“Dai Led Zeppelin
allo Zen” di Antonio Papagni
Il libro che mi accingo a commentare è
“Dai Led Zeppelin allo Zen” di Antonio Papagni.
Capita spesso di calarmi nel ruolo di
chi scrive, di trovare punti comuni, idee che collimano, spesso sovrapponibili,
ma in questo caso le similitudini sono davvero tante.
Per accantonare subito il concetto
semplifico, sottolineando che ho vissuto nello stesso fortunato periodo, e molte
delle esperienze raccontate da Papagni sono le stesse che fanno parte del mio
quotidiano racconto di vita e musica.
Non parlo di “fattore nostalgia”, ma
dell’urgenza di narrare un periodo felice - se riferito alla creatività
musicale -, nella speranza che l’azione, quasi didascalica, possa diventare una solida
linea guida nel caso qualcosa cambiasse e il futuro lasciasse spazio alle cose
positive che sono capitate in un’era costituita da pochi lustri, caratterizzati
però da repentine e sostanziali modifiche che hanno stravolto il nostro modo di
vivere. Sognare ad occhi aperti è ancora un bell’esercizio.
Il periodo che l’autore prende in
considerazione parte dal 1972 e arriva al 1990; scriverlo nella sua attuale
forma ha richiesto anni di lavoro, e mi piace immaginare un ulteriore sottotitolo:
“Dall’adolescenza alla maturità!”.
Già, l’adolescenza, quel primo periodo di vita, da sempre toccato dall’inizio di una personale colonna sonora -
status che non credo si sia modificato nel tempo - che viene presentato in questo contesto con una
forza prorompente che va scissa e particolareggiata nelle varie componenti,
presenti negli adolescenti di quei tempi, molti dei quali, inconsciamente, aspiranti melomani:
-il passaggio dal binomio Beatles/Stones
a qualcosa di più fresco
-il rito del vinile, ovvero la
condivisione della nuova musica
-l’allargamento famelico della
conoscenza, con grande predisposizione all’effetto domino
-lo spirito di emulazione, e l’avvicinamento
allo strumento più congeniale.
Una cosa che, mi pare, mi avvicini
ancora di più all’autore, è la capacità di rimanere nel lecito e nell’ortodossia,
nonostante il bisogno di emulazione e appartenenza al gruppo, dinamica tipica
dei giovani, ieri come oggi.
E vai a spiegare cosa sia stato il
rito del vinile! Prova a mettere su piatto un formato fisico, così lontano
dalla liquidità dei suoni attualmente sul mercato!
Pagina 7: inizio col botto... il racconto di un album in particolare, semplice nella denominazione, specifico nella
numerazione. Dire che dopo quell’ascolto niente fu più lo stesso non è un’esagerazione,
e ascoltare nel 2019 “Led Zeppelin II” fornisce le stesse emozioni di un
tempo, almeno, a me capita così…
Estrapolo dal racconto di Papagni:
“Erano i primi freddi mesi del
1972: ricordo che mi trovavo a casa di un amico ad ascoltare i Beatles… stavamo
seduti per terra, attorno ad un vecchio giradischi, si parlava di “formare un
complesso” … chi non faceva parte di una band voleva metterne su una. A un
certo punto il mio amico prese un disco… lo mise sul giradischi e vi poggiò la
massiccia testina… era “Led Zeppelin II”. Si scatenò la forza dirompente dell’album
ed è stato quello il momento in cui non mi sono più sentito bambino. Difficile
spiegare cosa mi successe, ma fu determinante per la mia formazione umana e
culturale. Sono convinto che non sia possibile capire oggi cosa rappresentò l’uscita
sul mercato del 2° disco dei Led Zeppelin. Fu uno shock! Dai solchi di quell’album
si sprigionava un’energia nuova… avvertii chiaramente che quella musica segnava
il passaggio da una dimensione ludica a qualcosa di più complesso, qualcosa che
poteva nutrire la mia anima di adolescente.” (cliccare qui per l’ascolto ).
Da qui parte la storia di un giovane
uomo che proverà a perlustrare i tanti sentieri che accompagnano un percorso
che, iniziato in modo comune, trova arricchimento nella ricerca del nuovo, nel
nutrimento del pensiero, nella contemplazione estetica di ciò che gira intorno,
nell’utilizzo della giusta dose di razionalità, prendendo atto di procedimenti
immodificabili che necessitano di spiritualità e ascetismo, almeno per una
sufficiente dose di accettazione della precarietà esistenziale.
La musica, la letteratura, la natura:
sono questi tre pilastri che diventano fondamentali per far fronte alle modifiche
sociali, quelle che portano a disegnare, in estrema sintesi, uno scenario distopico, di cui ci si accorge girando la testa all'indietro, quando probabilmente è troppo tardi
per agire, e in ogni caso l’azione solitaria non potrà smuovere le montagne.
Papagni ci parla delle sue letture, del
suo modo di vivere e convivere col mondo circostante, della sua musica, che è
quella che ha caratterizzato l’esistenza di molti ex ragazzi nati a metà degli
anni ’50.
E nei momenti di sconforto, quelli in
cui occorre aggrapparsi alle certezze che mai hanno deluso, l’autore punta i
suoi riferimenti indelebili, come Robert Fripp e Brian Eno, così come racconta nelle
righe a seguire, da me sollecitato.
Potrei sviscerare i vari
capitoli, ma il mio compito è solo quello di incuriosire e aprire la strada alla lettura; in ogni caso la chiacchierata a seguire rivelerà molti dettagli che
permetteranno di entrare integralmente nel mondo di Papagni, e mi auguro che il
suo libro trovi la più larga diffusione possibile, in primis per la sua completezza,
mix di “nozioni, esperienze e idee”, e sono certo che anche i più introdotti
nel mondo della musica sentiranno il bisogno di approfondire “titoli” dimenticati
o mai catturati.
Perché questo passaggio dal rock alla
spiritualità? Cosa unisce Page & C. alla meditazione Zen?
Vale la pena leggere il pensiero di
Antonio Papagni, nelle prossime righe.
Personalmente credo che occorra possedere
una basica virtù, il primo gradino del processo di innalzamento dell'anima che,
partendo dalla ragione, possa giungere a una fede consapevole.
Il lavoro di Antonio Papagni è molte
cose, e tra queste estrapolo la funzione didattica, quel tenere accesa una luce
affinché il sentiero di chi arriverà dopo possa essere un po’ più chiaro e
quindi meno insidioso, e a lui, fine pensatore, regalo una citazione nobile:
Facesti come quei
che va di notte,
che porta il lume
dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le
persone dotte.
(Purgatorio.
XXII, 67-69)
Libro imperdibile, testimonianza unica…
ringrazio l’autore per aver rinforzato i miei ricordi e avermi fatto riflettere
sui molti errori commessi… c’è sempre tempo per cambiare rotta!
Ecco cosa ci siamo detti!
Partiamo dal titolo del libro, “Dai
Led Zeppelin allo Zen”, e proviamo a decodificarlo…
Il titolo illustra il percorso del
libro, dando immediatamente al lettore i due punti estremi.
I Led Zeppelin occupano solo le prime
pagine, ma sono l’origine che permette al processo di innescarsi. Lo Zen è il
punto di arrivo, la presa di coscienza che il mondo vissuto era scomparso sia
da un punto di vista musicale che culturale in genere, e bisognava rivolgere la
propria attenzione altrove.
La struttura del tuo lavoro appare di
complessa costruzione, nel senso che raccontarsi in modo così totale,
delineando un lungo e significativo periodo di vita, richiede molto tempo: mi
racconti la genesi e lo sviluppo del progetto?
Il libro era nella mia mente e in
alcuni appunti in un progetto molto lontano nel tempo, ma inizia a prendere
forma nel 2004, quando mi sono trovato solo davanti a tutti i miei dischi e i
miei libri. Nasce dalla necessità di scrivere un testo (non accademico e non
nozionistico) in grado di non disperdere un patrimonio, di far conoscere una
parte del mondo musicale degli ultimi decenni del Novecento sfuggito
all'attenzione di molti e ancora capace di coinvolgere i ragazzi 2.0, spesso
all'oscuro di quella eredità culturale e intellettuale, nonché della coscienza
e della cronaca di quel momento.
Infatti, non è solo un libro che parla
di musica rock.
Oltre alla musica ho cercato di
raccontare la trasformazione estetica ed esistenziale di un momento storico, il
passaggio cruciale dagli anni ‘70 agli anni ‘90 dove, l'instaurarsi insidioso
del neoliberismo, ha determinato un vero e proprio cambiamento antropologico.
La musica, i film e le esperienze
politiche che ho conosciuto, solo per la fortuna di vivere in una “stagione
irripetibile”, sono doni ricevuti da restituire.
Dovevo lasciare un contributo.
Quattro anni di tempo, ritagliando le
ore alla vita di tutti i giorni per una prima stesura (considerando l’ascolto
più volte ripetuto dei dischi raccontati, la rilettura dei testi nominati e la
visione di alcuni film nonché le numerose ricerche) e molti anni di revisione.
Ho cercato quindi un editore ma, non
trovando disponibilità, l’ho autopubblicato con “ilmiolibro.it”. È capitato
nelle mani del mio attuale editore, ne è rimasto entusiasta e l’ha pubblicato
nel 2017, sperando nel successo che ora sta avendo.
Mi pare anche inusuale il modo in cui
hai “sistemato” le cospicue note, in pratica una sezione a parte raggruppata
nell’ultima parte del book…
Le note sono state sistemate dal mio editore.
Come credo si possa capire leggendole,
sono di due tipi: personali (raccontano esperienze e riflessioni); esplicative
(cercano di chiarire alcuni termini e dare ulteriori informazioni su autori e
titoli).
Le note personali erano presenti come
testo ma lo rendevano enfatico e ridondante, nel senso che potevano giustamente
non interessare. Le esplicative erano a piè di pagina. L’editore ha deciso che
la scelta giusta era estrapolare la parte troppo personale e mettere tutto a
fondo testo.
A questo punto faccio un passo
indietro: mi racconti la tua storia in pillole?
Sono nato nel 1956. La prima parte
della mia vita è descritta nel libro. Ho una figlia di 22 anni. Il mio lavoro,
lontano dalla musica e dalla letteratura, è quello di Hospital Business Specialist
per una azienda farmaceutica. Il resto è illustrato nella quarta di copertina.
Il percorso che descrivi presenta una
buona dose di sofferenza, alimentata dalla crescita personale e, quindi, dalla
consapevolezza, ma nei momenti più difficili sembra possa arrivare in tuo aiuto
l’ancora di salvezza, che ha nomi e sembianze precise, da Fripp a Eno: la
musica… certa musica, ha davvero un potere curativo superiore?
Se è vero che Paolo Vites ha
intitolato la sua recensione al mio libro “Dai Led Zeppelin allo Zen: come la
musica ci ha salvato la vita”, e ha ricordato nel testo la prima strofa di “No
Surrender” di Bruce Springsteen “Abbiamo imparato più da un disco di tre
minuti che da tutto quello che ci hanno insegnato a scuola“; se è vero che
la musica è stata fondamentale per la mia crescita personale, forse la cosa più
importante è stato conoscere persone come Robert Fripp che avevano, oltre alla
musica, “un modo di fare le cose” e una disciplina da trasmettere.
La musica di Eno mi ha dato invece,
con i suoi riferimenti non solo estetici (ricordo le sue carte oracolari), la
possibilità di avvicinarmi allo zen e di studiarlo.
La musica ha un potere curativo
superiore solo se permette di conoscerti meglio, di aprirti a orizzonti nuovi,
se libera le tue potenzialità migliori e rimuove il lato distruttivo.
Dallo scorrere delle pagine si
evincono gli assi portanti della tua vita… la musica, la lettura e la natura: è
questo, a tuo giudizio, un trittico adatto ad ogni era e quindi da diffondere
con azioni “didattiche”?
Sì, penso che questi siano tre canali
con cui veicolare un altro mondo possibile.
Ma in che modo?
La musica ha una natura
intrinsecamente utopica, capace di risvegliare (specialmente nei giovani) la
dimensione più profonda dell’uomo in cui è custodito il futuro realizzabile,
anche se lontano. La musica fruita sempre in modo consapevole, in maniera
cosciente e informata, anche superando la ritualità di un tempo. Inoltre,
dovrebbe essere associata allo studio di uno strumento musicale, in modo più o
meno virtuoso, ma sempre sotto la guida di un maestro.
La lettura deve essere esercitata in
maniera critica, creando quella capacità di scelta che permette, entrando in
una libreria, di cercare il libro “necessario” e non quello del momento, quello
che ci vogliono far comprare. È importante alternare la letteratura da romanzo
alla saggistica. Questo per sviluppare quella presa di coscienza fondamentale
per decriptare i messaggi che oggi ci arrivano da ogni parte e in ogni modo,
specialmente quelli più subdoli come le immagini e gli slogan.
Come scrive il filosofo canadese Alain
Deneault, l'unico antidoto a questa società fallimentare è il pensiero critico.
La natura si lega molto allo zen e
alla contemplazione.
Quando parlo di natura non penso alle
grandi foreste equatoriali o ai ghiacciai polari. Non parlo di oceani o immense
montagne. Io vedo la natura nel filo d’erba che incontro per la strada,
nell’albero che cresce sotto casa, nella rondine che viene a fare il nido sotto
il mio tetto, nel maggiolino che mi vola sulla mano a primavera. Imparando a
rispettare e a meravigliarci di questi esseri semplici (per esempio non
capozzando gli alberi perché è più comodo e meno costoso, eliminando i
pesticidi, non inquinando con i rifiuti il parco dietro casa perché tanto è già
sporco...) potremo poi efficacemente allargare il discorso alla grande natura.
Ma se non mi meraviglio, non mi emoziono, se la mia anima non palpita per una
foglia, se non sono capace di sentirmi una sola cosa con essa, non sarò in
grado di amare tutto il resto. Se non soffro perché non vedo più insetti e
farfalle nei prati della mia città, se non mi si stringe il cuore davanti
all’incendio di un albero, non sarò in grado di rispettare la grande natura.
Qui, lo ammetto, il discorso si complica perché entra in discussione l’essere
vegetariani o addirittura vegani. Seguo da qualche tempo gli insegnamenti del
prof. Luigi Lombardi Vallauri tra cui è inserito l’essere vegano, eppure non
sono né vegetariano né tanto meno vegano. Credo sia una scelta estrema. Come
insegnano i maestri zen bisogna essere moderati anche nella moderazione. Per
eliminare gli allevamenti intensivi basterebbe rivedere i criteri alimentari
del mondo occidentale, razionalizzare il consumo di carne bovina, suina e di
pollame (si arriva a mangiare due-tre volte carne tutti i giorni). Ma gli
interessi che girano intorno a questo business sono altissimi come in tutta la
grande distribuzione alimentare e industriale. C’è poi il discorso del dolore
che soffrono gli animali che non credo sia il caso di affrontare in questa
sede. E dobbiamo anche tener conto dei danni che la “moda” vegana sta facendo
nel mondo, in particolare in America Latina e nel sud est asiatico. Ma il
discorso si fa lungo e scivoloso.
Per tornare alla tua domanda, è dalla
bellezza intrinseca delle cose che possiamo imparare a trattare meglio il
nostro mondo e gli altri. Cercare e vedere (sforzandoci di mantenerla) la
bellezza in un ramo spoglio, in un quadro di Raffaello o nell’asfalto della
nostra strada può salvarci la vita e può salvare il mondo.
Il cambiamento avvenuto a partire dal
periodo iniziale della tua analisi ad oggi è stato sconvolgente, per rapidità e
portata: che cosa salveresti della situazione attuale e cosa ritieni sia meno
sopportabile?
Susanna Tartaro nel suo blog scrive
che siamo circondati da “adolescenti multitasking che con una mano fumano e
con l’altra reggono il cellulare; trentenni hipster, i barbuti surfisti del web
che sgusciano smilzi su eco-biciclette con un cervello pieno di idee e di app,
fanno tendenza; cinquantenni che girano come criceti sulla ruota; sessantenni,
colti e ideologici mentre affondano i denti sui polpacci degli ottantenni
seduti su poltrone da cui non si alzeranno”, ma io non credo che sia questo
il quadro esatto. Questa è la televisione, come le ho scritto.
Gli adolescenti sono molto più
interessanti e meno superficiali di quello che sembrano e i trentenni possono
fare di più di una app di successo. Se c’è qualcosa da salvare sono le nuove
generazioni che hanno in mano il cambiamento in potenza. Purtroppo, non sempre
gli vengono date le corrette competenze per gestire la propria crescita con il
risultato di un incremento di analfabetismo funzionale e di uno sviluppo
limitato del pensiero critico (nasce il sospetto che vi sia un progetto dietro
tutto questo).
Salviamo e facciamoci salvare dalle
relazioni, dagli affetti, dall’amicizia e dall’amore. Distruggendo la capacità
di unire distruggiamo il futuro. Senza affetti veri e concreti i giovani stanno
male e “un ospite inquietante, il nichilismo ... penetra nei loro
sentimenti, confonde il loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti”
(come scrive Galimberti).
Detesto l’indifferenza, molte volte
camuffata da un pietismo ipocrita, emotivo, puntiforme, in un paese che sullo
spettacolo ha costruito gli ultimi quarant’anni.
Detesto la nuova ideologia che
subdolamente sta manipolando le persone dal 1980. Detesto quel pensiero che ha
annebbiato la mente e gli occhi della maggior parte delle persone che non
riescono a capire che stanno assecondando ed alimentando la società dello
scarto e che gli scarti siamo noi.
Pochi giorni fa un grande musicista,
al termine della nostra conversazione, chiosava: “… Nel momento in cui si pensa che ci sia
soltanto il gelo, la terra sta per donare la nuova speranza legata a nuovi
prodotti… la gente ha bisogno di ritrovare ancora a belle idee, ha necessità di
poesia, di bellezza, di amore ...”.
C’è qualcosa di semplice ma concreto
che potresti consigliare a chi si affaccia solo ora sulla scena della vita da
protagonista, tenendo conto che i modelli normalmente proposti non lasciano
grandi speranze?
Dovremmo dare un nome a questi
“protagonisti”. Se intendiamo le persone comuni allora penso che bastino le
risposte che ho dato alle tue domande.
In altri casi, più o meno
appariscenti, sarebbe utile per loro non prendere esempio da chi è presente ora
sulla scena, ma cercare nelle menti illuminate un nuovo “modo di fare le cose”.
Mi dai la tua definizione di “Zen”,
calata nella vita reale?
Calare lo Zen nella vita reale è molto
difficile. Impossibile è darne una definizione.
Se si intraprende la via dottrinale si
diventa monaci e si esce in qualche modo dalla vita reale oppure si vive in
modo manieristico un mondo che in fondo non ci appartiene, con un Giappone più
intuito che mai conosciuto davvero.
Non siamo giapponesi. Come ha detto il
poeta Shuntarō Tanikawa “I giapponesi d’oggi non sanno più nulla dello zen,
ma esso è entrato nel loro DNA.”
Non sono mai stato buddista e non mi
fermo più a fare vera meditazione, ma studiare lo zen, frequentare il Buddismo
(in particolare, con grandissima delusione, quello di Nichiren), la meditazione
(grazie anche agli insegnamenti di Fripp al suo corso Guitar Craft e alla
conseguente scoperta di Gurdjieff) e lo yoga, è stato un modo per reagire alla
mia fragilità permettendomi di acquisire alcuni principi fondamentali.
“Cedere tutto” per prima cosa.
Lasciarsi fluire, non chiudersi mai in difese a priori, in categorie rigide.
Il distacco: l’anima del puro
abbandono. Distacco dalle cose materiali e immateriali. Non è il cinismo o
l’indifferenza ma è il cercare di non restare impigliati negli ami della
volontà narcisistica, dell’ego virale e megafonico.
Vedere le cose ed entrare in comunione
con esse senza pretendere sempre di capirle. Lasciarsi sorprendere e sopraffare
dal senso del mistero, dalla profondità arcana e insondabile della vita, da
questo ideale estetico che gli haiku hanno ben illustrato.
D. T. Suzuki (considerato una delle
massime autorità sullo zen) in una sua conferenza del 1957 mise a confronto due
poeti (Basho e Tennyson) per illustrare le differenze della visione occidentale
(loquace e vampirica) da quella orientale (silenziosa e contemplativa).
E poi il gusto per la materia povera e
originale, il “qui e ora” che non è il “carpe diem”, coltivare la pazienza e
l’umiltà, fare della compassione un metro di giudizio, riscoprire le
inarrivabili riflessioni sui rapporti tra “finito” e “infinito”, immergersi in
un misticismo attivo e laico.
Tutto ciò è molto più facile da
scrivere che mettere in atto giorno dopo giorno. Ci provo, non so se ci riesco.
Come capita agli umani predico bene e razzolo così così.
Sono curioso: l’album della tua vita…
il libro della tua vita…
Dovendo rispondere improvvisamente
direi senza dubbio “Larks’ Tongues in Aspic”. Eppure, non so se porterei
questo album con me su un’isola deserta (anche perché è indissolubilmente
inciso nella mia mente). Cercherei forse di unire Fripp e Eno e sceglierei “Evening
Star”. Ma come dimenticarmi di Jon Hassell?
Non ho un libro della mia vita. Sono
stati e sono tutti importanti, ma come dice il saggio zen, se devi attraversare
il fiume costruisci una zattera, ma arrivato alla sponda non portartela sulle
spalle, sarebbe un inutile peso. Così gli attrezzi del tuo insegnamento devono
essere lasciati lungo il cammino dopo che hanno illuminato la tua strada. Un
cammino su cui puoi sempre tornare per risperimentare gli strumenti con nuovi
occhi e nuove orecchie.
Se dovessi portarmi un libro su
un’isola deserta forse sceglierei di rileggere “Alla ricerca del tempo
perduto”, per la sua lunghezza e complessità o anche “Finnengans Wake”,
per la sua impossibile lettura.
Un’ultimissima cosa legata alla
comunicazione visiva che hai adottato nel libro, una prima di copertina carica
zeppa di nomi di artisti e l’ultima con differenziazioni nella grandezza dei
caratteri e nei colori: come è nata la scelta?
Il mio editore è un grande. È stata
tutta una sua scelta la copertina che comunque fa parte di una collana
saggistica ben definita nella impaginazione.
We are proud to be a B Corp