Il mio amico Angelo De Negri mi permette di conoscere e
condividere una storia di quelle che piacciono a me, e che mi ero perso.
Trovandosi in Umbria lo scorso settembre, non so se
casualmente o volutamente, si ritrova a Deruta, davanti ad un negozio di
artigianato della ceramica dove il proprietario espone le sue chitarre e, dalla
vetrina, emerge la storia di una di queste in particolare, quella donata a
Carlos Santana in occasione di un Umbria Jazz del 2011. Per inciso, le
fotografie possono essere fatte solo all’esterno.
Incuriosito, sono andato alla ricerca della storia che,
attraverso le info “rubate” in rete, si è un po' chiarita.
Questo è l’incipit…
Umbria Jazz 2011: mancano trenta minuti all’inizio
dell’esibizione.
Carlos Santana viene raggiunto da un timido
artigiano di Deruta, che gli si avvicina quasi intimorito imbracciando una
custodia. La poggia in un angolo, la apre e svela una chitarra elettrica: «Ecco,
questa è per lei» si limita a dire, porgendola al musicista.
Santana strabuzza gli occhi: non è di
legno, lo si percepisce al tatto, e pesa all’incirca quattro chili; ma la cosa
che più lo sbalordisce sono le decorazioni. Quei colori accesi e le forme, che
si raccolgono in una figura quasi mandalica, pizzicano le corde del suo
spirito.
Non è una semplice chitarra: si tratta di un’opera d’arte, in
autentica ceramica derutese.
«Bella, stasera ci suono» commenta soddisfatto.
E lo fa sul serio, con il brano “Open Invitation”, nove
minuti che l’Umbria intera non dimenticherà mai.
Dopo il festival, chiede al suo
manager di contattare l’artigiano, ringraziarlo e farsi comunicare il valore di
quel meraviglioso strumento, così da poterlo assicurare.
L’uomo è entusiasta: se Santana vuole
assicurare la sua chitarra, significa che gli è piaciuta davvero.
Ne ha ulteriore conferma quando scopre che, durante il
concerto di Bari, il musicista la riporta in scena.
L’artigiano protagonista di questa incredibile storia è Giovanni Andreani.
Vediamo qualche nota biografica di Andreani
Originario di Deruta, inizia a
dipingere a ventisei anni, dopo aver suonato per diverso tempo con la sua band,
Quintaessenza, cosa atipica nel suo piccolo paese, definito la “capitale della ceramica
umbra”, dove i ceramisti apprendono il mestiere sin da piccoli.
Dopo aver fatto vari lavori, apre la
bottega sotto casa sua e chiede allo zio Franco di insegnargli l’arte della
ceramica. Dopo un anno, inizia a produrre pregevoli pezzi in stile
Raffaellesco, Orvietano, Arabesco e Ricco Deruta. Era il 1999. Qualche anno
dopo, nel 2003, incomincia a pensare alla chitarra di ceramica, perché non può
fare a meno del suo grande amore per la musica e adora il suo nuovo lavoro: ed
è qui che scatta l’intuizione.
Smonta la sua Fender Stratocaster, la
seziona, la studia nei minimi particolari: si rende conto che essere un bravo
ceramista non basta per realizzare il progetto che sta prendendo forma nella
sua mente.
Apprende tutte le nozioni necessarie
e riesce a costruire il ponte, la tastiera e il corpo, seguendo regole ferree
onde evitare di creare uno strumento malfunzionante, perché il suo obiettivo,
sin dall’inizio, è creare un’opera che possa essere suonata.
Il 10 febbraio del 2005, nasce la sua GA1.
E oggi?
Dalla sua bottega di Deruta si odono
canzoni di Jimi Hendrix, dei Led Zeppelin, i Pink Floyd, i Nirvana e i Guns N’
Roses. Chiunque ne è attratto sin da subito: è diversa rispetto a tutte le
altre, ha in sé la solennità che si addice ad un piccolo tempio del rock.
In vetrina, le chitarre fabbricate
negli ultimi anni: il corpo costituito da un blocco di argilla unico, manici in
palissandro e mogano e gli inserti sulla tastiera in madreperla: caratteristiche
che le rendono uniche al mondo. Sono in tutto nove, più la GA10 donata a
Santana, ritratta in foto e articoli.
In molti vorrebbero acquistarle, ma
la risposta di Andreani è sempre la stessa, negativa.
Molti curiosi si fermano per poter
osservare dal vivo il ceramista che suona, a qualcuno è permesso provare le sue
chitarre, ma pur azzardando cifre esorbitanti nessuno riesce ad accaparrarsi i
preziosi strumenti. E già, le sue chitarre non sono in vendita! Musicisti e
appassionati provenienti da tutto il mondo si sono fermati a Deruta, apposta
per convincere Giovanni Andreani a vendere le sue chitarre elettriche.
Andreani decide di non cedere nemmeno alle offerte più
generose e, inoltre, non vuole che i suoi strumenti vengano abbandonati in una
teca o appesi ad una parete.
Il valore stimato per ogni chitarra di ceramica è di circa 12
mila euro, ma talvolta gliene sono stati offerti molti di più.
L’aneddoto…
Un turista entra nella bottega di
Andreani a Deruta. Come tanti, osserva le chitarre pensieroso e chiede di
poterne suonare una. Subito, dà prova di un talento fuori dal comune, un
dettaglio che fa scattare subito il ceramista sull’attenti.
Giovanni Andreani scopre che il
turista è in realtà Alan Clarke, voce e chitarra dei The Hollies, che vanta collaborazioni
importanti come quelle con i Beatles e i Rolling Stones. Co-autore
dei brani On a Carousel, Carrie Anne, Jennifer Eccles e Long Cool Woman in a
Black Dress, inserito nel 2010 nella Rock and Roll Hall of Fame.
Quasi un mito, che però non riesce ad ottenere la chitarra,
tanto ripasserà!
Stessa sorte è toccata al musicista jazz e blues Danny Caron,
chitarrista e musical director del leggendario Charles Brown.
Non mi è chiaro se la sua posizione rispetto alle vendite sia
cambiata nel tempo, ma a chi fosse interessato consiglio una visita sulla
pagina facebook, magari tutto si chiarirà!
Vorrei introdurre oggi un nuovo libro che tanto “nuovo” poi non
è, nel senso che è stato rilasciato nel 2015, quindi la fotografia che
l’autrice realizza appartiene ad un momento specifico del passato, ma non appare
oggi sbiadita, tutt’altro, e gli argomenti che rappresentano il focus del
contenitore sono attualissimi e si prestano a riflessioni varie che,
probabilmente, superano gli intenti dichiarati. D’altro canto, nel momento in
cui chi crea - in ogni campo - decide di donare la propria arte al prossimo,
chi riceve il regalo può decidere di usufruirne a piacimento, magari reinterpretando
in modo esclusivo, uscendo dall’ortodossia e dagli intenti autoriali.
È quello che mi è accaduto leggendo “Curve di cioccolato”, di Laura Travaini, scritto che ho utilizzato per
creare i miei “viaggi” personali, dal momento che ho ricevuto forti
stimolazioni della memoria che proverò a spiegare nelle righe a seguire,
sperando che la scrittrice possa perdonare le mie digressioni.
E questa volta non parlerò di musica, anche se, a ben vedere,
con un po' di buona volontà il nesso lo si può sempre trovare!
Le protagoniste del racconto itinerante della Travaini -
tutte femminili - hanno un fil rouge che le unisce: il “mestiere” - lo chef -,
il genere, la regione in cui prevalentemente operano - il Piemonte - e… il successo, uno status da topplayer che è sintetizzato dalle “stelle”
ottenute in ambito culinario, e devo confessare che avevo sottovalutato quanto
fosse importante mettere sul petto della propria divisa una o più stelle
Michelin, ovvero uno dei riconoscimenti più ambiti per ogni chef, e più in
generale per un ristorante, a certificazione dell’utilizzo di ingredienti di
prima qualità, testimoniati da piatti preparati secondo uno standard
costantemente elevato.
Va da sé che l’obiettivo possa coincidere con l’incremento
dei vantaggi economici - si lavora anche per questo, in ogni campo -, con
l’ovvio miglioramento dell’attività - spesso a carattere famigliare - ma ciò
che proprio non emerge dalla lettura (frutto di incontri e quindi di chiacchierate/interviste) è l’aspetto
materiale, quasi un ossimoro parlando di cibo!
La passione, ecco, la grande passione, è questo il collante che unisce Mariuccia Ferrero, MartaGrassi, Elide Mollo,
Mariangela Susigan e Luisa Valazza.
La diapositiva della Travaini immortala le cinque chef nel
loro habitat naturale e nel quotidiano luogo di vita.
L’approccio è differenziato, perché diverse sono le
interlocutrici, e la sensibilità di chi conduce la danza deve tener conto di
chi ha davanti, modulando l’approccio all’occorrenza, anche se non manca mai l’inevitabile quesito, più o meno questo: “Come ha reagito quando ha saputo di aver
ottenuto la stella?”
Ma il risultato, nonostante le differenze delle intervistate,
appare sempre lo stesso, con la sottolineatura naturale della grandezza umana
delle “signore del cibo”.
Passione, dicevo, idee chiare, spirito di sacrificio,
tenacia, coraggio… tutte doti che diventano pura didattica, perché applicabili
in ogni rappresentazione della vita, a tutte le latitudini e longitudini.
Non si arriva mai facilmente sulla vetta e, soprattutto, non
ci si resta a lungo se non si hanno grandi competenze e idee chiare su ciò che
si vuol raggiungere nel tempo.
Sullo sfondo il mondo che conforta e unisce autrice e chef,
quella regione così carica di cultura - non solo culinaria - che diventa il mio
primo legame con il book, che mi porta a riesumare i ricordi di una vita, e che
rivivo con buona frequenza, rivangando le storie vissute e raccontate dai miei
affetti, consolidate successivamente dal mio percorso, un profumo fascinoso che
ha sempre calamitato i miei interessi e i momenti ludici.
Mentre Mariuccia, Marta, Elide, Mariangela e Luisa si aprono
e inviano pillole di saggezza, un paesaggio ed un modo di vivere mi si aprono
davanti a ventaglio, e i dettagli di accadimenti altrui riportano ai miei, quelli
in cui posso crogiolarmi o soffrire, seguendo una gamma di sentimenti difficile
da spiegare.
È questo il mio modo di interagire con libro ed autrice.
Accanto ad immagini estremamente personali, la lettura mi ha
portato ad altre riflessioni che riguardano problemi sempre molto attuali,
anche in un paese come l’Italia che si fregia dello status di “Paese culturalmente
avanzato”. Mi riferisco alla constatazione che il ruolo della donna non trova
ancora il giusto valore, anche quando il mestiere potrebbe essere completamente
paritario.
Senza voler entrare in discorsi troppo complicati, la lettura
ha fatto emergere molte mie lacune: sintetizzo, non avevo idea di chi fossero
le cinque chef, nonostante il loro valore e la loro capacità di affermarsi
anche oltre gli italici confini. Al contrario - ho pensato tra me e me - conosco
il nome, attraverso i media, di molti corrispettivi importanti di genere
maschile, ovvero, anche un ruolo/mestiere incollato da sempre alla donna,
quello recitato pesantemente in passato dalla cuoca di casa - e dai suoi supposti
obblighi -, arrivato al punto più alto… cambia sesso e si nobilita ai massimi
livelli.
Semplificazione? Casualità? Forse, ma gli elementi per far
sorgere qualche dubbio ci sono tutti.
Ma cosa c’entra il
cioccolato in tutto questo?
Alla fine del singolo racconto, ogni chef presenta ricette a tema - specifiche
e riproponibili - e regala qualche pensiero che sottolinea l’importanza del
cioccolato, secondo un modus del tutto personale.
Scelgo quello che si avvicina maggiormente al mio modello:
Il cioccolato è sensualità rock.
Grintoso.
Basico.
È un bacio
Meraviglia!
Come dicevo il libro è uscito nel 2015 e, con l’aiuto della
tecnologia sarà facile scoprire cosa è accaduto in questi sette anni alle “protagoniste
del racconto”.
Un’ultima nota doverosa, il libro viene proposto nella doppia
lingua italiano/inglese, basta iniziare dal lato opposto, capovolgere e … il
gioco è fatto!
Ho incontrato la musica dei The Aaron Clift Experimentnel 2015, quando commentai "Outer Light, Inner Darkness".
Nel 2018 MAT2020 (Luca Nappo) presentò l’album successivo, “If all goes
wrong”, questo per dire come non sia casuale proporre oggi il nuovo
progetto post pandemico, “The Age of Misinformation”.
Ricordiamo qualcosa sulla band
utilizzando le note ufficiali.
The Aaron Clift Experiment è un
gruppo di rock progressivo nato ad Austin, in Texas. Il suono sfaccettato della
band fonde influenze dal rock classico (Rush, Pink Floyd, King Crimson), rock
moderno (Porcupine Tree, Opeth), jazz e musica classica, il tutto legato da una
dedizione al songwriting e alla musicalità di alta qualità.
Formatasi nel 2012, la band è un
power group arricchito dall'ampio background dei suoi membri.
La voce caratterizzante del cantante
di formazione classica e tastierista Aaron Clift è supportato dalla potente
chitarra di Anthony Basini e dalla sezione ritmica formata da Clif Warren
(basso) e Pablo Ranlett-López (batteria, percussioni).
Negli ultimi anni, la band si è
ritagliata un seguito significativo in tutto il mondo.
L'ultimo album dell'Aaron Clift
Experiment, "If All Goes Wrong" del 2018, è stato un successo
in ambito rock progressive, acclamato dalla critica e dai followers.
L’intervista a seguire realizzata con
Aaron permette di entrare nei particolari del progetto che, a dire il vero,
faccio fatica ad inquadrare nel genere prog tradizionale. Ma se prog è l’equivalente
di libertà espressiva, beh, allora siamo certamente al cospetto di un album di
genere, e credo che i miei dubbi e il mio pensiero siano resi chiari dal video
che propongo a seguire.
Il periodo di arresto forzato dell’attività
ha cambiato il modo di affrontare il quotidiano, in qualsiasi campo, e la
musica non ha fatto eccezione.
Gli stati d’animo poco sereni e l’impossibilità
di vedere la luce in fondo al tunnel hanno permesso riflessioni diffuse e, nel
caso di figure creative, di cercare nuovi percorsi, consolidando quelli già
conosciuti.
Il concept “The Age of
Misinformation” propone le tematiche suggerite dal momento contingente,
inserite in un fine contenitore musicale che fonde generi diversi tra loro, proponendosi
alla fine come album molto trasversale, adatto a differenti palati, anche
quelli solitamente lontani dalle sonorità rock.
Oltre a “Bet on zero” - che è
testimoniata sul canale youtube della band - e che è un po' il simbolo del
nuovo corso, segnalo la conclusiva e riflessiva “Weight of the World”, e la
title track:
L'era della disinformazione incombe
Si sta avvicinando rapidamente
Impossibile nascondersi
Presto si impadronirà di te
Per fuggire dalla marea che cambia
Dove tutti i tuoi amici negano la
verità
E ogni estraneo mente
Non c'è nessun posto dove puoi
andare,
Quindi saluta la nuova malattia…
Un disco maturo, molto ben
congeniato, che sottolinea il nuovo corso di The Aaron Clift Experiment…
L'ultima
volta che MAT2020 si è occupato di The Aaron Clift Experiment è stato nel 2018,
quando uscì il tuo terzo album, "If All Goes Wrong". Cosa ti è
successo da allora, musicalmente parlando?
Dal punto di vista musicale la cosa
più importante che mi è successa negli ultimi anni è che ho iniziato ad
avvertire una migliore propensione al pensare non solo come musicista e
cantautore, ma anche come produttore e arrangiatore. Quando guardo indietro agli altri
precedenti album degli Aaron Clift Experiment, penso che siano stati tutti
sforzi pesanti, ma ricordo che già all’epoca sentivo che c'era qualcosa di più
che avrei potuto fare, con e per il nostro suono. Ad esempio, ho sempre creduto che la qualità
del songwriting e la diversità della musica del nostro terzo album, "If
All Goes Wrong", fosse eccezionale, ma c'erano alcune scelte di
produzione che abbiamo fatto all'epoca che avrebbero potuto essere migliori.
Abbiamo registrato quell'album molto velocemente (in due settimane), e mentre
abbiamo provato molto le canzoni, non abbiamo mai registrato alcun demo di esse,
il che ha portato a molte scelte di arrangiamento e produzione fatte al
volo. Molte di quelle scelte sono state
buone, ma riascoltando l'album mi rendo conto che qualcosa avrebbe potuto
essere fatto diversamente. Ciò che ho imparato
da quell'esperienza è che registrare demo in anticipo e pianificare di più la
produzione può essere un aiuto nella realizzazione della mia visione artistica.
In
che modo la pandemia ha influenzato la creazione della tua musica?
La
pandemia mi ha costretto a ripensare molti dei modi in cui avrei scritto musica
con la band.Prima del periodo di
lockdown, dall'inizio del 2020 alla fine del 2021, avevamo fatto la maggior
parte del nostro songwriting nella stessa stanza, insieme. Ma come si può fare
quando si è tutti in posti diversi?Per
fortuna, la tecnologia è venuta in soccorso. Ho
imparato molto sull'arrangiamento, la produzione e la registrazione della
musica in Ableton Live, e ho usato quella conoscenza per creare demo di nuove
canzoni di Aaron Clift Experiment usando strumenti virtuali. Mandavo questi demo ai miei compagni di band
e chiedevo loro di sostituire le parti virtuali con le loro parti registrate a
casa e poi mettevamo insieme i pezzi in Ableton o in una workstation audio
digitale simile e poi ascoltavamo i risultati come band tramite una conferenza
web. Durante quegli incontri virtuali commentavamo le parti che portavamo alla
riunione e poi tornavamo indietro per modificarle. Una
volta che siamo stati tutti vaccinati e la pandemia ha iniziato ad attenuarsi
alla fine del 2021, ci siamo finalmente riuniti per provare la musica che
avevamo scritto. All'inizio ero
preoccupato che la musica non suonasse molto bene, dal momento che era stata
scritta "virtualmente", ma come si è scoperto, tutto il duro lavoro
che avevamo fatto nel preparare i demo ci ha aiutato molto a capire gli
arrangiamenti delle canzoni, e in realtà il suono che ne è uscito molto coeso,
come se avessimo creato nella stessa stanza.
Parliamo
del nuovo progetto: cosa contiene "The Age of Misinformation", dal
punto di vista del messaggio?
"The Age of Misinformation"
è un'opera concettuale sul potere distruttivo delle bugie e sulla ricerca della
verità di fronte a verità schiaccianti. Durante il COVID, i miei amici, colleghi e concittadini,
hanno attraversato un momento incredibilmente difficile e sapevo che dovevo
dire qualcosa al riguardo. Il nuovo album è la testimonianza di quel momento
realizzata dell'Aaron Clift Experiment.
Con
l'uscita del nuovo album, come si è evoluta la musica degli Aaron Clift
Experiment?
Credo
che "The Age of Misinformation" si focalizzi maggiormente sui suoni,
rispetto al passato: la musica è più intricata, più melodica e più
diversificata di qualsiasi cosa avessimo fatto prima. Penso che gli
arrangiamenti e la produzione delle canzoni siano molto più pensati rispetto
agli album precedenti, e il messaggio di questo album è molto forte.
C'è continuità
rispetto ai lavori precedenti?
Vedo ogni nuovo album che facciamo
come una reazione a quello che è uscito prima.Ripenso alle cose che mi sono piaciute dell'ultimo album e faccio il
punto sulle cose che voglio migliorare.Quindi, si potrebbe dire che dal punto di vista della voce artistica, il
nuovo album rappresenta un'evoluzione rispetto all'ultimo album, ma non ho mai
deciso di legare direttamente album diversi insieme.
Possiamo
fare il punto, secondo te, sullo stato della musica prog e della musica in
generale?
Oggi siamo
nell'era migliore della storia per essere artisti indipendenti, perché tutti gli
intermediari che prima erano necessari per far conoscere la propria arte oggi
non ci sono più. Ora è possibile interagire con i fan senza passare attraverso filtri
dispendiosi e creare così la propria industria artigianale senza le pressioni
di etichette discografiche, editori, ecc. Allo
stesso tempo siamo in un momento davvero impegnativo: non è più sufficiente
essere bravo nel tuo mestiere, ma devi anche essere abile nel marketing, nella
videografia, negli affari e in tanti altri aspetti. Gli artisti che sono di
mentalità aperta e disposti ad apprendere nuove abilità e indossare molti
cappelli hanno le migliori possibilità di successo. Naturalmente, anche questa non è garanzia di
successo.
Cosa
puoi dire ai fan del prog italiano?
L'Aaron
Clift Experiment ha avuto molti fan in Italia nel corso degli anni, e non potremo
ringraziarli mai abbastanza per il supporto!
The Aaron
Clift Experiment:
Aaron Clift:
voce, tastiere
Anthony Basini: chitarra, cori
Clif Warren - basso
Pablo Ranlett-López: batteria,
percussioni
Con:
Zach
Matteson: violino I in "The Color of Flight" e "Málaga",
solista in "Málaga"
Charles
Anderson: violino II in "The Color of Flight" e "Málaga"
Jason
Elinoff: viola in "The Color of Flight" e "Málaga"
Ellie Prager:
violoncello in "The Color of Flight" e "Málaga"
Big Wy's
Brass Band: ottoni in "Bet On Zero":
Ethan Brown:
tromba
Austin
Johanning: tromba
Justin Dunlap
- trombone
William
Wright: trombone, solista
Marcus Cardwell - sassofono contralto
Colin Houlihan: sassofono baritono,
solista
Testo, arrangiamenti archi e ottoni:
Clift
Musica: Clift, eccetto
"Rise", "The Color of Flight": musica di Clift/Basini,
"L.I.A.R.": musica di Clift/Basini/Warren
Registrato in aprile – maggio 2022
agli Antimatter Studios – Austin, Texas
Produzione: Aaron Clift
Registrazione e missaggio: Russell
Tanner
Mastering: Jerry Tubb presso Terra
Nova Digital Audio, Inc. – Austin, Texas
Design artistico: Fumihito Sugawara
Fotografia: Tobe Mokolo
Videografia: Charles Bradbury e
Skyler Frost – Content Pump Productions
The Jethro Tull Christmas Album(noto anche semplicemente come
Christmas Album) è il ventunesimo ed ultimo disco registrato in studio dai Jethro Tull,
pubblicato nel 2003.
L'idea fu partorita da Len Fico, capo
della casa discografica Fuel 2000 il quale suggerì a Ian Anderson, nel Natale 2002, l'opportunità di registrare un nuovo
album dal clima natalizio.
Fu così che Anderson si mise subito al lavoro riproponendo
pezzi già editi in precedenti album, ma anche canzoni nuove.
Ben 7 brani su 16
sono strumentali tra i quali il pezzo in chiusura, A Winter Snowscape, composto da Martin Barre e inserito anche nel suo album Stage Left in un'altra
versione.
The Jethro Tull Christmas Album è l'ultimo lavoro in studio a nome
della band, essendosi il gruppo di fatto sciolto nel 2011.
Tracce
The
Jethro Tull Christmas Album
Birthday Card at Christmas – 3:37
Holly Herald – 4:16
A Christmas Song – 2:47
Another Christmas Song – 3:31
God Rest Ye Merry Gentlemen – 4:35
Jack Frost and the Hooded Crow – 3:37
Last Man at the Party – 4:48
Weathercock – 4:17
Pavane – 4:19
First Snow on Brooklyn – 4:57
Greensleeved – 2:39
Fire at Midnight – 2:26
We Five Kings – 3:16
Ring Out Solstice Bells – 4:04
Bourée – 4:25
A Winter
Snowscape – 4:57
Line up
Ian Anderson
- voce, flauto traverso, chitarra acustica, mandolino, ottavino, percussioni
Martin Barre
- chitarra elettrica, chitarra acustica
All Saints
Church Hall, Powis Gardens, Notting Hill, Londra, 1966
“I concerti a Powis Gardens segnarono l’inizio della nostra popolarità”,
dice il bassista dei Pink Floyd, Roger
Waters.
“Fu un periodo esaltante. La testa di Sid Barret funzionava ancora ed eravamo tutti pieni di entusiasmo.
Era molto prima che diventassimo professionisti e cominciassimo a incidere.”
Nel gergo del tempo
tutto era molto “fuori”.
Le follie
psichedeliche britanniche erano certo influenzate dalla West Coast americana,
ma quei primi concerti in una modesta chiesa di Notting Hill confermarono che
non si trattava di imitazione.
“Le nostre luci usavano molto meno l’intermittenza ed erano più legate
alle immagini. Questo anche se alla chiesa di All Saints se ne occupava un
americano” dice Peter Jenner, uno dei due primi manager dei Pink Floyd. “I
nostri spettacoli erano più cupi e allucinati, pieni di grandi ombre
espressioniste. Molto Nosferatu”.
Verso l’autunno del
1966 i media britannici cominciarono a interessarsi alla psichedelica,
considerata la nuova moda destinata a sostituire beat, mod e minigonne .
“Noi non sapevamo cosa fosse la psichedelica” ammette il batterista
dei Pink Floyd, NickMason.
“C’erano le droghe, certo, ma era una filosofia raffazzonata, fatta con
le idee in voga all’epoca”. In
sostanza cercavamo di allargare i confini”.
Autodefinitisi “un
laboratorio suono/luce “ e con il celebre mantra del guru dell’LSD Timothy
Leary -“Accenditi, sintonizzati, vai
fuori”- citato sui manifesti dei loro concerti, i Pink Floyd
rappresentavano al meglio lo spirito onnivoro del periodo. Recensendo una delle
performance a Powis Gardens, la rivista alternativa International Times
sentenziò soddisfatta che “il loro lavoro è in gran parte basato
sull’improvvisazione”.
“Dovevamo far capire
che le nostre non erano canzoni pop, erano cose più importanti, erano cultura,
cultura rivoluzionaria”, dice Jenner.
L’impresa riuscì.
Durante la breve esperienza di concerti a sostegno della London Free School, il
progetto di educazione comunitaria condotto da John “Hoppy” Hopkins, il
quartetto venne intervistato dal Times e i loro concerti a Notting Hill
attirarono l’attenzione di un eterogeneo insieme di studenti, intellettuali e
anticonformisti.
Molti arrivarono con
l’esplicita intenzione di fornire ai propri viaggi in acido un adeguato
sottofondo di suoni e luci.
“Non fu una scelta consapevole quella di suonare musica da trip”,
insiste Nick Mason. “Semplicemente
reagivamo a uno stimolo visuale che non era troppo adatto a ritornelli e incisi.”
Fu così che nacque la
versione britannica della psichedelica.
(dalle note di Mark
Paytress) Immagini di repertorio relative al '66...
Sono da sempre molto legato a tutto
quanto gira intorno al mondo “The Trip”, e il mio approccio risale alla fase
adolescenziale, quando incontrai la prima volta il mio concittadino Joe Vescovi;
non starò qui a tracciare gli incroci di vita che hanno rinforzato in tempi
recenti un legame esteso a tutta la “famiglia Trip”, ma ogni ricordo, ogni
nota, ogni immagine, mi riporta a situazioni difficilmente spiegabili a parole,
giacché rientrano in una sfera personale delicata.
Non è questo lo spazio corretto per
ripercorrere la storia ma, al contrario, guardare dritti verso il futuro,
quello di una musica di nicchia - il progressive - che si autoalimenta e
conquista spazi “giovani” per il suo raggiunto stato di immortalità.
E allora, più che parlare di Joe e Wegg,
è bene concentrarsi su questo nuovo progetto, da tempo nell’aria, che ruota
attorno al batterista Furio Chirico, un musicista che non ha bisogno di
presentazioni e che si presenta oggi come furio chirico’s The Trip.
Ovvi i riferimenti al passato, un
percorso che non si può e non si vuole annullare, ma "Equinox" - è questo il nome dell’album - si
propone come disco “nuovo”, i cui riferimenti nostalgici possono toccare più
gli ascoltatori che non i protagonisti, musicisti che, pregni di progressive,
rivolgono lo sguardo al lato sperimentale, creando un concept davvero coinvolgente.
Un forte legame con Vescovi è
testimoniato dall’hammond di Paolo Silver Silvestri, ed è per questo che
ho realizzato con lui l’intervista che propongo a seguire, certo che il punto
di vista dell’ultimo arrivato nella band - cronologicamente parlando - possa essere
interessante, essendo importante, anche, il suo contributo creativo.
Si parte con la strumentale “I’m
Fury”, ritmo pazzesco e tastiere impegnate tra fughe e svisate
virtuose, e se in questo caso viene naturale l’abbinamento col passato, il
riferimento sembrerebbe più l’Emerson versione The Nice, un nome che si presenta
sempre quando si parla di certi rivoli di musica. L’atmosfera è quasi aulica e personalmente
lo immagino come perfetto brano di apertura di un concerto, una sorta di “scalda
pubblico”.
Con “Mother Earth” ci troviamo
in un modus più psichedelico, traccia praticamente divisa a metà, condotta da
una vocalità davvero particolare, con l’entrata sommessa del basso che porta un
cambiamento nel mood e apre ad una straziante frase solistica dell’elettrica. È questo un prog rock più “recente”,
che appare la continuazione del percorso appena iniziato.
Strana e inconsueta storia quella
legata alla terza traccia, “A suite for everyone”, la cui
realizzazione è ampiamente descritta nel corso dell’intervista. Impossibile
restare indifferenti a una tale proposta, dove il grande virtuosismo si
apprezza ma scompare nascosto da un disegno superiore, un’ideale di musica che
non deve stupire per la bravura di chi lo propone ma per gli stimoli positivi che
riesce a fornire. Esempio perfetto di mix tra classicismo
e rock.
“Catch the Dreamin'” si
spinge sulla fase sperimentale e mette in evidenza le grandi skills dei musicisti
e la loro apertura verso ogni aspetto del rock, tra passato e innovazione. Chirico
sugli scudi, anche come apporto creativo.
“Downward Onward” è
qualcosa di più traditional, di rock duro, di ouverture verso la contaminazione
percussiva che trae linfa dalla world music. Una sensazione di déjà vu che
trova conferma solo nell’atmosfera generale, ma che ad attenta analisi appare molto
innovativa.
Con “The Reason Inside Playing”
si abbassano i ritmi e si esce un po' dalla tipologia progressive, l’elettrica
diventa protagonista e duetta con l’hammond, mentre la voce di Lanari diventa
sempre più caratterizzante. Emozionante. Emozionante anche sapere che l’ispirazione
arriva dal rapporto tra Arvid "Wegg" Andersen e l'amico Ritchie
Blackmore.
“Summer Solstice” è un
altro strumentale, con in evidenza ancora l’elettrica di Rostagno. Un rock
molto seventies che sa di liberazione dagli schemi, quasi una jam che termina
con passaggi mirati di hammond, che in questo caso profuma di Jon Lord.
Non poteva mancare il tributo al
genio di Joe Vescovi. “Remember Joe” era destinato a suscitare
ricordi solo attraverso la linea melodica, ma successivamente è stato aggiunto
un testo raggiungendo così una dimensione completa. Non è solo semplice melodia,
perché la variazione ritmica pone il brano su di un livello più complesso, ma
la sacralità diffusa riporta al ricordo di Joe.
In chiusura un breve strumentale - “Story
of a Friend” -, il senso della fine del viaggio, e sul sottofondo
pianistico la chitarra elettrica vola e disegna tristezza, spleen e divagazioni
melanconiche.
Beh, un bel disco, un contenitore sonoro
per me inaspettato, capace di mantenere l’idea del passato proponendo un
percorso che cerca novità pur mantenendo smell antico, senza rinnegare ciò che
per le nuove generazione potrebbe apparire datato, ma immaginando il prog del
futuro.
La chiacchierata realizzata con Paul
Silver Silvestri potrebbe a questo punto rivelarsi chiarificatrice…
Paolo Silver Silvestri
Mi parli del progetto, partendo dal nome e dagli intenti?
Al contrario di quanto qualcuno pensa,
questo progetto non è stato messo in piedi alla veloce, ma esaminato con tutta
calma e a più riprese, quindi, è stato un gran lavoro di squadra. Personalmente sono l'ultimo entrato a
far parte della band: nella primavera del 2019 mi chiamò Gius Lanari dicendomi
che aveva bisogno di un tastierista hammondista per una band con Furio Chirico
alla batteria; rimasi un po' perplesso e non accettai subito, ma parlai con
Furio chiedendo delucidazioni, perché se fosse stato un tributo ai Trip e basta
avrei sicuramente rinunciato, se invece si fosse trattato di fare un nuovo
album, potere scrivere quindi nuovi brani, allora la cosa mi sarebbe piaciuta.
Furio mi rispose che proprio di quello si trattava, un nuovo album, il
proseguimento di “Atlantide”, immaginando quello che sarebbe potuto
accadere se Joe Vescovi fosse stato ancora vivo. Non a caso il nome della band
è Furio Chirico's THE TRIP. È il viaggio di Furio che continua
dopo la dipartita di Joe Vescovi e Wegg Andersen. Concludo dicendo che se la band si
fosse chiamata solo THE TRIP non avrei accettato di farne parte, ho sempre
pensato che certi brani appartengano ad un solo musicista, insomma il nome solo
“THE TRIP” è sinonimo di Joe Vescovi e, a mio giudizio, senza di lui una band
non si può chiamare con quel nome.
È appena uscito il nuovo album: partiamo dal titolo e dai
suoi significati…
EQUINOX è un album articolato tra
l'uomo e il potere, compresa la natura, è un album costituito da nove brani
dove ognuno di noi ha suonato come meglio credeva e poteva, ovvero siamo stati
noi stessi. Furio Chirico non ha bisogno di
presentazioni, è un batterista eccezionale, un drummer che quando vuole può
fare il solista in una band, un vero metronomo umano, spettacolare dal vivo. Ho trovato in Gius Lanari un ottimo
bassista ed anche un valido cantante; Marco Rostagno alla chitarra è molto
preparato, è laureato in conservatorio e per me parlare con lui di musica, di
come affrontare una frase e decidere quali soluzioni adottare per un brano è
bellissimo.
Furio Chirico
Che cosa proponete dal punto di vista del messaggio, delle
liriche?
Per quanto riguarda i testi la
persona più indicata sarebbe Gius Lanari (bassista e cantante), è lui il vero
poeta della band. So certamente che in “The Raeson
Inside Playing” si parla della vita vissuta da Arvid
"Wegg" Andersen, della sua collaborazione con l'amico Ritchie
Blackmore - anche se il suo nome non compare nei testi - e soprattutto la
collaborazione di Wegg con Furio e Joe nell'album “Atlantide”. Tra l'altro le iniziali di questo
brano formano il nome Trip, un ricordo particolare e molto intenso, non trovi?
Trattasi di un concept album?
Sì, EQUINOX è un concept album,
seppur diverso da “Atlantide”. Il viaggio è più introspettivo,
disincantato, ma non per questo privo di forte emozioni e di grandi speranze,
il disco vuol essere il ritorno alla forte poesia focalizzata sul senso del
vivere. Nel progetto globale “EQUINOX” è
compreso un DVD di circa 44 minuti live ripresi al Salone Internazionale del
Libro a Torino nello scorso maggio, dove oltre presentare qualche brano di
“EQUINOX” abbiamo suonato parte di “Atlantide”, e infine l'immancabile track
“Caronte”, il tutto davanti ad un pubblico curioso ed allo stesso tempo
entusiasta. Naturalmente il lavoro che si
presenta in questi casi per i musicisti è snervante, però alla fine si può
essere fieri del risultato.
Se parliamo invece di musica e
sonorità, che cosa si deve aspettare l’ascoltatore da “Equinox”?
Beh, sicuramente è un album notevole
musicalmente parlando, non c'è nulla di commerciale e personalmente, nel
periodo in cui sono stato impegnato nello scrivere brani ed inciderli, mi sono
rifiutato di ascoltare musica di qualsiasi altro genere, perché non volevo
essere uguale o somigliante a qualcuno, giacché, come ogni musicista, ho già i
miei bei riferimenti di una vita che potrebbero condizionarmi. Penso cmq che chi acquista “EQUINOX”
debba essere un attento ascoltatore, perché è un disco di “nicchia”, da
appassionato esperto, da cultore della musica, anche se spero possa attirare
anche il pubblico giovane e curioso. Sintetizzo: se ti piacciono i vecchi
Trip di “Atlantide” e “Time of Change”, se ami culture musicali “giurassiche”
come quelle che fanno riferimento ai King Crimson, Yes, Emerson Lake e Palmer,
ma anche ad altre realtà come i Deep Purple anni ’70, arrivando magari alle
atmosfere dei Pink Floyd, allora “EQUINOX” è un disco che potrà risultare
appagante.
Furio Chirico è ovviamente l’elemento trainante, ma chi fa
parte della band, oltre a te?
Sì, Furio Chirico è l'elemento
trainante, non ha bisogno certamente di presentazioni e, come già espresso, a
mio parere potrebbe fare anche uno spettacolo da solo, tenere attenta due ore o
forse più la gente e stupirla con il suo virtuosismo. È un batterista che mi ricorda molto
lo stile di Carl Palmer, suonando con lui inevitabilmente si cresce
culturalmente, si impara ad andare di più a tempo anche quando i brani sono
"storti". Unico neo, quando un brano è facile
lui lo complica, però quando si studia musica è così, e quando arriva il
risultato è una goduria doppia, sia per chi lo suona sia per l'ascoltatore. In Gius Lanari, ho trovato un bravo
bassista con un suono molto bello. Il suono dei suoi Rickenbaker e Fender è
veramente grande, hanno un attacco ed un timbro veramente fantastico che puoi
sentire solo nei dischi dei migliori gruppi prog rock dell'epoca; è anche un
buon cantante e soprattutto ha idee nel comporre musiche, e talento vero nello
scrivere testi. Ha scritto quattro brani dell'album insieme al suo amico di
vecchia data Antonio Zammarelli. Con Marco Rostagno ho un rapporto
intenso, da musicista a musicista, lui è diplomato in conservatorio, e quando
interagiamo sembriamo due bimbi che giocano con le loro macchinine. Nonostante
io sia vicino ai 60 e lui ai 30 anni andiamo molto d'accordo. Il nostro parlare
di note, di scale e di pause fa crescere sempre di più la band.
Gius Lanari
Come sono stati suddivisi i compiti dal punto di vista
creativo?
Diciamo che ognuno di noi si è dato
da fare, Furio non è un compositore però ha messo del suo nell'arrangiamento
del suo stesso strumento, serve dargli libera espressione e lui tira fuori il
mondo con i suoi tamburi. La creazione dei brani è suddivisa
tra me e Gius lanari; c'è una traccia che inizialmente era interamente scritta
da me, “Remember Joe”, dedicato a Joe Vescovi, che inizialmente era uno
strumentale, ma poi la produzione ci ha suggerito di farlo diventare un brano
cantato, così ho dato ampio respiro alla composizione della linea melodica di
Gius dicendogli: “Scrivi il testo è cantalo, poi io ti scrivo le note che
hai fatto sul pentagramma”, e così è stato: abbiamo diviso le royalties in
parti uguali, come si fa tra amici naturalmente! Infine, anche Marco Rostagno ha
scritto un brano dal titolo “Summer Solstice”, uno strumentale dove la
chitarra rock la fa da padrona, il basso è rombante e la batteria veramente
alla grande; infine, di questo brano c'è uno sviso di organo hammond che quando
lo risento mi dico, ma questo sono io? Boh? E che note ho fatto? Poi penso:
“sarà Mattia Garimanno (il fonico dello studio di registrazione, tra l'altro
bravissimo, a mio parere il quinto musicista della band anche se non ha
suonato) che mi ha voluto fare uno scherzo?”
Inutile sottolineare il legame con
Joe Vescovi, ma qual è il vero link che unisce la musica dei “vecchi” Trip a
questa voluta da Furio?
Dunque, per parlare di Joe Vescovi
nel contesto Trip se ne può parlare solo in un modo e BENE! Non ho conosciuto
Joe personalmente anche se sono in buoni rapporti con la moglie Sandra Laureti:
pochi giorni fa, in occasione dell'anniversario della morte di Joe, ho spedito
a Sandra l'audio di “Remember Joe” e lei mi ha ringraziato sentitamente.
Sotto un profilo musicale devo dire che Joe ha inventato un modo di suonare e
comporre unico al mondo, se ascolti i suoi fraseggi ed improvvisazioni ti
accorgi subito che è lui. In certi brani di “EQUINOX” che ho
composto personalmente ho tenuto conto molto del suo modo di suonare,
naturalmente poi ho messo il mio carattere, ad esempio in “I'M FURY” (che ho
dedicato a Furio ) inizialmente ho messo degli arpeggi veloci e rovesciati che
potevano anche essere delle varianti a brani come “Atlantide” o “Caronte”,
soprattutto Joe, nel periodo Trip, arpeggiava spesso e velocemente su accordi
di quarta sus, e in quel brano ho tenuto conto di quel modo di suonare, che
sicuramente aveva inventato lui; alla fine ho usato i miei trucchetti del
mestiere, facendolo diventare un brano che quando lo suoni ti spacca entrambi
le mani, perché devi essere molto preciso… e pensare che appena l'abbiamo
inciso io e Furio Gius ha chiosato: "Ma voi vi
drogate?" Cmq in EQUINOX ci sono anche brani
come “Cacht the dreamin” che danno ampio spazio all'innovazione musicale
e alla sperimentazione, e tutto questo è a mio parere affascinante.
Marco Rostagno
Mi parli del tuo ruolo all’interno del progetto?
Il mio ruolo è quello di un
organista/tastierista/compositore, lo sarà anche in futuro, ho molte idee in
campo musicale e in più stili possibili, e più volte mi sono trovato a comporre
cose insolite.
Che cosa accadrà dal punto di vista dei live per la
pubblicizzazione di “Equinox”?
Faremo dei concerti e, a seconda
della durata, presenteremo alcuni brani di EQUINOX, ma se lo spettacolo sarà di durata
maggiore lo presentiamo tutto, tra l'altro abbiamo affinato finali di brani che
non ci sono sul disco, e che proponiamo live per regalare a chi segue i nostri
show a qualcosa di unico. Normalmente suoniamo per intero tutto
l'album “Atlantide”, poi “Corale” dall'album “A time of Change”,
un brano che non era mai stato suonato live da Joe, Wegg e Furio; l'abbiamo
arrangiato con l'ingresso della batteria ed è stata un’impresa Titanica, ma ce
l'abbiamo fatta. “Caronte” è il brano che
chiuderà i concerti. Abbiamo voluto tutti e quattro dare un taglio con il
periodo dei Trip di prima generazione, però “Caronte” è un brano
importante creato da Joe, così come “Atlantide”, e per questo lo
ringraziamo omaggiandolo ogni volta possibile. Aggiungo: “A suite for everyone”
è l'unico brano interamente scritto da me, oltre alla musica anche il testo. È
un pezzo nato per caso una sera guardando Gattopaul (il mio gatto) che se la
dormiva beato sul divano, gli ho dedicato una ninna nanna che poi nello
scrivere si è trasformata in un complesso brano prog. Il testo parla dei rapporti tra le
persone, all’interno delle famiglie e, perché no, anche quelli con i nostri
animali di cui abbiamo bisogno, un messaggio rivolto al volersi bene in senso
generale, nella direzione di un sogno che, alla fine, abbiamo un po' tutti.
Insomma… UN MONDO MIGLIORE! Un ringraziamento particolare va
sicuramente ad Amy Ida, manager giapponese, senza di lei tutto questo non
sarebbe stato possibile.
Ogni edizione è composta dal nuovo
album EQUINOX, include nove nuovi brani inediti - tre brani strumentali e sei
tracce vocali, composti e arrangiati da THE TRIP di Furio Chirico, registrati e
mixati da Mattia Garimanno presso Ænima Recordings.
Il nuovo concept album è una grande
creazione di Furio Chirico (batteria), Paolo 'Silver' Silvestri (Hammond,
sinteri e cori), Giuseppe 'Gius' Lanari (voce, basso) e Marco Rostagno
(chitarra e cori) ed è il risultato di tre anni di lavoro, proiezione,
produzione e realizzazione.
Sia l'edizione universale che
l'esclusiva edizione giapponese contengono DVD, registrati e filmati (anche
grazie al contributo del pubblico) del live-show di debutto al prestigioso
Salone Internazionale Del Libro di Torino il 23 maggio 2022 e con 3 brani di
EQUINOX, 4 brani di ATLANTIDE (1972) e 1 brano di CARONTE (1971).
Il video montato e masterizzato da
ZdB publishing.
L'edizione esclusiva giapponese
include anche uno speciale bonus CD "live in foggia 1973" contenente
1 brano tratto da TIME OF CHANGE (1973), 3 brani da ATLANTIDE (1972) e 1 brano
da CARONTE (1971), una registrazione storica di THE TRIP mai pubblicata in
precedenza, live a Foggia nel 1973 con lo storico trio Joe Vescovi, Arvid
"Wegg" Andersen e Furio Chirico. Una registrazione rara di
inestimabile valore, testimone di un tempo in cui pochissime registrazioni sono
sopravvissute, realizzate con una tecnologia non così all'avanguardia come
siamo abituati ad avere oggi.
I primi 100 ordini sul TLS Store
riceveranno una speciale cartolina 13x18 autografata a mano da Furio, Silver,
Gius e Marco!