Vittorio
Nocenzi racconta…
Fotografie
di Andrea Guerzoni
Nonostante sia questo
un periodo gratificante per il Banco del Mutuo Soccorso, non avevo ancora pensato
a una chiacchierata con Vittorio Nocenzi, anche se l’ultima volta che mi era
capitato di intervistarlo Rodolfo Maltese e Francesco Di Giacomo erano ancora
tra noi… quindi un pò di tempo è passato!
Dopo tante vicissitudini
e accadimenti dall’andamento drammatico, l’idea di essere uno in più nel porre
domande - probabilmente simili a tante altre -, contribuendo a riempire di
lavoro supplementare il già oberato Vittorio, mi sembrava una situazione da
poter tranquillamente rimandare a tempi più tranquilli, avendo in ogni caso la “coscienza
a posto” dopo che su MAT2020 è uscita una dettagliata recensione di “Transiberiana”,
realizzata dal nostro collaboratore Antonello Giovannelli. Insomma, una
tendenza alla protezione e alla discrezione la mia, del tutto inadeguata visto
lo spirito e lo stato d’animo di Vittorio, davvero sorprendente.
Alla fine ci siamo…
sintonizzati, e ho realizzato che le mie domande non erano fondamentali per
stimolare il racconto, perché il tutto fluiva in modo autonomo. Ecco… quello
che forse non riuscirò a far emergere della nostra lunga telefonata è
l’entusiasmo con cui il mio nobile interlocutore mi ha dipinto il suo quadro,
che è poi la stessa picture che interessa migliaia di fan e cultori
dell’eccellenza musicale. E frase dopo frase è emerso un vero nuovo inizio per
il BMS, fatto di mutamento e team rinnovato, ma l’immagine che si dipana ci
racconta una grande verità che andrebbe utilizzata come elemento didattico:
sino a che sarà forte la voglia di pianificare azioni e rivolgere idee e
pensieri verso il futuro, terremo lontana la fine della nostra storia personale.
Poi ci sarà qualcos’altro, come ci suggerisce Vittorio nelle righe a seguire,
ma possiamo tranquillamente aspettare…
Ecco il racconto di Vittorio, in sintesi…
Quanto sei
soddisfatto dell’album appena uscito, “Transiberiana”? Non mi riferisco al
termometro delle vendite, visto che è stato rilasciato da poco, ma parlo di feeling
generale e di risultato puramente tecnico e musicale.
Sono molto
soddisfatto. Dal punto di vista tecnico “Transiberiana” ha un grande
suono: in qualunque modo lo si ascolti, che sia con un iPhone, con le peggiori
casse o con quelle più sofisticate, mantiene intatta la sua forza sonora. Questo
risultato è stato ottenuto grazie a una produzione musicale corale, che ha
visto coinvolti tutti gli elementi della band e ha portato a un lavoro di
grande attenzione del processo sonoro delle registrazioni.
Dal punto di vista
dei contenuti mi sento poi particolarmente gratificato, perché dentro c’è molto
del mio pensiero attuale, come artista, musicista e persona. È un lavoro che non
nasce in solitudine, ma è figlio di una totale condivisione, ed è stato così
sin dal primo momento. Parlo di un’espressione corale e vera che doveva assolutamente
seguire questo iter, come prolungamento di una costante e continua richiesta da parte
di fan, e lo abbiano toccato con mano nel corso delle numerose interviste
radiofoniche. Siamo stati sollecitati a rispondere in maniera inequivocabile alle
attese del popolo del palco, che si domandava che fine avessimo fatto.
L’aspettativa era molto forte. Questo è stato il primo motivo per cui abbiamo
deciso di fare l’album: dovevamo dare una risposta alle tante domande. E a
pensarci bene, in questi ultimi quindici anni abbiamo sbagliato percorso,
perché è stato dato troppo spazio all’attività concertistica a discapito di
quella di recording. Da qui la decisione di agire nella maniera più ovvia: fare
un nuovo album. Il privilegio dell’amore degli altri, dell’ammirazione e della
stima, ha un costo, e più è alto è il privilegio e maggiore è il prezzo da
pagare. Era una risposta che quindi dovevamo al nostro pubblico.
Altra motivazione
pilota, ispiratrice di tutto il lavoro, è stata l’idea che se il BANCO
continuerà ad essere attivo e vivo, anche chi ormai non c’è più continuerà ad
essere nei cuori di chi ci ha sempre seguito e ama la nostra musica.
Questi sono i due
pensieri che hanno guidato il nostro lavoro: il bisogno di rispondere al ai fan
con un’azione concreta, e al contempo mantenere viva la presenza di Francesco e
Rodolfo, cosa che può capitare solo se il Banco proseguirà nel produrre dischi
e nel fare concerti.
Mi aggancio al tuo
pensiero sui live. Nel 2008 vi vidi al Teatro Chiabrera di Savona, e l’impressione
che ebbi nell’occasione è che ci fosse una discreta stanchezza da palco: un
sentore sbagliato il mio?
Io questa
stanchezza la percepivo come fisiologica, perché 50 anni di concerti sono
tanti. Ma ogni volta che siamo saliti sul un palco è sempre scattata la magia,
la rievocazione del senso del contatto con te stesso e con chi è in platea. Se
quel giorno ti siamo sembrati stanchi poteva anche essere per situazioni
contingenti. Di sicuro Francesco negli ultimi tempi non era più tanto motivato
dai live, anche perché la routine ti tende agguati dietro l’angolo; soprattutto
vedere un degrado continuo e costante coinvolgere la tua gente e la tua nazione
ti fa porre delle domande a te stesso, ti chiedi che senso abbia questo “mestiere”
che il BANCO ha sempre concepito come amplificazione delle emozioni condivise
con la gente del nostro tempo.
In questi giorni
c’è un disagio del vivere fortissimo, ed è stato un passaggio pazzesco. Ci
siamo ritrovati in questa globalizzazione grigia che non ti può ispirare, nè spingere
a scrivere poesie. A questo punto devi però continuare a farlo mettendo come
centrali altri contenuti e valori di riferimento, ed è quello che abbiamo realizzato,
il mettere come elemento primario il dovere di rispondere alla gente, per guadagnarsi
ancora il privilegio di essere ammirati e amati da persone che vivono le difficoltà
del quotidiano, e forse anche molto più di noi, che in qualche modo siamo facilitati.
Il baricentro della vita della persona deve sempre partire da cose semplici ma
chiare, prioritarie e fondamentali; comprendere che la prerogativa di essere
amati è un grande dono da ricambiare, è una cosa semplice ma molto concreta, e
ti posso dire che è una forte motivazione che può spingere a riprendere in mano
lo strumento e il pentagramma.
Altra idea molto
forte è che chi non è più tra noi può restarci, in modo vivo e concreto, solo
con lo stimolo che spinge al ricordo, e la memoria si annaffia con la memoria,
la poesia, la magia e la poesia.
In questa
situazione di ripartenza hai avuto una spinta decisiva all’interno della tua
famiglia…
Certo. Spesso
accade nella vita che nel momento in cui il destino con una mano toglie, con
l’altra qualcosa ti restituisce. Da una parte ho perso due compagni di vita la
cui assenza, sinceramente, devo ancora elaborare, e dall’altra ho scoperto che
il mio terzo figlio, Michelangelo, è il mio alter ego musicale. È stata una
cosa preziosissima, altro elemento fondante dopo gli altri già citati,
l’accensione del motore. Questo ragazzo, ovviamente cresciuto a “pane e Banco”,
veniva a farmi sentire i suoi spunti musicali con il pianoforte, e a me ogni
volta sembrava di averli scritti in prima persona, e quindi mi sentivo a mio
agio a metterci mano, ritoccarli, ampliarli, prenderli come spunto tematico
iniziale. Ci siamo così ritrovati a scrivere a quattro mani senza aver
programmato nulla, è stata una simbiosi elettiva.
Una quarta cosa che
deriva da queste tre è aver messo in moto una metodica di lavorazione che non
avevo mai adoperato con questa lucidità e consapevolezza, una fase teorica
molto ponderata che ha fatto da serra ai testi in sé. Mi riferisco a un metodo
di “avanzamento lavori”: una volta deciso che il Banco doveva fare un album
inedito, questo poteva essere un album rock-jazz, un album etnico, un disco di
songs, poteva essere solo strumentale, sperimentale, elettronico, con un
vestito sinfonico, ma poi… è diventato quello che doveva essere, un album
concept. Io, come ti dicevo, dovevo rispondere al mio pubblico, tenere vivo
l’amore per Francesco Di Giacomo e Rodolfo Maltese, e non c’era nulla di più
semplice e vero che usare la scrittura secondo la nostra identità. Era quello
che desideravo e ho capito che se mi avessero chiesto di scrivere una
compilation di songs non ce l’avrei fatta, non mi avrebbe interessato.
Raccontare invece per metafora una narrazione ampia, che potesse essere
suggestione collettiva oltre che individuale, è diventata subito una miccia
accesa. Per farlo ho puntato i piedi come un bambino capriccioso, e ho detto a
Michelangelo e al coautore Paolo Logli, gli stessi collaboratori dei miei
ultimi anni di scrittura, che mi sarei rifiutato di scrivere una sola nota se
non avessimo trovato un titolo. Così facendo ho ripreso un file sul computer,
sintesi di una settimana intera di riflessioni e spunti, e ho ritrovato espressioni
bellissime ed ero indeciso, ma come è apparso il titolo “Transiberiana”
l’ho subito scritto in stampatello, evidenziandolo col colore bordeaux. Perché
la Transiberiana è il viaggio più lungo che uno può fare sulla terra - sono
9300 km -, il modo più preciso per raccontare metaforicamente la nostra esistenza.
Era bella l’idea che il Banco, dopo una vita così longeva, si accingesse a
scrivere un’opera che era giusto che a questo punto del nostro lavoro fosse
autobiografica. Poi non ho scritto la musica, ho scritto uno storyboard. In
questo viaggio il treno parte, quindi è uno start che sarà ricco delle tipiche attese
dei viaggiatori, che sono consapevoli di andare incontro a grandi meraviglie. E’
quel momento in cui hai deciso di lasciare il sicuro per l’incerto, un viaggio
lungo in un luogo rischioso ma ricco di aspetti fantastici, e quell’insieme di
sentimenti è meraviglioso. La partenza potevamo scriverla in mille modi, con la
fanfara e la banda o in un modus più intimo.
Devi sapere che in
quel periodo ero stato nel nord del Lazio per realizzare un progetto culturale,
e in quell’occasione vidi passare a fianco a me al galoppo una mandria di
cavalli: una sensazione bellissima, la forza primigenia della natura. E così ho
immaginato che i viaggiatori, dal treno, vedessero all’improvviso un branco di
cavalli selvaggi correre sull’altipiano, un’immagine che colpisce molto, un
simbolo quasi per eccellenza della libertà. Questo è il primo quadro della
transiberiana dopo la partenza, “Stelle sulla terra”, in due movimenti. Il
brano inizia con un suono molto solenne e allo stesso tempo profondamente interiore,
in do minore, sospeso, quasi una preghiera che fai con la tua mente, dentro di
te, che secondo me esprimeva bene questa aspettativa e meraviglia rispetto a un
viaggio molto umano, e quindi non servivano i trionfalismi di una banda. E’ un
bello start su cui irrompe il suono del sintetizzatore, che fa il verso sonoro
al treno che cammina e detta la partitura a tutta la band: riprendono questa
scansione orchestrandola le due chitarre, il pianoforte, la batteria, l’organo.
Questa è l’unica concessione che ho fatto in tutto l’album a una descrittività
onomatopeica, perché volevo che il treno, come location dove accade la storia,
fosse rappresentato sonoramente, e questo dopo che mi è venuto in mente cosa fece
Mussorgsky con i quadri di una esposizione: realizzò un brano che ritornava più
volte con il susseguirsi dei quadri, la “Promenade”; scrisse una composizione
apposta per raccontare il cammino dello spettatore da un quadro all’altro. Io
ho voluto fare la stessa cosa, perché questa scena del treno torna a più
riprese nel corso del concept album, come una propria rappresentazione sonora. Nei
concept seri alcuni temi musicali devono ritornare come in un’unica colonna
sonora, e questa parte iniziale rivivrà infatti in “Eterna transiberiana”,
sempre con lo sferragliare del treno. Questa prima traccia ha una partitura
molto complessa perchè ha diversi strumenti che la eseguono, ma ognuno ha la
propria scansione ritmica. Contemporaneamente ci sono strumenti che suonano in 13/8,
in 7/8, in 5/4, in 3/4, perché era un modo per rendere il canto e le armonie di
“Stelle sulla terra” come in un equilibrio precario, perché precaria era
l’aspettativa di un viaggio così lungo, passando per luoghi dove si arriva
addirittura a 70 gradi sotto zero, quindi non poteva essere una partenza
solida, solita, vanitosa, tutta apparenza, ma doveva emergere un grande bagaglio
di interiorità. Si parte allora con questo inizio in do minore, che crea
l’immagine dei viaggiatori con i nasi attaccati ai finestrini, e poi arriva una
sequenza elettronica in 7/8, dispari in maniera terribile, e quelli sono i
cavalli che hanno il loro ritmo e quindi dovevano essere impari rispetto al
resto della musica.
I viaggiatori
eravamo tutti noi, compresi Francesco e Rodolfo, vedevamo questa cosa
bellissima e non potevano non partire una serie di parallelismi e analogie su
chi era veramente libero, se noi o quegli animali.
Il terzo movimento
trova la sintesi di quello che questo spettacolo spinge loro a considerare, “perché,
perché, perché… l’imbroglio, le bugie… il testo dice tutto.
Il secondo brano è “L’imprevisto”,
e nella transiberiana è rappresentato dal ghiaccio che invade i binari
all’improvviso e costringe il treno a fermarsi; i viaggiatori rimangono fermi
nei vagoni fino a che il freddo non diventa intollerabile e incomincia a
serpeggiare la paura e la preoccupazione; vedono fuori delle luci e pensano che
siano quelle di un villaggio dove potersi dirigersi per chiedere aiuto, e
quindi decidono, anche se con paura, di scendere. E come spesso accade nella
vita, non c’è limite al peggio, quindi si muovono per scampare a un pericolo e
incorrono in un altro: vengono assaliti da un branco di lupi, e questo è il
quarto brano dell’album, “L’assalto dei lupi”, dopo “La discesa dal
treno”, che è il terzo. “La discesa dal treno” è in due movimenti
perché c’è anche qui la necessità di scandire i tempi in modo chiaro: quando
scendono fuori dal vagone cosa trovano? Ancora più freddo e una natura
completamente bianca con una nube di nebbia. Davanti a questa considerazione, a
questo nulla impalpabile, mi è venuto in mente Virgilio, la discesa nell’Ade di
Enea che, nel suo percorso vede il padre Anchise, lo abbraccia abbracciando le
nebbie. Questo del disco è un momento che amo molto perchè è dedicato, anche
esplicitamente nel testo, a chi non c’è più, alle assenze, ai non ritorni.
Musicalmente ha una melodia molto sentita e molto umana, lo trovo un momento
commovente, sincero, ispirato.
Poi i viaggiatori
riprendono il cammino, si salvano dall’assalto dei lupi, ma dopo aver scampato
un rischio mortale il viaggio riprende con tutta un’altra consapevolezza, tutto
assume un altro spessore, si cerca di capire di più e meglio. Quindi i
viaggiatori guardano con più attenzione e scoprono che tra loro c’è uno
sciamano. Io volevo che delle tracce chiare di questa terra percorsa dal treno
fossero prese dalla realtà tangibile, e quindi qualche elemento della Siberia
vera doveva esserci, una terra difficile climaticamente ma anche antropologicamente,
perché lì ci sono più di 250 etnie diverse e quindi lingue differenti, storie,
racconti e prevalentemente ci sono due religioni, sciamanesimo e buddismo. Mi
sembrava bello quindi che su questo treno ci fosse uno sciamano, che fa parte
della realtà umana della Siberia, luogo in cui esiste un problema gravissimo
dovuto alla difficoltà del sopravvivere, anche, a tentativi di russificazione
militari pesanti e genocidi tosti: mi riferisco al forte tasso di alcolismo tra
le popolazioni siberiane, situazione che distrugge uomini e donne, poveri
esseri umani che si caricano di alcol, dopodiché, ubriachi, incominciano a
correre nudi nella steppa e vengono ritrovati morti assiderati dopo chilometri.
“Lo sciamano” racconta in parte questo mondo che si restringe dentro il
collo di una bottiglia; le sue mani non curano più perché ha perso la magia con
la quale riusciva a mettersi in contatto con gli antenati, cosa ora non più
possibile.
Successivamente arriva
un altro personaggio che non ha nessuna caratterizzazione precisa, se non
quella di cantare con il viso fuori dal finestrino, respirare quest’aria che
per lui sa già un pò di mare, meta finale della Transiberiana, il cui obiettivo
spaziale è arrivare al Mar del Giappone. “Il mare che desideriamo tutti”,
recita il testo, perché il mare diventa metafora della speranza con cui
affrontiamo la nostra vita.
Il viaggio va
avanti e c’è l’arrivo che esprime un altro concetto fondamentale: l’importanza del
viaggio non è raggiungere la meta, ma vivere il percorso per raggiungerla. Quindi
quando questi viaggiatori arrivano davanti al Mar del Giappone capiscono che
non è la fine, ma l’inizio di un altro cammino, come succederà anche a noi
quando arriveremo al termine della nostra vita. Chi è pervaso da fede religiosa
si aspetta il Paradiso, chi è laico come me si domanderà comunque che fine farà
tutta quell’energia, la parte preponderante dell’essere umano che è quella trascendente,
perché noi non siamo solo carne, ma soprattutto idee, pensieri, sogni,
desideri, ideali, in una parola sola, spiritualità; la società contemporanea
deride questa sintesi, la disprezza o non la considera, ed è un grande errore,
perché porta a dimenticare il baricentro della vita umana.
Tutto quanto hai
appena descritto appare complesso da condividere, soprattutto se chi ti
accompagna è “appena arrivato”: come riesce una formazione tutto sommato nuova
a salire su di un palco e trovare la quadra ad un lavoro così organico?
Si può fare quando si
riesce a dare fluidità all’interpretazione e all’esecuzione, lavorando a monte,
a patto che con la scrittura e la registrazione si sia dato corpo a tutte
queste idee; in questo caso non resterà altro che fare un’opera di riproduzione
corretta. Poi c’è la solita domanda degli ascoltatori: “… ma come facciamo a
capire veramente i significati di un vostro brano se non me li dite?”; io
rispondo sempre che non è fondamentale che l’ascoltatore capisca esattamente
cosa si voleva dire… la cosa importante è che ognuno faccia sua la musica e la
riempia di contenuti personali, magari diversi dalle idee di chi ha creato. Comprendo
però che per un estimatore delle nostre composizioni scoprire le motivazioni
dell’artista sia un valore aggiunto, e mi fa anche molto piacere che accada, ma
per fruire emotivamente della musica non è basilare che si sappia esattamente
la storia ispirativa, perchè ciò che si recepisce deve portare ad una reazione
emotiva, spirituale, qualcosa che nasce dalla sensibilità che ognuno ha dentro
di sè. E questo è già tantissimo, perché mette in moto tutti quei meccanismi di
autopercezione che spesso si tralasciano e si trascurano. La musica ha questo
grande vantaggio, ti ricorda di metterti in contatto con la parte più sensibile
di te, quella più fanciullesca e poetica, quella che porta a meravigliarsi di
un bellissimo tramonto affacciandosi dal balcone di casa, senza dover essere
per forza su un’isola del Mar Egeo.
La mia domanda
precedente era anche legata al fatto che quando ora ti trovi sul palco sei ormai
l’unico tra quelli che hanno iniziato il percorso molti anni fa… ti giri e ti
ritrovi un pò di gioventù, un frontman nuovo… sono quei meccanismi che potrebbero
mettere in crisi un gruppo, e sembra invece che voi ce l’abbiate fatta
benissimo.
Non dimenticare che
c’è sempre la musica. Io sono partito da ragionamenti lineari, elementari e
semplici. Ma la semplicità, se è ricca di contenuto, è la cosa più difficile da
conquistare e appartiene alla fase più matura della vita di un’artista, la
scopri sempre quando sei vecchio del mestiere. È come una persona che si trova
in bilico e deve scegliere: da una parte ha la banalità, dall’altra ha i
contenuti più profondi. Quando inizi a scrivere
qualcosa di complicato ti sembra essere partito col piede giusto, perché pensi
di difenderti dalla banalità deviando rispetto all’ortodossia, ma io, alla fine,
di “Non mi rompete” ne ho scritta una sola in tutta la mia carriera; ho
provato altre volte a trovare perle simili ma non ci sono mai più riuscito,
perché è stato un momento di ispirazione della mia vita che è rimasto
magicamente unico. Quel brano lo avevo nel cassetto dai sei anni, e non lo
tiravo mai fuori perché mi sembrava troppo banale, e poi ci ho messo
cinquant’anni per capire che la semplicità non è banalità, è una sintesi
miracolosa di universalità, fatta con elementi elementari ma profondi. È
difficile fare una cosa semplice ma intensa, è molto più facile fare una cosa
complessa. Quindi quando sono sul palco, quello che dicevi tu coinvolge Vittorio
persona, Vittorio uomo, soprattutto quando si suonano brani storici; sapevo che
quando Rodolfo si girava verso di me e mi guardava in un certo modo era per la
soddisfazione della perfetta riuscita di un passaggio complicato, ad esempio su
“La conquista della posizione eretta”, e questi appuntamenti mi
mancheranno da morire, ogni volta, e sarà inevitabile. Ma anche qua ho
realizzato una piccola rivoluzione, e per la prima volta ho selezionato i
membri della mia band in un altro modo, ed è stato determinante. Pensa, ho
provato sei batteristi… Fabio Moresco è stato il sesto che ho testato; quando è
arrivato nel mio studio gli chiesi prima di iniziare a provare: “Fabio, posso
farti una domanda personale? A te piace l’amatriciana?”, e lui mi rispose:
“Sì, e la so cucinare pure bene”, e allora gli ho detto: “Bene ora
voglio sentire come suoni!”. L’ho selezionato così perché questa battuta
provocatoria, apparentemente fuori luogo, non è così lontana dalla realtà, in
quanto la nostra è musica che porta inevitabilmente a un grado di intimità che
ha la necessità imprescindibile di condividere gli stessi valori umani di
riferimento. Sennò inevitabilmente si arriva al conflitto, a criticità
insormontabili.
Con questa domanda
ho selezionato la persona, che si è poi rivelata un uomo di una gentilezza e
bontà unica, e quando abbiamo sentito insieme i brani ci siamo commossi e ci è
sembrato di essere fratelli da sempre.
In questo modo mi
sono trovato intorno i due chitarristi che erano con me già da tempo - Filippo
Marcheggiani e Nicola Di Già - e poi Tony d’Alessio, cantante del gruppo
parallelo al Banco di Filippo, quindi suo amico da 30 anni; Tony si è messo
a disposizione delle mie visioni e delle mie priorità con una umiltà, passione
e talento unico. Da compositore e coautore della musica posso dire di essere
stato soddisfattissimo dell’interpretazione vocale perché lui non ha messo al
nostro servizio solo quella forza vocale straordinaria che ha, non mi sarebbe
bastato, non mi avrebbe emozionato o raccontato le sfumature del testo. Serviva
un cantante dotato di politimbricità vocale, di colori, e sono cose che lui
possiede. Si è calato con estrema umiltà nel progetto e lo stesso è stato con
Paolo Logli. I testi per me sono sempre stati importanti come la musica, e li
ho scritti per 40 anni con Francesco. Sto parlando di un lavoro storicamente
tostissimo, e mi serviva una persona colta, che sapesse del nostro mondo, dei
nostri racconti, della necessità che avevo di ricorrere a immagini e visioni
interiori, a metafore poetiche, ma allo stesso tempo doveva essere paziente,
per unire una metrica perfetta alle ritmicità proprie delle melodie che scrivo.
Logli è di La Spezia, da ragazzo vide un nostro concerto e da allora è
diventato fan del Banco. Quindi trovare un romanziere, sceneggiatore e
scrittore, fan del Banco, amico nostro da tanti anni, anche lui dotato di una
umiltà e passione strepitosa, e ritrovarmi a scrivere con lui i testi con una
naturale complicità, ha reso possibile un progetto così ambizioso. Avere lui
per i testi e Michelangelo per la musica è stato meraviglioso, senza mai
perdere di vista i due motivi iniziali di cui ti ho detto.
La prima fase è
quella impegnativa della scrittura, poi arriva la produzione, e poi accade come
quando un sarto sceglie una bella stoffa, la taglia e la cuce bene, ma fino a
che non fa indossare il suo abito ad un modello non sa se è davvero bello: e io
ho trepidato aspettando il momento di mettere questa musica, questi canti,
queste linee melodiche addosso ai musicisti della formazione. Marco Capozi è un
bassista eccezionale; io curo sempre molto le parti del basso perchè è lo
strumento che unisce ritmo, armonia e melodia. Marco ha fatto un lavoro
eccellente, perché ha un grande tocco sullo strumento e ha interpretato gli
arrangiamenti mettendoci molto anche del suo. La prova del nove sarebbe stata
poi vedere come questo vestito si sarebbe adagiato sulla voce di Tony e sulle
chitarre.
Prima l’ho cantato
tutto io, e mi sono sgolato per dare le linee guida a Tony e verificare, prima
di fargli imparare le parole, come queste suonassero, quindi è stato un grande
lavoro di pre-produzione. Quando poi sono arrivato alle chitarre il disco è
esploso, perché Filippo Marcheggiani, il giovin Filippo, è risultato
particolarmente ispirato, ed è diventato un grandissimo chitarrista, e le
improvvisazioni che gli ho fatto fare nel disco erano così belle che alcune le
ho trascritte e le ho fatte diventare obbligate, da eseguire in duetto, quindi
a volte, nel brano, assoli di chitarra diventano un duetto tra chitarra e
organo hammond, e questo è, oltre che virtuosismo, soprattutto forza espressiva.
In questo disco avevo bisogno di più chitarre del solito perchè serviva rabbia dell’elettrica,
quella che ho ricevuto da Filippo e Nicola.
Può sembrare un
concetto puerile, ma mi è sembra che il destino si sia accanito un po’ troppo
sul Banco, perché a febbraio è venuto a
mancare Francesco, a luglio ci ho provato io, a ottobre è accaduto a Rodolfo, e
mentre io ero in coma da una parte di Roma lui lo era dall’altra; mi è sembrata
un pò una cattiveria, perché è vero che tutti dobbiamo morire, ma non in questo
modo così drammatico e sconvolgente, tutti insieme; abbiamo fatto milioni di chilometri,
poteva accadere in trecentomila modi diversi… così è stata una cosa che ha
sconvolto tutti: avevo proprio bisogno del suono delle chitarre per rompere
l’incantesimo!
Dopo aver sviscerato
il presente, pongo a Vittorio una domanda legata al passato, a quanto accadde
50 anni fa dall’altra parte del mondo, un avvenimento che ebbe risvolti
infiniti anche nel nostro paese, e che sta per compiere 50 anni.
Il pensiero di
Vittorio, rispetto all’argomento, aveva lo scopo preciso di registrare il suo
contributo per un numero speciale di MAT 2020 dedicato al Festival di Woodstock
- che sarà disponibile nel mese di agosto - ma, rileggendolo, mi è parso che potesse
essere inserito come chiosa finale, proprio per il messaggio intriso di
speranza che viene regalato al lettore.
Alla domanda: “Che
cosa è stato per te Woodstock?”, si materializza un quadro carico di
amarezza, che prepara però un possibile lieto fine, perché forse una nuova
Woodstock è pronta a sbocciare, magari con un abito diverso, probabilmente dal
contenuto altamente tecnologico, ma ciò che conta è che sotto le ceneri ci
siano idee e sogni che spingono per emergere e diventare realtà… nell’augurio
che l’ottimismo di Vittorio Nocenzi sia altamente contagioso, e che lui sia
lungimirante.
Dice Vittorio Nocenzi…
E’ abbastanza
facile commentare ciò che ha rappresentato Woodstock, partendo dal mio stato
d’animo di allora, quello di un ragazzo di diciotto anni.
La prendo alla
lontana, iniziando da una constatazione su quanto accadeva a quei tempi: era un
mondo in cui l’idraulico non era ancora arrivato a insegnare al biologo o
all’epidemiologo se i vaccini fossero una cosa positiva o negativa! A buon
intenditor…
Premessa.
Il web è uno
strumento meraviglioso.
Pensiamo a 50 anni
fa, quando il festival che tra poco celebreremo andò in scena: chi avrebbe mai
immaginato nei primi seventies che un giorno avrei potuto dialogare facilmente
con chi si trova dall’altra parte del pianeta, fargli sentire la mia musica,
inviargli immagini e disegni, proporgli la copertina del disco di prossima
uscita, e magari effettuare qualche modifica in real time… nooooo, allora
dovevamo aspettare il tempo della spedizione postale, sperando che nulla
andasse smarrito; poi si doveva andare in stazione, prendere il treno con
direzione Milano, magari un aereo, perché per ascoltare i mixaggi occorreva
andare laddove erano stati fatti. Ora scegli da casa, o magari in vacanza, in
continuo contatto con tutti i rami che conducono al progetto, magari sparsi in
giro per il mondo… meraviglioso… ciò che un tempo non si poteva nemmeno
immaginare è oggi divenuto realtà.
Ma in questa
evoluzione positiva non ci siamo mossi nella maniera corretta, ancora una volta
abbiamo pensato in primis a trovare delle scorciatoie, utilizzando dei
sostituti capaci di sopperire alle nostre lacune: immaginiamo che io non sia in
grado di muovere le dita sui tasti del piano, e per creare musica debba/voglia
chiedere ausilio al sequencer del computer… cosa avrò ottenuto!? E’ una
situazione sostenibile o sono pronto a cadere alla prima occasione?
Il computer è un
registratore attivo, ti consente di improvvisare e registrare il tuo istinto
primordiale, quindi se hai del talento esce spontaneo e viene catturato e
imprigionato dal mezzo tecnologico, fissato per sempre su un supporto di
archiviazione; ma come tutte le cose improvvisate e non ragionate avrà dei
difetti, limiti a cui si può porre rimedio attraverso l’uso di un cervello
elettronico, che farà apparire su un pentagramma a video ciò che è stato
realizzato, che andrà analizzato e modificato a piacimento – magari anche una
sola nota - secondo logica di dettaglio e di contesto.
Ai tempi di
Woodstock, tanto per individuare precisamente un periodo storico, registrare un
album era un inferno, avendo a disposizione solo 8 piste: non ci entravano
tutti gli strumenti! Non credo sia possibile spiegare alle nuove generazioni di
musicisti cosa volesse dire mixare un album in quelle condizioni, il tempo
necessario e la ricerca della precisione, con il coinvolgimento di un team
composto da tante persone che dovevano intervenire al momento giusto, con inevitabili
errori che inducevano a ricominciare da capo. E quando tutto sembrava
terminato, e il pezzo veniva agganciato al mixaggio precedente, scoccava l’ora
della verità, e spesso… si doveva ricominciare da capo: questo era il mondo in
cui ci muovevamo in quei giorni.
Era uno slow food,
uno slow dream, ma davanti avevamo un’autostrada di aspettative, c’era una
speranza color arcobaleno, c’era la certezza che con la fantasia al potere si
potesse cambiare il futuro, migliorandolo, trasformando sogni in realtà.
Si usciva da
un’epoca che aveva vissuto il boom economico, e sembrava che tutto si basasse
sull’emancipazione materiale, una sorta di pragmatismo occidentale che, unito
ai miracoli legati alla possibilità di avere la disponibilità di frigorifero,
televisione e auto utilitarie, portava a pensare che la felicità risiedesse nel
possesso del denaro.
I giovani invece
sognavano a colori, idealizzavano altre cose, diverse da quelle materiali,
obiettivi che sembravano assolutamente raggiungibili.
Woodstock ha
rappresentato il sogno collettivo, il movimento giovanile del mondo occidentale
che credeva di poter cambiare le prospettive della corsa umana: si poteva
ascoltare grande musica, scrivere e leggere meravigliose poesie, vedere grandi
film, coltivare nobili ideali, e si pensava ad un futuro completamente diverso
da quello che purtroppo abbiamo messo insieme… oggi vediamo un fallimento
totale, dove la “grande bellezza” è soltanto un sogno smarrito. Ecco cosa ha
vissuto la mia generazione, e il mondo di Woodstock - basato sul diventare
migliori come uomini, tolleranti e solidali - è tutto ciò che purtroppo non
abbiamo adesso!
Ma occorre cercare
la luce in fondo al tunnel.
C’è un brano nel
nostro album “Transiberiana” che è “Campi di fragole” (“… campi di
fragole sotto la neve germogliano…”): nel momento in cui si pensa che ci
sia soltanto il gelo, la terra sta per donare la nuova speranza legata a nuovi
prodotti: sotto la neve sta crescendo qualcosa… la gente ha bisogno di ritrovare
ancora a belle idee, ha necessità di poesia, di bellezza, di amore… solo così
l’essere umano può sopravvivere, e sono convinto che tutto questo tornerà; il
vero significato di “Transiberiana” risiede nel concetto che il viaggio
deve ricominciare, e molte persone che hanno ascoltato il disco me lo hanno
confermato, perché non siamo visionari, ma sentiamo il bisogno e il desiderio di superare il
disagio del vivere, e quindi l’album ha l’urgenza di essere condiviso, perché,
come accadde per il festival di Woodstock, dà voce alle speranze, che non
riconducono alla disperazione, ma sono dirette alla ricostruzione.