“Asincrono” è il primo album ufficiale di Luigi Mariano, cantautore salentino che può vantare un percorso carico di riconoscimenti incondizionati.
Ho utilizzato come sempre la “formula intervista” per conoscere il pensiero del musicista, e la completezza e l’accuratezza delle risposte non avrebbero bisogno di ulteriore commento, perché il quadro che emerge è davvero esaustivo. Per ulteriori notizie cliccare sul seguente link:
Tredici brani completamente composti da Mariano, tredici situazioni di vita comune trattate con grande sensibilità, mascherate dall’ironia propria di certi personaggi del passato, artisti che probabilmente avevano meno “esigenze musicali”, essendo privilegiata “l’asciutta parola”.
Ma un cantautore, seppur moderno, si porta dietro un obbligo che è quello del messaggio da diffondere. Mariano dichiara di sapersi emozionare anche per musiche senza testo, quelle liriche che però sa creare sin dall’infanzia, come fossero l’esigenza (prematura) di dare sfogo ai disagi che tutti, indistintamente, provano prima o poi. “Asincrono”… parola (titolo di un brano, oltre che dell’album) che svela una situazione conosciuta, ma che non sempre si riesce a tradurre nitidamente. Mi riferisco al “fuori tempo” esistente al nostro interno, quando la carne, lo spirito e la mente non trovano la giusta connessione; ma penso anche a tutto ciò che è più “pubblico”, noi e gli altri, noi e il nostro destino, noi e le miriadi di situazioni che ci capitano nel quotidiano … quanta fatica per trovare l’equilibrio! E quanta delusione quando l’insuccesso non dipende da noi!
Luigi Mariano, attraverso il suo disco, “mi ha raccontato” tutto questo, con la forza del suo mito, Springsteen, con l’ironia del compianto Gaber e con il coraggio di svelare i sentimenti più reconditi.
Ma non è usuale, non è facile, utilizzare “gli altri per raccontare noi stessi”. E’ quanto accade, ad esempio, in “Edoardo”, canzone che, attraverso il dramma degli Agnelli, ci propone il rapporto spigoloso tra Mariano e il padre.
Storie di incomprensioni, del tutto normali; conflitti generazionali e di pensiero. Facile “parlarne con … se stessi”, un impresa raccontarlo al mondo col piglio usato da Mariano.
Un album pieno di episodi, uniti tra loro, ma dal grande significato singolo.
Un album che induce a riflessioni, dolci e amare.
Un album di vita vissuta le cui storie potrebbero provocare un po’ di dolore, ma il grande merito di questo cantastorie moderno è proprio quello di presentare un pensiero profondo confezionandolo col sorriso sulle labbra.
E ora sono molto curioso di sapere cosa può accadere sul palco…
L’INTERVISTA
Dove e come nasce,
musicalmente parlando, Luigi Mariano? Che tipo di percorso ti ha condotto ad
“Asincrono”?
La prima risposta sarà un po’ lunga per la necessità di raccontare
le mie origini.Nasco in Salento un ambiente familiare (fin troppo) tradizionale
e classico-popolare, riguardo agli ascolti musicali. Fino a qualche anno fa la
consapevolezza di questo mi pesava, mi dava fastidio, lo ritenevo causa di un
eccessivo “allungamento temporale” del mio (infatti lento) crescere e nutrirmi
di “cibo musicale” negli anni. Avrei voluto fare meno fatica. In fondo c’è
gente che in fasce, o addirittura in grembo materno, assorbe musica grandiosa,
dal jazz al blues ai cantautori al rock, o comunque musica dei suoi tempi,
quella che poi lo condiziona per il resto della sua vita. Invece mio padre era
(ed è) molto anacronistico, nei suoi ascolti. Nel ’68 aveva 30 anni, eppure
(per quanto riguarda la musica leggera) non ascoltava altro che (stupide)
canzonette d’amore anni ‘30-‘40-’50. Ogni tanto andava in giro a cantare le
serenate a pagamento sotto i balconi, accompagnato da qualche amico che sapeva
suonare la chitarra. Il rock, il progressive, per non parlare dei grandi
cantautori che hanno fatto la storia…. no, non l’hanno mai sfiorato. Amava (e
ama) opera e melodramma. Mia madre per fortuna era ed è un po’ più moderna, più
sul filone cantautorale, anche se sempre di estrazione decisamente popolare e
da radio. Da piccolo ricordo per casa la voce di Battisti, Baglioni, Cocciante,
Dalla, i brani dei quali lei canticchiava mentre rassettava. E ha sempre avuto
un minimo d’attenzione per il testo.
Il germe che dunque m’ha fatto dar vita al mio percorso
personale è più materno e a lei ho dedicato “Asincrono”. Del resto quando ero
adolescente fu mia madre (contro il volere di mio padre) a regalarmi una
tastiera, su cui appresi i primi accordi e su cui iniziai a suonare le prime
canzoni, quelle dei cantautori (Venditti, De Gregori, Bennato, Guccini, Vasco,
Zucchero, De André, Vecchioni, Dalla, Bertoli, Zero). Ascoltando poi gli
arpeggi di Bruce Springsteen in “Nebraska”, imparai a strimpellare la chitarra
acustica e a soffiare dentro un’armonica. Entrai subito a 18 anni, come
tastierista-cantante, in un gruppo del mio paese in Salento, gli “Heaven’s
Door”, chiamati altresì “Proxima”: ci divertivamo con le cover italiane e
straniere, restando sul filone comunque popolare. Ma già iniziavo a scrivere le
mie cose e a cercare la mia strada intima, in modo molto forte. A 19 anni, col
trasferimento dal Salento a Roma, le mie canzoni presero sempre più forma,
cominciarono ad accumularsi a decine e decine. Erano un misto: alcune molto
intimiste, poi sono arrivate quelle più polemiche e d’impegno civile. Infine
quelle ironiche e autoironiche. Per anni le ho registrate di notte, fino
all’alba, in provini molto articolati e anche arrangiati, anche se annaspanti
nei suoni orrendi di una GEM ws2. C’era una passione infinita e certosina, al
di là della qualità audio molto scarsa dei provini.
Ho prima timidamente portato in qualche locale romano le mie
canzoni e poi, dal 2006-2007, ormai consapevole di sapere bene quello che
volevo e quali fossero i brani più efficaci anche dal vivo, ho seriamente
iniziato a progettare nei dettagli sia il mio percorso artistico (come
muovermi, come farmi conoscere, dove suonare) sia soprattutto il mio primo
disco autoprodotto “Asincrono”, scegliendo 13 canzoni che mi rappresentassero a
360 gradi (tra oltre 70 papabili) e registrandole nel 2010 nello studio di
Alberto Lombardi ad Albano Laziale. Il riscontro di critica e di pubblico avuto
col primo disco è stato a dir poco sensazionale ed entusiastico, molto al di là
di ogni più rosea aspettativa. Non me l’aspettavo. Beh, se penso a tutta la
strada fatta da solo, sono onestamente orgoglioso di me.
Il concetto di base che esprimi attraverso “Asincrono”, credo
sia l’impossibilità di cogliere le occasioni nel momento in cui capitano,
arrivando sempre un attimo prima o un attimo dopo all’appuntamento che potrebbe
risultare decisivo . Nel tuo caso, è l’esperienza personale che ti spinge a
dipingere un simile “affresco di vita” o è l’osservazione di ciò che ti
circonda che è condizionante?
Entrambe le cose, in maniera molto forte. Con “Asincrono”
volevo rappresentare il disagio, un tema per la verità piuttosto comune agli
artisti e a tutte le persone sensibili (non solo a me). In particolare mi
riferisco al disagio di sentirsi fuori posto e fuori tempo, sia rispetto al
mondo esterno-circostante (l’andazzo odierno della musica e della cultura, le
persone, la politica, il proprio partner, un genitore e via andando) e sia
rispetto a sé stessi, a ciò che da un lato siamo diventati e dall’altro non
riusciamo a cambiare di noi: una scissione che crea uno sfasamento intimo
davvero spiazzante e dilaniante. Io per esempio vivo quest’asincronia in
particolare nelle differenze di velocità tra mente e corpo. La mente va a
mille, è un vero vulcano anche di energia, ma il corpo non riesce a riprodurre
e a reggere assolutamente i ritmi della mia mente, è un vero pachiderma, una
tartaruga, lo trascino a forza, lui è recalcitrante, fa l’offeso, a volte mi
tradisce, altre si ammala per un nonnulla rischiando di farmi fare figuracce
sul palco, reclama troppo sonno rispetto a ciò che io posso dargli. Un freno,
un vero disastro. Ma imparerò a gestirlo. Sento di avere il motore di una
Ferrari montato su una Fiat 500.
Mi ha colpito la tua osservazione del fragile rapporto tra
Edoardo Agnelli e il padre, uomini “geograficamente lontani da te”. Che cosa ti
ha indotto ad affrontare quella relazione così spinosa?
Torino è lontana da Roma e a maggior ragione dal mio Salento
(anche se finalmente suonerò all’ombra della Mole il prossimo 12 novembre, al
“Folk Club”), ma la geografia è sempre quella dell’anima, mai dell’atlante.
Certe cose arrivano chiare e nitide, anche da lontano.
I pesi emotivi, l’incomunicabilità: io li conosco molto bene.
Il linguaggio delle ferite, del non detto, o dei pesi da sostenere spesso è
universale, non ha barriere né d’età, né di tempo, né di geografia, né di
status sociale. Questa è una risposta indiretta anche a coloro (non come te,
che invece hai curiosità e apertura) che si sono stupiti in negativo della mia
scelta di parlare di un Agnelli e in particolare di Edoardo, un uomo che
qualcuno ha anche definito “pessimo soggetto”.
A me è parso naturale parlarne: i pessimi soggetti hanno
ispirato generazioni di artisti di ogni livello. Io amo scavare dietro le loro
paure e malesseri, stanare il nocciolo profondo del loro dolore. Mi serve per
capire anche parti di me. E’ poi fin troppo evidente che, attraverso la voce di
Edoardo, io volessi parlare a mio padre.
Ho letto del tuo amore per Springsteen. Cosa ti ha dato, in
termini di insegnamento espressivo, la conoscenza musicale del Boss?
Bruce è un mio punto di riferimento assoluto, più di quello
che si immagina, perché non c’entra solo la musica. Per capire di che genere di
uomo si parli e quanto possa trasmettere come valori e come persona a chiunque,
basti leggere “Real World” di Ermanno Labianca: forse si resterà stupefatti.
Altro che bicipiti e bandane anni ‘80. L’insegnamento costante che ricevo da un
simile artista, che è stato compagno costante e involontario di tutto il mio
ventennale percorso artistico, è variegato e multiforme.
Innanzitutto Bruce mi ha insegnato la forza e il coraggio di
salire su un palco. Sì, si parte proprio dall’abc. Tuttora, quando può capitare
di farmela sotto, penso a come lui (anche da solo e senza mai l’uso di alcool o
droghe) affronta il pubblico o un palco e mi do una sonora svegliata. Bruce mi
ha insegnato la dignità, il rispetto per i miei sogni, l’attenzione costante
agli ultimi, la determinazione a perseguire il proprio obiettivo visto come una
missione. In lui ho rivisto la semplicità, l’umanità, l’umiltà di chi è al
contempo molto consapevole della propria autorevolezza e carisma, senza mai
utilizzarli per schiacciare o prevaricare, ma lasciandoli liberi di “contaminare
di forza” tutti coloro che si hanno attorno. Riservato e al contempo
accessibile: lui è così. Quindi si può esserlo, se si vuole. Entrambe le cose.
Riesci a concepire la musica priva di messaggio chiaro… senza
liriche … solo suoni?
Ovviamente sì, arrivo alle lacrime in alcune composizioni di
Morricone, che per me funzionano alla stragrande anche senza immagini o parole.
La musica è un linguaggio universale, emotivo, e lo so bene anche io, che pure
sono un dannato parolaio, uno che scrive parole e parole da quando aveva 5
anni. La musica è davvero una faccenda “di pancia”, inspiegabile, arriva prima
di qualsiasi parola, anche la più diretta. Ho persino scritto anch’io qualche
brano solo strumentale, forse uno lo inserirò in coda al mio prossimo CD, si
chiama “Nella penombra dopo le parole”.
La tua attività appare intensa e gratificante, ma… cosa
occorre fare, oggigiorno in Italia, per vivere di sola musica?
Farsi il mazzo, sicuramente. Io me lo faccio da molti anni
(attualmente, e per pura necessità, mi occupo di ogni aspetto del mio progetto,
e solo con piccoli aiuti esterni): le soddisfazioni stanno finalmente arrivando
a catena, specie dopo questo fortunato CD, ma per riuscire a vivere in modo
dignitoso di musica ancora ce ne corre. Avrei ormai necessità impellenti di un
vero staff attorno, di un’agenzia di booking, di un promoter, perché le cose
stanno diventando più grandi e gestirle da solo sta diventando impossibile. Io
credo che se, umiliando ciò che si è veramente, si volesse seguire con furbizia
solo ciò che vuole il mercato o la moda, beh campare di musica in fondo sarebbe
piuttosto facile, per chi abbia un “minimo sindacale” di attitudine musicale o
di fiuto: basta mettere su una cover band (oggi vanno molto quelle di Liga,
Vasco e Rino Gaetano oppure agghindare i soliti classici standard evergreen
jazz-blues-country) e si lavora a rotta di collo, ovunque. Anche i pianobar
estivi non scherzano. Fare musica propria è l’atto più coraggioso e
rivoluzionario che esista, certo il più ambizioso e vero. I cantautori
emergenti poi, al giorno d’oggi, sono per me delle figure quasi eroiche,
leggendarie, dei don Chisciotte che non si arrendono. Forse alla fine qualcuno
ce la fa. Uno su mille. E’ un’epoca televisiva, che spero passerà, di massacro
generale della cultura. Ma per me la musica è altro, è un veicolo per dire
delle cose, come per la letteratura o la poesia o la pittura. Diceva Victor
Jara: “Io non canto per cantare, né per
avere una bella voce: canto per la chitarra, che ha ragione e sentimento”.
Ragione (testa, pensiero, inventiva, idee, creatività, personalità,
originalità, spinta sociale, desiderio di cambiare le cose) e sentimento
(emozione, commozione, ribellione, rabbia, dolcezza, amore, amicizia, legame
con le radici, senso o meno d’appartenenza a qualcosa).
Per questo canto anch’io. Il karaoke lo lasciamo ad altri.
Qual è la tua idea dell’attuale business che regola il
circuito musicale?
E’ devastante e deprimente. Questo business, un po’ affossato
dalla crisi discografica, in parte (bisogna ammetterlo) derivata da internet,
segue lo scempio e l’immondezzaio TV, caratterizzato da omicidi volontari e
quotidiani della musica e da un’umiliazione quasi costante dei cantautori a
favore degli “interpreti dal bel canto”, che poi a catena dovrebbero dar lavoro
a squadre di autori. Questi interpreti sono tutti uguali, cantano tutti nello
stesso modo. E’ un business del tutto prono alla TV, perché paradossalmente
appare ora l’unica ancora di salvezza agli occhi di questi discografici in crisi
perenne, presenti come giurati a disquisire, in modo alquanto imbarazzato e
imbarazzante, di questo o di quel “partecipante al talent”, quando negli anni
precedenti (in cui la TV dettava meno legge e la crisi era meno forte)
maneggiavano ben altra qualità artistica tra le mani, nei loro uffici. Vedere
anche fior di giornalisti costretti (dalle circostanze oggettive imperanti) a
disquisire intorno ai talent-show è lo specchio dei tempi. Sono d’accordo che
non bisogna snobbare e che occorre vivere il proprio presente con estrema
consapevolezza, entrarci a fondo e avere una visione matura dei fenomeni del
proprio “oggi”, ma qua il ragionamento regge fino a un certo punto: il dato
evidente, che nessuno può negare, è che la TV ha trasformato (a pioggia) l’odierna
musica popolare in un contenitore senza contenuto, spolpandola del suo valore
culturale. E’ un dato di fatto o no? Invece per me la musica popolare deve
sempre tendere verso la cultura e deve ribellarsi a quest’andazzo voluto dal
piccolo schermo, che costruisce spettacoli televisivi e non musica.
Che cosa toglie e che cosa dà internet a un musicista?
A me ha dato tantissimo. Bisogna però saperlo usare, per i
propri scopi. Può servire a bypassare, almeno all’inizio, tanti aspetti del
“lavoro sporco”, dalla promozione ai contatti con l’ambiente. Ci si fa
conoscere perché si arriva prima, in modo diretto e immediato (mail, social
network, siti personali) sia agli addetti ai lavori che addirittura a buona
parte del potenziale pubblico. Per partire, può ormai essere una straordinaria
opportunità. Poi ovviamente serve altro.
L’aspetto negativo riguarda il non saper gestire il mezzo, il
farsene risucchiare, il perdere tempo inutile o l’illusione di essere arrivati
da qualche parte per il solo fatto di essere molto presenti sul web. Bisogna
muoversi con intelligenza e aprire gli occhi.
Un cantautore che scrive testi d’amore è spesso collegato a
“musica facile”. Un cantautore che denuncia i problemi sociali è spesso
considerato “troppo negativo”. Qual è secondo te la giusta dimensione del
“cantastorie”? Quali le differenze da Guccini ad oggi?
Sono visioni credo soggettive, che hanno a che fare coi gusti
personali. Spesso in musica si azzardano di continuo discussioni apparentemente
oggettive (l’ho fatto anch’io, prima), ma di fatto resta poi una questione di
gusti.
C’è ad esempio chi pensa che si possa riprodurre
pedissequamente quel tipo di modello-cantastorie alla Guccini anche oggi, come
c’è chi (e io sono più per questa seconda ipotesi) pensa alla necessità del
cantautorato di svecchiarsi e di fare cose molto più moderne, come poi tentano
di fare da anni Silvestri o Gazzè o Caparezza.
La mia idea, che rispecchia tra l’altro il mio desiderio di
vedere fuse la musica più popolare con la cultura, è appunto quella di tentare
di scrivere testi interessanti o intelligenti o di sostanza o con messaggi
precisi e importanti, inseriti in un humus musicale poco stantio, possibilmente
vivace, fresco, accattivante, di sicuro variegato, e quando possibile (perché
no) anche popolare. Non ho mai amato la nicchia come vanto, come fenomeno da
perpetuare o come stile di vita, della serie “sono orgoglioso di essere e
restare nella nicchia”: no, non sopporto l’autoreferenzialità di certi ambienti
di nicchia, le loro chiusure a riccio, il loro sentirsi “superiori” a
prescindere, la loro paura di contaminarsi, il loro cantarsela e suonarsela da
soli. Io vorrei portare le mie canzoni a più gente possibile in grado di
apprezzarla. Detesto gli snobismi esattamente nello stesso modo in cui detesto
il massacro culturale della musica che va in onda in TV. Non c’è contraddizione,
nel mio pensiero: sono due eccessi che non fanno bene alla musica. O la
ammazzano o la mandano in cancrena.
Quale sarà l’evoluzione di “Asincrono” e quali i tuoi
progetti per l’immediato futuro?
Ho tantissime canzoni
già pronte per il prossimo disco e credo altre ne scriverò a riguardo. Ma ora
non ci penso affatto. So che alcuni miei amici cantautori non gestiscono bene
l’insofferenza (capita anche a me, sia chiaro) verso il “già suonato” e pensano
di continuo a cose nuove da scrivere o da pubblicare, per portarle in giro e
rinfrescare il repertorio e gli entusiasmi. Io so tenere a freno queste smanie,
quando le giudico eccessive, premature e impulsive. Pianifico con calma,
pensando a ciò che ancora non ho fatto. Per un altro paio d’anni, almeno fino
al 2013, credo che mi dedicherò ancora a portare in giro “Asincrono” il più
possibile, specie in luoghi in cui non sono mai stato (e sono tanti). Ogni
volta è una scoperta. E per quelle persone io sono ogni volta una novità,
quindi come posso annoiarmi a farlo? Per me è vita ogni sera. A Torino ci andrò
in autunno, ma mi aspettano ancora a Napoli, a Milano, in Friuli, nelle Marche,
in Trentino, in Calabria, nelle isole. Le lancette dell’orologio di “Asincrono”
hanno ancora un bel po’ da girare prima di fermarsi.