mercoledì 31 agosto 2011

Fabrizio Poggi and Chicken Mambo-"Live in Texas"



Ci sono momenti comuni di vita in cui si ha la sensazione di aver vissuto al meglio un’esperienza che, seppur positiva, avrebbe potuto avere minor ricchezza di dettagli, se le cose fossero andare diversamente. Non necessariamente occorre trovarsi di fronte a macro eventi perché, fortunatamente, si vive anche di routine, di quotidianità, di noia e di piccoli rimedi per vincerla.
Ho la fortuna di avere tra le mani un cofanetto che mi pare non sia ancora in distribuzione, ma che ho potuto avere nel corso di un concerto, fresco di stampa quindi. La confezione si intitola “Live in Texas” e i protagonisti si chiamano Fabrizio Poggi & Chicken Mambo (più una serie preziosa di ospiti, artisti blues dal curriculum impressionante).
All’interno del contenitore, oltre al CD è presente un DVD,Columblues Days”, integrato da un prezioso e completo book .
E ritorno all’affermazione iniziale: perché accenno ad “un’esperienza vissuta al meglio”?
Due giorni prima di ascoltare e vedere “Live in Texas” ho partecipato ad un concerto di Fabrizio Poggi & CM, in un contesto “vacanziero”, diventato col passare dei minuti “corretto”, trasformato grazie alla magia che si è mano mano venuta a creare. In molti suonano il blues in Italia e molti lo fanno anche bene, ma le performance di Poggi vanno sempre oltre la musica e diventano un ‘esperienza di vita, possibilmente da raccontare, se si crede nella condivisione.
Un amico che di musica blues non sa assolutamente niente, il giorno dopo mi diceva: “… vedere quell’uomo seduto davanti al suo pubblico, mentre parlava e raccontava la sua musica…”.
Non tutti sono in possesso della giusta sensibilità e non tutti possono essere “presi” dal mondo dei suoni, ma sentire che dietro alla parole e alla musica esistono delle storie, nuove e antiche, vere o leggende… beh, è forse questo il passpartout che può aprire ogni cuore.
“Live in Texas” rappresenta per me un ideale congiunzione tra il concerto visto e quanto mi sto accingendo a fare battendo i tasti sul computer. Di acqua ne è passata sotto i ponti in dieci giorni!
Fabrizio, Poggi (voce, armonica e organetto), Gianfranco Scala (chitarre), Roberto Re ( basso e voce) e Stefano Bertolotti ( batteria) sono grandi musicisti e nell’aggettivo “grandi” l’abilità tecnica è solo una delle tante componenti distinguibili. Il resto è gusto, misura, amore e l’assordante e silenzioso… soffio dell’anima.
I compagni di viaggio sono tanti, da Flaco Jimenez a Floyd Domino, da Ponty Bone a Donnie Price, solo per citarne alcuni. Rolling Stones, Ry Cooder, om Petty, Dylan… queste le collaborazioni da prima pagina.
Tutto ciò è ascoltabile nel CD.
Tutto ciò, e molto altro, è visibile nel DVD, realizzato da Francesco Paolo Paladino, autore, dal mio modesto punto di vista, di un capolavoro.
E’ bene chiarire che i DVD di supporto sono spesso un accompagnamento al “lavoro principale”, un mezzo per rafforzare con una sorta di “raddoppio”( non si tratta di diversificazione) il messaggio.
In “Columblues Days” c’è tutto il mio mondo, tutto il mio amore per l’America e tutti i miei racconti più cari. Ma se io ritrovo tutto ciò che conosco, chi non ha mai avuto l’opportunità di avvicinarsi fisicamente al Texas, al Mississippi, alla terra americana… chi non ha mai provato a capire qualcosa di più di questa musica del popolo, potrà godere appieno questo movie, tra musica e didattica, tra viaggio e continue scoperte.
Nel mio ultimo scambio di battute con Fabrizio abbiamo disquisito, trovandoci d’accordo, su quanto la musica ci migliori e migliori chi ci vive attorno. Questo concerto itinerante realizzato da Paladino, questo incrocio di vite che dimostrano stima reciproca, è forse la sintesi di mille discorsi, a volti scambiati per utopie.
Ho “sentito” per 85 minuti( la durata del film) la presenza costante di Angelina, compagna di Fabrizio, sostegno di una vita. Eppure non suona e non canta.
Ogni volta che ho partecipato ad un concerto di Fabrizio mi è capitato di rivolgere lo sguardo verso di lei, per testare le sue emozioni , e quando è arrivato il momento di “Song for Angelina”, accompagnata da relativa spiegazione, ho provato a scrutare quell’impalpabile filo di connessione che li unisce, per immedesimarmi, per capire qualcosa di più…
“Live in Texas” e “ Columblues Days” sono pieni di tutto questo, e sono pieni della fatica, del sudore, del dolore e della gioia che un lungo viaggio possono dare, lontani da casa, ma con la sensazione, alcune volte, di “essere a casa propria”, accendendo un conflitto interno che non può trovare sbocco.
Ci vuole coraggio per suonare il blues in Texas? E’ questa la risposta adeguata ad un ragionevole quesito:
Quattro musicisti italiani che amano il blues come fosse sangue di Gesù, sbarcano ad Austin, Texas, per suonare il blues al popolo del blues… pazzia? No, amore “.
I musicisti italiani resteranno in Texas bruciando il loro biglietto aereo? O partiranno nascondendo nelle custodie dei loro strumenti quanti più ponies potranno?
E Cristoforo Colombo amava il blues? Probabilmente sì se no, non avrebbe scoperto … l’America”.



Fabrizio Poggi risponde ad alcune domande

Come è nata l’idea di abbinare un album live ad un film musicale?
L’idea è nata quasi per caso chiacchierando con il regista Francesco Paladino che era venuto ad un mio concerto perché interessato a parlarmi circa la storia degli italiani emigrati in Mississippi dopo la guerra civile a lavorare nelle piantagioni di cotone al posto dei neri (la tragedia dei Delta Italians si può leggere sul sito dei Chicken Mambo). Gli confidai la mia intenzione di andare a registrare un disco live in Texas e lui si propose di venire a riprendere la nostra avventura. Tutto qui. Ho raccontato e scritto spesso delle mie avventure musicali, in Texas, Mississippi e Louisiana ma non mi sono reso realmente conto della forza esplicativa delle immagini (che valgono più di mille parole, davvero!) fino a che non ho visto il suo film. Sono convinto che abbia fatto un ottimo lavoro ma di tutto ciò che riguarda il film Francesco parla in maniera maggiormente esaustiva nelle ultime pagine del booklet allegato al cd.

Che tipo di difficoltà pratiche possono esistere quando ci si trova davanti ad un impegno del genere, tra concerti, vita comune e la consapevolezza che tutto ciò verrà fissato per sempre da una registrazione?
Le difficoltà sono state enormi. Ma nulla al confronto di cosa avremmo dovuto affrontare per realizzare lo stesso progetto nel nostro paese. I costi sarebbero stati proibitivi e le difficoltà logistiche insormontabili. In Texas le abbiamo superate grazie all’esperienza maturata in anni di concerti proprio da quella parte degli States (il mio primo vero e proprio tour in America risale al 1998 anche se sono in pochi ahimè a saperlo) e ai grandi professionisti di cui mi sono circondato, sia italiani che americani. Lì, almeno per quanto riguarda la musica, tutto è molto più semplice. Tutti conoscono molto bene il loro mestiere e lo fanno con scrupolo e semplicità d’animo. Se il celebre film con la Roberts “Mangia prega ama” si fosse chiamato “Mangia prega ama e ascolta” beh, l’ultima parte l’avrebbero dovuta girare in America. dove per la maggior parte dei suoi abitanti la musica è come il pane. Lo dico spesso: loro hanno la stessa cultura che noi abbiamo per il cibo. Con tutto ciò che ne consegue. Per un musicista è come per un bimbo andare Disneyland. I giorni che passo negli States tra concerti interviste, interventi alla radio e alla televisione, incontri con grandi musicisti sono talmente convulsi che spesso non mi rendo nemmeno conto di tutto ciò che sto invece vivendo in prima persona. La registrazione del cd live è stata un miracolo. E’ la ripresa di un unico concerto. Senza possibilità di ripetere i brani o di aggiustare eventuali imperfezioni. Certo per me l’11 settembre 2010 è stato un giorno difficilissimo: gestire la band, gli ospiti, l’equipe tecnica, assicurarmi che tutti conoscessero bene i brani e concentrarmi sulle parti da eseguire io stesso è stata un’impresa titanica. Faticosissima ma estremamente appagante alla fine. Certo anche in questo caso l’apporto della mia compagna Angelina, la sua complicità e il suo impagabile impegno sono stati a dir poco superlativi. Senza di lei non so come avrei fatto. Ma finché non riascolti il cd o rivedi il film non riesci a godere fino in fondo di tutte quelle emozioni. Mentre sei là è come se stessi rotolando giù da una montagna a fortissima velocità. Non c’è tempo di riflettere. Quello che conta è restare lucidi e “inspirare” fino in fondo quelle bellissime esperienze. Perché poi lo sappiamo che quando si ritorna alla “normalità” tutto ciò che si è “inspirato” ti potrà essere utile in un paese, il nostro, che dal punto di vista musicale è davvero “un altro mondo”. Almeno per me, anche se come ho già scritto riesco per fortuna a trovare spesso e volentieri motivi di felicità e appagamento anche qui.

So che sei innamorato delle storie di vita, ti piace ascoltarle e condividerle. Se dovessi tracciare un sunto, o delineare un racconto che possa condensare quei giorni americani che vi hanno portato a “Live in Texas”, quale quadro dipingeresti?
E’ stato un lungo percorso. Come ho già scritto non v’è nulla d’improvvisato. Ho cominciato a suonare nei primi anni novanta a New Orleans entrando con la mia armonica in “casa d’altri” con molta umiltà, bussando e chiedendo sempre permesso. Piano piano mi sono costruito una reputazione che mi ha permesso di arrivare ben oltre le mie più rosee aspettative. Ho realizzato tanti sogni. E quest’ultimo tour che abbiamo voluto anche registrare questa volta non è che uno di quelli. Per il quadro non saprei… Si possono dipingere i sogni?... Sarebbe un quadro pieno di rosso e di azzurro. Un quadro pieno di fatica e serenità. Due parole che insieme litigano, ma che potrebbero convivere nei colori di un dipinto. Le storie sono così tante, così belle che anche in quel caso è difficile sceglierne una in particolare. Flaco Jimenez era arrivato per suonare come da contratto con il suo manager quattro canzoni. E noi andava bene così. D’altronde è anziano ed è una star. Alla fine si è divertito così tanto che suonato praticamente tutta la sera riempiendomi di lodi e di sorrisi. E io pensavo al ragazzo che ero e a quando mi sono innamorato della sua fisarmonica sui dischi di Ry Cooder. Riesci a immaginare cosa succedeva dentro di me mentre suonavo il mio piccolo organetto di fronte a uno dei più grandi fisarmonicisti del mondo? O a calcare il palco di Antone’s dove è passata davvero la storia del blues da Muddy Waters ai Fabulous Thunderbirds a Stevie Ray Vaughan a B.B. King e a ricevere i complimenti di un pianista come Pinetop Perkins?

Ogni volta che ho occasione di parlarti o leggerti, trovo estremo entusiasmo verso l’America, soprattutto nei confronti di certe situazioni, incontri con uomini e donne che suonano “la tua” musica. Esperienze come queste quanto influiscono sulla qualità del rapporto col resto della band? Ci sono momenti di “fatica mentale” che mettono a dura prova persone che, pur avendo lo stesso obiettivo (e passione) sono per natura differenti tra loro?
A questa domanda credo di aver risposto più o meno indirettamente nelle altre risposte. Nulla ti è regalato in America. Tutto deve essere guadagnato sul campo. Come scrivevo poc’anzi è faticoso riuscire a contagiare gli altri con la tua stessa passione. E’ un lavoro estremamente complicato dove gli equilibri sono sempre precari e dove ogni corda sensibile sai che può spezzarsi da un momento all’altro. La vita “on the road” ha tutte le problematiche che ha un lavoro in cui le persone sono insieme per tanto tempo. E i rapporti all’interno della band qualche volta risentono delle dinamiche e del gioco di ruoli che una band nel bene o nel male è costretta a vivere. Ma la musica per fortuna poi ha sempre il sopravvento su tutto. E vince sempre. Insomma, quando la fatica è ben ripagata si “soffre” volentieri.

Nelle note allegate al cofanetto ho letto di come il Texas sia per te una sorta di rifugio, quando le cose non vanno per il verso giusto. Ma l’America non è dietro l’angolo e allora ti chiedo… esiste per te un piccolo Texas anche in Italia?
Cerco di crearmelo, come penso faccia tu e altre persone che faticano a vivere in un paese in cui l’arte anche minima è considerata un bene di lusso. Anch’io come voi mi rifugio nei libri e nelle canzoni. M’infilo nei cinema e cerco di incontrare solo persone che mi somiglino con le quali condividere “pensieri e parole”. E tu sei uno di loro.

venerdì 26 agosto 2011

Araba Fenice-"Lune a Mezzanotte"


“Lune a Mezzanotte” è l’album di esordio di “Araba Fenice”, una giovane band romagnola.
Il mio “ incontro” casuale con questo gruppo parte da molto lontano, quando non avevo la minima idea di quale fosse il loro progetto musicale.
Fu un’amica, Debora, conosciuta attraverso il “mondo Jethro Tull”, che mi raccontò di un giornata di agosto di 3-4 anni fa, quando da una tenda di un campeggio della Valle d’Aosta in cui lei si trovava, sentì il suono di uno strumento conosciuto … anche il brano era noto, “Bourèe”. Lei rimase ammaliata da tanta bravura e approfondì l’amicizia, tenendomi sommariamente informato sull’evoluzione artistica della band. Quel flauto traverso apparteneva ad Ermes Maffi, uno dei musicisti dell'Araba Fenice.
Probabilmente “Lune a Mezzanotte” è figlio di quei momenti lontani, o almeno è quella la sua collocazione temporale, ed è ipotizzabile che gli effetti della ovvia maturazione artistica porteranno a nuove proposte, ma, nel frattempo, scopriamo un album che, come tutte le opere prime rappresenta già un sunto del lavoro di una parte di vita.
Dieci brani cantati in italiano, dieci storie di vita comune “trattate “ con l’estrema cura dei particolari.
Se dovessi dare qualche indicazione sul genere musicale presentato, potrei utilizzare la denominazione " folck-rock", con una forte predisposizione ad attingere al patrimonio culturale da cui Araba Fenice proviene.
È sufficiente dare una lettura alla strumentazione utilizzata per farsi un’idea corretta: accanto alla tradizione del rock, più elettrica, troviamo infatti la tendenza all’acustico, con mandolino, bouzouki, flauto traverso, banjo, cembalo e altro ancora, strumenti presi in prestito da differenti culture ed etnie.
E’ una musica che colpisce, che immediatamente riporta alla vita di provincia a cui non si vuole rinunciare nemmeno un minuto, lasciandosi contaminare da quel minimo di tecnologia cittadina che deve solo essere funzionale al progetto.
Le liriche raccontano temi sociali e problemi quotidiani, cantate col piglio dei cantastorie consumati, che sanno “dominare” le tranquille feste di paese, ma che al momento opportuno sanno sfoderare estrema grinta, in altri contesti.
A fine aprile Debora mi ha mandato il CD, con la certezza che avrei gradito.
Lo ascoltato tutto di un fiato e dopo due giorni le ho raccontato di come non riuscissi più a levarmi dalla testa “Il rifugio che sai”, che ho “trattenuto” in me, involontariamente, per un lungo momento. E questo vale forse più di mille commenti…
“… Lasciati guidar da una musica che si accende dentro… ti raggiungerà…. ti racconterà…”

E ora … sono davvero curioso di vedere ciò che Araba Fenice riesce a creare on stage!


Le pagine dell'Araba Fenice:




L’INTERVISTA

Ho sentito parlare di voi, per la prima volta, qualche anno fa, almeno quattro, quando un’amica comune, Debora, mi descrisse un incontro casuale avvenuto in Valle d’Aosta, in un campeggio. Che cosa vi è accaduto di significativo in questi quattro anni, dal punto di vista musicale?
Be, diciamo che le cose sono tante, molte bellissime, quasi indimenticabili! Ad esempio la vincita di un concorso per band emergenti che ci ha portato in Polonia a suonare davanti a migliaia di persone (ed eravamo ancora quasi senza un repertorio completo), le numerose partecipazioni ad altre bellissime manifestazioni, rassegne e contest, l’uscita di un disco tutto nostro (prodotto veramente con il sudore e del quale andiamo molto fieri), ma soprattutto i tanti live che facciamo durante l’anno e che ci hanno fatto conoscere il calore e l’affetto di molte persone che ci seguono, anche percorrendo parecchi chilometri per farlo! Forse per i “grandi gruppi” questo è normale, ma per noi è una cosa impagabile vedere e rivedere gente ogni sera che balla, canta e suda con noi! Di brutte esperienze fortunatamente ne abbiamo vissute poche, diciamo che abbiamo imparato sulla nostra pelle che nessuno ti da niente per niente e che diffidare di chi usa belle parole e ti promette belle cose non è poi cosi sbagliato!

E’ sufficiente leggere la lista degli strumenti utilizzati per capire il vostro orientamento stilistico. Da dove nasce questa voglia comune di utilizzare atmosfere acustiche e folk per raccontare e raccontarsi?
La voglia nasce dal semplice desiderio di suonare e raccontare le nostre storie e le nostre idee anche in luoghi dove volumi e potenti strumenti elettrici non possono entrare, nonché dalla passione per il legno, materiale vivo e caldo come le atmosfere che cerchiamo di creare nei nostri concerti. L’aspetto positivo è che questo modo di suonare (e questo genere in particolare) appassiona molto persone di tutte le età! Il folk fa parte delle nostre radici e del nostro dna quindi diciamo che non è stata propriamente un’idea nostra, è il folk che ha scelto noi!

Scrivere canzoni significa anche inviare dei messaggi, denunciare, o semplicemente descrivere dei sentimenti. Ma la musica ha grande efficacia indipendentemente dalle parole ( pensiamo a quanto ci si legava a brani di cui non si capiva una parola, cosa ancora in atto nonostante la conoscenza delle lingue).Qual è il vostro punto di vista sul rapporto liriche/suoni/arrangiamenti?
Di sicuro non abbiamo la pretesa di lanciare messaggi tanto meno di insegnare qualcosa a qualcuno … ci piace parlare e raccontare di sentimenti, tematiche sociali, stati d’animo, storie di persone del passato, del presente e forse anche del futuro. Detto ciò pensiamo che i testi dei nostri pezzi e delle canzoni in genere siano davvero molto importanti. Fingendo di dover dare una percentuale potremmo dire 70% testo e 30% musica! Ovviamente se un bel testo è accompagnato da una bella melodia e un buon arrangiamento riesce a trasmettere il suo significato più facilmente e a più persone raggiungendo anche quelle che ascoltano musica in maniera più leggera.

Utilizzare strumenti “antichi” non significa rinunciare alla ricerca e all’innovazione. Dedicate del tempo a sperimentare percorsi per voi nuovi? Che cosa pensate della tecnologia applicata alla musica?
Innovazione non significa utilizzare suoni spaziali, voci e strumenti campionati, e soprattutto farlo per seguire l’andamento delle mode. Non siamo tanto amanti della musica posticcia, o perlomeno non estrema come quella che si sente oggi ovunque … amiamo il suono vero dello strumento accettando i suoi pregi e difetti. In ogni caso la tecnologia applicata per migliorare la qualità del suono e più in generale per aiutare a rendere accessibile a tutti la musica, ha fatto passi da gigante e questo è un ottimo aspetto! Diciamo che innovare significa riuscire a dire le cose per raggiungere il maggior numero di persone possibile senza cadere nella retorica e nelle banalità. Come disse un famoso cantante: ”l’impresa eccezionale è essere normale!”

Vivere di sola musica(di qualità) è di questi tempi pressoché impossibile. Che tipo di obiettivi vi ponete se pensate al vostro sviluppo e soddisfazione personale?
Il nostro obbiettivo principale è quello di fare più concerti possibili, produrre dischi di buona qualità e vivere facendo quello che ci piace! Non abbiamo grosse pretese, la cosa più fantastica sarebbe poter lasciare il nostro lavoro a chi ne ha bisogno, in cambio di un pari sostentamento derivante dalla nostra attività musicale! Ad oggi è una visione senza dubbio un po’ utopica, ma noi ci crediamo e andiamo avanti!

Le influenze che subiscono i musicisti (e meri appassionati di musica) sono di solito molto variegate. Esiste all’interno del gruppo un nome su cui tutti siete d’accordo?
Come tutti i gruppi abbiamo gusti e modi di ascoltare musica diversi, ma sono parecchie le influenze che ci accomunano. Si va dai cantautori italiani alla scena prog rock anni 70, passando per folk ed hard rock... un nome su tutti? BANDABARDO’!

Quanto è importante per voi il vincolo dell’amicizia nella realizzazione del vostro progetto? Un gruppo di lavoro può funzionare solo con la professionalità ed il talento?
Quando si crea un progetto bisogna scegliere le persone giuste se si vuole cercare di avere vita lunga. Un gruppo come il nostro richiede molti sacrifici e se lo facessimo solamente per popolarità o denaro, ci saremmo con ogni probabilità già sciolti. Bisogna riconoscere che siamo molto fortunati per questo aspetto. Stiamo bene insieme e quando siamo sul palco succede qualcosa che è difficile da spiegare… è come se ciascuno si affidasse all’altro completamente, proprio come in un rapporto di coppia! Ma l’amore è un’altra cosa, questo è affiatamento, e non si impara con la tecnica, ma vivendo e suonando con passione sera dopo sera condividendo successi e fischi. Quando nasce questa alchimia nel 99% dei casi c’è anche dietro un vero rapporto di amicizia, fondamentale nella vita di ognuno di noi, e nella vita della band!

Esistono teorie che legano scuole di pensiero e generi musicali a particolari parti della nostra penisola (scuola genovese, milanese, torinese ecc…), ognuna con caratteristiche ben delineate. Pensate che la vostra terra di origine abbia influenzato il vostro modo di comporre e suonare? Esiste un “filone” geografico in cui vi sentite inseriti?
Siamo molto legati alla nostra terra anche se non tanto per la musica, ma per le tradizioni e tutta la storia che porta con se e che ci regala. Noi cerchiamo, a nostro modo, di raccontare la nostra terra perché la amiamo. Non crediamo di appartenere ad una scuola di pensiero, ma forse è un aspetto più facilmente giudicabile dall’esterno, non dovremmo essere noi a dirlo.

Che tipo di rapporto riuscite a creare col pubblico quando siete su un palco? Vi gratifica l’interazione?
Il rapporto con il pubblico e’ fondamentale, e’ la base di tutti i nostri concerti. Purtroppo è capitato di non riuscire a interagire con chi avevamo davanti, a coinvolgerli, nonostante i nostri tentativi. Forse semplicemente i presenti non gradivano il nostro genere o magari ne preferivano altri. Per noi emergenti purtroppo non sempre il pubblico presente ha consapevolmente scelto di venirci ad ascoltare … fortunatamente invece molto più spesso c’è grande partecipazione da parte del pubblico: canti, cori e tutto quello che di più bello ci si può aspettare! Questa è la cosa più bella e quello che ci spinge ad andare avanti e fare sempre meglio! Non finiremo mai di ringraziare ogni singola persona che ci segua, da quello che salta sbraita e canta a squarcia gola a quello che canta sotto voce stando bene attento a non farsi vedere!

Cosa ci può essere dietro a “Lune a Mezzanotte?
Tanti chilometri, lunghe strade interminabili, per non parlare del “monta-smonta” di ogni concerto … grandi soddisfazioni e qualche delusione, ma soprattutto tanto impegno, ma anche tante risate!




Note:

"Lune a Mezzanotte” è disponibile anche su “Itunes

http://itunes.apple.com/us/artist/araba-fenice/id456556261?ign-mpt=uo%3D4


… ma è disponibile anche in tutti gli altri digital music store mondiali oltre che su www.loserscompany.net



Sul sito ufficiale dell'etichetta www.loserscompany.net si possono trovare tutti i contatti, le informazioni e i contenuti extra relativi a “Araba Fenice”.

giovedì 25 agosto 2011

Luigi Mariano-"Asincrono"


Asincrono” è il primo album ufficiale di Luigi Mariano, cantautore salentino che può vantare un percorso carico di riconoscimenti incondizionati.
Ho utilizzato come sempre la “formula intervista” per conoscere il pensiero del musicista, e la completezza e l’accuratezza delle risposte non avrebbero bisogno di ulteriore commento, perché il quadro che emerge è davvero esaustivo. Per ulteriori notizie cliccare sul seguente link:
Tredici brani completamente composti da Mariano, tredici situazioni di vita comune trattate con grande sensibilità, mascherate dall’ironia propria di certi personaggi del passato, artisti che probabilmente avevano meno “esigenze musicali”, essendo privilegiata “l’asciutta parola”.
Ma un cantautore, seppur moderno, si porta dietro un obbligo che è quello del messaggio da diffondere. Mariano dichiara di sapersi emozionare anche per musiche senza testo, quelle liriche che però sa creare sin dall’infanzia, come fossero l’esigenza (prematura) di dare sfogo ai disagi che tutti, indistintamente, provano prima o poi. “Asincrono”… parola (titolo di un brano, oltre che dell’album) che svela una situazione conosciuta, ma che non sempre si riesce a tradurre nitidamente. Mi riferisco al “fuori tempo” esistente al nostro interno, quando la carne, lo spirito e la mente non trovano la giusta connessione; ma penso anche a tutto ciò che è più “pubblico”, noi e gli altri, noi e il nostro destino, noi e le miriadi di situazioni che ci capitano nel quotidiano … quanta fatica per trovare l’equilibrio! E quanta delusione quando l’insuccesso non dipende da noi!
Luigi Mariano, attraverso il suo disco, “mi ha raccontato” tutto questo, con la forza del suo mito, Springsteen, con l’ironia del compianto Gaber e con il coraggio di svelare i sentimenti più reconditi.
Ma non è usuale, non è facile, utilizzare “gli altri per raccontare noi stessi”. E’ quanto accade, ad esempio, in “Edoardo”, canzone che, attraverso il dramma degli Agnelli, ci propone il rapporto spigoloso tra Mariano e il padre.
Storie di incomprensioni, del tutto normali; conflitti generazionali e di pensiero. Facile “parlarne con … se stessi”, un impresa raccontarlo al mondo col piglio usato da Mariano.
Un album pieno di episodi, uniti tra loro, ma dal grande significato singolo.
Un album che induce a riflessioni, dolci e amare.
Un album di vita vissuta le cui storie potrebbero provocare un po’ di dolore, ma il grande merito di questo cantastorie moderno è proprio quello di presentare un pensiero profondo confezionandolo col sorriso sulle labbra.
E ora sono molto curioso di sapere cosa può accadere sul palco…



L’INTERVISTA

Dove e come nasce, musicalmente parlando, Luigi Mariano? Che tipo di percorso ti ha condotto ad “Asincrono”?
La prima risposta sarà un po’ lunga per la necessità di raccontare le mie origini.Nasco in Salento un ambiente familiare (fin troppo) tradizionale e classico-popolare, riguardo agli ascolti musicali. Fino a qualche anno fa la consapevolezza di questo mi pesava, mi dava fastidio, lo ritenevo causa di un eccessivo “allungamento temporale” del mio (infatti lento) crescere e nutrirmi di “cibo musicale” negli anni. Avrei voluto fare meno fatica. In fondo c’è gente che in fasce, o addirittura in grembo materno, assorbe musica grandiosa, dal jazz al blues ai cantautori al rock, o comunque musica dei suoi tempi, quella che poi lo condiziona per il resto della sua vita. Invece mio padre era (ed è) molto anacronistico, nei suoi ascolti. Nel ’68 aveva 30 anni, eppure (per quanto riguarda la musica leggera) non ascoltava altro che (stupide) canzonette d’amore anni ‘30-‘40-’50. Ogni tanto andava in giro a cantare le serenate a pagamento sotto i balconi, accompagnato da qualche amico che sapeva suonare la chitarra. Il rock, il progressive, per non parlare dei grandi cantautori che hanno fatto la storia…. no, non l’hanno mai sfiorato. Amava (e ama) opera e melodramma. Mia madre per fortuna era ed è un po’ più moderna, più sul filone cantautorale, anche se sempre di estrazione decisamente popolare e da radio. Da piccolo ricordo per casa la voce di Battisti, Baglioni, Cocciante, Dalla, i brani dei quali lei canticchiava mentre rassettava. E ha sempre avuto un minimo d’attenzione per il testo.
Il germe che dunque m’ha fatto dar vita al mio percorso personale è più materno e a lei ho dedicato “Asincrono”. Del resto quando ero adolescente fu mia madre (contro il volere di mio padre) a regalarmi una tastiera, su cui appresi i primi accordi e su cui iniziai a suonare le prime canzoni, quelle dei cantautori (Venditti, De Gregori, Bennato, Guccini, Vasco, Zucchero, De André, Vecchioni, Dalla, Bertoli, Zero). Ascoltando poi gli arpeggi di Bruce Springsteen in “Nebraska”, imparai a strimpellare la chitarra acustica e a soffiare dentro un’armonica. Entrai subito a 18 anni, come tastierista-cantante, in un gruppo del mio paese in Salento, gli “Heaven’s Door”, chiamati altresì “Proxima”: ci divertivamo con le cover italiane e straniere, restando sul filone comunque popolare. Ma già iniziavo a scrivere le mie cose e a cercare la mia strada intima, in modo molto forte. A 19 anni, col trasferimento dal Salento a Roma, le mie canzoni presero sempre più forma, cominciarono ad accumularsi a decine e decine. Erano un misto: alcune molto intimiste, poi sono arrivate quelle più polemiche e d’impegno civile. Infine quelle ironiche e autoironiche. Per anni le ho registrate di notte, fino all’alba, in provini molto articolati e anche arrangiati, anche se annaspanti nei suoni orrendi di una GEM ws2. C’era una passione infinita e certosina, al di là della qualità audio molto scarsa dei provini.
Ho prima timidamente portato in qualche locale romano le mie canzoni e poi, dal 2006-2007, ormai consapevole di sapere bene quello che volevo e quali fossero i brani più efficaci anche dal vivo, ho seriamente iniziato a progettare nei dettagli sia il mio percorso artistico (come muovermi, come farmi conoscere, dove suonare) sia soprattutto il mio primo disco autoprodotto “Asincrono”, scegliendo 13 canzoni che mi rappresentassero a 360 gradi (tra oltre 70 papabili) e registrandole nel 2010 nello studio di Alberto Lombardi ad Albano Laziale. Il riscontro di critica e di pubblico avuto col primo disco è stato a dir poco sensazionale ed entusiastico, molto al di là di ogni più rosea aspettativa. Non me l’aspettavo. Beh, se penso a tutta la strada fatta da solo, sono onestamente orgoglioso di me.

Il concetto di base che esprimi attraverso “Asincrono”, credo sia l’impossibilità di cogliere le occasioni nel momento in cui capitano, arrivando sempre un attimo prima o un attimo dopo all’appuntamento che potrebbe risultare decisivo . Nel tuo caso, è l’esperienza personale che ti spinge a dipingere un simile “affresco di vita” o è l’osservazione di ciò che ti circonda che è condizionante?
Entrambe le cose, in maniera molto forte. Con “Asincrono” volevo rappresentare il disagio, un tema per la verità piuttosto comune agli artisti e a tutte le persone sensibili (non solo a me). In particolare mi riferisco al disagio di sentirsi fuori posto e fuori tempo, sia rispetto al mondo esterno-circostante (l’andazzo odierno della musica e della cultura, le persone, la politica, il proprio partner, un genitore e via andando) e sia rispetto a sé stessi, a ciò che da un lato siamo diventati e dall’altro non riusciamo a cambiare di noi: una scissione che crea uno sfasamento intimo davvero spiazzante e dilaniante. Io per esempio vivo quest’asincronia in particolare nelle differenze di velocità tra mente e corpo. La mente va a mille, è un vero vulcano anche di energia, ma il corpo non riesce a riprodurre e a reggere assolutamente i ritmi della mia mente, è un vero pachiderma, una tartaruga, lo trascino a forza, lui è recalcitrante, fa l’offeso, a volte mi tradisce, altre si ammala per un nonnulla rischiando di farmi fare figuracce sul palco, reclama troppo sonno rispetto a ciò che io posso dargli. Un freno, un vero disastro. Ma imparerò a gestirlo. Sento di avere il motore di una Ferrari montato su una Fiat 500.

Mi ha colpito la tua osservazione del fragile rapporto tra Edoardo Agnelli e il padre, uomini “geograficamente lontani da te”. Che cosa ti ha indotto ad affrontare quella relazione così spinosa?
Torino è lontana da Roma e a maggior ragione dal mio Salento (anche se finalmente suonerò all’ombra della Mole il prossimo 12 novembre, al “Folk Club”), ma la geografia è sempre quella dell’anima, mai dell’atlante. Certe cose arrivano chiare e nitide, anche da lontano.
I pesi emotivi, l’incomunicabilità: io li conosco molto bene. Il linguaggio delle ferite, del non detto, o dei pesi da sostenere spesso è universale, non ha barriere né d’età, né di tempo, né di geografia, né di status sociale. Questa è una risposta indiretta anche a coloro (non come te, che invece hai curiosità e apertura) che si sono stupiti in negativo della mia scelta di parlare di un Agnelli e in particolare di Edoardo, un uomo che qualcuno ha anche definito “pessimo soggetto”.
A me è parso naturale parlarne: i pessimi soggetti hanno ispirato generazioni di artisti di ogni livello. Io amo scavare dietro le loro paure e malesseri, stanare il nocciolo profondo del loro dolore. Mi serve per capire anche parti di me. E’ poi fin troppo evidente che, attraverso la voce di Edoardo, io volessi parlare a mio padre.

Ho letto del tuo amore per Springsteen. Cosa ti ha dato, in termini di insegnamento espressivo, la conoscenza musicale del Boss?
Bruce è un mio punto di riferimento assoluto, più di quello che si immagina, perché non c’entra solo la musica. Per capire di che genere di uomo si parli e quanto possa trasmettere come valori e come persona a chiunque, basti leggere “Real World” di Ermanno Labianca: forse si resterà stupefatti. Altro che bicipiti e bandane anni ‘80. L’insegnamento costante che ricevo da un simile artista, che è stato compagno costante e involontario di tutto il mio ventennale percorso artistico, è variegato e multiforme.
Innanzitutto Bruce mi ha insegnato la forza e il coraggio di salire su un palco. Sì, si parte proprio dall’abc. Tuttora, quando può capitare di farmela sotto, penso a come lui (anche da solo e senza mai l’uso di alcool o droghe) affronta il pubblico o un palco e mi do una sonora svegliata. Bruce mi ha insegnato la dignità, il rispetto per i miei sogni, l’attenzione costante agli ultimi, la determinazione a perseguire il proprio obiettivo visto come una missione. In lui ho rivisto la semplicità, l’umanità, l’umiltà di chi è al contempo molto consapevole della propria autorevolezza e carisma, senza mai utilizzarli per schiacciare o prevaricare, ma lasciandoli liberi di “contaminare di forza” tutti coloro che si hanno attorno. Riservato e al contempo accessibile: lui è così. Quindi si può esserlo, se si vuole. Entrambe le cose.

Riesci a concepire la musica priva di messaggio chiaro… senza liriche … solo suoni?
Ovviamente sì, arrivo alle lacrime in alcune composizioni di Morricone, che per me funzionano alla stragrande anche senza immagini o parole. La musica è un linguaggio universale, emotivo, e lo so bene anche io, che pure sono un dannato parolaio, uno che scrive parole e parole da quando aveva 5 anni. La musica è davvero una faccenda “di pancia”, inspiegabile, arriva prima di qualsiasi parola, anche la più diretta. Ho persino scritto anch’io qualche brano solo strumentale, forse uno lo inserirò in coda al mio prossimo CD, si chiama “Nella penombra dopo le parole”.

La tua attività appare intensa e gratificante, ma… cosa occorre fare, oggigiorno in Italia, per vivere di sola musica?
Farsi il mazzo, sicuramente. Io me lo faccio da molti anni (attualmente, e per pura necessità, mi occupo di ogni aspetto del mio progetto, e solo con piccoli aiuti esterni): le soddisfazioni stanno finalmente arrivando a catena, specie dopo questo fortunato CD, ma per riuscire a vivere in modo dignitoso di musica ancora ce ne corre. Avrei ormai necessità impellenti di un vero staff attorno, di un’agenzia di booking, di un promoter, perché le cose stanno diventando più grandi e gestirle da solo sta diventando impossibile. Io credo che se, umiliando ciò che si è veramente, si volesse seguire con furbizia solo ciò che vuole il mercato o la moda, beh campare di musica in fondo sarebbe piuttosto facile, per chi abbia un “minimo sindacale” di attitudine musicale o di fiuto: basta mettere su una cover band (oggi vanno molto quelle di Liga, Vasco e Rino Gaetano oppure agghindare i soliti classici standard evergreen jazz-blues-country) e si lavora a rotta di collo, ovunque. Anche i pianobar estivi non scherzano. Fare musica propria è l’atto più coraggioso e rivoluzionario che esista, certo il più ambizioso e vero. I cantautori emergenti poi, al giorno d’oggi, sono per me delle figure quasi eroiche, leggendarie, dei don Chisciotte che non si arrendono. Forse alla fine qualcuno ce la fa. Uno su mille. E’ un’epoca televisiva, che spero passerà, di massacro generale della cultura. Ma per me la musica è altro, è un veicolo per dire delle cose, come per la letteratura o la poesia o la pittura. Diceva Victor Jara: “Io non canto per cantare, né per avere una bella voce: canto per la chitarra, che ha ragione e sentimento”. Ragione (testa, pensiero, inventiva, idee, creatività, personalità, originalità, spinta sociale, desiderio di cambiare le cose) e sentimento (emozione, commozione, ribellione, rabbia, dolcezza, amore, amicizia, legame con le radici, senso o meno d’appartenenza a qualcosa).
Per questo canto anch’io. Il karaoke lo lasciamo ad altri.

Qual è la tua idea dell’attuale business che regola il circuito musicale?
E’ devastante e deprimente. Questo business, un po’ affossato dalla crisi discografica, in parte (bisogna ammetterlo) derivata da internet, segue lo scempio e l’immondezzaio TV, caratterizzato da omicidi volontari e quotidiani della musica e da un’umiliazione quasi costante dei cantautori a favore degli “interpreti dal bel canto”, che poi a catena dovrebbero dar lavoro a squadre di autori. Questi interpreti sono tutti uguali, cantano tutti nello stesso modo. E’ un business del tutto prono alla TV, perché paradossalmente appare ora l’unica ancora di salvezza agli occhi di questi discografici in crisi perenne, presenti come giurati a disquisire, in modo alquanto imbarazzato e imbarazzante, di questo o di quel “partecipante al talent”, quando negli anni precedenti (in cui la TV dettava meno legge e la crisi era meno forte) maneggiavano ben altra qualità artistica tra le mani, nei loro uffici. Vedere anche fior di giornalisti costretti (dalle circostanze oggettive imperanti) a disquisire intorno ai talent-show è lo specchio dei tempi. Sono d’accordo che non bisogna snobbare e che occorre vivere il proprio presente con estrema consapevolezza, entrarci a fondo e avere una visione matura dei fenomeni del proprio “oggi”, ma qua il ragionamento regge fino a un certo punto: il dato evidente, che nessuno può negare, è che la TV ha trasformato (a pioggia) l’odierna musica popolare in un contenitore senza contenuto, spolpandola del suo valore culturale. E’ un dato di fatto o no? Invece per me la musica popolare deve sempre tendere verso la cultura e deve ribellarsi a quest’andazzo voluto dal piccolo schermo, che costruisce spettacoli televisivi e non musica.

Che cosa toglie e che cosa dà internet a un musicista?
A me ha dato tantissimo. Bisogna però saperlo usare, per i propri scopi. Può servire a bypassare, almeno all’inizio, tanti aspetti del “lavoro sporco”, dalla promozione ai contatti con l’ambiente. Ci si fa conoscere perché si arriva prima, in modo diretto e immediato (mail, social network, siti personali) sia agli addetti ai lavori che addirittura a buona parte del potenziale pubblico. Per partire, può ormai essere una straordinaria opportunità. Poi ovviamente serve altro.
L’aspetto negativo riguarda il non saper gestire il mezzo, il farsene risucchiare, il perdere tempo inutile o l’illusione di essere arrivati da qualche parte per il solo fatto di essere molto presenti sul web. Bisogna muoversi con intelligenza e aprire gli occhi.

Un cantautore che scrive testi d’amore è spesso collegato a “musica facile”. Un cantautore che denuncia i problemi sociali è spesso considerato “troppo negativo”. Qual è secondo te la giusta dimensione del “cantastorie”? Quali le differenze da Guccini ad oggi?
Sono visioni credo soggettive, che hanno a che fare coi gusti personali. Spesso in musica si azzardano di continuo discussioni apparentemente oggettive (l’ho fatto anch’io, prima), ma di fatto resta poi una questione di gusti.
C’è ad esempio chi pensa che si possa riprodurre pedissequamente quel tipo di modello-cantastorie alla Guccini anche oggi, come c’è chi (e io sono più per questa seconda ipotesi) pensa alla necessità del cantautorato di svecchiarsi e di fare cose molto più moderne, come poi tentano di fare da anni Silvestri o Gazzè o Caparezza.
La mia idea, che rispecchia tra l’altro il mio desiderio di vedere fuse la musica più popolare con la cultura, è appunto quella di tentare di scrivere testi interessanti o intelligenti o di sostanza o con messaggi precisi e importanti, inseriti in un humus musicale poco stantio, possibilmente vivace, fresco, accattivante, di sicuro variegato, e quando possibile (perché no) anche popolare. Non ho mai amato la nicchia come vanto, come fenomeno da perpetuare o come stile di vita, della serie “sono orgoglioso di essere e restare nella nicchia”: no, non sopporto l’autoreferenzialità di certi ambienti di nicchia, le loro chiusure a riccio, il loro sentirsi “superiori” a prescindere, la loro paura di contaminarsi, il loro cantarsela e suonarsela da soli. Io vorrei portare le mie canzoni a più gente possibile in grado di apprezzarla. Detesto gli snobismi esattamente nello stesso modo in cui detesto il massacro culturale della musica che va in onda in TV. Non c’è contraddizione, nel mio pensiero: sono due eccessi che non fanno bene alla musica. O la ammazzano o la mandano in cancrena.

Quale sarà l’evoluzione di “Asincrono” e quali i tuoi progetti per l’immediato futuro?
Ho tantissime canzoni già pronte per il prossimo disco e credo altre ne scriverò a riguardo. Ma ora non ci penso affatto. So che alcuni miei amici cantautori non gestiscono bene l’insofferenza (capita anche a me, sia chiaro) verso il “già suonato” e pensano di continuo a cose nuove da scrivere o da pubblicare, per portarle in giro e rinfrescare il repertorio e gli entusiasmi. Io so tenere a freno queste smanie, quando le giudico eccessive, premature e impulsive. Pianifico con calma, pensando a ciò che ancora non ho fatto. Per un altro paio d’anni, almeno fino al 2013, credo che mi dedicherò ancora a portare in giro “Asincrono” il più possibile, specie in luoghi in cui non sono mai stato (e sono tanti). Ogni volta è una scoperta. E per quelle persone io sono ogni volta una novità, quindi come posso annoiarmi a farlo? Per me è vita ogni sera. A Torino ci andrò in autunno, ma mi aspettano ancora a Napoli, a Milano, in Friuli, nelle Marche, in Trentino, in Calabria, nelle isole. Le lancette dell’orologio di “Asincrono” hanno ancora un bel po’ da girare prima di fermarsi.




mercoledì 24 agosto 2011

Fabrizio Poggi and Chicken Mambo a Frabosa Soprana


Fotografia di Marcello De Gregorio

L’ultimo evento della mia estate frabosana è stato di altissimo livello.

Il 19 agosto, sulla piazzetta centrale, era di scena Fabrizio Poggi & Chicken Mambo, gruppo blues di caratura internazionale.

I concerti di Fabrizio non sono per me una novità, ma la sfida era quella di portare il “suo” blues in un luogo vacanziero, dove il pubblico è li quasi per obbligo, e non è detto che la concentrazione necessaria, per musicisti e pubblico, arrivi in automatico.

Occorre spiegare che partecipare ad un concerto di Fabrizio Poggi significa essere presenti in modo attivo ed aprirsi incondizionatamente per lasciarsi toccare in profondità. Lui canta, suona e racconta storie di vita, oltre la vita, e riesce sempre ad entrare in sintonia con chi si trova davanti anche i più … refrattari.

Dopo alcuni minuti la rumorosità della piazza affollata dai bambini è sparita dalle orecchie e dagli “occhi” di chi aveva trovato la giusta sintonia, e si era ritrovato a battere le mani, come Fabrizio suggeriva.

Eppure alle 21.15, quindici minuti prima dell’inizio della serata blues, la gente latitava, complice un evento sportivo a pochi metri di distanza.

E poi, magicamente, dopo l’entrata in scena delle transenne poste per rendere la piazza dedicata ai soli pedoni, e dopo aver sistemato le sedie davanti agli strumenti, la piazza si è riempita. Persone di età molto diversa tra loro hanno pian piano metabolizzato il messaggio di Fabrizio e un’atmosfera magica si è venuta a creare in pochi istanti.

E così, anche chi mai aveva avuto modo di sentire la band ha ascoltato nuove storie: l’amico musicista che suona ormai in Paradiso, in un’orchestra da sogno… la vecchina nera che viene “scossa”, a casa sua, l’America, dal blues di Poggi… la donna della vita, Angelina, che esiste nel percorso di ogni essere umano.

Sono messaggi semplici, ma profondi, e non sempre si è predisposti a recepirli.

Fabrizio come sempre ci è riuscito, raccontando la vita sulle rive del Mississippi, così come sulle sponde del Po.

Musicisti incredibili i Chicken Mambo, con uno stratosferico Gianfranco Scala alla chitarra, ed una straordinaria sezione ritmica formata da Roberto Re al basso e Stefano Bertolotti alla batteria.

Fabrizio canta, ovviamente, e suona l’armonica e l’organetto.

Spirit & Freedom” è l’ultimo album in studio, proposto nel corso della serata, ma i più “attenti” non si sono lasciati sfuggire il cofanetto appena uscito, relativo al viaggio dello scorso anno in America, contenente l’album live e un DVD.

A me resteranno due immagini come simbolo della serata: il pubblico che segna il tempo con le mani, cantando “batti le mani e salva la tua anima”, e Fabrizio che, alla fine del bis, si allontana dal microfono suonando l’armonica ormai inascoltabile per il basso volume, dirigendosi verso la sua Angelina, pronto a sedersi e “ricevere” il suo pubblico nel modo migliore.

Come sempre perfetto il service “Audio-Video” di Millesimo, ed è stato piacevole ascoltare i ringraziamenti fatti ai tecnici, nome per nome, da Fabrizio Poggi.

Serata indimenticabile.


lunedì 22 agosto 2011

" Evening Song" a Frabosa Soprana


Fotografia di Marcello De Gregorio
I concerti di Frabosa Soprana si sono susseguiti freneticamente nelle due settimane centrali di agosto, con il denominatore comune della qualità, pura variando ogni sera il genere.
Il 17 era di scena il jazz, non troppo “di nicchia”, ma contaminato da un po’ di rock e da una traccia di blues, il tutto condito dalla rivisitazione della tradizione melodica italiana.
Proposta non certo semplice per un pubblico “di passaggio”.
Eppure il gradimento è stato altissimo e, nonostante alcune difficoltà ambientali (difficile trovare la concentrazione se attorno esiste movimento) il quartetto “Evening Song” è riuscito a creare la giusta atmosfera nella suggestiva piazzetta centrale, chiusa al traffico per l’occasione.
Di scena “la musica in piazza”.
Grande affiatamento tra Claudio Bellato (chitarre), Dino Cerruti ( basso e contrabbasso), Maria Grazia Sgarzella (voce) e Lorenzo Capello (batteria), quest’ultimo aggiunto per l’occasione, ma di certo musicista di alto livello.
“The Evening Song” è il titolo dell’album uscito da qualche mese, presentato dal vivo in questa occasione.
Brani di produzione propria e rivisitazioni di canzoni “mondiali”, passando da Nino Rota a Sergio Endrigo, da Lucio Battisti a Madonna, con attenzioni verso la tradizione di altre culture (“Amazing Grace”).
Un vero spettacolo per palati fini e poco importa se non tutti erano in possesso degli strumenti per “capire”, perché chi fa musica ad alto livello, senza particolare cura del mero aspetto commerciale ha, più o meno consciamente, una funzione di educatore, e dai commenti ascoltati, soprattutto il giorno a seguire (anche la musica ha bisogno di tempi di metabolizzazione), questi quattro talentuosi musicisti hanno colpito nel segno.
Claudio Bellato è uno dei più bravi chitarristi in circolazione… Dino Cerruti è un contrabassista e bassista tecnico di valore… Maria Grazia Sgarzella unisce la sua connaturata dolcezza al carattere necessario richiesto dal genere … Lorenzo Capello… una bella sorpresa, batterista “creativo”, nonostante le percussioni siano generalmente deputate al mantenimento della parte ritmica.
Ma il Jazz (in questo caso “… e dintorni”), è un genere da cui spesso si prendono le distanze, immaginando qualcosa di “troppo specifico” e difficile da digerire.
Anche una calda serata di mezzo agosto, trascorsa in un piccolo paese di montagna, può regalare qualche sorpresa e motivi di soddisfazione, per il pubblico che assiste casualmente ad un concerto, e per i musicisti che regalano un pezzo di se.
Nessuno avrà riconosciuto una spruzzata di “Sweet Home Alabama”, scappata dalle dita di Bellato, ma resterà per sempre il ricordo di una serata di buona musica, in una piazzetta suggestiva, piena di neve in inverno, e colma di anime vogliose di aggregazione in estate.
E speriamo che sia un arrivederci.

domenica 21 agosto 2011

Fabrizio Poggi intervista Phil Kaufman


Come Fabrizio Poggi amo le storie del passato, quelle raccontate dai protagonisti, tra realtà e romanzo. Questa che pubblico è davvero incredibile e "invidio" Fabrizio che ha avuto l'opportunità di conoscere un pezzo di storia della nostra musica, e soprattutto di entrare in sintonia con lui: Phil Kaufman, l'uomo che ha bruciato Gram Parsons per onorare il patto stabilito, l'ex amico di Charlie Manson e Mick Jagger, tanto per citare alcune sue frequentazioni.
Scrive Fabrizio...
Tramite amici comuni che gli hanno fatto sentire la mia musica sono entrato in contatto con Phil Kaufman, leggendario tour manager di Rolling Stones, Gram Parsons, Flying Burrito Brothers e Emmylou Harris. Un personaggio davvero unico, con una vita sempre al limite tra bene e male e che definire “spericolata” è estremamente riduttivo. A me, si sa, piacciono molto le storie. E Phil ne ha davvero tante di storie da raccontare. Come quella in cui “rubò” il cadavere di Gram Parsons, morto per overdose a soli ventisei anni in una squallida camera d’albergo. Non solo lo rubò, ma lo andò anche a cremare a Joshua Tree in pieno deserto del Mojave. E tutto solo per onorare una promessa che i due si erano fatti qualche tempo prima. Oppure quella che gira intorno a Charles Manson, il diabolico criminale famoso per essere stato il mandante di uno dei più efferati delitti della storia americana. La notte del 9 agosto 1969 un gruppo di quattro ragazzi “manipolati” da Manson irruppero nella villa di Los Angeles abitata dal regista Roman Polanski e dalla sua compagna Sharon Tate, che in quel momento stava trascorrendo una serata in compagnia di alcuni amici. Su ordine di Manson, la Tate, all’ottavo mese di gravidanza, venne accoltellata e barbaramente uccisa da un “commando” formato da tre ragazze e un ragazzo. Con lei vennero trucidate altre cinque persone. Roman Polanski si salvò per puro caso perchè assente per impegni di lavoro. Perché vi ho raccontato tutto questo? Perché Kaufman mi ha detto di essere sicuro che ad essere ucciso, quella notte maledetta, non avrebbe dovuto essere Sharon Tate, ma lui stesso! E mi ha anche spiegato perché la pensa così. E poi Phil era in studio con gli Stones mentre questi registravano due autentici capolavori come “Beggar’s Banquet” e “Let it bleed”. Sono davvero tante le storie di cui Kaufman è stato testimone o protagonista. Lui è davvero uno che ha vissuto la storia del rock – ma non solo – in prima persona. Phil era lì mentre accadevano fatti che oggi sono diventati leggenda. Era lì perché era il road manager di una serie di nomi che sono scritti nell’olimpo della musica moderna. Lo chiamavano “Road Mangler”, ovvero lo “spianatore di strade”, per la sua innegabile capacità nel risolvere i problemi on the road e ricoprendo questo ruolo Kaufman ha lavorato anche per Frank Zappa, Joe Cocker, Willie Nelson, Etta James, Jimmy Smith, Vince Gill, Marty Stuart e Nanci Griffith. Questo solo per fare qualche nome. Phil non è una persona facile. Tutt’altro. Eppure ha avuto la gentilezza di mandarmi una mail scrivendomi che alcune mie canzoni lo avevano toccato nel profondo. Quando gli ho chiesto di raccontarmi un po’ la sua vita, (ma lui di vite ne ha vissute forse più di una), questo fuorilegge della musica, sopravvissuto a una tempesta di fuochi incrociati mi ha detto di sì. E non era affatto scontato. Quella che segue è il racconto ruvido, sincero, ironico e disarmante di un uomo che ha giocato a carte con il proprio destino, spesso ridendo in faccia alla morte. Un uomo che ha sempre vissuto al limite provando sia l’umiliazione della galera, sia il sapore indescrivibile della libertà. Un uomo innamorato perdutamente della vita e della musica.
Un uomo che è sempre stato e sempre sarà on the road…

Come è iniziato tutto quanto?

Sono nato vicino a New York nel 1935 da una famiglia mezza ebrea e mezza irlandese. Mio nonno era un attore di varietà. Uno di quelli che si dipingeva la faccia di nerofumo. Quindi si può dire che il mondo dello spettacolo è sempre stato in qualche modo nel mio DNA. I miei non andavano d’accordo e ho passato un infanzia difficile sbattuto qua e là. A quindici anni mi guadagnavo già da vivere lavorando in un bar. Nel 1957, come se fosse scritto nel mio destino, e forse lo era davvero, cominciai a lavorare nello show business e subito dopo entrai nell’industria cinematografica. Fu solo nel 1968 che iniziai con i Rolling Stones la mia storia nel mondo della musica.

Ti ricordi la prima volta che hai incontrato Gram Parsons? Stavo lavorando per gli Stones che erano venuti a Los Angeles per mixare Beggar’s Banquet. Ero lì con Mick Jagger (che mi aveva nominato sua “tata ufficiale”), Jimmy Miller il loro produttore; e Marianne Faithfull. Gram arrivò solo qualche giorno dopo con Keith Richards e Anita Pallenberg. Venivano dal loro “esilio” nel sud della Francia. Gram stava davvero insegnando agli Stones la musica country. Quella vera. Spesso finito il lavoro in studio andavamo tutti nell’appartamento che gli Stones avevano affittato per ascoltare dischi di country. Alla sera si mettevano tutti seduti intorno a me che fungendo un po’ da disc jockey mettevo sul piatto del giradischi gli ellepì che Gram mi suggeriva. Poi mentre ascoltavamo le canzoni Parsons spiegava, soprattutto a Mick e a Keith, la differenza tra i vari stili. Diceva loro: “Vedete, questo è lo stile di Buck Owens, quest’altro è quello di Merle Haggard, mentre quest’altro ancora è quello di Don Rich”. C’è chi dice che Gram fosse un po’ il loro “cagnolino”. Non era affatto così. Sia Mick che Keith lo stimavano molto. E anch’io dopo un po’ di diffidenza iniziale, cominciai a guardarlo con occhi diversi. Iniziai anche e per merito suo ad apprezzare la musica country che fino ad allora avevo sempre considerato come un genere piuttosto rozzo e adatto solo ai contadini del sud. 

Gram fece capire a me e agli Stones che il country altro non era se non il soul della povera gente bianca. E di questo gli sarò eternamente grato. E poi Gram era un vero gentiluomo del sud, e senza di lui bellissime canzoni come “Wild Horses “, “Dead Flowers” e “Sweet Virginia” non sarebbero mai nate.

Tu sei stato anche il road manager dei Flying Burrito Brothers. Come era il rapporto tra Byrds e Burritos? C’era collaborazione?

Per niente, anche se poi i musicisti si spostavano da un gruppo all’altro continuamente. C’è stato persino un momento che nei Burritos c’erano più Byrds che nei Byrds stessi. Ma erano come cani e gatti e non perdevano occasione di litigare. Sono tutte storie inventate quelle che raccontano che i due gruppi jammavano insieme. La cosa rilevante di quel periodo è che fu Gram a far aprire le porte dei “santuari” del country a tutti quegli hippy con i capelli lunghi che suonavano country rock. Lui fu quello che inventò quel genere di musica. Lui e Chris Hillman.

A proposto di Hillman, come era il rapporto tra i due?

Musicalmente splendido, per altri versi difficile. Chris era spesso incazzato per il fatto che Gram assumesse droghe e sovente non era nemmeno in grado di salire sul palco. Una volta Chris era talmente fuori di sé che distrusse una Martin nuova di zecca. E poi forse non aveva mai accettato del tutto l’amicizia di Parsons con gli Stones. Il problema è che Gram non si presentava nemmeno alle prove dei Burritos. Era sempre fatto di alcol, cocaina, morfina e tranquillanti. Una miscela che ti mette una sete terribile e ti infila nella testa milioni di domande alle quali nessuno può dare una risposta. Lo so bene perché anch’io sono passato da lì. Gli Stones dal canto loro gli dissero più volte che doveva trascorrere più tempo con il suo gruppo “ufficiale”, senza peraltro ottenere nessun risultato concreto. A Gram piaceva troppo stare con Mick e Keith. E poi, almeno secondo me, era un destino inevitabile che i Flying Burrito Brothers facessero la fine che hanno fatto. Io me lo sentivo e glielo avevo detto più volte. Forse è anche per questo che un giorno mi licenziarono senza motivo. Per molto tempo non rivolsi più la parola a Gram, sino a quando non mi chiamò in occasione della registrazione del suo primo disco solista. Anche lui come Mick aveva bisogno della sua “tata”. Dovetti rimetterlo letteralmente in piedi. Avevamo lì in studio pronti per suonare i musicisti di Elvis Presley e Emmylou Harris, e lui era fuori di testa dal mattino alla sera. Un po’ forse era colpa anche del suo matrimonio che stava andando a pezzi. Faticai non poco, ma riuscii a metterlo in carreggiata. Il risultato lo potete ascoltare in quel gioiellino che è il suo primo album.

Che impressione ti fece in quel periodo Emmylou Harris che suppongo avessi appena conosciuto?

Oh, era dolcissima. Quando non c’era da suonare se ne stava in un angolo a lavorare a maglia o a giocare con la figlia che aveva portato con sé.

Emmylou non ha mai voluto parlare del suo rapporto con Gram se non in termini artistici. Solo recentemente e piuttosto a sorpresa ha dichiarato che quando lui è morto, lei era innamorata di lui. Tu cosa ne sai?

Davvero Emmylou ha detto questo? Mi stupisce. Per quanto ne so io non c’è mai stato niente di fisico tra i due. Forse era nell’aria e forse prima o poi sarebbe successo. L’avevo intuito perché Gretchen, la moglie squilibrata di Gram, la odiava a morte e le donne si sa per certe cose hanno un sesto senso. Non credo che fosse perché Emmylou sapeva cantare come un usignolo e lei no. Credo che fosse per qualcos’altro che Gretchen percepiva. Io e Gram non abbiamo mai parlato e anche se l’avessimo fatto non ti direi comunque nulla (e qui Phil ride di gusto).

Cosa ricordi del momento in cui sei venuto a conoscenza della morte di Gram?

Ero a casa e mi chiamò una delle ragazze che era con lui quella notte. Come sotto shock saltai in macchina e corsi al motel. Entrai nella stanza, presi tutte le droghe che trovai in giro e le buttai via. Prima che arrivasse la polizia caricai in macchina le ragazze e tornai a Los Angeles. Non volevo avere guai con loro. Non che ci fossero reati da contestare; anche perché il suocero di Gram riuscì a far scrivere sul certificato di morte che il decesso era avvenuto per infarto e non per overdose. Non so come abbia fatto, ma essendo uno speaker dei notiziari è probabile che avesse qualche conoscenza che gli è tornata utile in quel frangente. A Gretchen, la moglie di Gram, è sempre piaciuto fare la bella vita della consorte di una rock star senza volersi mai “sporcare le mani” con il lato oscuro di quella vita. Quando le telefonai per darle la triste notizia la prima cosa che mi chiese fu se avevo trovato il libretto di assegni di Gram. Tra loro due era comunque tutto finito. Solo qualche giorno prima aveva colpito Gram con un attaccapanni rendendolo sordo da un orecchio.

Tu sei sicuramente il più celebre “crematore” della storia del rock. Mi puoi raccontare, seppur brevemente, della famosa promessa tra te e Gram e sull’altrettanto noto furto della sua salma?

Tutto avvenne al funerale di Clarence White (grande chitarrista country celebre per aver fatto parte dei Byrds e dei Muleskinners). Clarence era stato investito luglio del 1973 da un ubriaco mentre a fine serata stava caricando gli strumenti sul furgone. Era morto sul colpo. Una vera tragedia. A lui è dedicata una strofa di “In my hour of darkness”. Io e Gram andammo al suo funerale e tutto ci sembrò molto triste. Insomma non ci sembrava nemmeno il funerale di un musicista. Ci arrabbiamo così tanto che non entrammo neanche in chiesa. Per sfogare la nostra collera ci rifugiammo in un bar dove cominciammo a bere parecchie birre. Ci dicevamo che se Clarence avesse potuto scegliere il suo funerale tutto sarebbe stato diverso. E da lì nacque quella che diventò una promessa molto seria. Gram mi disse: “Noi adesso abbiamo la possibilità di scegliere. Tu sei il mio road manager e il mio migliore amico. Promettimi che quando sarò morto tu prenderai il mio corpo e lo andrai a bruciare nel deserto di Joshua Tree”. “Ok” gli dissi “amico. E tu, ti prego, promettimi che farai la stessa cosa per me”. Fu un vero patto, anche se nessuno dei due poteva nemmeno immaginare lontanamente ciò che sarebbe successo due mesi dopo.

Quindi non appena hai saputo della sua morte hai subito pensato di onorare la promessa?

Beh veramente non subito. Mi ero quasi dimenticato di quel patto. Ma tutto mi tornò improvvisamente alla mente quando qualcuno mi telefonò dicendomi che il patrigno stava già organizzando tutto per trasferire la salma di Gram da Los Angeles a New Orleans. Per storie di eredità era importante che Gram fosse seppellito dove aveva deciso il suo patrigno. E io questo non potevo permetterlo. Più di una volta Gram mi aveva detto di odiarlo con tutte le sue forze. Pensava che avesse sposato la madre solo per mettere le mani sul patrimonio dei Parsons agiata famiglia di possidenti della Louisiana. Gram lo chiamava “l’alligatore stronzo con le scarpe rosa”. Quando morì la madre il patrigno diventò ancora più insopportabile. Fu anche per questo che Gram se ne andò da casa. Era un avvocato e aveva amici nella polizia e nell’FBI. Insomma un tipo anche un po’ “pericoloso” per certi versi. Sicuramente aveva del potere.

Insomma, raccontami come avvenne il “furto”, o meglio di come hai tenuto fede a quel patto di due mesi prima.

Innanzitutto bisognava agire in fretta, perché il corpo di Gram si trovava già in un hangar della Continental Airlines all’interno dell’aeroporto di Los Angeles, pronto per essere spedito in Louisiana. Una delle ragazze che era con Gram la notte in cui morì aveva un fidanzato che possedeva un carro funebre. Si, proprio così. 
Lo aveva comprato facendo un grande affare e lo usava come se fosse un furgone. Era quello che ci voleva. 
Nel giro di qualche ora arrivarono sia il carro funebre sia Michael, il suo ragazzo. Lo conoscevo già da qualche tempo. Era un tipo davvero fuori di testa ma con un cuore grande come una casa. Fu lui ad aiutarmi a “rubare” il corpo di Gram all’aeroporto. Da solo forse non ce l’avrei mai fatta.

Cosa ricordi del viaggio verso Joshua Tree?

Tutto. Mi ricordo che mi sono fermato solo un paio di volte: una per telefonare alla mia ragazza. Io e lei ci eravamo accordati per parlare in codice come se fossimo in guerra. Io le avrei detto “La torta è sulla panna” il che voleva dire che ce l’avevamo fatta e lei mi avrebbe risposto “il prete è sul pulpito” che significava che accanto a lei c’era già un avvocato e qualcuno che le avrebbe prestato i soldi per pagare la cauzione pronti per quando ci avrebbero presi. Perché questo era sicuro. L’importante è che ciò non avvenisse prima che avessimo portato a termine il nostro compito. Ci fermammo un’altra volta per comprare un paio di casse di birra, un bel po’ di vodka e Jack Daniel’s e qualcosa da mangiare.

E’ vera la storia che siete stati fermati dai poliziotti e che questi non si sono accorti di nulla?

Sì, è stato quando eravamo ancora nell’hangar all’aeroporto. Io mi presentai all’impiegato della Continental dicendogli che la famiglia aveva deciso di spostare il corpo nell’hangar di un aeroporto privato da cui poi sarebbe partito per la Louisiana. Quello mi credette. Non so come fece, ma mi credette. Stavamo caricando la bara sul furgone di Michael quando sentimmo una voce gridare “Hey voi due!”. Ci girammo in direzione di quel suono e ci trovammo davanti un poliziotto alto due metri. “Hey voi due, non vorrete caricare quella cassa tutta da soli, aspettate che vi do una mano”. Ci aveva fatto prendere un colpo. Ancora oggi stento a credere che sia accaduto. Eppure è proprio così. Ci domandò anche perché non fossimo in divisa da becchini. In effetti eravamo vestiti da veri hippy. Io gli dissi che eravamo ad una festa con delle ragazze quando il boss dell’impresa di pompe funebri per cui lavoravamo ci aveva chiamato chiedendoci di fare quel lavoro anche se quello era il nostro giorno di riposo. Lui sorrise e poi sospirando disse: “ Eh, sì, so come vanno queste cose, purtroppo quando il capo chiama non c’è nulla da fare, bisogna obbedire…”.

Il fatto di aver cremato Gram a Cap Rock aveva un significato particolare?

No, nessuno. Molta gente ha scritto un sacco di stronzate sull’argomento ma in realtà Cap Rock era solo un luogo dove c’era uno spiazzo che ci sembrò adatto a ciò che dovevamo fare. Eravamo stanchi, fatti e bevuti. Non saremmo riusciti ad andare avanti ancora per molto. E poi l’importante era che tutto avvenisse nel deserto di Joshua Tree. Era il luogo stesso, nella sua interezza, ad affascinare Gram. Un giorno mi disse che l’idea di una country music “cosmica” gli era venuta lì.

Dopo aver dato fuoco al feretro siete rimasti lì a lungo?

Beh, mica tanto. Vedevano da lontano delle luci che si avvicinavano quindi non siamo rimasti fino alla fine. Ho saputo poi che la polizia aveva trovato solo ossa bruciacchiate e un po’ di ottone.

Come hanno fatto a scoprirvi? 

Ci hanno scoperto solo per caso e perché qualcuno aveva chiamato le guardie forestali segnalando un incendio nel parco. Nessuno si accorse del furto finché l’aereo con cui doveva arrivare la salma non atterrò a New Orleans. Arrivarono a noi solo qualche tempo dopo. Forse fu la moglie di Gram a denunciarci ma di questo non sono veramente sicuro e poi oggi non ha più nessuna importanza. Comunque sia, riuscimmo a non andare in galera. Il processo si tenne il giorno del ventisettesimo compleanno di Gram. Forse fu un segno. Ci dettero una multa di 300 dollari per il furto non del corpo (in California rubare un cadavere non è reato), ma per esserci fregati la bara che abbiamo dovuto ripagare sino all’ultimo verdone. Quasi ottocento dollari.

Questa storia che mi hai raccontato è diventata anche un film “Grand Theft Parsons”. Come sei entrato nel progetto?

Per più di trent’anni c’è stata gente che mi proponeva di collaborare ad un film su quell’episodio. Ma si trattava per lo più di robaccia horror. Non mi dispiacciono i b-movie ma quella era veramente spazzatura. Un giorno arrivarono questi due irlandesi accompagnati da un inglese che mi sembrarono persone serie. Anche perché all’inizio la mia parte sembrava dover essere interpretata da Hugh Jackman. Ma costava troppo e il loro budget era davvero limitato. Comunque il film si fece lo stesso e ne fui abbastanza 
soddisfatto. Mi dettero persino una piccola parte. Un cameo come si direbbe. Sono quello che viene portato dentro dai poliziotti alla fine del film.

Quindi sei contento di come Johnny Knoxville ti ha impersonato nel film? 

Johnny ha lavorato bene. Si è letto tutta la mia biografia e abbiamo anche cenato una volta insieme. Pur con tutti i limiti di un film, sì credo che mi abbia rappresentato piuttosto bene. La giacca che indossa nel film e la moto che cavalca sono le mie. Il giaccone è lo stesso che portavo quel “fatidico giorno” in cui mantenni la promessa.

Una delle canzoni più famose di Parsons è sicuramente “In my hour of darkness” che sembra davvero un brano autobiografico. Io tra l’altro l’ho incisa dedicandola al road manager di Willie Nelson scomparso qualche tempo fa. Tu sai chi sono i tre personaggi protagonisti della canzone ? 

Certo che lo so. Il giovane uomo che muore in un incidente stradale appena fuori Denver è Brandon De Wilde un attore caro amico di Gram, che restò ucciso in un incidente nel 1972. La sua macchina uscì di strada ad una curva appena fuori Denver in Colorado. Il tipo che suonava “la sua chitarra dalle corde d’argento” è Clarence White di cui ti ho parlato poc’anzi; e “il vecchio diventato saggio con gli anni e che lo sapeva leggere come un libro” era Sid Kaiser il guru della marjuana che George Harrison dei Beatles gli aveva presentato.

Tornando agli Stones quanto tempo sei stato con loro? 

Come ho già detto, ho cominciato a lavorare per loro nel 1968. Loro erano venuti in America, a Los Angeles per mixare “Beggars Banquet” al celebre Sunset Sound Studio che si trovava a Hollywood. 
Erano già delle star. Un amico mi disse se mi interessava un lavoro da cento dollari a settimana in contanti. Eccome se m’interessava. Il mio amico aggiunse che si trattava di fare da segretario a un certo Mick Jagger che io all’epoca, essendo un grande appassionato di musica jazz, neanche conoscevo. Accettai. Quando arrivai agli Studios mi dissero che tutto quello che dovevo fare era di prendermi cura di lui e delle sue esigenze; di fare in modo che arrivasse in studio in orario, che prendesse le sue medicine, che mangiasse a sufficienza e che lo tenessi fuori dai guai. Beh, non era difficile. E poi per cento verdoni a settimana sarei andato persino al Polo Nord. Mi comprarono persino un paio di scarpe e una camicia nuovi di zecca. E mi diedero una macchina, una Cadillac fresca di concessionaria. La mia ragazza pensava l’avessi rubata e invece era tutto vero. Gli dissi: “Baby questa è un a cosa che ancora non conosci. Si chiama “Rock ‘n’ roll”!
da destra a sinistra dietro Keith Richards Gram Parsons davanti Tony Fouts Anita Pallenberg Phil Kaufman foto di Michael Cooper

E così sei diventato la “tata ufficiale” di Mick Jagger?

Sì, e lui ne era molto contento. Tutti nello staff degli Stones erano contenti di me. Prima che io arrivassi nessuno era mai arrivato in studio in orario ma con me nessuno sgarrava. Una volta arrivammo talmente in orario che i fonici non volevano aprirci i cancelli per entrare increduli del fatto che i Rolling Stones fossero così puntuali. Ci misi un po’ a convincerli, a suon di vaffanculo, che eravamo proprio noi. Terminato il lavoro negli States, Mick mi chiese anche di volare a Londra con loro per stare dietro a Brian Jones che in quel periodo stava partendo del tutto con la testa. Purtroppo dovetti dire di no. Ero ancora in libertà vigilata e non potevo lasciare il paese. Forse se mi avesse avuto vicino Brian non avrebbe fatto quella fine. O forse sì… Chi lo sa?

E con Keith Richards come erano i rapporti?

Splendidi. Io, lui, Anita e Gram andavamo spesso in giro insieme e ne combinavamo di tutti i colori. 
Keith è uno che anche quando è fuori di testa sa darsi una disciplina. Questo è ciò che mancava a Gram e purtroppo l’ha pagato con la vita. Richards era capace di stare in piedi fino alle quattro a far baldoria e poi di presentarsi in studio alle sette di mattina prima di tutti gli altri, già pronto con la chitarra tra le mani. Ho sempre detto che “Keith avrebbe potuto mangiare chiodi a cena e l’unica cosa che gli sarebbe accaduta il giorno dopo sarebbe stato di pisciare ruggine”. E’ una frase un po’ forte ma rende bene l’idea. Ha una costituzione fisica che sembra fatta di cemento armato. Ecco perché lui è sopravvissuto e tanti altri no.

C’eri anche quando hanno registrato “Let it bleed” o sbaglio?

Si, i Rolling Stones tornarono a Los Angeles nel 1969. Brian Jones era già morto e al suo posto c’era Mick Taylor. Per soggiornare durante il periodo affittai loro la casa di Stephen Stills. Quando gli Stones arrivarono a casa sua, Stephen non voleva più andarsene. Lui e il suo batterista erano fuori come dei balconi. Dovetti letteralmente prenderli per gli stracci e buttarli fuori. Ormai il contratto era firmato e si dovevano cercare un altro posto in cui stare.

Insomma, ti rendi conto? Hai preso a calci un monumento della musica come Stephen Stills?

Beh, se è solo per questo, una sera ho buttato fuori da una limousine persino Jim Morrison. Era ubriaco e stava diventando insopportabile.
Emmylou Harris e Phil Kaufman

So che c’è una storia intorno alla registrazione di “Country Honk” che in qualche modo ti coinvolge? Cosa mi dici in proposito?

Gli Stones mi dissero che per quel brano di “Let it bleed” volevano un autentico violino country. Chiesi consiglio a Gram che mi suggerì di contattare Byron Berline così gli comprai un volo espresso da Oklahoma City a Los Angeles. Quando Byron arrivò agli studi della Elektra sembrava che avesse appena finito di arare un campo. Un vero contadino. Più country di così. Il loro produttore voleva che sembrasse uno di quei violinisti che suonavano per strada così portammo una sedia e qualche microfono in strada e registrammo lì. Per far sembrare il tutto ancora più vero pagai una mia amica perché andasse su e giù per la strada con la sua macchina suonando il clacson. La canzone sembra incisa in strada perché in effetti lo è davvero!

Quando finì la tua storia con negli Stones?

Veramente non è mai finita. Ogni tanto Keith Richards mi chiama ancora al telefono. Diciamo che lasciai dopo la tragica storia del concerto di Altmont in cui un ragazzo venne ucciso dagli Hell’s Angels. Avrei dovuto occuparmi io della sicurezza ma poi loro decisero di affidarsi a quei motociclisti pazzi e sappiamo tutti come è andata a finire. Se solo mi avessero dato retta…

Abbiamo parlato poc’anzi di un mito come Morrison e allora la domanda sorge spontanea. Hai conosciuto anche Janis Joplin e Jimi Hendrix?

Si, lì ho conosciuti entrambi nel periodo in cui seguivo i Flying Burrito Brothers. Si dividevano spesso il cartellone. Hendrix era un amico dei Burritos e ogni tanto suonava con loro. Ci credereste? Jimi Hendrix amico di una country band? Eppure è tutto vero. Quelli erano anni speciali in cui poteva davvero succedere di tutto.
Phil Kaufman e Keith Richards 1996 foto di Fritz Hoffman

In “Road Mangler Deluxe” la tua interessante biografia (per ora uscita solo in inglese n.d.r.) parli anche di Charles Manson. Come e quando vi siete conosciuti e quali erano i vostri rapporti?

Ho conosciuto Charles Manson in prigione. Era il 1967. Io ero dentro per spaccio di droga. O meglio a Hollywood negli anni Sessanta se eri una star e ti trovavano un po’ di marijuana non ti condannavano perché era sufficiente che tu dichiarassi che era per uso personale, se invece eri un anonimo lavoratore del cinema e ti trovavano con un po’ di roba, tu potevi in mille modi ai poliziotti che quella modica quantità era per uso personale: loro non ti avrebbero comunque ascoltato e ti avrebbero spedito dritto in galera. Incontrai Manson nel carcere di Terminal Island, un posto che non aveva nulla da invidiare alla prigione di Alcatraz. Vedevo Charlie nell’ora d’aria. Se ne stava seduto in un angolo a strimpellare la sua chitarra. A insegnargli a suonare era stato un ergastolano che faceva parte di una delle più feroci gang di Los Angeles. E, considerate le circostanze, non suonava neanche tanto male. Le guardie lo prendevano spesso in giro ma lui sembrava vivere in un mondo tutto suo. Era dentro per aver “contraffatto dei documenti”, il che mi faceva abbastanza ridere perché Manson sapeva leggere e scrivere a malapena. Non mi stupiva affatto che lo avessero beccato quasi subito. Poi venni sapere che in realtà aveva cercato di incassare dei vaglia postali rubati. Gli avevano dato dieci anni con la condizionale che si giocò quasi subito finendo presto in gattabuia. Quando lo conobbi io stava finendo di scontarli. A quell’epoca sembrava totalmente inoffensivo. Era un po’ fuori di testa, ma non sembrava pericoloso.

E poi com’è stato che l’hai rivisto dopo essere stato rilasciato?

Devi sapere che alla fine degli anni sessanta anche noi a Los Angeles avevamo un quartiere hippy come Haight Ashbury a San Francisco. Era il quartiere di Topanga Canyon, appena fuori L.A.. 
Lì all’epoca c’era posto per tutti. Le case costavano pochissimo e la vita era molto “easy”. Lì si ritiravano centinaia di ragazzi in fuga da un mondo che sembrava stritolarli; un mondo che tra guerra fredda, il Vietnam e un conflitto nucleare che sembrava poter scoppiare da un momento all’altro; appariva davvero invivibile. A Topanga Canyon sembrava che un altro stile di vita fosse possibile. Lì si faceva festa tutti i giorni, le ragazze erano sempre disponibili e la droga non mancava mai. A noi quello sembrava il Paradiso, anche se forse non lo era. Fui io a cercare Charlie Manson quando nel 1968 uscii di galera. Oggi si parla ancora molto di quello che fece. Fu certamente una tragedia ma secondo me ancora adesso ci sono cose non del tutto chiare. Quando lo rincontrai lui viveva in vecchio bus tutto dipinto di nero circondato da ragazze che lo adoravano e praticamente lo mantenevano. Era una tipica comune hippy con la sola differenza che lui era il solo uomo in mezzo a tante giovani donne. Per qualche giorno, e ne fui molto contento perché ero appena uscito di galera e avevo alcune prevedibili “esigenze”, mi unii anch’io al gruppo apprezzando molto le attenzione e le gentilezze delle ragazze.
Phil Kaufman Gram Parsons e Emmylou Harris 1973

Come ti sembrava Manson all’epoca?

A quell’epoca Charlie sembrava un tipo generoso e piuttosto innocuo. Era diventato persino amico di Dennis Wilson dei Beach Boys che gli promise di fargli incidere un disco. Poi non se ne fece nulla e ricordo che Manson ci rimase molto male. E si arrabbiò tantissimo quando scoprì che i Beach Boys avevano pubblicato una sua canzone modificandone il titolo e aggiustandola qua e là. 
Mi ero anche già accorto di questo suo “talento” nel controllare la mente delle persone manipolando la loro personalità, ma ripeto, non era per nulla violento e mai e poi mai avrei pensato che arrivasse a fare ciò che ha fatto. Parlava continuamente di pace e amore. Come tutti peraltro in quel periodo. L’unica cosa che cominciò a farmi riflettere fu quando scoprii il suo odio viscerale verso i neri. Diceva frasi senza senso contro di loro e forse fu dopo una delle sue farneticazioni razziste che sia io, sia i miei amici cominciammo a insospettirci.

Ci metteste un po’ quindi a capire chi fosse?

Di tipi fuori di testa era piena la California all’epoca. E poi Charlie era sempre il benvenuto a tutte feste. Quando arrivava lui con le sue ragazze e l’acido migliore che ci fosse in giro ogni party prendeva un’altra piega. Insomma ci faceva divertire. Certo un po’ ci facevano impressione queste ragazze che sembravano completamente soggiogate da lui e facevano qualsiasi cosa lui gli ordinasse, ma il fatto che loro stesse prendessero la cosa come se fosse del tutto normale e la gran quantità di droga che ognuno di noi aveva in corpo non ci permettevano di vedere la situazione con la lucidità di cui avremmo avuto bisogno.

Quando finalmente hai realizzato chi in realtà fosse quell’individuo?

Non mi accorsi di chi fosse realmente Charlie Manson finché non cercai di allontanarmi da lui. Io e i miei amici avevamo finalmente capito che c’era qualcosa che non andava in lui e gli dicemmo che non era più gradito alle nostre feste. Charlie la prese malissimo e giurò di vendicarsi molto presto. Mi disse che me l’avrebbe fatta pagare, che mi avrebbe ucciso prima o poi. La maledetta notte che Manson inviò la sua pattuglia di ragazze “disturbate” a massacrare Sharon Tate, secondo me non erano dirette a casa Polanski, ma stavano venendo da me. Mi stavano cercando per farmi la pelle. La mia casa era vicinissima a quella in cui si trovava Sharon Tate. Quella sera ero fuori. Non sono il solo a pensare che quella notte le ragazze non avendomi trovato casa, nella loro insensata follia, decisero di far fuori la Tate e tutti gli altri. Al posto mio. 
Poco dopo il suo arresto, come se niente fosse, ma la pazzia è anche questo, lui cominciò a tempestarmi di telefonate. “Non c’entro niente” mi diceva, piangendo al telefono. Credeteci o no, mi faceva persino pena.
Phil Kaufman sul palco con Frank Zappa

In che senso ti faceva pena?

Diciamo che forse più che farmi pena mi faceva sentire un po’ in colpa. Avevo vissuto con lui per un po’ e adesso come tutti lo abbandonavo. Lo so a pensarci ora non ha senso ma un po’ per sdebitarmi con lui e un po’ perché non lo so nemmeno io, gli organizzai un’intervista con la rivista Rolling Stone in cui spiegò la sua versione dei fatti. Io non credo che lui abbia mai ucciso nessuno personalmente. Forse non ne era nemmeno capace o forse era troppo furbo per farlo personalmente. Quello che è certo è che lui manipolò le menti di quelle ragazze fino a farle diventare delle perfette macchine assassine. Certo mi faceva una certa impressione pensare che avevo fatte sesso con ciascuna di quelle ragazze capaci poi di commettere simili atrocità.

E come fu che diventasti il suo produttore discografico?

Come risarcimento per lo scampato pericolo pensai che dovessi guadagnare qualche soldo da tutta quella faccenda. Forse ero un po’ folle anch’io. Così nel 1971 decisi di far uscire un disco con delle vecchie incisioni di Charlie. Per la cover prendemmo la copertina del numero di LIFE in cui c’era stampato il viso “diabolico” di Manson, con quei suoi occhi da pazzo che sembravano scavarti dentro. Insomma il celebre “sguardo di Satana”. Togliemmo la “effe” di LIFE e lasciammo la scritta così com’era. Adesso ero diventato il produttore di “LIE” il primo e unico disco di Charlie Manson. Forse avrebbero dovuto rinchiudere anche me. Il disco come prevedibile vendette pochissime copie. Nessuna delle persone coinvolte nel progetto volle apparire con il proprio nome e poi quasi subito ci vergognammo tutti dell’operato. Una notte una delle sue “folli ragazze” entrò a casa mia (e per fortuna non c’ero nemmeno quella volta) e si portò via con l’aiuto di qualcuno quasi tutte le tremila copie che avevamo stampato. E andò bene così. Charlie mi scrive ancora oggi. Non spesso ovviamente. E tra mille frasi senza senso si reclama sempre innocente. Peccato che nei suoi occhi di vecchietto ci sia ancora una certa luce sempre un po’ inquietante.
Tu hai lavorato con tantissimi artisti. Puoi darmi una definizione o un ricordo di ciascuno di loro:
Frank Zappa: Ho iniziato a lavorare con lui dopo che il suo road manager si era suicidato a Las Vegas nel 1979 per aver perso tutto al gioco. Ho fatto due tour con lui: uno in Europa e uno negli States. Una persona molto seria e un grande professionista. Quando si lavorava non voleva vedere nessuno fatto o bevuto. L’unica cosa che ammetteva era il caffè che consumava in dosi massicce. Un giorno alle prove della band, per scherzare, mi avvicinai a uno dei microfoni e improvvisai un assolo di trombone fatto con la bocca. Lui dai camerini mi sentì e da quella sera cominciò ad invitarmi sul palco presentandomi come “il trombone umano”. Era una persona profonda, affidabile e con un grande senso dell’umorismo.
Emmylou Harris: Una grande cantante e una persona straordinaria. Diventa ogni giorno più bella. Sembra che il tempo per lei non passi mai. Ci vogliamo molto bene. Un tempo giravo con una maglietta con su scritto: “Chiunque faccia un torto ad Emmylou poi dovrà vedersela con me”.
Willie Nelson: Anche lui è un grande. L’ho conosciuto negli anni ottanta quando lui e Emmylou fecero diversi tour insieme.
Joe Cocker: Uno con cui non è facile lavorare. La moglie mi pagava per tenerlo lontano dall’alcol, cosa quasi impossibile. Era intrattabile e passava tutto il giorno a bere Bacardi e Diet Coke. La Diet Coke per non ingrassare! Poi saliva sul palco e sembrava un’altra persona. Riusciva persino a farsi perdonare. Ray Charles un giorno mi disse che Joe era il suo cantante preferito.
Flying Burrito Brothers: Per me il solo e vero album dei Burrito è “The Guilded Palace of Sin”. Dopo di quello si sono autodistrutti. Se avessero avuto intorno le stesse persone che lavoravano per i miei amici Eagles adesso sarebbero anche loro delle star.
Jimmy Smith: Forse il peggior artista con cui ho dovuto lavorare. Era maleducato e sempre ubriaco. Resta comunque uno dei più grandi organisti di tutti i tempi….
Etta James: Un’artista di grande talento e una vera amica.
Nanci Griffith: Ha un grande fascino sul palco e sa come scrivere canzoni. E’ una cantante favolosa e un’amica sincera.
Marianne Faithfull: La più bella donna nuda che abbia mai visto! Non c’entra nulla con la musica, ma è la verità!

Qualche hanno fa hai combattuto una dura battaglia contro il cancro. Lì hai avuto modo di verificare quali fossero i tuoi veri amici in ambito musicale. Cosa mi dici in proposito?

Nel marzo del 1996 mi hanno diagnosticato un tumore alla prostata. Come molti nell’ambiente della musica anch’io non avevo abbastanza soldi per curarmi al meglio. E fu in quella occasione che i miei amici si dimostrarono davvero tali. L’8 ottobre dello stesso anno Emmylou Harris, Nanci Griffith e tanti altri organizzarono al Ryman Auditorium di Nashville un grande concerto per raccogliere fondi in mio aiuto. Lo chiamarono “Concert for Manglerdesh”. A suonare quella sera oltre a Nanci ed Emmylou con le loro band al gran completo, ci furono Guy Clark, BR-49, Sam Bush, Rodney Crowell, Steve Earle, Vince Gill, John Prine, Buddy Miller, Marty Stuart, Trisha Yearwood e tanti altri. Dalla vendita dei biglietti e del doppio cd (quasi un bootleg) registrato quella sera raccolsi abbastanza denaro per permettermi le migliori cure possibili. Oggi sono guarito. Se sono rinato lo devo tutto ai miei amici musicisti. Non so come avrei fatto senza di loro.

Vorresti ancora essere seppellito nel deserto di Joshua Tree?

A questo punto della mia vita non è più così importante. E poi quella era una cosa tra me e Gram. E lui adesso non c’è più. Qualcuno qualche tempo fa mi ha chiesto: “Se al posto tuo ci fosse stato Gram pensi che lui avrebbe fatto la stessa cosa”? Ho detto loro che se avessero conosciuto Gram come l’ho conosciuto io non avrebbero avuto bisogno di farmi quella domanda…


Per procurarsi il cd:

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Ecco la mia versione di “In my hour of darkness” di Gram Parsons 

Enjoy.