lunedì 29 gennaio 2018

Valerio Billeri-“Gospel”



Valerio Billeri presenta il suo nuovo album, “Gospel”, un lavoro acustico, minimalista, dove appare forte l’esigenza di dare sottolineatura alle storie, alle atmosfere, ad elementi trascendenti che diventano tali dopo aver esaminato la crudezza di personaggi veri, concreti, capaci di ispirare pensieri e sentimenti “superiori”.
Valerio Billeri è cantautore versatile, abile nel muoversi in armonia con le diverse sfumature che la musica da sempre ci fornisce, ma questo “Gospel” appare mirato, voluto con tutte le forze, probabilmente il più rappresentativo possibile dell’attuale momento della sua vita.
E’ probabile che la mano del produttore Gian Luca Figus - definito come “architetto del mio sapere musicale” - abbia favorito la svolta, ma resta in ogni caso un quadro molto preciso, una serie di canzoni che ci trasportano in un mondo fatto di uomini e natura, tradizioni e usi, stagioni fredde e avventurose.
Sono 10 in totale le tracce, all’interno delle quali troviamo due rivisitazioni, “La mia morosa la va alla fonte”- di Jannacci e Fo - e “Boots of spanish leather” - bonus track - rilasciato nel 1964 da Bob Dylan.
E’ lo stesso Billeri che, a seguire, ne spiega le motivazioni e racconta i dettagli del progetto.
Il titolo del disco è emblematico dell’orientamento voluto, una espressione spirituale - non necessariamente religiosa - proposta a bassa voce, con toni soffusi e melanconici. Ed è con questo mood che si propongono i ricordi, le feste popolari (“San Domenico delle serpi” ispirata alla festa dei serpari che si svolge ogni anno nel giorno di San Domenico a Cucullo, in Abruzzo), i quadretti agresti (il già citato brano di Jannacci), i conflitti interni e i presagi funesti (“Le mille e una morte”, ispirata dal racconto di Jack London), le radici profonde che niente come il blues può rappresentare (“Blues del treno nero”).

Bastano poche note, a volte, per captare e afferrare l’essenza di un disco. In questo caso il brano di apertura, la title track, mi ha riportato immediatamente ad un mio ascolto legato alla giovinezza, un ricordo in bianco e nero che non mi ha mai lasciato e che ho ritrovato al primo start. Improbabile, per fattori anagrafici, che Billeri abbia avuto l’occasione di vedere e ascoltare (in rete se ne trova traccia) la serie televisiva “Vidocq”, in onda in Italia nei primi anni ’70, ispirata alle memorie di Eugéne-Francois Vidocq, un ex detenuto diventato poliziotto a  Parigi nel  XIX secolo, ma il profumo di quell’antico arpeggio di chitarra - legato alla tipicità del personaggio - regala un’immagine perfettamente congruente con le storie che racconta Valerio Billeri in “Gospel”, album che verrà presentato ufficialmente tra pochi giorni:


Disco senza fronzoli, da ascoltare con cura, pregno di tanto contenuto intrinseco: musica basica e voce delicata per raccontare e raccontarsi, per delineare storie che potrebbero essere di tutti, per regalare stati d’animo e fornire un contributo alla ricerca di dimensioni che superano la materia.

A me è piaciuto, e molto!



L’INTERVISTA

Ti ho lasciato con la nascita delle Ombre Elettriche: che ti è successo, musicalmente parlando, da quel giugno 2015?
Abbiamo pubblicato due dischi, (Lapis NigerGiona) con tematiche diverse: “Lapis Niger” incentrato sulla mia città, Roma, come si evince dal titolo, l'altro su storie di mare e dintorni, ispirato dai grandi romanzi come Moby Dick e su storie di migrazione, pirateria e lavoro; ci siamo tolti anche parecchie soddisfazioni dal vivo portando il nostro suono a raschiare la ruggine.

Di cosa parla il tuo nuovo album, “Gospel”? Quale lo spirito?
Gospel è un disco dello spirito e del silenzio, l'opposto degli ultimi due, suoni prettamente acustici e folk; ho cercato di dar vita a personaggi che vengono inghiottiti dalla natura, si muovono in paesaggi fatti di fiumi, monti e foreste sotto cieli burrascosi, sospesi sulla linea di confine, che sia tra due stati vicini, tra due mondi o tra la parte buona e cattiva che c'è in ognuno di noi. Chiedono il consenso a qualcosa di superiore, forse Dio o forse la potenza che sprigiona la natura stessa o la nostra natura. Questo senso è ben presente nella nostra cultura millenaria: anche io oscillo tra l'essere ateo e l'affidarmi agli dei dell'Olimpo.

Il disco è registrato nella quasi totalità in presa diretta: da dove nasce la scelta?
La scelta nasce dall'istintività, c'è troppa tecnologia nella musica moderna, click, tagli, suoni perfettamente puliti, ma non era ciò che volevo. Robert Johnson non penso abbia mai usato un click, cosi come Bob Dylan non ha registrato senza sbavature le vecchie canzoni folk. Le registrazioni di Lomax per esempio sono tra le cose più belle mai ascoltate, non potevo di certo raccontare la storia del serparo del brano "San Domenico delle serpi" adoperando una tecnologia troppo spinta, bastava cliccare sul rec e cantare.

Chi ti ha aiutato nella realizzazione di “Gospel”?
Per quanto riguarda la parte musicale, le "Ombre" Damiano Minucci alle chitarre e banjo, Emanuele Carradori in qualche pezzo, Lucia Comnes al Violino, Emanuele Luzi ha suonato il basso su un brano; il lavoro grosso lo ha fatto Gian Luca Figus, il produttore artistico, suonando un pò tutto qua e la; per quanto riguarda la parte letteraria… ho letto molti libri, tra cui "Sue e Magia" di De Martino, e ascoltato parecchia vecchia vecchia musica popolare e blues.

Cosa puoi dire della produzione di Gian Luca Figus e della sua etichetta discografica, appena nata?
Lui è l'architetto del mio sapere musicale, capisce subito cosa voglio, niente fronzoli, ed è una vera enciclopedia musicale, conosce gruppi e suoni a me ignoti... me li fa sentire, ha allargato i miei orizzonti senza creare un distacco con il mondo da dove venivo e il mio pensiero, credo farà bene anche con artisti più giovani di me e tecnicamente più preparati; mi ha anche regalato un accordatore moderno che riesco ad usare senza vergogna! 

Tra i brani troviamo anche profumo di cantautorato milanese…
Da un romano purosangue come me "La mia morosa la va alla fonte", di Jannacci e Fo. E' la seconda volta che incido un brano di Jannacci, era già successo con "Sfiorisci bel fiore", ma io lo adoravo, mia madre mi faceva sempre ascoltare da piccolo i suoi Lp, molto più dei romani, e sono cresciuto a forza di Jannacci e De Andrè; da notare che il brano in questione poi non è altro che la madre e il padre di "Via del campo", basta ascoltarla. E' un brano di una forza unica, semplice nella struttura e magnifico nel testo, sembra non avere età, per me molto più bello della versione del Faber perchè privo della ricerca della frase ad effetto.

… e una sorpresa nella bonus track…
La traduzione di “Boots of spanish leather”, del grande Dylan. Altro brano perfetto, non posso dire altro, quando ascolto la potenza letteraria e musicale di questo gigante dei nostri tempi rimango sospeso come quando vedo un dramma di Shakespeare o un quadro del Caravaggio.

Chi ha curato l’artwork? L’immagine di copertina riporta all’anima del gospel…
La foto è della mia compagna Cristina Sbordoni: un giorno mi ha mandato questa foto e ne sono rimasto colpito… ho detto: “… Devo scriverci un album..”, e cosi è stato.

Tra pochi giorni l’album sarà presentato ufficialmente: sono previsti altri eventi live per portare a conoscenza del pubblico il tuo nuovo lavoro?

Non lo so, è l'etichetta del dottor Figus che si occuperà di ciò, di certo non mi voglio trovare a suonare in posti non mirati dove nessuno ha voglia di ascoltare storie, perciò ci muoveremo con molta cautela a protezione mia e dei miei musicisti, ormai ho 45 anni, vedo tanti sciommiottamenti in giro, da una parte e dall'altra, un senso di fenomenite acuta che non mi si addice, ho altro da fare... abbiamo una missione per conto di Dio, Blues Brothers!


Tracklist:
Gospel  3.35
San Domenico delle Serpi 3.25
La mia morosa la va alla fonte 1,37
Canto del  gallo 3.14
Sotto un cielo di rame 2.41
Racconto di inverno 3.23
Verso sud 3.15
Le mille e una morte 3.20
Blues del treno nero 2.17

Bonus:
Boots of spanish leather 4.26



sabato 27 gennaio 2018

Interview with Nik Turner


Interview with Nik Turner
by Athos Enrile
Photos by Enrico Rolandi


The recent Porto Antico Prog Fest, made in Genoa by Black Widow Records, allowed me to get to know Nik Turner, a member of Hawkwind from 1970 to 1976, a band with whom he recorded six studio albums and one live. Later he formed the Nick Turner's Sphinx, with whom he played until the end of the last century.


Nik is no longer a boy, but talking to him and, above all, watching his performance, he gave me the idea that his almost 78 years are just pure statistical data, and that the music - and more generally a passion - can be an infinite source of energy.
A few months later I asked him some questions that he kindly replied to.

Here is the interview…

Let’s start from the performance of a few months ago in Genoa: what memory do you have about the prog Festival made by Black Widow?
I must say that I really enjoyed the Prog Festival in Genoa in which I took  part, and was very pleased to be here and very happy to meet the organizers, Massimo and Pino and their friends and Associates and families. It was a very well organized and enjoyable affair with a very relaxed and pleasant atmosphere..

The impression I personally had on seeing you on stage is that your motivation is always high, as well as your physical form: how do you find the stimulus after a long career like yours?
Well, playing music is what I am fortunate enough to do as a profession, so I find the people I meet all very diverse, and in this case, very pleasant, accommodating, helpful, exciting, and groovy.

Speaking of Genoa, did you like to play with the Arabs in Aspic?

Yes I played with The Arabs in Aspic, a very exciting Space Rock Band, from Scandinavia, a lot of fun, and really groovy guys.


Is your band, Space Rituals, still at work? Are you registering some new material?
Yes my band ‘Space Ritual’ is still at work, doing great gigs, and working on and writing new material, and playing more of my recorded repertoire.

Can you tell me something about the concept album "Anunnaki", with the Chromium Hawk Machine?
The album ‘Anunnaki’ was a concept, suggested by Massimo, as a joint project between myself, my old friend, guitarist and vocalist Helios Creed, (of the band  ‘Chrome’( and keyboardist and producer, Jay Tausig. The inspiration for the music is in the music and attitude of Sun Ra. The backstory is based upon some of the  theories of Zachariah Sitchin, the Ancient Speculative Historical, Mythological, Metaphysical, Theoratician, and ideas of the Speculative Scientific Theoratician, Michael Tellinger, who expounds on his very enthralling, interesting and convincing evidence, in several lectures of his, on You Tube. The Idea is that several Millenia in the past, an explosion occurred in the Solar System, the Planet Tiamat exploded, causing the creation of the planet Nibiru, the planet Pluto, the planet Earth, and the Moon. Then 285,000 years ago, the Giants called the Anunnaki, came to the Earth from the planet Nibiru, to mine for gold, which they needed for their advanced Technology. They set up mines, which they proceeded to work for some time, Largely in Africa, but also other parts of the Earth, wherever the resources were available. They then became tired of the work, and decided to create a Slave to work for them. This was to be ‘The Adam’, genetically programmed to do what was needed of him, intelligent enough to operate the machinery, with The Eve, able to reproduce themselves, living for a limited period, having no lasting memory. Ptaw!!!

Where did you get the suggestions for the lirycs? Do you really think life has been brought to earth by aliens?
I got ideas for the lyrics for the songs, which were inspired by lyrics of Michael Tellinger, and the ideas of Zachariah Sitchin.. I feel that human life could very well been brought to the Earth by Extra-terrestial Aliens. Why not?

 How was the album born? Was it an engaging job?
It was indeed a fascinating and engaging task, many faceted and mind-boggling.

The project Hawkwind has always been an example of a family, of cosmic brotherhood, and all this has led to the creation of musical masterpieces: how are your relationships with Dave Brock now, after the old problems of using the band's name?
Well I have no problem with Dave Brock, he rather needs to get over himself, and see that we all need to help each other, in order to propel the Space-Ship to different and infinitely variable Planes and Dimensions of Reality.

Can you tell me something about your friend Lemmy, who disappeared a couple of years ago, and one about Dik Mik, who was also missing recently?
My friend Lemmy, after a long life of Physical and Meta-Physical Substance Experimentation, has finally entered an entirely different  Dimension of Reality and Surreality, as has also my very good friend Dik Mik.

What's in the future of Nik Turner?
My future lies in playing music in the context of Healing and raising of the conciousness, creating awareness, and spreading Happiness.

Will we see you again in Italy?
I sincerely hope so, with my Band, as Nik Turner in whatever concept excites and inspires me. I will see you all out there, with Love.
Nik



venerdì 26 gennaio 2018

Dust Memories - “Alienation”


I savonesi Dust Memories presentano l’album di esordio, “Alienation”.
Parlare di un primo atto porta solitamente a pensare a inesperienza e immaturità creativa… beh, certamente Lorenzo Ferrando e Matteo Damele sono molto giovani, ma il loro lavoro ha avuto una maturazione di ben cinque anni, tempo durante il quale sono cresciuti, così come si è evoluto il loro progetto.
Sono loro stessi a raccontarsi nell’intervista a seguire, cosa necessaria, utile a scoprire motivazioni e curiosità.

Disco di oltre 48 minuti, suddivisi su 10 tracce, propone un tema concettuale che lega i differenti episodi: la frustrazione e l’alienazione della razza umana, caratterizzata dalla presenza di razionalità e istinto, quest’ultimo spesso soffocato dalla necessità di convivere all’interno di codifiche realizzate da chi, a turno, ha il potere di dettare le leggi e stabilire codici di comportamento etici, spingendo verso omologazioni che giustificano l’abbattimento di ogni tipo di coerenza e moralità, come descriveva George Orwell settant’anni fa nel suo romanzo, “1984”, autore utilizzato all’interno del progetto.

Dal punto di vista meramente musicale “Alienation” è davvero sorprendente, e l’impegno profuso nell’arco di un lustro è premiato dal fatto che Ferrando e Damele hanno creato qualcosa di sufficientemente nuovo.
Il punto di partenza sono gli ascolti variegati di musica del passato, passioni magari non in comune, ma che trovano momento di sintesi quando ci si ritrova a creare in studio, una sorta di laboratorio sonoro dove, accanto agli strumenti tradizionali, compare la tecnologia, la manipolazione dei suoni, l’elettronica, senza dimenticare - a proposito di elettronica - il colore espressivo - e romantico - del Theremin, uno strumento nato cento anni fa, difficile da gestire, spesso usato nei live per il suo forte impatto scenico dovuto all’assoluta mancanza di contatto fisico.
Ne nasce un suono che mi appare difficile da definire ed etichettare, dove la psichedelica floydiana si accavalla alla ballad, la ritmica digitale si integra a suoni più tradizionali, gli aspetti vocali rafforzano le atmosfere evocative, mentre le ere conosciute si miscelano, tra rock e punk, prog e delicatezza acustica.
Con l’alternarsi dei brani gli umori cambiano, il mood si modifica e l’urlo volge in serenata… sino ad una rottura completa, una distruzione delle tradizioni, una forza d’urto che è stata la peculiarità del punk di fine anni ’80.
Rock iconoclasta per  i  Dust Memories, a cui va riconosciuta la perseveranza in un lavoro che, agli albori, poteva forse essere scambiato per il gioco un pò velleitario di due ragazzi intraprendenti, un esercizio compreso tra la passione musicale e la necessità di sfoggio di intellettualismo, stato tipico  di alcuni momenti della vita.
Non ho idea di come fosse “Alienation” in fase embrionale, ma certo è che metabolizzazioni e rivisitazioni hanno alla fine dato un tratto caratterizzante a questo ensemble, con un giudizio che, per essere completato, dovrebbe avvalersi anche della prova live, che forse presto arriverà. Intanto è prevista l’uscita di un lungometraggio che permetterà di saperne di più, e che contribuisce all’ampliamento di un progetto che definire musicale appare limitativo, essendo summa di arti e skills ad ampio raggio.

Sono tempi duri, e forse la vita musicale dei Dust Memories sarebbe stata più facile se fossero calati sulla terra in tempi lontani, quelli che loro, sapientemente, hanno saputo raccogliere, elaborare, e personalizzare creando alla fine un prodotto unico e di grande qualità.

E in attesa di una loro performance propongo una chicca: “High Hopes/Neve e Sangue”:


Lo scambio di battute…

Vorrei partire da un po’ di storia: come e quando nasce il progetto DUST MEMORIES?

Dust Memories: Ci siamo conosciuti nel 2013 durante un festival di musica al quale partecipavamo entrambi come musicisti. Dopo le presentazioni ci siamo messi subito al lavoro con l’idea di creare un EP di qualche traccia. Non ci conoscevamo per nulla e a disposizione avevamo pochissimi mezzi, sia a livello di attrezzatura che a livello di competenze tecniche. Tuttavia, dopo poco tempo ci siamo orientati verso un progetto più ambizioso: realizzare un disco completo.

Intuisco dai credits che dietro ad “Alienation” ci sia un lungo e faticoso lavoro e, vista la giovane età, le vostre scelte musicali e le idee che le supportano mi sembrano sorprendenti e sicuramente in controtendenza rispetto a quanto propongono i vostri coetanei: da dove nasce questa predisposizione alla sperimentazione?

Dust Memories: Noi due proveniamo da mondi musicali opposti, e allo stesso tempo complementari, per cui la sperimentazione in “Alienation” è l’unico linguaggio con cui riusciamo a comunicare tra noi. Si può dire che nasca da un vero e proprio “bisogno”. È il fil rouge di queste dieci tracce, il punto di equilibrio musicalmente instabile in cui ci troviamo d'accordo e a nostro agio. La sperimentazione inoltre è intrinseca a questo album: il progetto del disco è durato cinque anni nei quali i nostri gusti si sono modificati e affinati e il nostro stile è cresciuto portando a un’acquisizione graduale di nuove competenze e capacità. Imparavamo facendo e più imparavamo più le tracce precedenti non rispondevano al nostro nuovo modo di sentire; molti pezzi sono stati visti e rivisti, modificati e a volte cancellati del tutto, in una continua ricerca di nuove sonorità, strutture e forme.

Non amo molto le etichette ma mi piacerebbe sapere come definireste la vostra musica.

Dust Memories: La risposta più corretta a questa domanda sarebbe che non lo sappiamo nemmeno noi. Siamo partiti da ascolti di artisti estremamente diversi, tra cui Pink Floyd, Bjork, Depeche Mode, Radiohead, Ministry e Nine Inch Nails (la lista è molto lunga), che hanno segnato il nostro modo di comporre. Ispirandoci a loro abbiamo cercato di creare un nostro stile che astraesse e sintetizzasse parte di ciò che amavamo in questi artisti. Per questo nell’album ci sono influenze industrial, trip hop, progressive rock, ma non solo.

Che cosa unisce le liriche di Matteo Damele? Esiste un filo conduttore?

Matteo: Si tratta in effetti di un concept album. I personaggi principali sono due, Apollineo e Dionisiaco, esseri senzienti che abitano la mente dell'essere umano, rispettivamente parte razionale e parte istintiva. Noi seguiamo il loro percorso dalla nascita di Apollineo, quando dalla preistoria passavamo alla storia, fino a un possibile futuro. Le alienazioni, dalle quali prende il nome il titolo del disco, sono tutte le repressioni della parte dionisiaca, che vengono raccontate in maniera episodica dai testi dei brani: religione, politica, tecnologia, ecc.
Pubblicheremo a breve un film che accompagnerà la musica del disco, per raccontare le vicissitudini di Apollineo e Dionisiaco non più in modo episodico ma lineare.

La scelta della lingua inglese trova cedimento in un paio di testi in italiano: come mai questa scelta?

Matteo: Ho sempre amato la mia lingua madre. Penso sia affascinante nel suo essere morbida, rotonda ma al tempo stesso versatile e a volte violenta, con le sue R e le sue S. Amo inoltre la letteratura italiana e il teatro italiano.
Non la amo nei generi musicali nati in paesi parlanti lingue di ceppo germanico, come la lingua inglese o il tedesco. La trovo una forma nella quale i nostri vocaboli stanno stretti, si trovano compressi. Il 4/4 di un beat elettronico di un brano in tedesco, o di un pattern ritmico di un gruppo inglese, si sposa con una lingua essenziale, puntuale, diretta. Mi piace il fatto di aver unito due mondi così diversi e di aver estremizzato la geometricità dell'idioma inglese e di aver lasciato la mia lingua madre libera di scorrere in un verso libero.

Mi incuriosisce anche la scelta del testo di Orwell (la title track) e l’undicesimo brano, “Neve e Sangue”, che compare separato nel booklet ma unito al decimo brano, “Highs Hopes”. 

Matteo: Nella nostra interpretazione di “1984” Federico Ferrando ha interpretato O'Brien, agente governativo che tortura Winston, il protagonista. Cerca di convincerlo a cambiare idea rispetto al partito e ad omologarsi al bispensiero, e nel farlo indice una dissertazione filosofica dove si parla di che cosa sia la realtà. Le tematiche espresse da questo estratto sintetizzano una quantità sorprendente di alienazioni, dall'omologazione, al dogma, al linguaggio, al totalitarismo, all'etica, alla gnoseologia, tutte indirizzate al controllo e alla repressione.
“Neve e Sangue” è separata da “High Hopes” da un punto di vista letterario, ma non da un punto di vista musicale. Mi piace l'idea di darle dignità letteraria ma di renderla inscindibile dal resto. “Neve e Sangue” si conclude prima dell'assolo di pianoforte, facendo da ponte tra una prima parte cantata e una terza parte strumentale; di conseguenza non lo vedo come l'undicesimo brano, ma come la seconda parte del decimo.

Ascoltando le tracce, e leggendo la strumentazione utilizzata, salta all’occhio come al fianco di tanta tecnologia ci sia lo strumento elettronico più antico del mondo, il theremin, suono che si potrebbe facilmente riprodurre con qualsiasi tastiera evoluta: come nasce la scelta?

Lorenzo: È uno strumento dal suono unico, evocativo e caratterizzante e ho pensato che questi aspetti avrebbero potuto dare quel tocco in più al nostro album. Nonostante sia molto difficile da “padroneggiare”, il theremin ha una capacità espressiva così particolare che la riproduzione, anche se con una buona tastiera, non avrebbe potuto restituire lo stesso effetto; può portare verso sentieri melodici e timbrici poco esplorati e difficilmente raggiungibili da altri strumenti.

Chi - e come - ha fattivamente contribuito alla realizzazione del vostro album?

Dust Memories: Dal 2014 Simone Donato è un membro effettivo dei Dust Memories. Oltre ad aver contribuito alla composizione della traccia “Alienation”, oggi ricopre il ruolo anche di grafico del gruppo. Omar Tonella ha suonato la chitarra in “Delete Brain” e Sara Caviglia è la voce femminile nell’ultimo brano, “High Hopes”. Successivamente si sono uniti a noi Nicole Isetta e Federico Ferrando, nei ruoli rispettivamente di ballerina e attore, oltre che di modelli per la parte visiva dell’album. Le foto sono state realizzate da Silvia Mazzella. Elfish recording studio, nella persona di Emanuele Cioncoloni, ha curato il mastering dell’album. A tutti loro, ovviamente, va un affettuoso ringraziamento.

È ipotizzabile pensare ad una proposizione live di “Alienation”.

Dust Memories: Sicuramente la proposizione live sarà una bella sfida: il progetto coinvolge molte persone e unisce varie arti che dovranno essere ben integrate tra loro. Questa estate Simone Brunzu, alla batteria, è diventato il quarto membro del gruppo e recentemente si è aggiunta Laura Torterolo che canterà in “High Hopes”. Il progetto live includerà anche performance dal vivo di Nicole e Federico insieme ad una proiezione del lungo metraggio che proprio in questi giorni stiamo concludendo.

 Avete pensato a incontri di pubblicizzazione del vostro lavoro?

Dust Memories: No, al momento non abbiamo ancora programmato nessun incontro. Tuttavia speriamo di avere al più presto l'opportunità di organizzare un evento in modo tale da poter parlare del nostro progetto e approfondire le tematiche trattate.

Il progetto DUST MEMORIES prevede altre tappe future?

Dust Memories: Al momento stiamo finalizzando una serie di video (lungometraggio diviso in capitoli) che offriranno/permetteranno un’immersione maggiore nel mondo e nel concept che abbiamo creato. Nel lungo termine non sappiamo esattamente cosa succederà. Il progetto è estremamente “energivoro” e richiede un’enorme quantità di tempo, ma noi siamo intenzionati a sorreggerlo e ampliarlo, anche se al momento non sappiamo esattamente che direzione prenderemo.










giovedì 25 gennaio 2018

Playing The History – “Prog Alchymia”, with Steve Hackett (special guest)


Playing The History – “Prog Alchymia”, with Steve Hackett (special guest)

Playing The History è un progetto da sogno per chi ama un certo tipo di atmosfera sonora, quella a cui molto tempo fa è stata incollata l’etichetta di “Musica Progressiva”.
Poco interessante addentrarsi nelle spiegazioni di dettaglio, ma è giusto dire che il genere - che ha imperversato e toccato la massa per non più di cinque anni -, pur essendo seguito da una nicchia di anime, ha raggiunto lo status dell’immortalità, e accanto a proposte nuove, spesso di qualità, esistono veri e propri tributi e celebrazioni, così come in ambito classico vengono riproposte trame di duecento anni fa, con piena soddisfazione di chi propone e di chi partecipa agli eventi.

Carlo Matteucci, bassista e produttore dei “Playing The History, ci racconta a seguire la nascita e l’evoluzione del progetto, sino ad addentrarsi nei dettagli del loro album appena rilasciato, “Prog Alchymia”.

La formazione è da considerarsi ormai stabile, e oltre ai musicisti “nostrani”, peraltro molto noti (Carlo Matteucci al basso, Marco Lo Muscio al piano /organo, Giorgio Gabriel alle chitarre e Pino Magliani alla batteria), troviamo John Hackett e David Jackson… una formazione niente male!
Nonostante l’importante presenza di guest non c’è traccia di un vocalist, ed è questa una scelta precisa e assolutamente comprensibile. Per chiarirsi le idee in proposito è sufficiente buttare un occhio sui brani proposti e sulle band di riferimento: Gentle Giant, Genesis, Van der Graaf Generator, ELP, Jethro Tull, King Crimson… non solo musiche ma band dalle voci caratterizzanti, e quando inizia un brano conosciuto e spunta il sostituto del momento di Shulman, Gabriel, Hammill, Lake o Anderson il confronto parte in automatico ed è spesso spietato, a volte innescato da pregiudizio o soltanto da un attaccamento feroce alle proprie memorie.
Prog Alchymia fugge da tutto questo, e se ciò che si ha tra le mani è già oro - impossibile da incrementare dal punto di vista del valore intrinseco - l’idea può essere la rivisitazione, in questo caso nobile, un nuovo volto impreziosito dai fratelli Hackett (Steve come ospite) e dal geniale David Jackson.
I titoli parlano da soli, almeno per chi ha vissuto o seguito un certo periodo d’oro del prog, ma le modifiche apportate - obbligate, per quanto appena scritto - presentano di fatto una rilettura, una patina nuova che porta a mischiare le carte con un risultato preciso, una piacevolezza d’ascolto che supera la rigidità di alcuni stilemi legati alla materia.
Qualche esempio… “Ace of Wands”, brano del ’75 di Steve Hackett, sa molto più di Jethro Tull (non solo per il flauto) di “Bourèe”, traccia in cui la chitarra solista di Nick Fletcher - uno degli ospiti - sostituisce, nell'intro, il flauto originale di Anderson; “The Sage” cambia direzione quando il Church Organ di Lo Muscio sostituisce la divagazione solistica originale di Greg Lake.
E poi che goduria l’intervento blues all’armonica di Steve Hackett in “I Lost my Head”, dei Gentle Giant!
La partecipazione di Steve Hackett fornisce lustro all’album, ma credo che avere in pianta stabile il fratello John e Jackson rappresenti la speranza di un proseguimento di attività live con un respiro internazionale… il sax di David è unico, inimitabile e riconoscibile tra molteplici, impossibile da “nascondere”, una sorta di caratteristica timbrica, come accade per la voce, roba da DNA!
In mezzo a tanti episodi noti (oltre ai già citati sono presenti, ad esempio, “Pilgrims”  dei VdGG e “Moonchild” dei King Crimson…) “troviamo la rilettura di “Molde Canticle Part I”, del sassofonista norvegese Jan Garbarek - un brano che, come racconta Matteucci è utilizzato come apertura dei live - e pezzi di produzione propria: le delicate e intimistiche “The Flower” e “Il Bambino e la Pergola”, di Carlo Matteucci, “Nastagio degli Onesti”, di Lo Muscio - una partenza aulica che sfocia sul versante jazz - e “Sunset Ride in New Mexico”, di Gabriel caratterizzato dal duetto chitarristico con Hackett… una chicca.
John Hackett, in veste di autore, propone “Six - Eight for Starters”, da “Prelude to Summer” del 2008 mentre il “mondo Genesis” viene integrato da “Second Chance” - dal settimo album solista di Steve Hackett, “Bay of Kings”, del 1983 - e dalla conclusiva “The Lamia”, da “The lamb…”.
Lascio per ultima la citazione di “Nights in the White Satin” (rilasciato nel 1967), perché consente di spiegare come “Suonando la storia” significhi anche non dimenticare - e non sottovalutare -, e quando di questa storia si ricercano le radici profonde non si può non partire dai Moody Blues, dai Procol Harum e dai Vanilla Fudge (e forse ancor prima!), band protoprog che, per molti personaggi autorevoli nel campo musicale, rappresentano il vero momento iniziale di tutto il movimento.

Per chi vuole rivivere quei momenti con la voglia di trovare del “nuovo…
Per chi si avvicina ad un genere di cui ha solo sentito parlare…
Per chi ha desiderio di ascoltare un disco ben fatto, realizzato da grandi musicisti, virtuosi e desiderosi di raccontare e raccontarsi… beh, questo è l’album giusto, un disco che sintetizza e che ha il pregio, a mio giudizio, di poter resistere al passare del tempo.



Ecco cosa mi ha rccontato Carlo Matteucci… bassista e produttore di “Playing The History”…


Partiamo dal progetto, dalla storia, dalla progressione nel tempo di “Playing The History”…
Tutto nasce dalla voglia di musica e dalla passione per un determinato periodo, gli anni ’70, in cui il genere che oggi definiamo “Prog”, ma allora considerato “Rock Sinfonico”, ha raggiuntola sua massima espressione. In occasione dei 40 anni dal primo concerto in Italia del 1972 al Piper dei Genesis, abbiamo invitato nell’aprile 2012, sempre al Piper di Roma, Marco Lo Muscio, John Hackett e Giorgio Gabriel, come ospiti al concerto dei Dancing Knights, tribute band Genesis dove suono. Da qui l’idea, che ho proposto a Marco e poi a John, di formare un trio a cui ho dato il nome “Playing The History”. Abbiamo suonato live con organo, flauto, chitarra e basso nel novembre 2012, decidendo di incidere un CD con rivisitazioni di classici della musica Prog e brani originali, senza l’apporto della batteria, sperimentando una forma differente di esecuzione. Si è unito a noi Giorgio Gabriel alle chitarre, e David Jackson è stato contattato, tra l’altro, proprio per “sostituire” la voce in “The Great Gig in The Sky”, data la somiglianza del timbro del Sax alla voce umana. Il 1 luglio 2013 abbiamo presentato il primo CD Playing The History a Roma, suonando in quintetto con me, Marco Lo Muscio, John Hackett, Giorgio Gabriel e David Jackson. In seguito a questo mi sono reso conto che occorreva aggiungere qualcosa per creare un sound più compatto, ritmicamente parlando, si è quindi unito a noi Pino Magliani alla batteria, e con questa formazione ci siamo esibiti in diversi live. Avevo il desiderio di realizzare un secondo CD più “pulsante” e più rock, ed è nato “Prog Alchymia”.

A occhio e croce, David Jackson a parte, guardando la line up, mi pare che il denominatore comune dei protagonisti sia l’amore per la musica dei Genesis, anche se i brani proposti spaziano su un vasto arco prog… mi sbaglio?
Sono sempre stato appassionato della musica dei Genesis, come Marco e Giorgio, ed oltre tutto la presenza di John, e di Steve ovviamente, ha fatto propendere la scelta in questo senso, ma è importante far notare che noi riproponiamo spesso brani con alcuni tra i protagonisti che originariamente li hanno suonati, e non solo brani dei Genesis, ma anche di altre pietre miliari della musica, basti pensare a “Pilgrims”, scritta e interpretata nel 1976 da David, che nel nostro CD esegue sia la melodia cantata da Hammill, sia numerosi contrappunti da lui definiti “Multisax”... e, certamente, brani di band altrettanto importanti. Del resto, “suonando la storia”, è una definizione universale che può comprendere qualsiasi genere di qualunque epoca. A questo proposito, voglio far notare che Steve in diverse occasioni indossa la nostra felpa “Playing The History” o gusta la sua “Cup of Tea” con il logo sulla tazza, (DVD “Genesis Revisited Behind the Scenes-Hammersmith”, in “The Total Experience Live in Liverpool”, in”Live at The Royal Albert Hall”, in un intervista di mezz’ora circa “Genesis Revisited Soundcheck Interview”, nella quale spiega l’utilizzo dei suoi effetti e della strumentazione), come a voler ribadire che il suo vissuto musicale, riproponendo anche tantissimo repertorio Genesis, fa parte della storia della musica stessa.

Entrando nello specifico della proposta, e soffermandomi sui brani noti, andiamo dai Gentle Giant ai Jethro Tull, passando per King Crimson, ELP, VdGG, Jethro Tull, Genesis, Steve Hackett e Moody Blues: come è avvenuta la scelta dei pezzi e quale obiettivo vi siete prefissati rispetto a chi ascolta, probabilmente già intriso di prog storico?
Abbiamo scelto alcuni brani che ritenevamo significativi, e che ben si adeguassero alla tipologia degli strumentisti impegnati nel progetto, rivedendo e facendo nostri anche parecchi arrangiamenti, adattandoli a sonorità più moderne; ad esempio “Nights In White Satin” inizia con una configurazione programmata al sequencer, in “I Lost my Head” Steve esegue un solo blues-style con l’armonica e la parte vocale è interpretata da Duncan Parsons con il vocoder, “Bourèe” inizia la melodia con una chitarra distorta suonata da Nick Fletcher, anziché con il flauto suonato da David, che entra nella seconda strofa, solo per citare alcune delle variazioni presenti nei brani del CD…

Come si inseriscono in questo contenitore le tracce “italiane” (Matteucci, Lo Muscio e Gabriel) e quello di Jan Garbarek?
Come ti dicevo il nostro progetto abbraccia, pur amando in particolare il Prog, ogni genere musicale, quindi tutto ciò che musicalmente può essere interessante, ovviamente a nostro parere, vale la pena di essere proposto. Un discorso a parte merita Jan Garbarek, particolarmente apprezzato da David essendo un sassofonista, anche perchè con “Molde Canticle Part I” iniziamo solitamente le esibizioni live.

Considerando come guest Steve Hackett, compaiono nella formazione ufficiale David Jackson e John Hackett: può considerarsi una line up stabile che oltre a registrare può esibirsi dal vivo?
Sì, la line up è stabile, in particolar modo dopo che David Jackson ha affermato, testuali parole: “Now we are a band!”. Abbiamo già suonato live a Roma, Pienza e Ovada.

La proposta è strumentale: scelta precisa o difficoltà nel trovare il vocalist adeguato?
E’ stata una scelta precisa, volevamo reinterpretare strumentalmente i brani, l’inserimento di un vocalist avrebbe deviato il progetto in una direzione ancora più complessa da gestire, per la diversità dei pezzi proposti e gli inevitabili paragoni che all’ascolto si sarebbero fatti con questo o quel cantante nella versione originale.

Quali sono gli altri ospiti, oltre al già citato Steve Hackett?
Duncan Parsons, polistrumentista e drummer della John Hackett Band, Nick Fletcher, chitarrista della John Hackett Band e raffinato concertista di chitarra classica, Alessandro Forti, pianista e compositore di colonne sonore, Giovanni Viaggi, tastierista.

Il progetto legato a “Prog Alchymia” è destinato restare nella dimensione “studio” o è possibile ipotizzare una buona attività live?
L’intento è portare dal vivo al più presto il nostro lavoro.

La musica progressiva a cui dedicate questo tributo vive di buona salute ma resta comunque confinata in un settore di nicchia: esistono i presupposti per un ritorno al prog numericamente più consistente?
Credo che il genere Prog resterà sempre un settore di nicchia, apprezzato principalmente da chi quegli anni li ha vissuti in prima persona. Difficilmente potrà ripresentarsi nelle forme a noi abituali, in altre parole ci sono molti gruppi, anche giovani, che tecnicamente sono molto bravi, ma il problema è che comporre brani melodicamente ed armonicamente interessanti è davvero complesso, la capacità tecnica diventa fine a se stessa e non è mettendo insieme tante variazioni suonate in tempi dispari che si renderà bello un lavoro. Oltretutto nella mia più che quarantennale esperienza di musicista, ho capito che il pubblico del Prog vuole quasi sempre ascoltare ciò che già conosce. Non è affatto semplice.

Quale potrebbe essere il futuro prossimo di Playing The History, almeno negli intenti progettuali?
Suonare live il più possibile, ed iniziare a scegliere e comporre i brani per il prossimo CD!



TRACKLIST:

1. I Lost my Head Part II - Gentle Giants (with Steve Hackett)
2. Ace of Wands - Steve Hackett
3. Bourée - Bach/Jethro Tull (with David Jackson)
4. Molde Canticle Part I - Jan Garbarek (with David Jackson)
5. Pilgrims - Van der Graaf Generator (with David Jackson)
6. Moonchild - King Crimson
7. The Flower - Carlo Matteucci
8. Nights in the White Satin – Moody Blues (with David Jackson)
9. Il Bambino e la Pergola - Carlo Matteucci
10. Promenade; The Sage - Emerson Lake & Palmer
11. Nastagio degli Onesti - Marco Lo Muscio
12. Sunset Ride in New Mexico - Giorgio Gabriel (with Steve Hackett)
13. Six - Eight for Starters - John Hackett
14. Second Chance - Steve Hackett (with Steve Hackett)
15. The Lamia - Genesis (with Steve Hackett & David Jackson)

LINEUP:

Carlo Matteucci, Marco Lo Muscio, John Hackett, David Jackson, Giorgio Gabriel, Pino Magliani, Steve Hackett (special guest).



domenica 21 gennaio 2018

Francesco Paolo Paladino-“Siren”


Francesco Paolo Paladino
“Siren”
Cantata Drammatica per Strumenti Marini

Mi appresto a commentare “Siren”, secondo atto della trilogia ideata da Francesco Paolo Paladino, dopo aver affrontato recentemente il primo episodio, “Ariae”.
Ancora una volta mi trovo davanti alla genialità dell’autore, innovatore e precursore dei tempi anche in fatto di modalità realizzativa, se si pensa che il suo utilizzo di collaborazioni in remoto risale a tempi non sospetti, quando internet era ancora un sistema in erba e sconosciuto alla massa.

Dopo l’aria arriva l’acqua, ed è lo stesso Paladino che, nell’intervista a seguire, ci racconta quale sarà il seguito, la fermatura del cerchio, oltre ad entrare in particolari relativi al presente, frammenti che mi sarebbe stato impossibile scoprire da solo.

Esistono a mio giudizio due modalità per l’ascolto. La prima fruizione un pò… “ignorante”, nel senso più vero - e non offensivo - del termine, ovvero un ascolto senza conoscenza, lasciandosi guidare dall’istinto, dalla pancia, dal sistema limbico, facendosi catturare dalle atmosfere, dal virtuosismo, dalla miscela di classicità e sperimentazione. Un viaggio ad occhi chiusi assaporando la bellezza estetica della proposta, sognando e risognando, inventando storie parallele, magari ripercorrendo strade abbandonate nel corso degli anni.

Ma sarebbe un peccato non cercare il vero significato, il messaggio, e una volta fatta chiarezza anche gli aspetti musicali cambiano contorno e sostanza.

Rumori del mare in un porto industriale di notte. Una sirena cerca la piccola figlia che ha perso. Il suo pianto emerge drammatico quando la ritrova in un container, ma il portale da cui è entrata si richiude automaticamente. Ritorna il rumore/silenzio industriale del porto. Strisciando, alcune sirene si radunano davanti al container dove Siren è rimasta intrappolata con la piccola figlia, e nel momento in cui rincuora ed assiste la piccola, comprende lucidamente quale sarà la loro fine, mentre il popolo delle sirene, al di fuori, intona canti di solidarietà”.

La mamma “… sfida l’uomo, sfida la legge assoluta, la cattiveria, l’avidità, la tossicità… cosciente del pericolo, cosciente della sorte che le spetta”.

Tutto questo si inserisce in un contesto attualissimo e le esigenze espressive di Paladino si sposano con l’attualità: SIREN” rappresenta il “mio aspetto femminile/materno di guerriero”, la dolcezza che sfregia più di una lama di rasoio. SIREN è il come avrei voluto una madre ed è come avrei voluto essere difeso da essa. SIREN è una “cantata” tutta femminile, una rivendicazione della forza femminile ed è una bestemmia contro l’insensibilità economico-sociale che riduce il nostro spazio vitale in dimensioni sterili”.

Va in scena un dramma, e con lo scorrere dei brani si acuisce la sensazione di solennità abbinata all’incedere tragico e a volte aulico, sino al silenzio totale che segue la muta disperazione.
L’ascolto, se si decide di lasciarsi coinvolgere, perde la dimensione temporale, il tutto agevolato dal susseguirsi delle tracce senza soluzione di continuità, e il mood onirico trasporta su una dimensione elegiaca che turba e smuove la coscienza.
Riduttivo parlare di musica, perché le componenti in gioco fanno pensare a qualcosa di più complesso, che necessita, forse, di sceneggiatura e proposizione teatrale: una storia, sentimenti ancestrali, suoni classici, voci sognanti, incastri sonori, sperimentazione e poi…. tante immagini che nascono dal nulla, in un contesto che l’artwork di Maria Assunta Karini contribuisce a dipingere a tinte vintage.

Tanti gli artisti che hanno dato contributo fattivo alla realizzazione di “Siren”, tutti evidenziati da Paladino nel corso dell’intervista.

Un altro lavoro mozzafiato, un nuovo album sofisticato e un pò elitario, ma la complessità delle proposte di Paladino non è la ricerca di una dimensione che debba giocoforza superare la normalità, non è eccessivo intellettualismo, ma piuttosto il raccontarsi attraverso tutte le forme d’arte disponibili, senza distinzione alcuna. L’incontro con il suo mondo non è poi complicato a patto che si decida di abbandonare ogni preconcetto per vedere… che cosa accade dopo: le risposte potrebbero essere semplici e sorprendenti.

Siren” è una storia antica, anche moderna, comune, ma… i mezzi usati per raccontarla fanno la differenza.
C’è un bene per la pancia ed uno per la mente, e questo disco - ma in generale tutta la musica di Paladino - appaga i sensi e al contempo l’intelletto.

Il terzo episodio - uscirà nel corso dell’anno - sarà quello di sintesi, aria e acqua che si trasformano in un nuovo contenitore musicale: e intanto godiamoci “Siren”, un lavoro pregevole e da condividere.



L’INTERVISTA

“SIREN” è la seconda tappa di una trilogia che nasce con “ARIAE”, Cd rilasciato pochi mesi fa: mi parli nei dettagli di questo nuovo capitolo?

Circa due anni fa ho iniziato a pensare ad un trittico musicale, qualcosa che potesse “disegnare i confini” del punto in cui ero arrivato. Passati i cinquanta è normale avere molto da ricordare! Io detesto ricordare, e la mia auto difesa era ed è continuare a creare, immergermi senza pensarci in nuove avventure. Ecco perché l’idea di una “trilogia” musicale non mi spaventava, anzi mi allettava. Da subito ebbi chiaro quali sarebbero stati i tre capitoli: “ARIAE” avrebbe descritto l’aria e la poesia dell’aria, una poesia fatta di minimalità, quasi eterea come appunto è l’aria. Il secondo capitolo avrebbe parlato dell’acqua e di storie d’acqua e così pensai a SIREN; il terzo capitolo - che sto terminando in questi giorni - avrebbe dovuto rappresentare il processo di “fusione” dell’acqua e dell’aria, della loro trasformazione in ghiaccio, e della trasformazione del ghiaccio nuovamente in aria e acqua: “ICEREPORT”
“SIREN” è la storia di una sirena madre che perde la sua piccola nata e la ritrova in un container contaminato di sostanze tossiche, in un porto industriale creato dagli uomini. Quando entra nel container, il portale si chiude automaticamente e nel momento in cui rincuora ed assiste la piccola nata, comprende lucidamente quale sarà la loro fine, mentre il popolo delle sirene, al di fuori, intona canti di solidarietà.

La musica “ambient” si coniuga con una storia precisa: cosa vuole sottolineare la metafora della “sirena e della sua piccola figlia”?

Se “ARIAE” era il tentativo di ridefinire i confini di un genere NEO-AMBIENT, “SIREN” coniuga quel risultato con le ballate marinare, l’opera lirica, i field recordings e la musica classica. Quando mi sono arrivati i contributi dei musicisti coinvolti ho effettuato un lavoro a dir poco chirurgico di dissezione e ricostruzione, trasportando anche frammenti brevissimi nella composizione base che io e Sean Breadin (musicista incredibile!) avevamo preparato. Alcune testure hanno subito un trattamento di velocizzazione (la chitarra di Tofani è stata sovraincisa e sovrapposta cinque volte a velocità differenti, ad esempio); la voce di Paola Tagliaferro è stata registrata realmente nella stiva di una piccola imbarcazione; la voce di Rita Tekeyan è stata frullata e ricomposta; un lavoro di creazione musicale attraverso l’oggetto stesso musicale e non lo strumento musicale. Ecco “SIREN” nasce dalla evoluzione del concetto di creazione musicale, e rappresenta per me il “mio aspetto femminile/materno di guerriero”, rappresenta la dolcezza che sfregia più di una lama di rasoio. SIREN è il come avrei voluto una madre ed è come avrei voluto essere difeso da essa. SIREN è una “cantata” tutta femminile, una rivendicazione della forza femminile ed è una bestemmia contro l’insensibilità economico-sociale che riduce il nostro spazio vitale in dimensioni sterili.

Mi parli degli ospiti? Chi ha collaborato alla realizzazione di “SIREN”?

Tu sai che io provengo dai Dobling Riders e che fin dagli anni ottanta abbiamo ideato la DOUBLING MUSIC, adottando collaborazioni a distanza prima ancora che internet facilitasse questo metodo compositivo. Ho rispolverato la lista degli amici, ne ho inseriti di nuovi e il cast si è realizzato quasi da solo. Una soddisfazione immensa riprendere i contatti con Sean Breadin con il quale circa dieci anni fa avevamo realizzato MUSICA - FIUTO; una gioia a riconnettermi con Riccardo Sinigaglia, (Futuroantico, Doublig Riders) con il quale sto attivamente lavorando per la terza parte della triologia; e poi Alistar Murphy, The Curator, grandissimo musicista neo prog; Paolo Tofani amico dello spirito incredibile e vero; Paola Tagliaferro altra amica dalla voce incredibile; Rita Tekeyan libanese dalla forza di uno splendido cedro; Arthuan Rebis con un’arpa magica e Nadi Paola Matrone con i suoni della sua anima affidati a percussioni di vetro e poi... Alison O’Donnell, immensa voce dei Mellow Candle, con la quale ho scritto il testo di “THE MOTHER” che lei ha interpretato magistralmente. E poi... Judy Dyble, un’amica vera, grandissima musicista che mi ha regalato il suono della sua autoharp... ma non vorrei dimenticare neppure il trio Cavalazzi, tre giovanissimi che hanno impresso in questo lavoro (e in ICEREPORT) un marchio indelebile ed uno spessore energetico eccezionale. Infine Maria Assunta Karini ha fornito la sua eclettica arte per donare immagini indimenticabili per le tre cover della trilogia. Qui le mani che tengono delle Sirene / Barbie è un’opera d’arte che lascia emozionati. Spero di non aver dimenticato nessuno...

Dal punto di vista tecnico e strumentale colpisce il connubio tra classicità e “manipolazione” dei suoni: come definiresti la tua attuale proposta musicale?

Caro Athos, non so proprio come definire questo risultato. Pensaci tu! Certo che oggettivamente ci troviamo davanti a qualcosa di spiazzante, di particolare e - forse - di nuovo. Forse un termine abbastanza adatto è “Neo Contemporaneo”, cosa ne dici? Anche se il termine appare molto paludato e può allontanare il potenziale ascoltatore, invece che invogliarlo... io propenderei per “music-art” dove, molto più semplicemente, si cerca di spiegare che l’ascolto non è solo qualcosa di leggero ma di un pochino più impegnativo...

Mi racconti qualcosa dell’artwork un pò… vintage e molto efficace?

Maria Assunta Karini è una delle poche artisti italiane a livello mondiale. Quando la critica ufficiale se ne accorgerà sarà sempre tardi. Le sue immagini sono geniali e quanto di vintage tu cogli è un modo disinibito di unire antico e moderno, come le tinte musicali di questo CD.

”ARIAE” aveva una dedica particolare e precisa: a chi hai rivolto il pensiero scrivendo “SIREN”?

Anche in questo caso penso alle donne, alle madri e a tutto il mondo che cerca di uccidere i ruoli che nascono dall’anima. Essere madre è un modo rivoluzionario di essere donna.

La trilogia può avere altri risvolti oltre alla dimensione “studio”?

Sarebbe bello poter fare girare i teatri del mondo con uno spettacolo con tanti ospiti e qualcosa che sia una sorta di cinema che si trasforma in teatro e in musica. Io una idea ce l’avrei anche, ma ci vorrebbe un vero produttore che di questi tempi è merce rarissima.

Lo hai già detto, ma delineiamo bene il futuro prossimo: da cosa sarà costituito il terzo episodio, previsto per il 2018?

Come ti dicevo, ripercorrendo il rodato circuito filosofico “tesi, antitesi, sintesi”, con il terzo ed ultimo episodio arriveremo al ghiaccio, ICEREPORT è infatti la fase finale dove l’aria fredda fa ghiacciare l’acqua e poi il ghiaccio si scioglie lasciando un eterno ripetersi di riti scientifici che stupiscono tutte le anime bambine.


 Grazie Francesco...