giovedì 31 luglio 2025

Jon Anderson ha ricordato il suo concerto "particolare" con Keith Emerson, nel 1969!


L'ex cantante degli Yes, Jon Anderson ha ricordato la volta in cui suonò in uno spettacolo a base di alcol con Keith Emerson, durante un tour in Irlanda nel 1969


Parlando in una nuova intervista con Eamon O'Neill di Eon Music, Jon Anderson ha ricordato il periodo in cui era in tour in Irlanda come membro degli Yes, nel 1969, insieme a Keith Emerson - all’epoca nei The Nice - e alla The Bonzo Dog Doo-Dah Band.

"Beh, amavamo Dublino, ovviamente. Amavamo l'Irlanda", dice Anderson. "Mia madre era irlandese, e quindi ce l'ho nel sangue.

Ricordo molto chiaramente quell’occasione perché abbiamo guidato da Dublino a Cork, e ci siamo fermati in ogni pub lungo la strada, come puoi immaginare! A quel tempo eravamo in tour con i Nice, che erano la band di Keith Emerson, e la Bonzo Dog Doo-Dah Band. Quando siamo arrivati a Cork, abbiamo cercato e trovato il luogo del concerto, una specie di campo sportivo con il palco rivolto verso la tribuna. L'abbiamo guardato e ci siamo resi subito conto che c'era solo una presa elettrica! Così, siamo andati nel pub Abattoir e abbiamo iniziato a bere. Beh, non potevamo davvero suonare con una sola presa, ne avremmo avuto bisogno almeno di una dozzina per l'attrezzatura, e allora abbiamo pensato che forse non avremmo dovuto suonare sul palco e iniziammo nel pub, con Keith Emerson al pianoforte. Cantavamo canzoni stupide e bevevamo, e molti fan che avevano comprato i biglietti erano entrati nel locale. Alcuni si infastidirono un po’, quindi dicemmo loro che avremmo iniziato il concerto nel pub.

L’ambiente iniziò a diventare un po’… turbolento, e il nostro manager dell'epoca ci disse di sgattaiolare fuori di nascosto, perché c’erano altre cinquanta persone fuori che volevano entrare. Proprio in quel momento, il ragazzo dietro il bar, proprietario del pub, suonò il campanello attirando l’attenzione di tutti i presenti, indicando la piccola Tv posta nell’angolo, che in quel momento testimoniava lo sbarco sulla luna! E mentre tutti guardavano l’evento eccezionale, il manager ci fece uscire di nascosto dal retro, così salimmo sul pullman, arrivammo all'aeroporto locale e volammo a Londra!"





 

Nel ricordo di Erik Brann

 


Il 31 luglio 2003 ci lasciava Erik Brann, chitarrista statunitense la cui notorietà è indissolubilmente legata agli Iron Butterfly, importante gruppo hard rock psichedelico. A ventidue anni dalla sua scomparsa, lo ricordiamo ripercorrendo la sua carriera e il suo impatto sulla musica.

Nato a Boston l'11 agosto 1950, Brann mostrò fin da giovane un talento musicale, dedicandosi inizialmente al violino prima di trovare la sua vera vocazione nella chitarra. Nel 1967, a soli diciassette anni, il giovane Erik si unì agli Iron Butterfly, segnando l'inizio di una collaborazione che avrebbe lasciato un segno profondo nella storia del rock.

L'esordio discografico di Brann avvenne nel 1968 con l'album In-A-Gadda-Da-Vida. Questo lavoro non solo rappresentò il maggiore successo commerciale della band, ma divenne anche una pietra miliare del rock psichedelico, grazie soprattutto alla leggendaria title track, un'epopea di oltre 17 minuti che metteva in risalto le innovative capacità chitarristiche di Brann. Erik contribuì anche alla scrittura di una traccia dell'album, "Termination", insieme al bassista Lee Dorman, dimostrando fin da subito il suo talento compositivo.

Dopo aver lasciato gli Iron Butterfly nel 1970, Brann tornò nella band nel 1974, in occasione della sua rifondazione. Durante questo periodo, incise due album, Scorching Beauty (1974) e Sun and Steel (1975), nei quali assunse anche il ruolo di cantante principale, dimostrando la sua versatilità artistica. La band si sciolse nuovamente nel 1975, per poi riunirsi brevemente nel 1978 con una nuova formazione, l'ultima in cui Brann suonò prima di ritirarsi quasi completamente dalle scene musicali.

Nel luglio del 2003, mentre stava pianificando un atteso ritorno sulla scena musicale con un album solista, Brann ci ha lasciati a causa di un infarto miocardico all'età di 52 anni. La sua scomparsa ha privato il mondo della musica di un talento unico e innovativo, un chitarrista che con la sua visione e il suo stile ha contribuito a definire il suono di un'epoca.






mercoledì 30 luglio 2025

Creedence Clearwater Revival: suoni paludosi dal cuore della California

 


Dalle nebbie della Bay Area californiana, in un'epoca di fermento sociale e cambiamenti musicali radicali, emerse un gruppo che avrebbe catturato l'essenza dell'America rurale con un suono blues-rock viscerale e diretto: i Creedence Clearwater Revival, o semplicemente CCR. La loro storia è un racconto di fratellanza, talento grezzo e un'esplosione di successi che, seppur breve, lasciò un'impronta indelebile nel panorama musicale mondiale.

Le radici dei CCR affondano nell'amicizia d'infanzia tra i fratelli John e Tom Fogerty e i loro amici Stu Cook e Doug Clifford nella città operaia di El Cerrito, in California. Negli anni '50, influenzati dal rock and roll nascente, formarono una serie di band, tra cui i Blue Velvets, che pubblicarono alcuni singoli senza grande successo.

Fu all'inizio del 1968, sotto la guida dell'etichetta Fantasy Records, che la band trovò la sua vera voce e il suo nome definitivo: Creedence Clearwater Revival. Il nome era un amalgama di "Creedence", il nome di un amico di Tom Fogerty, "Clearwater", ispirato a una birra locale, e "Revival", che simboleggiava la loro rinascita musicale.

Sotto la leadership creativa di John Fogerty, che si affermò come cantante, chitarrista e principale autore delle canzoni, i CCR svilupparono un suono unico e inconfondibile. La loro musica era un mix potente di blues, rock and roll e country, caratterizzato dalla voce roca e distintiva di Fogerty, dai riff di chitarra taglienti e dal ritmo incalzante della sezione ritmica di Cook e Clifford.

Il 1968 fu l'anno della loro esplosione sulla scena musicale con l'album omonimo Creedence Clearwater Revival, che conteneva la loro prima hit significativa, "Susie Q", una cover di un classico rockabilly che scalò le classifiche. Questo fu solo l'inizio di una straordinaria serie di successi che avrebbero dominato le onde radio e le classifiche di tutto il mondo per i successivi tre anni.

Il 1969 fu un anno d'oro per i CCR, con la pubblicazione di ben tre album di successo: Bayou Country, che conteneva l'iconica "Born on the Bayou" e la potente "Proud Mary"; Green River, con la title track atmosferica e la vivace "Bad Moon Rising"; e Willy and the Poor Boys, che includeva inni come "Down on the Corner" e la toccante "Fortunate Son", un commento sulla disparità sociale e la guerra del Vietnam.

Le canzoni dei CCR catturavano lo spirito dell'epoca, affrontando temi di classe, guerra, ambiente e la vita nell'America rurale con una sincerità e una potenza rare. La voce appassionata di John Fogerty e la semplicità diretta dei loro arrangiamenti rendevano la loro musica accessibile e profondamente risonante con il pubblico.

La band divenne una presenza fissa nei festival musicali più importanti, tra cui Woodstock nel 1969, anche se la loro performance non fu inclusa nel film e nell'album originali, un fatto che John Fogerty ha spesso ricordato con amarezza.

Nonostante il loro enorme successo commerciale e di critica, le tensioni interne iniziarono a serpeggiare all'interno del gruppo. Tom Fogerty si sentiva messo in ombra dal ruolo dominante del fratello John e lasciò la band nel 1971. I rimanenti tre membri continuarono come trio, pubblicando gli album Pendulum (1970), che conteneva successi come "Have You Ever Seen the Rain?" e "Hey Tonight", e Mardi Gras (1972), che vide i tre membri cimentarsi nella scrittura e nel canto, un esperimento che non fu accolto positivamente dalla critica e che contribuì alla definitiva rottura della band alla fine del 1972.

Nonostante la loro carriera relativamente breve, l'impatto dei Creedence Clearwater Revival sulla musica rock è stato profondo e duraturo. Le loro canzoni sono diventate parte integrante del tessuto sonoro americano, continuando a essere trasmesse alla radio, utilizzate in film e serie televisive e apprezzate da nuove generazioni di ascoltatori.

La voce inconfondibile di John Fogerty, i riff di chitarra memorabili e le storie evocative delle loro canzoni hanno creato un catalogo musicale senza tempo che celebra le radici del rock and roll e cattura lo spirito di un'epoca. I CCR furono un fulmine a ciel sereno nella storia della musica, un'esplosione di talento che, seppur breve, illuminò il panorama musicale con suoni paludosi che risuonano ancora oggi dal cuore della California.








martedì 29 luglio 2025

Nel ricordo di Paolo Giaccio


Il 29 luglio del 2019 ci lasciava Paolo Giaccio, uno dei "pionieri" della radio, divulgatore di buona musica, giornalista, autore e molto altro.
Allego ricordo di Carlo Massarini ed altri presi in rete...


Paolo Giaccio è stato un giornalista musicale, autore e dirigente televisivo, per decenni infaticabile aggregatore di talenti. Ha debuttato, alla radio nella redazione di «Per Voi Giovani» alla fine degli anni Sessanta contribuendo allinnovazione della radiofonia italiana. Fra le sue «creature» più importanti il settimanale «TV Odeon» con Brando Giordani e soprattutto il programma Cult «Mister Fantasy»



Di Carlo Massarini

Canzone per un amico.

Come e cosa si scrive di una persona che ti ha cambiato la vita?
Perché Paolo Giaccio è stato la persona che ha inciso di più nella mia vita professionale, e quello che abbiamo fatto insieme rimane, senza false modestie, nella storia della radio-televisione italiana.
E’ partito tutto, un po’ per gioco un pò sul serio, da un negozio di vinile. Come High-Fidelity, come si usava conoscersi, studiarsi e frequentarsi in quegli anni in cui gli Lp che portavi sotto il braccio erano la tua carta d’identità. E quindi, il tuo biglietto da visita per ‘entrare’ (dovunque fosse l’ingresso), o essere lasciati fuori, a cercare un altro gruppo, con altri gusti. A Roma era Consorti, e su quell’angolo di Via Giulio Cesare sono sfilati molti di quelli che adesso fanno - nei modi più diversi - il mestiere del comunicatore, o del discografico. Lui era più grande (2 anni a quell’età fanno la differenza, tanto più se, come Paolo, sei nato già grande), e ha aperto la pista. Era una pista da scoprire, tracciare, non c’erano precedenti, non c’erano istruzioni. La via al rock in Italia. All’inizio Per Voi Giovani, ereditata da Renzo Arbore, in coppia con Mario Fegiz. Era il 1970, e l’Italia viveva uno strano post-68, che sarebbe presto deragliato in guerriglie e guerra. Intanto, c’erano scuole e fabbriche occupate, fermenti giovanili e bollenti, voglia di cambiamento. PVG si collegava con i luoghi, faceva sentire le voci, risvegliava coscienze. Troppo. Per volere del Ministro dell’Istruzione di allora Paolo fu esiliato a Londra (che nel 1971 era un bell’esilio, oggettivamente), e al suo posto entrai io. Ero quello che ‘sapeva bene l’inglese’, che mi era già valso un ruolo di traduttore dei testi, perché, giustamente, sosteneva che per farle arrivare in tutta la loro forza le canzoni di Dylan, Cohen, Stones e Zappa e tutti gli altri le parole andavano comprese, godute. Come quelle di una nuova generazione di cantautori italiani.
Non c’era Internet, gli Lp e i 45 giri venivano pubblicati in Italia con ritardo imprevedibile (anche mesi, ‘Mr Fantasy’ uscì a dicembre ’67 e lo comprai a marzo ‘68…), a volte mai. Non c’erano programmi alla radio, né alla tv, poche finestre non specializzate in cui potevi magari beccarti qualcosa di clamoroso, ma per caso. Il rock non era di massa, i ragazzi non potevano sapere cosa uscisse in GB e USA, quando sentivano per la prima volta Traffic, o Pink Floyd, o Genesis e Van der Graaf sgranavano occhi, spalancavano le orecchie e ringraziavano di avergli fatto conoscere musica che nemmeno immaginavano esistesse. Si trasmettevano gli album per intero. Gli Spotify kids non capiranno come fosse possibile, se guardo indietro sembra davvero una favola di qualche secolo fa.
A metterla in onda c’era un gruppo variopinto di pionieristici dj molto diversi di testa e di gusti: Massimo Villa, Michelangelo Romano, Raffele Cascone, Richard Benson, Dario Salvatori, Gianluca Luzi, Claudio Rocchi, due ragazze -opposte anche loro- Fiorella Gentile e Maria Laura Giulietti, e lo stesso gruppo, sempre mutevole per via della contrattualistica RAI, scese anche la notte e a Popoff (beh, notte, 21.30, ma dopo c’era il Bollettino dei Naviganti e la filodiffusione…). Paolo era un fratello maggiore, suggeriva, faceva da cuscinetto con i dirigenti, stimolava, e apprezzava le stranezze – anche se la sua bibbia era Neil Young, ognuno di noi ha una stella polare.
Finito il decennio della radio, Paolo entrò come funzionario a RAI1 sotto la guida del grande Brando Giordani, direttore che - come Paolo Valmarana a Raio Uno- lasciava fare ‘ai ragazzi’, pensando che qualcosa di buono ne sarebbe uscito. Più che buono, direi. Epocale. L’intuizione di Paolo di raggruppare in un programma quello che da qualche anno, ma come materiale promozionale, era usato a volte negli intervalli al posto delle pecore, e di farlo in un contesto televisivo nuovo, è la grande idea di Mister Fantasy, il primo programma al mondo (prima di MTV) sui videoclip. L’epopea di MrF fa parte dell’immaginario collettivo di una generazione: centinaia di video trasmessi, tanti artisti lanciati e tanti altri già affermati ripresi in modo nuovo, la grafica -straordinaria- di Mario Convertino. Vicinanza ai movimenti artistici milanesi (l’architettura dello Studio Memphis, con Sottsass e Mendini), aperture sul mondo del video-teatro, video-moda, video-design. Puntate in studio, a casa, sui tram, all’estero, nei locali. Le video-lettere, peccato non averle tenute, racconterebbero molto di quegli anni, e dei ragazzi che li abitavano, ‘fra il TG della notte e l’alba’. Video era la parola chiave degli anni ‘80, in cui la musica stava cambiando ancora, con l’ingresso delle strumentazioni digitali. Una tv nuova, diversa, piena di intuizioni, di contaminazioni, internazionale di gusto e di intenti. Paolo era uno che amava vivere, circondarsi di gente, conoscere di tutto, era uno degli uomini più curiosi che ho conosciuto. Sapeva cogliere le novità nell’aria - se cercavi una nuova tecnologia, potevi essere sicuro di trovarla da lui - e trasformarle in spunti televisivi, o di vita. La locanda Solferino a Milano era una base operativa, un porto di mare, in fondo una replica della sua casa, dove ogni cena, o festa, era un punto interrogativo: chi ci sarà stasera?, e puoi giurare che gente con cui discutere, o abbracciarsi, o interrogarsi, o rivedersi dopo 20 anni ce n’era sempre. Era questa la sua genialità: mischiare, divertirsi a farlo e vedere cosa ne veniva fuori. Sempre con una gentile e invisibile regia, mettendo sempre a proprio agio, perché se si è signori e se ami la vita non puoi usare le persone, ma aiutarle a costruire qualcosa di diverso.
Il diverso, il nuovo, è stato sempre il motore. Come quella notte di febbraio 95, una telefonata dal nulla per dire “ti chiamerà Renato Parascandolo (un altro del gruppo di PVG, Nagra in spalla e interviste politiche, poi direttore di Rai Educational), ti proporrà un programma piccolo. Ma tu accetta, perché è il futuro”. Era Media/Mente, era Internet, era davvero il futuro. Io non lo sapevo, lui sì. O come quando mi chiamò, da vicedirettore di Rai5, e nel tempo, in direzione ostinata e contraria, siamo riusciti a riportare in onda un magazine di musica, Ghiaccio Bollente. La musica. Ci ha legato l’ossessione di fare qualcosa di qualità in quel campo così importante per noi e così ignorato in tv. Lo strumento di comunicazione e condivisione più importante dei nostri tempi, una fonte inesauribile di emozioni, e non un programma. Sapevamo che c’erano storie da raccontare, narrazioni da mozzare il fiato e far salire i lucciconi, e si faceva fatica ad avere uno spazio, persino di notte. Strano mondo. Ma forse era la nostra visione a essere ormai ‘contraria’. Voler raccontare le storie, e la storia, scendere in profondità, quando tutto è così rapido, superficiale, fatto al volo e al volo dimenticato. Questo è uno dei motivi per cui Paolo mancherà non solo a me e a quel gruppone di amici costruito nel tempo, ma -anche se non lo sanno- a tante altre persone.
Negli ultimi anni ci sono stati pezzi della mia generazione che ci hanno lasciato, creando un vuoto impossibile da colmare, e delle memorie meravigliose e irripetibili. Lasciandoci ‘helpless’, piccoli e impotenti di fronte allo scorrere della vita. Questo è il più grande di tutti.
Ciao Paolo, grazie di 50 anni di amicizia, e dovunque tu sia, long may you run.

                       

     PROGRAMMI RADIO TV DEGLI ANNI 60-70-POPOFF


Il titolo era ovviamente un gioco di parole, pop-off, ovvero oltre la musica pop, fuori dalla musica pop, ma ricordava anche il nome dello scienziato russo Alexsander Popov, studioso delle microonde poi usate per la tecnologia radio (insomma, una sorta di rivale di Marconi) e suonava comunque come una parola russa (erano di pochi anni prima il Dot tor Zivago e il successo italiano del "kasachock").

Il programma è andato in onda dal 22 ottobre 1973 al 2 ottobre 1976, nel nuovo spazio serale dalle 21 e 30 alle 22 e 30, per sei giorni la settimana (domenica esclusa) sul secondo canale di Radio RAI (allora Secondo Programma). Per diversi anni seguiva il programma musicale di grande successo Supersonic, di taglio più commerciale, costituendone una sorta di integrazione con generi meno noti al grande pubblico. La collocazione era una novità per la Rai, che apriva così una nuova fascia serale, sinora non dedicata a questo genere di programmi. Costituendo così anche una anticipazione della fascia serale che poi sarà ampiamente utilizzata dalle radio libere che sarebbero arrivate 3-4 anni dopo.
Curatore della trasmissione era Paolo Giaccio, poi Paolo Grazzini, conduttori molti degli stessi presentatori della edizione pomeridiana di Per voi giovani, che alla sera potevano proporre musica meno condizionata dalle esigenze della fruibilità e dai ritmi derivanti dalla collocazione in una fascia oraria molto frequentata. Al microfono quindi buona parte del giro di Per voi giovani, a partire da Carlo Massarini, che iniziava le trasmissioni annunciando: "Popoff, un'ora di sana e solida musica rock!" e dal popolare Raffaele Cascone con la sua idea, condivisa con Massarini, di "rock del Mediterraneo".
Potevano essere proposti oltre al rock, brani di jazz, soprattutto del più attuale jazz-rock, oppure progressive di durata inconsueta (pur se anche a Per voi giovani non esistevano vincoli di durata così stringenti come ora), oppure folk con contaminazioni varie, più raramente hard-rock e metal. Era anche possibile, nella dimensione più rilassata e riflessiva della sera, recuperare la musica del recentissimo e fecondo passato, che non aveva fatto in tempo a raggiungere il pubblico italiano.
I primi conduttori sono stati Fiorella Gentile, Massimo Villa, Carlo Massarini, Maria Laura Giulietti, Dario Salvatori, Michelangelo Romano, che il martedì presentava i cantautori italiani e si alternava con Gianluca Luzi. In seguito si sono aggiunti Nicola Muccillo, Raffaele Cascone.
Non c'erano vere e proprie sigle di apertura e chiusura, e cambiavano anche con i conduttori, una sigla di chiusura del programma spesso utilizzata è stata Aegian sea degli Aphrodite's Child.
A fine '76 il programma venne cancellato, per essere sostituito all'inizio dell'anno successivo da un programma di impostazione simile, chiamato Radio 2: 21 e 29. Dei conduttori precedenti rimase il solo Massarini (che abbandonò prima della fine di questo ciclo per contrasti con la produzione), assieme a Fabio Santini, Peppe Videtti, Rossella Lefevre, Sabina Fabi.


(nella foto P. Giaccio, a sin. con gli occhiali, insieme a R. Cascone e Chiara Forzano)

Addio a Paolo Giaccio.
Conduttore radiofonico di Per Voi Giovani negli anni '70 insieme a Raffaele Cascone, Carlo Massarini, Claudio Rocchi, Mario Luzzato Fegiz.
Pionieri in Rai della musica alternativa (così era denominata a quel tempo la musica pop e rock per distinguerla da quella commerciale) e della controcultura giovanile.
Per Voi Giovani e Pop Off furono le trasmissioni radiofoniche che fecero da colonna sonora alla mia gioventù e a quella di tanti altri di quella generazione.


Lutto nel mondo della musica: ci lascia Livio Macchia, pilastro dei Camaleonti



Il panorama musicale italiano è in lutto per la dipartita di Livio Macchia, figura emblematica e co-fondatore de I Camaleonti. Si è spento all'età di 83 anni a Melendugno, in provincia di Lecce, luogo che aveva scelto come sua dimora negli ultimi anni, in virtù del profondo legame con la sua terra d'origine. Con la sua scomparsa, salutiamo un testimone di un'era d'oro, quella del beat italiano degli anni '60 e '70.

Nato ad Acquaviva delle Fonti nel 1941, in una famiglia con una spiccata vena musicale, Livio Macchia fu l'unico a intraprendere con determinazione la carriera professionale, spinto dall'ammirazione per Elvis Presley. Fu nei primi anni Sessanta, a Milano, che prese vita il progetto de I Camaleonti, con Macchia al basso, affiancato da Paolo De Ceglie e Riki Maiocchi. Il nome della band, evocativo e distintivo, fu scelto per la loro notevole capacità di adattarsi con disinvoltura a una vasta gamma di generi musicali durante le loro esibizioni dal vivo.

La svolta arrivò nel 1965, con la firma di un contratto discografico con la Kansas, un'etichetta affiliata al celebre Clan Celentano. Questo segnò l'inizio di una serie ininterrotta di successi. Brani iconici come "Sha la la la la" e "Portami tante rose" aprirono la strada a un'ascesa fulminea. Il 1968 si rivelò un anno trionfale, con l'esplosione di "L'ora dell'amore" (che vendette 1.600.000 copie) e "Applausi" (con 900.000 copie), entrambe capaci di conquistare la vetta delle classifiche. A questi seguirono altri grandi successi, tra cui "Mamma mia" (firmata da due giganti come Mogol e Lucio Battisti), "Viso d'angelo" ed "Eternità" (presentata al Festival di Sanremo in duetto con Ornella Vanoni). Livio Macchia rimase una colonna portante della formazione, lavorando al fianco di Tonino Cripezzi.

Macchia ha sempre coltivato relazioni significative con figure di spicco della musica italiana. È noto, ad esempio, che Lucio Battisti gli "regalò" la melodia per la canzone "Mamma mia". Le sue collaborazioni si estesero anche ad Adriano Celentano e, agli albori della band, annoverò persino Teo Teocoli tra i membri del gruppo.

Nonostante la sua carriera si sia sviluppata principalmente a Milano, Macchia non recise mai il legame con le sue tradizioni pugliesi. La scelta di Melendugno come dimora negli ultimi anni della sua vita ne è la prova. Qui, nel giugno 2024, aveva celebrato i 60 anni di carriera de I Camaleonti con un memorabile concerto a Roca Nuova.

I numeri che caratterizzano la carriera de I Camaleonti sono a dir poco impressionanti: oltre 30 milioni di dischi venduti, 17 album, innumerevoli singoli di successo e prestigiosi riconoscimenti, tra cui dischi d'oro e l'Ambrogino d'Oro.

Durante il periodo del lockdown aveva pubblicato un album e nel 2024 aveva lanciato il singolo "Dolce Armonia". Con la sua dipartita, che segue quelle di Cripezzi, De Ceglie e Brunetti, si chiude un capitolo cruciale nella storia della musica italiana.

I Camaleonti si affermarono come uno dei gruppi più importanti e influenti del movimento beat, le cui melodie continuano a toccare il cuore di intere generazioni, proprio come amava affermare Macchia: "Noi siamo i capostipiti." Il suo amore sconfinato per la musica e le sue profonde radici pugliesi resteranno indelebili nella memoria di tutti coloro che lo hanno conosciuto e apprezzato.






lunedì 28 luglio 2025

"The Battle of Evermore": un capolavoro epico e misticheggiante dei Led Zeppelin


 Un'odissea acustica nell'epica dei Led Zeppelin: quando mandolino e voci incantate creano un capolavoro intramontabile


Tra le gemme più singolari e affascinanti del quarto album omonimo dei Led Zeppelin (spesso chiamato informalmente "Led Zeppelin IV"), brilla "The Battle of Evermore". Questa traccia, un'odissea folk-rock intrisa di misticismo e narrazione epica, si distingue non solo per la sua atipicità strumentale, ma anche per la sua capacità di trasportare l'ascoltatore in un paesaggio sonoro e lirico ispirato a miti, leggende e visioni quasi tolkeniane.

Ciò che rende immediatamente riconoscibile "The Battle of Evermore" è la sua strumentazione. Lontana dalle sonorità hard rock e blues che caratterizzano gran parte del repertorio dei Led Zeppelin, questa canzone è dominata dall'intreccio ipnotico del mandolino di Jimmy Page e della chitarra acustica a 12 corde di John Paul Jones. È una scelta insolita e brillante, che conferisce al brano un'atmosfera eterea e medievale, quasi un'eco di antiche ballate celtiche o brani folk britannici. L'abilità di Page nel maneggiare il mandolino, strumento raramente associato al rock più potente, dimostra la sua versatilità e la sua profonda conoscenza delle radici folk e blues. Jones, con la sua maestria, fornisce una base armonica ricca e complessa, che si fonde perfettamente con la melodia del mandolino, creando un tappeto sonoro intimo e suggestivo.

Un altro elemento distintivo e cruciale di "The Battle of Evermore" è la presenza di un duetto vocale. Accanto alla voce inconfondibile di Robert Plant, che narra la storia con il suo timbro evocativo, troviamo quella di Sandy Denny, la leggendaria cantante dei Fairport Convention, uno dei gruppi più influenti del folk rock britannico. Questa collaborazione è l'unica nella storia dei Led Zeppelin ad aver coinvolto un artista esterno come seconda voce principale in un brano da studio.

La scelta di Sandy Denny non fu casuale. La sua voce cristallina, potente e al contempo malinconica, si sposa perfettamente con l'atmosfera del brano. Il suo timbro offre un contrappunto sublime alla vocalità più graffiante e alta di Plant, creando un dialogo tra una figura maschile e una femminile, che alcuni interpretano come il cantore e la "porta-messaggi" del racconto, o forse il bene e il male, o semplicemente due prospettive sulla battaglia imminente. La chimica vocale tra i due è palpabile e contribuisce in maniera determinante alla profondità emotiva e narrativa della canzone.

Il testo di "The Battle of Evermore", scritto principalmente da Robert Plant, è un viaggio nel cuore di una battaglia mitologica. Le liriche evocano immagini vivide di cavalieri, streghe, anelli n'or (probabilmente un riferimento all'anello del potere de Il Signore degli Anelli di Tolkien), e forze contrapposte di luce e ombra. Non è una battaglia puramente fisica, ma anche un conflitto tra bene e male, speranza e disperazione, che si svolge in un paesaggio quasi fantasy.

Plant, un grande appassionato di mitologia, folklore celtico e opere fantasy, in particolare quelle di J.R.R. Tolkien, infonde nel testo un senso di grandezza e al contempo di inquietudine. Frasi come "The dark Lord rides in force tonight" (Il Signore Oscuro cavalca con forza stasera) o "Oh, dance in the dark of night, sing to the morning light" (Oh, danza nell'oscurità della notte, canta alla luce del mattino) contribuiscono a creare un'atmosfera quasi di veglia, un momento di riflessione prima dello scontro decisivo.

È interessante notare come, pur essendo immersa in un contesto fantastico, la "battaglia" possa essere interpretata anche come una metafora di conflitti interni o di sfide universali che l'umanità si trova ad affrontare. Questo duplice livello di lettura conferisce al brano una risonanza che va oltre la semplice narrazione epica.

"The Battle of Evermore" rappresenta una deviazione stilistica all'interno del catalogo dei Led Zeppelin, dimostrando la loro vasta gamma musicale e la loro capacità di esplorare generi diversi con coerenza e maestria. Il brano ha influenzato numerosi artisti e band, in particolare nel genere folk rock, progressive rock e persino nel metal più sinfonico. La sua struttura unica, l'uso del mandolino in un contesto rock e il duetto vocale memorabile hanno lasciato un'impronta indelebile nella storia della musica.

"The Battle of Evermore" è molto più di una semplice traccia acustica. È un'esperienza sonora e lirica completa, un invito a un viaggio in un mondo di miti e leggende, magistralmente orchestrato da una delle band più innovative e influenti di tutti i tempi. La sua bellezza risiede nella sua capacità di evocare immagini potenti, di toccare corde emotive profonde e di rimanere un testamento della genialità e della versatilità dei Led Zeppelin.







Tanti Auguri a Steve Morse, un chitarrista senza confini

 

Compie gli anni oggi Steve Morse, un nome che per molti chitarristi e appassionati di musica è sinonimo di versatilità, innovazione e maestria tecnica. La sua carriera, lunga oltre cinquant'anni, è un'ode alla fusione di generi, all'esplorazione sonora e a un virtuosismo mai fine a sé stesso.

Nato il 28 luglio 1954, Morse ha iniziato il suo percorso musicale in giovane età, dimostrando fin da subito un talento eccezionale. È la sua fondazione della Dixie Dregs alla metà degli anni '70, tuttavia, a segnare un punto di svolta significativo. Con i Dregs, Morse ha scolpito un sound unico, mescolando rock, jazz fusion, country e bluegrass in un amalgama strumentale che ha ridefinito i confini del genere. Album come What If e Dregs of the Earth sono ancora oggi considerati pietre miliari per la loro complessità armonica e l'esecuzione impeccabile.

La sua reputazione come strumentista di prim'ordine lo ha portato a collaborare con artisti di calibro e a intraprendere percorsi solisti di grande successo. Ma è con i Deep Purple che Steve Morse ha raggiunto la fama globale. Entrato nella band nel 1994, ha rinvigorito il loro sound classico con la sua impronta distintiva, portando nuova energia e creatività in una formazione già leggendaria. Per quasi trent'anni, la sua chitarra ha contribuito a definire l'era moderna dei Deep Purple, arricchendo il loro repertorio con riff memorabili e assoli intrisi di passione e tecnica.

Oltre ai Deep Purple e ai Dixie Dregs, Morse ha esplorato numerosi progetti, tra cui la Steve Morse Band, i Kansas e i Flying Colors, dimostrando una costante sete di sperimentazione e una capacità di adattamento a contesti musicali diversi. 

La sua influenza si estende ben oltre le note che ha suonato: è un'ispirazione per generazioni di musicisti, un esempio di dedizione e di come l'apertura mentale possa portare a risultati straordinari.

Tanti auguri, Steve!







domenica 27 luglio 2025

Una chiacchierata con Patrizio Fariselli: oggetto la copertina dell’album degli Area, “Arbeit Macht Frei”.

 


A marzo, mentre stavo lavorando a un libro di prossima pubblicazione di cui sono coautore, ho avuto il piacere di fare una lunga e approfondita chiacchierata con Patrizio Fariselli. L'incontro, inizialmente incentrato sulla copertina dell'album Arbeit Macht Frei degli Area, si è naturalmente evoluto toccando argomenti ben più ampi.

Il contenuto di questa discussione è stato fondamentale per alcune delle conclusioni che presenteremo presto nel libro. Quella che segue, tuttavia, è la trascrizione fedele e integrale della nostra interessantissima telefonata.

 

Una chiacchierata con Patrizio Fariselli: oggetto la copertina dell’album degli Area, “Arbeit Macht Frei”.

 

Vai a ruota libera…

Allora, intanto bisogna dire che la copertina è opera di Gianni Sassi, Frankenstein, titolare della Cramps Records; tutta opera sua, completamente sua l’idea. Un giorno andammo da lui in ufficio, ci mostrò il suo lavoro, e rimanemmo tutti quanti a bocca aperta; innanzitutto, per l'impatto formidabile di quest'immagine, e poi per la quantità di segnali e di simboli che a tutti i livelli la cover conteneva. Lungi da me darne una chiave di lettura univoca, farei un danno a Gianni Sassi e alla sua immaginazione, ritengo più giusto che ognuno tragga le personali conclusioni in base alle proprie sensazioni; credo sia questa la chiave. Sarebbe come spiegare le barzellette… poi non fanno più ridere.

Facciamo un po' un'analisi di tutti quei segnali di cui parli…

La scultura è stata realizzata da un artista, un art director che si chiama Edoardo Sivelli, che lavorava con Sassi alla Cramps. Una statuetta di arte povera, piuttosto piccola in realtà, alta circa mezzo metro. Si può notare che il torace e le braccia facevano parte di un Gesù Bambino.

Ce l’ho davanti e me e la sto guardando…

Come vedi, è più un soprammobile che una statua, e già abbiamo il primo ribaltamento: un oggetto di dimensioni ridotte che, così ritratto, dà un'immagine di imponenza; probabilmente anche per via del gesto della mano salda. Sulle braccia si notano quelle sezioni rotonde che servivano, evidentemente, ad orientarle in vari modi, ma che danno anche un'idea muscolare di questa piccola cosa.

Un riferimento che mi è venuto subito in mente è un rimando all'antica Grecia, alle erme, quelle sculture in pietra che rappresentavano le teste di grandi filosofi, o in genere di uomini importanti, che sorgono da un basamento quadrangolare alto un metro, un metro e mezzo, e dal quale, all'altezza giusta, sporge un pene a indicare le doti virili del soggetto. Le ho viste per la prima volta al museo di Atene e a momenti morivo dal ridere... vedere questi signori così solenni e austeri, un Socrate, un Platone... con il pene in vista! Bellissime!

I riferimenti nella scultura di Sivelli appaiono chiari: c'è un manico di violino “fallico”, con un pene eretto ed un lucchetto che, idealmente, lo blocca.

Il nostro amico tiene e mostra in alto la chiave che potrebbe liberare la sua sessualità e permettergli di esprimerla, ma sembra non esserne consapevole perché la sua testa è intrappolata in un elmo che gli impedisce di vedere e di sentire. Le sensuali labbra femminili sembrano dirci che il problema non riguarda non solo lui, ma entrambi i sessi. E forse, specie per le donne, è anche un mettere in guardia dal rischio di diventare oggetti sessuali. È comunque un’immagine molto opprimente.

Tutta una serie di input contraddittori da parte di un oggetto immobile e dalle dimensioni ridotte, ma dalla potenza comunicativa molto forte, amplificata dal gioco di proiezione dal basso e, sulla seconda di copertina, da una serie di fotogrammi che simulano il movimento, e che ricordano un famosissimo quadro di Marcel Duchamp, “Nudo che scende le scale”; un tipo di artificio che gli dà una vivacità e una dinamica straordinarie.  

La scritta “Arbeit macht frei” è composta con caratteri semplici, in corsivo, come se fosse stata scritta da un bambino, e questo è un altro segnale.

Il titolo “Arbeit macht frei” lo ritroviamo anche nella seconda e terza di copertina, dove ci siamo noi, stravaccati in studio, circondati da una quantità di simboli e segnali inequivocabili e fortissimi.

C'è innanzitutto una “T”, che potrebbe essere una croce a T, un simbolo di schiavitù e di martirio, una struttura patibolare… chissà... e sopra la “T” c'è della terra, quindi, potrebbe anche essere questo il significato: un ritorno alla terra... c’è anche della verdura, infatti... e poi una bambolina trafitta, a denunciare la violenza sui bambini. E lì accanto c'è una falce e martello, che ci è costata, assieme alla kefiah che indossa Giulio Capiozzo, la nostra carriera all'estero.

Quando tocchi certi argomenti, il mondo anglosassone, e occidentale in genere, ti esclude, ti ignora completamente.

Vicino a Demetrio Stratos ritrovi la statuina, riesci a vederla nelle dimensioni originali. C'è anche un angioletto, un simbolo di innocenza e di spiritualità, o di protezione, chi lo sa? E subito sopra, la riproduzione di una pistola, che è quella dell'anarchico Gaetano Bresci, custodita al museo criminale di Roma.

Vedi la quantità di cose? Poi c'è la foto incorniciata del campo di sterminio tedesco di Auschwitz, con sopra una catena spezzata. Quello è facile da comprendere... ciò che era meno semplice da capire era l’“Arbeit macht frei” di allora: “Il lavoro rende liberi”, una frase che potrebbe essere tranquillamente inserita nella Costituzione di un paese democratico o socialista, fu messa all’ingresso del campo, come si trattasse di un luogo per stage di formazione professionale, o un laboratorio per bambini, mentre era la porta dell'orrore più mostruoso, perché attuato in modo “scientifico”.

Quindi pensa come una mente malvagia e perversa può fare suoi dei contenuti positivi e, ribaltandoli, usarli come strumento di manipolazione fisica e psicologica e di coercizione. Purtroppo, è un giochino che si ripete da troppo tempo e, anzi, oggi, è ancora più perfezionato grazie a professionisti di sempre maggiore esperienza.

In questi ultimi anni l’abbiamo visto ampiamente utilizzato: non a caso, molte istanze della sinistra dei miei tempi, quelle legate a diritti civili autentici, sono state recuperate dal potere, esasperate e stravolte per essere utilizzate con scopi esattamente opposti a quelli di uguaglianza e antidiscriminazione originari. Privilegiando le minoranze ed imponendo ideologie assurde e innaturali, si è arrivati a penalizzare la maggioranza con il solo scopo di dividere la società e confondere i più giovani sulla loro identità e su chi siano i loro veri nemici.

Consideriamo poi l'ecologia, il “green” delle multinazionali, che sono la causa primaria dell'inquinamento… che colpevolizzano la gente comune proponendo esse stesse la soluzione, quasi sempre controproducente, costosa e naturalmente a nostre spese! Ma non ci allarghiamo troppo… comunque il senso di “Arbeit macht frei” è questo: una denuncia e una messa in guardia dalla spietatezza del potere. Lo conferma anche la busta interna del disco, dove, assieme alla pistola di cartone, c'è questo superbo rapace che ti guarda di traverso; un implacabile predatore carnivoro, dallo sguardo feroce, ma in giacca e cravatta!

Sembra quasi preannunciare l'avvento degli anni '80, e della schiera di “rampanti” affaristi senza scrupoli che si diffusero grazie al neoliberismo tatcheriano.

Come vedi c'è una quantità di segnali imponente.

Certo che senza il tuo aiuto tutte queste cose non sarebbero potute emergere!

Io stesso, col senno di poi, sono colpito dall’importanza dei simboli presenti nella copertina… Non li ho ideati io, né noi Area, che allora eravamo appena dei ragazzi, però abbiamo contribuito con alcuni piccoli interventi, ad esempio la scelta della scritta con i caratteri da bambino, la bambolina, o la piastrella con l’angelo… e anche la kefiah sono farina del nostro sacco. Ma l’idea di base è frutto dell'inventiva e della grande consapevolezza politica di Gianni Sassi.

Quando avete fatto questo tipo di scelta avevate delle alternative o vi siete buttati subito su questa, in pieno accordo, senza discussione?

La copertina ci ha steso tutti; ti garantisco, siamo rimasti di sasso; ha avuto su di noi un impatto fortissimo. Non solo era affascinante, ma capivamo che era roba forte: un lavoro veramente potente a livello comunicativo, che suggeriva dei messaggi, ma lasciava un ampio spettro di lettura. Aprire la mente era ciò che ci interessava di più, in qualsiasi ambito della nostra comunicazione, compresa quella musicale. Più diversificate sono le interpretazioni fatte dalle persone che ci ascoltano e ci seguono e più riteniamo raggiunto il nostro scopo, che è principalmente quello di “attivare le rotelle che abbiamo in testa”.

Nei primi anni ’70, quando ero adolescente e ascoltavo, anche, la vostra musica, non avevo il sentore che una copertina di un album potesse dare così tanto. Tutti questi elementi comunicativi che mi stai descrivendo sono fortissimi, probabilmente mi arrivavano inconsciamente, ma non avevo la consapevolezza che tutto questo poteva aiutare a diffondere un messaggio importante: deficit legato alla mia giovinezza o cos’altro?

Non ti sentire sminuito per non aver colto certe cose; questi segnali sono creati proprio per stimolare un tipo di fruizione come è stata la tua, senza mediazione. Tutti riconoscono gli elementi più familiari, o vengono colpiti dai più strani, ma piano piano, magari a livello inconsapevole, anche gli altri ti arrivano. Se ti soffermi e metti il focus sui dettagli, riesci a trasferire nella sfera della razionalità quegli elementi che comunque funzionano inconsciamente. Sono due meccanismi di conoscenza differenti ed altrettanto interessanti. Adesso che me l’hai chiesto, mi sto divertendo molto a fare questa indagine quasi tassonomica degli elementi; non l'avevo mai fatto prima.

Pensi che quel tipo di copertina abbia contribuito al successo dell’album?

Sicuramente! Ma tutte le copertine degli Area, e quelle di Gianni Sassi in particolare, sono un piccolo capolavoro dal grande effetto. Perché Sassi era, sì, un art director che veniva dalla pubblicità, ma aveva questa visione originalissima, da vero artista, nell’utilizzare gli elementi più diversi con intelligenza, creatività e istinto comunicativo. E la sua grande cultura gli permetteva sempre di raggiungere un “significato altro”. Questa un po' la summa del pensiero sassiano: mettere insieme materiali culturali tra i più diversi, dall’arte più avanzata e innovativa a quella popolare e tradizionale, per produrre un tipo di comunicazione molto diretta e performante, ma sempre ricca di sfaccettature e preferibilmente piena di contraddizioni, di quelle che riescono a smuovere le coscienze.

Rivedendola a distanza di 50 anni trovi ancora delle cose interessanti? Come la spiegheresti oggi ad un giovane guardandola con i tuoi occhi attuali?

Più che spiegarla ne farei notare gli elementi; spiegarla non avrebbe senso. Spiegare vuol dire che, davanti a una cosa che tu non capisci, non conosci, io te la rendo comprensibile, ma così tu ne potrai trarre solo l'idea che io, alla fin fine, ti suggerisco. Invece, compito di queste copertine, di tutte quante le copertine degli Area, è quello di darti una botta, di incuriosirti e poi di farti pensare autonomamente.

E ci siete riusciti…

Sì, una botta allo stomaco, o una pacca sulla spalla… anche in modo aggressivo: il potere di Sassi e della sua grafica era proprio quello di riuscire a creare qualcosa che non lasciasse mai indifferenti; dovevi per forza avvicinarti per scoprire di cosa si trattasse. Se poi fosse riuscita anche a farti ascoltare la musica, almeno uno degli scopi era raggiunto.

Non a caso, quando Sassi morì, il museo di Arte Contemporanea di New York mandò un proprio emissario per acquisire il suo materiale, tra cui le copertine, che però, purtroppo, erano già state vendute dal suo socio, per cui non se ne fece nulla. Peccato. Le copertine di Sassi erano conosciute nell'ambiente dell'arte quasi più della musica degli Area, quella che, apparentemente, trovava appeal solo in Italia. Col passare degli anni, invece, scoprimmo che eravamo molto conosciuti e apprezzati anche all’estero, in America e in Giappone, per esempio. Nel mondo underground i nostri dischi arrivavano, così come nelle case dei più attenti fruitori di musica.

Un’ultima cosa, anche se esce dall’argomento specifico: non ti pare inadeguato parlare di copertine di un prodotto che è tornato a galla quando il mercato ha intercettato i bisogni di una nicchia, quella dei melomani nostalgici degli anni ’70, mentre i giovani utilizzano quasi esclusivamente la musica liquida?

Non solo i ragazzi, anche io, ad esempio, mi muovo su questa strada: il 99% dei miei ascolti deriva dall’uso di iPod ed MP3, che ascolto nelle mie lunghe camminate; ho una quantità enorme di musica nel mio database. Ogni volta che sento qualcosa di nuovo e apprezzabile, vado vedere chi è l’artista, per aggiungerlo alle mie conoscenze.

Forse, quello che i giovani si perdono, è il valore aggiunto che queste immagini davano, in termini di comunicazione, alla musica; soprattutto se parliamo di 33 giri, rispetto alla copertina ristretta e meno impattante dal punto di vista immaginifico del CD. Perché le immagini possono emozionare, ma possono anche urlare. Una copertina grande ti dà un impatto visivo molto superiore, e poi c'è pure il manifesto. Quando mettevi in camera un manifesto, pah! Era una botta! Il manifesto era pensato per colpire da lontano. Ma anche la copertina del 33 giri è roba potente, e dava ai gruppi, agli art director, alle persone coinvolte, la possibilità di riconoscersi in quel tipo di immaginario, in quella particolare atmosfera musicale ed artistica. Se tu guardi, ci sono delle copertine, come quelle dei The Rolling Stones fatte da Andy Warhol, dei Gentle Giant, dei King Crimson, che, associate a quel particolare tipo di musica, contribuiscono a dare a chi l’ascolta un bagaglio di stimoli e di informazioni tale da costruire un rapporto molto più profondo, rispetto al solo contenuto musicale. A differenza della musica liquida, il vinile offre la possibilità di immergersi nei crediti, scoprendo testi, poetiche, autori e luoghi di registrazione… tutti indizi che fanno intuire la visione del mondo cui gli artisti aspirano, il loro modo di pensare, e questa è una cosa formidabile.

Perché il vinile non muore, al di là delle seghe mentali sulla qualità audio? Non mi interessano assolutamente le diatribe del tipo… meglio il cd del digitale, meglio il cd del vinile… È la ritualità dell'ascolto che è diversa. La ritualità dell'estrarre quest'oggetto, trattarlo in modo delicato, far sì che non si impolveri, appoggiarlo sul piatto, abbassare la testina… Una cosa strana, un rituale quasi mistico! Molti lo vivono anche in questo senso. Vuoi ascoltare un disco in particolare? Ti alzi, lo cerchi, lo tiri fuori, lo metti su… e poi anche la copertina favorisce il lavoro della tua immaginazione; anche se l'hai vista mille volte. Mentre ascolti un pezzo, che magari conosci benissimo, guardi la copertina e dici: “Dio bono!!!”.

Ancora meglio quando tutto questo lo condividi con altre persone…

Questa è una cosa degli anni che furono: il piacere della condivisione, dell'ascolto collettivo; ti garantisco che per noi Area era una cosa fondamentale ascoltare insieme i materiali nuovi, e addirittura scattava una gara tra di noi per riuscire a portare musica che gli altri non conoscevano. Condividendone l'ascolto, potevamo scambiarci a caldo le opinioni, vivere insieme le emozioni e tutto quello che la musica innescava.

Questi ascolti comuni favorivano non solo una crescita esponenziale della nostra cultura musicale, ma anche l’amicizia e la coesione del gruppo. Perché eravamo, sì musicisti, ma anche amici che amavano ritrovarsi e che si riconoscevano in certi parametri culturali, in un momento storico e politico potente. Nella parcellizzazione sociale del presente, queste cose sono scomparse. Questo mi dispiace molto, ed è per questo che cerco il più possibile, nonostante l'età, di proseguire con l’attività concertistica, per coinvolgere, anche fisicamente, le persone, e soprattutto i giovani, cercando di fargli vivere, come si diceva una volta, un “trip” di quelli che non ti scordi.


Non resta che ascoltare l’album…






sabato 26 luglio 2025

Mick Jagger - L'elettricità primordiale che ha conquistato il mondo

 

Sessant'anni di rock 'n' roll e un'energia inesauribile: come Mick Jagger, l'icona che ha sfidato il tempo, continua a far vibrare il pianeta


Michael Philip Jagger, nato il 26 luglio 1943 a Dartford, Kent, in Inghilterra, non fu un predestinato alle luci sfavillanti del rock and roll secondo i canoni convenzionali della sua epoca. Cresciuto in una famiglia della classe media, con un padre insegnante di educazione fisica e una madre casalinga, il giovane Michael mostrò presto un’intelligenza vivace e un interesse per la musica che andava oltre le melodie popolari del momento.

La svolta cruciale nella sua vita avvenne sui binari della stazione di Dartford, dove un incontro casuale con un ex compagno di scuola, Keith Richards, riaccese una scintilla sopita. Entrambi condividevano una profonda passione per il blues americano, artisti come Muddy Waters, Howlin' Wolf e Chuck Berry fornirono la colonna sonora di una nascente ribellione giovanile. Questa comune ammirazione fu il terreno fertile su cui germogliarono i primi semi di quella che sarebbe diventata una delle band più influenti della storia della musica: i Rolling Stones.

La Londra dei primi anni ’60 era un crogiolo di fermento culturale, e i Rolling Stones si inserirono in questo contesto con un’energia grezza e un’attitudine sfrontata che li distingueva dalle band più patinate dell’epoca. Jagger, fin da subito, si impose come un frontman dirompente. La sua presenza scenica era inedita: una combinazione di movenze serpentine, labbra carnose che si spalancavano in un sorriso ora sardonico ora lascivo, e una voce che poteva passare da un sussurro blues a un urlo potente e graffiante.

Successi come "(I Can't Get No) Satisfaction" (1965) proiettarono la band e Jagger nell’olimpo della musica mondiale. Il brano, con il suo riff di chitarra iconico e il testo che esprimeva un senso di frustrazione giovanile, divenne un inno per un’intera generazione. Jagger incarnava perfettamente lo spirito di quel momento: un misto di ribellione, desiderio di libertà e una sensualità ambigua che scandalizzava e affascinava allo stesso tempo.

Negli anni successivi, Jagger e i Rolling Stones inanellarono una serie di album e singoli che definirono il suono del rock. "Paint It Black" (1966) con le sue atmosfere oscure e l’uso del sitar, "Sympathy for the Devil" (1968) con i suoi ritmi tribali e l’evocativo testo, "Gimme Shelter" (1969) con la sua tensione apocalittica, sono solo alcuni esempi della loro straordinaria produzione. In ognuno di questi brani, la voce e la presenza di Jagger erano elementi centrali, capaci di trasmettere una vasta gamma di emozioni e di dare corpo alle narrazioni delle canzoni.

Dietro l’immagine della rockstar selvaggia, Jagger dimostrò presto di possedere un acume imprenditoriale non comune. Fu una figura chiave nel guidare la band attraverso le turbolenze del music business, gestendo con astuzia le dinamiche interne e le negoziazioni contrattuali. La sua visione strategica contribuì in modo significativo alla longevità e al successo duraturo dei Rolling Stones.

La carriera solista di Jagger, pur non eclissando mai il suo impegno con la band, ha offerto ulteriori sfaccettature del suo talento. Album come She's the Boss (1985) e Wandering Spirit (1993) esplorarono sonorità diverse e misero in luce la sua versatilità come interprete e autore. Tuttavia, è sul palco con i Rolling Stones che la sua energia primordiale si manifesta in tutta la sua potenza.

Il passare degli anni, lungi dal fiaccare la sua energia, sembra averla trasformata in una sorta di leggenda vivente. Vederlo ancora oggi muoversi con la stessa agilità e cantare con la stessa passione di decenni fa è uno spettacolo che incanta e sorprende. La sua dedizione alla performance live è leggendaria, e i concerti dei Rolling Stones continuano ad essere eventi di portata globale.

Oggi, a dispetto di un passato costellato di eccessi e di una giovinezza vissuta al ritmo frenetico del rock and roll, l'attuale Mick Jagger incarna una sorprendente metamorfosi, e la sua leggendaria energia sul palco è alimentata da una disciplina quasi ascetica: allenamenti rigorosi, un'alimentazione curata e uno stile di vita sorprendentemente salutista. Questa dedizione al benessere fisico, in netto contrasto con le cronache di un tempo, non solo gli permette di mantenere intatta la sua vitalità artistica, ma aggiunge un ulteriore strato di fascino alla sua figura iconica. È come se l'anima ribelle degli esordi avesse trovato un nuovo modo, paradossalmente più controllato, per continuare a incendiare il mondo con la sua inesauribile elettricità.

Mick Jagger non è solo un musicista; è una figura epocale che ha influenzato generazioni di artisti e ha contribuito a plasmare l’immaginario collettivo. La sua capacità di rimanere rilevante attraverso i cambiamenti sociali e musicali testimonia una profonda comprensione del proprio ruolo e un’instancabile volontà di evolvere senza mai tradire la propria essenza. La sua è la storia di un’elettricità primordiale, scatenata su un binario ferroviario e propagatasi in ogni angolo del mondo, continuando a risuonare con la stessa forza dirompente dei suoi esordi.