dei gesti quotidiani. Da qui nasce “Il
gesto” che inizialmente doveva essere il titolo dell’album. Poi andando più a
fondo ho preso in considerazione l’idea di raccontare l’intera storia di queste
persone che purtroppo si allontanano sempre di più dalla famiglia, dagli
affetti e “dalla terra”. Infine, per far sì che ogni ascoltatore facesse
propria questa storia, in base alle proprie esperienze, e anche per rendere i
testi meno espliciti e più poetici, ho accostato il tutto ad un moderno Icaro
che riesce a volare non con un paio di ali ma con un razzo.
Hai collaborato con artisti e professionisti di altissimo
livello. Come scegli i tuoi compagni di viaggio creativi?
I musicisti che collaborano con me devono sapere cogliere il
guizzo che do loro mentre siamo al lavoro su nuovo materiale, meglio ancora se
osano e mantengono la propria personalità. Tutto questo al netto di
preparazione e professionalità. Luca Chiari e Filippo Dallamagnana ne sono un
chiaro esempio!
La tua biografia racconta un percorso ricco e trasversale.
Qual è stato il momento più trasformativo della tua carriera, finora?
Il vero cambiamento è arrivato dopo aver lasciato Le Orme,
quando nel 2021 ho deciso di prendere la mia strada. Prima di allora credo di
essere stato un bravo musicista ma questo non aveva molto a che fare con la mia
parte artistica perché comunque, sia in orchestra che con le band sopra citate,
per la maggior parte eseguivo e non creavo. Mettendomi in gioco con le mie
composizioni e anche come produttore tutta la mia visione della musica è
cambiata completamente!
ICARO è anche un’esperienza immersiva. Che ruolo ha la
tecnologia nel tuo modo di fare arte?
Diciamo che ha un ruolo abbastanza limitato, cerco più che
altro di utilizzare strumenti tangibili. La copertina ad esempio: ho fatto fare
un’opera in gesso dallo scultore Bruno Martinuzzi e l’ho fatta fotografare.
Sarebbe stato più facile e forse più accattivante fare una bella copertina
fantasy con l’AI ma non è il mio stile. Dietro alle cose che faccio c’è molta
ricerca. Certo se poi parliamo di macchine per registrare, ad esempio, utilizzo
un moderno computer ma a parte le molteplici sovraincisioni dietro non c’è
nulla che non si potesse fare 50 anni fa, tecnologicamente parlando.
C’è un messaggio che speri arrivi al pubblico dopo aver
vissuto ICARO?
Ci isoliamo sempre di più dentro noi stessi e in questo modo
non ci rendiamo conto che molte persone a noi vicine ci chiedono aiuto. Ecco il
messaggio è sicuramente guardare oltre i gesti quotidiani e provare a cogliere
questa richiesta di aiuto.
Come si bilancia la tua identità di compositore, performer e
regista in un progetto così complesso?
La parte compositiva è un lampo che arriva e va fotografato
quindi si consuma in breve tempo. Anche il fatto di incidere le mie
composizioni, sia strumentalmente che vocalmente, in realtà è solo gioia. Il
restante 99% viene divorato dalla fase di produzione che seguo nella sua
totalità! Sono una persona molto intransigente e questo mi porta a fare la
maggior parte del lavoro da solo, a volte commettendo errori certo, ma la
maggior parte delle volte che mi sono affidato ad altri non sono riuscito ad
avere quello che volevo. Forse non erano le persone giuste…
Hai vissuto e lavorato in contesti internazionali. Quanto ha
influenzato il tuo linguaggio artistico?
Se parliamo di linguaggio artistico sicuramente lavorare con
Gianni Belleno e Maurizio Salvi degli UT è stata l’esperienza più
significativa. Ho attinto molto riguardo la composizione e l’armonizzazione dei
cori. Il resto del mio modo di fare musica viene dai miei ascolti più o meno
lontani nel tempo.
Qual è il tuo rapporto con il pubblico? Preferisci provocare,
emozionare o far riflettere?
Direi un mix fra provocare e riflettere. Emozionare lo spero
ma non è un obbiettivo prefissato diciamo.
Punto molto sull’importanza dei testi e la tematica del
brano. Essendo più schietti: la mia musica non nasce per far ballare (ma se
succede ben venga) e ancora meno per dare prova di tecnica.
Guardando al futuro: cosa sogni per Alessio Trapella e per
ICARO nei prossimi anni?
Come ti dicevo è solo da qualche anno che ho voltato pagina e
mi sono messo a produrre la mia musica. Per ora questo mi basta e mi appaga, ma
certamente se un messaggio importante come quello di ICARO potesse arrivare a
tantissime persone grazie alla mia musica questo sarebbe un trionfo.
Musica visionaria e pubblico attento:
Genova accoglie un doppio set tra elettronica cosmica e prog d’autore, sfidando
orari insoliti e distrazioni calcistiche
Domenica 19 ottobre, Genova ha ospitato un evento musicale che sfidava le
logiche consuete della programmazione concertistica. Un orario insolito — le
18.30 — una proposta artistica di nicchia, e una partita del Genoa nel
pomeriggio: tutto sembrava, a mio giudizio, remare contro. Eppure, il pubblico
ha risposto con entusiasmo, presenza qualificata e attenzione partecipe. Ma su
quest’ultimo aspetto, francamente, non avevo dubbi.
Il teatro La Claque, spazio genovese dove spesso
nascono collaborazioni con la Black Widow Records, si è trasformato in
un laboratorio sonoro, un crocevia di esperienze musicali che hanno saputo
dialogare con il tempo, lo spazio e la memoria.
Ad aprire la serata, i Runaway
Totemdi Roberto Gottardi,
con la partecipazione degli AndromacA. Sul palco, oltre a Gottardi
(tastiere, chitarra e voce), Stefano Bertoli (tastiere e percussioni
varie) e il soprano Antonella Suella. Il trio ha presentato l’opera Metaphorm
Tetraphirm, registrata dal vivo nel 2024 all’Abbazia di San Bernardino: un
set incredibile, con richiami al krautrock più autentico (Neu, Can, Amon Düül,
Tangerine Dream, Popol Vuh), e un’elettronica presente in dose massiccia.
Più che la descrizione dei singoli passaggi, ciò che mi ha
colpito è stato il prodotto d’insieme: un muro di suoni, effetti e atmosfere
che hanno trasportato in mondi da esplorare. Certo, serve predisposizione alla
concentrazione, alla sospensione del giudizio, al “lasciarsi coinvolgere”, ma
le competenze specifiche dei tre musicisti, miscelate tra loro, hanno disegnato
una musica trasversale, adatta all’immedesimazione e alla necessità di
viaggiare - con la mente, lo spirito, il corpo.
Dopo un set così immersivo, l’attesa era tutta per Gianni Leone, figura mitica del prog italiano,
tastierista e leader de Il Balletto di Bronzo. Leone ha presentato il suo album
solista Monitor, finalmente ristampato con l’aggiunta di brani inediti,
e ha ripercorso la sua storia musicale con piglio da autentico showman:
estratti da YS, Lemures, Vero, e omaggi ai suoi artisti di
riferimento - Todd Rundgren, Brian Eno, Marianne Faithfull, Patty Smith.
La cosa sconvolgente? Due ore di spettacolo senza alcun
ausilio umano, solo lui, le sue tastiere e la sua inseparabile batteria
elettronica. Nessun supporto esterno, nessuna distrazione: Leone ha catalizzato
il pubblico con la sola forza del suo talento e della presenza scenica. Un
compendio di virtuosismo e passione, che ha entusiasmato i presenti in modo
incondizionato.
Il suo set non è stato solo una sequenza di brani, ma una
narrazione musicale che ha attraversato decenni, influenze, esperienze. Ogni
nota sembrava raccontare un frammento di storia, ogni passaggio una riflessione
sul tempo e sull’identità artistica. E in questo, Leone si è confermato non
solo come musicista, ma come interprete e narratore.
In definitiva, una serata che ha dimostrato come la musica,
quando è autentica e vissuta, possa superare ogni barriera: di orario, di
genere, di contesto. E Genova, ancora una volta, ha risposto con cuore e
intelligenza.