È questa la
frase in rilievo - tratta dal film “Le ali della libertà” - che colpisce
una volta aperto il booklet di “hope”,
l’album numero 24 di Fabrizio Poggi, in
questa occasione realizzato in coppia con Enrico
Pesce, una collaborazione che si distacca da quanto accaduto in
passato e che privilegia la proposizione acustica ed intimistica.
Fabrizio Poggi
significa blues, America, armonica, contatto con il pubblico e dialogo come
focus di ogni esibizione. E aggiungo… voce perfetta per il genere.
Su queste
pagine ho più volte scritto dei suoi lavori musicali e non, commentando alcuni
live di cui sono stato testimone.
L’acquese Enrico
Pesce è compositore, concertista, regista, direttore artistico e docente
musicale.
Due storie, due
culture, due percorsi che si incontrano per trovare una sintesi che produce
nobiltà sonora, un superamento dei generi e delle etichette a favore della
qualità assoluta utilizzata per dare corpo ad un messaggio di peso, rinforzato
da ospiti prestigiosi e utilizzando saldi binari su cui viaggiano un’armonica
che si adagia sulle note del pianoforte, i due strumenti principi del progetto.
Ma forse
l’immagine dei binari non è la migliore possibile - se si esclude l’idea di
viaggio - perché presuppone una distanza tra gli elementi, distinzione che in
realtà non si avverte in nessuna parte del disco.
Ogni volta che
mi avvicino ad un nuovo progetto scaturiscono idee e pensieri che mi riportano
ad episodi vissuti, frammenti di memoria che mi permettono di dare una mia
interpretazione, magari lontana… molto lontana dal pensiero di chi ha creato;
in questo caso ha pesato il titolo e la lettura introduttiva di “hope”,
quella in cui la “speranza” degli autori diventa l’elemento di cui tutti
abbiamo enorme bisogno in questo momento così complicato, da cui spesso sembra
impossibile uscire; facile ritornare ad un vecchio brano di successo del 1980,
per molto tempo da me male interpretato, ma ora chiarissimo.
Questa la
fotografia: un uomo, un pittore, davanti ad una tela vuota che aspetta di
essere riempita (ma potrebbe essere un foglio su cui scrivere una canzone, o
una poesia… un obiettivo da raggiungere).
L’idea è quella
che nel nostro percorso di vita sia necessario lasciarsi andare, sognare senza
sosta, sfruttando un possibile vento propizio che ci potrà spingere nella
nostra navigazione.
Continuando a
sognare e avendo dalla nostra un po’ di fortuna (il vento favorevole), si
compirà il miracolo e la tela da pittore si riempirà prendendo, forse, una
forma inaspettata, basterà solo avere la pazienza di attendere e qualcosa di
magico accadrà.
Nella mia
rivisitazione del pensiero di Poggi e Pesce la speranza si miscela alla fede
- religiosa o laica - e la loro musica diventa magia pura.
Proverò a
ripercorrere i vari episodi che caratterizzano l’album, tutti ascoltabili
cliccando sul titolo.
Il brano di
apertura, inedito, è “Every Life Matters” ,
una potenziale hit in quanto di immediata presa.
Ogni vita è
importante, un’affermazione quasi banale ma che troviamo calpestata
quotidianamente. Concetti sui cui tutti a parole concordano ma che non trovano
un giusto corrispettivo nelle azioni.
Ma cosa può
fare una canzone per migliorare la situazione? Dilemma di sempre!
Si può
racchiudere un’anima tra quattro mura e la si può anche incatenare, ma non si
può arrestare la forza della musica, e la canzone si libererà da ogni vincolo e
volerà per sempre, in ogni luogo.
Magnifico
duetto tra Poggi - creatore della lirica - e Pesce - autore della musica - con
la nobile presenza vocale di Sharon White - da venti anni back vocalist
di Eric Clapton - che contribuisce nel rendere il pezzo una sorta di manifesto
che possa sottolineare l’impegno per i diritti civili.
Il blues
utilizzato come denuncia e al contempo come attenuazione dei
dolori della vita.
Chiosa
Fabrizio: “È una rilettura in chiave blues e jazz di una celebre aria del
Settecento che si avvale di un’inedita scrittura pianistica di Enrico Pesce.
Con l’aggiunta di nuove liriche il brano si è trasformato in un antico canto di
libertà dalla schiavitù…”
Voce roca,
pianoforte virtuoso e armonica lancinante… sono questi gli ingredienti di una
canzone coinvolgente che riporta alla memoria momenti già vissuti, reali o
virtuali.
“Hard Times
(come again no more)” nonostante la sua freschezza e attualità, è stata scritta a metà dell’Ottocento
dal padre della musica americana, Stephen Foster, ed è anche una delle prime ad
essere stata incise con il fonografo a cilindro nel 1905.
Un grido di
dolore, un monito, una speranza, quella che i tempi difficili possano sparire e
non tornare più.
La delicatezza
del topic richiede il giusto intimismo che emerge dal minimalismo musicale
proposto dai due autori.
“Motherlesschild” (o Sometimes I feel like a motherless child) è un pezzo tradizionale che risale al periodo della schiavitù americana e
fornisce l’immagine tragica del dolore più forte, quello della separazione
forzata di un bimbo dai genitori, così come quello di un uomo dalla sua terra:
tempi che cambiano ma problemi che restano. Ma la descrizione della tragedia
non impedisce la visione di una luce, seppur lontana.
Brano
blues/jazz che esalta il virtuosismo di Enrico Pesce e permette l’entrata in
scena della splendida voce di Emilia Zamuner, giovane cantante jazz
napoletana: un calarsi profondo nei locali musicali statunitensi, dove suonare,
ascoltare e lenire le pene diventa un tutt’uno.
“Goin’down the road feelin’ bad” è un altro traditional che “sembra che fosse cantato sia dai poveri mezzadri
bianchi che dai prigionieri neri incarcerati ingiustamente nelle famigerate
galere del Sud”.
Forse basterebbe
la musica per emozionare, perché il lamento dell’armonica accompagnato da un
semplice giro di pianoforte spinge verso attimi evocativi.
Altro esempio
di meraviglioso minimalismo e di facile accesso verso le complicazioni che a
volte ci riserva il mondo della musica.
“My story”,
due minuti di pura suggestione, una creazione del 2005 di Enrico Pesce, colonna
sonora di un suo antico cortometraggio: un viaggio, sognando ad occhi aperti,
abbattendo ogni tipo di barriera e ortodossia.
Quanto è
importante il testo in una canzone?
“I’m leavin’ home” rappresenta al contempo titolo e lirica, e ascoltando il magnifico tappeto
tastieristico rappresentato dal fraseggio ininterrotto del pianoforte si
potrebbe pensare di avere al cospetto una prateria su cui correre con estrema
libertà verbale, spargendo i pensieri in ogni dove.
Ma la forza del
sonetto conciso è condita dallo stesso ermetismo dell’ungarettiano “Mi
illumino di immenso”, concetto in cui ognuno può riconoscere il significato
che ritiene più appropriato.
Dice a
proposito Poggi: “Per scriverla mi sono ispirato al “ring shout”. Si tratta
di una danza cantata di origine africana che gli schiavi eseguivano per ore
sino allo sfinimento. Un rituale segreto, estatico e trascendente in cui i
partecipanti si muovevano in cerchio, trascinando e battendo piedi e mani come
fossero antichi tamburi. È nel “ring shout” che si trovano le radici del blues
e del jazz. È una sorta di “mantra” meditativo in cui la ripetizione di una
parola o di un verso diventa uno strumento così potente da riuscire ad elevare
e guarire ogni spirito.”
Segnalo un
nuovo intervento di Sharon White.
“The house of the rising sun” è un’altra canzone tradizionale di cui non si conosce l’autore, anche se la
versione di maggior successo fu quella dei The Animals, nel ’64.
Originariamente
“The rising sun blues”, rappresentava il bridge tra i bordelli di New Orleans e
le case di tolleranza della Napoli degli Anni Venti del Novecento. In quei
luoghi di perdizione e svago, era facile trovare grandi musicisti e artisti
creativi, magari destinati a restare nel pieno oblio, nonostante le loro
qualità.
Questa
versione, una delle tante esistenti, appare lontana dalla facile canzonetta
coverizzata da miriadi di band ad azione locale, perché il sottofondo jazz e blues le
conferiscono nuovo volto e nobiltà.
“I shall not walk alone” è una canzone di Ben Harper, riproposta più volte live da Fabrizio con i Blind
Boys of Alabama: ancora voce, piano e armonica per un testo che, accompagnato
dalla giusta atmosfera, produce un marcato spleen…
Per entrare nel
cuore di “Nobody knows the trouble I’ve seen” occorre l’aiuto di Fabrizio: “La canzone è stata pubblicata per la prima
volta nel 1867 ma secondo gli studiosi è stata creata dagli schiavi almeno
cent’anni prima e nessuno sapeva davvero le tribolazioni che dovette passare e
vedere con i propri occhi il popolo afroamericano piegato a raccogliere cotone
negli sterminati campi del sud degli States…”.
Un blues
“ortodosso” che vede il rimbalzo continuo tra voce e armonica, mentre l’arpeggio
di Pesce rompe gli schemi, quella rigidità cara a chi pensa che il genere sia
proponibile in un solo modo possibile.
La chiusura,
così come l’apertura, presenta una canzone scritta dal duo Poggi/Pesce, dal
titolo “Song of hope”.
La speranza,
quella che ha ispirato l’album in ogni sua parte e che è il fulcro del brano,
rappresenta la degna chiusura del concept album.
La musica come
veicolo per alleggerire ogni peso… la musica come benessere fisico e
spirituale… la musica come aggregazione e unificazione del modo di essere… la
musica come concetto di rottura di ogni tipo di barriera.
Un ascolto
liberatorio, se si è un minimo virtuosi!
Davvero un gran
lavoro quello proposto da Fabrizio Poggi e Enrico Pesce, un linguaggio che si
nutre di ingredienti consolidati e conosciuti, la cui miscela, però, produce
novità e superamento di ogni aspettativa, una fuga da quell’immagine che in
modo naturale segue l’artista e lo codifica a vita.
E poi esiste la
musica universale, quella che mette tutti d’accordo!
TRACKLIST:
1 Every life matters (Fabrizio Poggi
– Enrico Pesce)
2 Leave me to sing the blues
(Fabrizio Poggi – Enrico Pesce)
3 Hard times (Stephen Foster)
4 Motherless child (traditional)
5 Goin’ down the road feelin’ bad
(traditional)
6 My story (Enrico Pesce)
7 I’m leavin’ home (Fabrizio Poggi)
8 The house of the rising sun
(traditional)
9 I shall not walk alone (Ben
Harper)
10 Nobody knows the trouble I’ve
seen (traditional)
11
Song of hope (Fabrizio Poggi – Enrico Pesce)
LINEUP:
Fabrizio
Poggi vocals, harmonica
Enrico
Pesce piano
with
Sharon White vocals on “Every life
matters” and “I’m leavin’ home”
Emilia Zamuner vocals on “Motherless
child”
Hubert Dorigatti guitar
Jacopo Cipolla upright and electric
bass
Marialuisa
Berto percussion
Giacomo
Pisani percussion
Arranged by Enrico Pesce
Recorded, mixed and mastered by
Giuseppe Andrea Parisi
Produced
by Fabrizio Poggi with Enrico Pesce, Giuseppe Andrea Parisi, Angelina Megassini
Logistics and organization Angelina
Megassini
Front cover picture and art: Mauro
Negri
Graphics: Manuela Huber
Fabrizio Poggi plays Hohner
Harmonicas
Fabrizio Poggi wears The Blues Foundation
hat
in loving memory of Jean Franco
Formiga (1999 – 2021)
Luca Masperone, tecnico e membro dell’organizzazione, prima del set dei The Trip presenta il nuovo libro
scritto con Daniele Follero, “La storia di hard rock & heavy metal”.
Nella foto: Luca Masperone-Andrea D’Avino-Athos Enrile
Dopo dieci lunghi mesi ho nuovamente partecipato ad un evento
live, l’ormai tradizionale Porto Antico Prog Festche è andato in scena a Genova nei giorni 17
e 18 luglio.
La speranza è che possa essere il primo di un nuovo corso di
concerti e che i programmi imminenti conosciuti, relativi al Trasimeno Prog e
Veruno, possano essere confermati, ma mai come in questo momento appare
appropriato affermare che di “doman non v'è certezza”.
Fare distinzione di genere musicale appare davvero poco
importante, giacché ciò a cui più si anela nell’immediato è la normalità e la
socializzazione e con questo spirito un buon pubblico - la famosa nicchia del
prog - ha presenziato, speranzoso e partecipativo.
D’obbligo ringraziare l’organizzazione del Porto Antico che
ha accolto le idee di Black Widow Records e dei partner Nadir Music
e Cornucopia Live.
Rispetto allo scorso anno le serate sono raddoppiate ed è quindi
aumentata la possibilità di vedere sul palco band locali miste ad altre mai passate dai palchi genovesi.
Sottolineo l’atmosfera, tra luce piena e tramonto, con la giusta
rigidità legata alle norme sanitarie e il merchandise tradizionale di Black
Widow e Ma.Ra.Cash., due etichette discografiche specializzate
soprattutto nella musica progressiva.
In questo contesto si è trovato lo spazio per chiacchierare sul
palco e scoprire nuovi progetti che si spera di veder presto realizzati.
Il mio commento minimale ha il mero scopo di mantenere nel tempo
il ricordo di quanto accaduto, senza alcuna pretesa di esaustività né di
graduatorie di merito.
Per privilegiare l’oggettività ho inserito nell’articolo due
medley che, soprattutto per quanto riguarda la prima serata, presentano un
audio davvero scadente… chiedo venia, augurandomi che venga almeno apprezzato
lo spirito di condivisione.
Sabato 17 si luglio si apre con
gli spezzini Magia Nera, band la cui
storia appare singolare: nati a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, producono
materiale discografico solo in tempi recenti, dopo la tradizionale
ricostituzione, e tra il 2017 e il 2020 rilasciano “L'ultima danza di
Ophelia” e “Montecristo”; ed è proprio quest’ultimo che viene
presentato in modo cospicuo, permettendo di mostrare le peculiarità di un
gruppo nato con la predisposizione verso un rock duro, nel tempo calmierato e
miscelato a trame sonore variegate.
A condurre il gioco, mantenendo il bridge con il passato, il
chitarrista e vocalist Bruno Cencetti.
Seguono i giovani Melting Clock - protagonisti anche dell’ultimo concerto a cui facevo accenno inizialmente - che vantano un piccolo
primato essendo gli unici a presenziare per la seconda volta alla
manifestazione.
Gruppo genovese dedito al prog puro, uniscono un raro talento a
idee fresche e proiettate nel futuro, tanto per ricordarci che esistono ancora
prospettive per un genere a cui si affibbiano spesso aggettivi inappropriati
riferiti al tempo che fu.
Un po' di sfortuna li costringe ad un set
"semi-unplugged", ma la qualità della loro musica arriva al pubblico,
a cui interessa maggiormente l’emozione live piuttosto che la perfezione priva
di inconvenienti tecnici, per quella hanno inventato il lavoro in studio!
“Destinazioni” è il loro album di riferimento, rilasciato
nel 2019, ma dal palco arriva una pillola di novità che conduce ad una nuova
uscita, probabilmente nel 2022.
A questo punto entra in scena il cuore, la storia, la memoria del
rock genovese.
Appare fuori contesto se si fa riferimento al titolo dell’evento,
ma un tributo a Bambi Fossati è doveroso e permette di ricordare
l’importanza di un chitarrista unico, che ritorna tra noi attraverso la
performance di due dei suoi gruppi di riferimento - Garybaldi e Gleemen
- che ruotano attorno al batterista Maurizio Cassinelli.
Un viaggio nel tempo che permette di accogliere sul palco
differenti protagonisti del rock genovese, compreso Massimo Gori, in
questo caso in veste di chitarrista.
Vengono riproposti brani scritti da Bambi, comprese novità, come
la “messa in musica” di una sua poesia.
A completare il quadretto che definisce Fossati come il Jimi
Hendrix italiano, l’entrata in scena di un power trio dedicato, quello dei Groove
Monkey, che regala al pubblico un sano rock, potente e coinvolgente:
A chiusura di serata la band che tutti aspettano, i The Trip.
L’occasione è importante: il primo concerto dopo molto tempo, una
nuova band, il cinquantennale dall’uscita di “Caronte” e il rilascio del
CD - di cui presto parlerò - che comprende la rivisitazione delle tracce
dell’album con l’aggiunta di un paio di bonus - “Una pietra colorata” e
“Fantasia” - e una composizione del chitarrista Carmine Capasso,
“Acheronte”.
Come accade con tutti i gruppi, persiste una percezione di
imperfezione nel corso della performance di cui spesso nessuno si accorge se
non i protagonisti sul palco, e anche in questo caso l’esigente Pino Sinnone,
a fine set, prova a cercare il pelo nell’uovo, ma la sensazione di “pieno
sound” che mi è arrivata - così come ai presenti con cui ho chiacchierato successivamente
- fornisce l’idea di vera band, lontana dall’idea di “tributo” scontato.
Non è facile trovare giovani così dentro ad un progetto così
complesso, e la riproposizione delle parti di tastiera create da Joe Vescovi
da parte di un giovanissimo come Andrea D’Avino dà la misura della
qualità che Sinnone è riuscito a trovare/creare.
E se Carmine Capasso, oltre a valente chitarrista risulta
essere il braccio destro del drummer torinese dal punto di vista organizzativo,
il completamento della sezione ritmica con Tony Alemanno appare
vincente, senza contare che Andrea Ranfa rappresenta una delle voci rock
più belle in circolazione.
Siparietto negativo la caduta sul palco di Sinnone, inciampato in
un cavo nel corso dell’intervista di rito precedente al concerto, incidente che
avrebbe potuto inficiare il concerto: e invece no, Pino picchia sulle pelli
come non mai, dichiarando ufficialmente che un disco di inediti è previsto per
il prossimo anno.
La seconda giornata, quella di domenica 18 luglio, prevede
una band in meno.
Si parte dai veronesi Blind Golem di cui colpevolmente non
ricordavo il nome, nonostante li avessi visti in concerto un paio di anni fa a
Bordighera. In realtà all’epoca li avevo memorizzati come “Ken Heensley Band”,
essendo il gruppo di supporto del mitico membro degli Uriah Heep, purtroppo
mancato recentemente.
Gli uomini passano ma la musica e le forti passioni restano e così
ritrovo quella proposta così precisa che ascoltai nell’agosto 2019, dedita
all’hard rock, rinforzata da un paio di elementi guidati dal bassista Francesco
Dalla Riva, che avevo conosciuto discograficamente parlando molti anni fa,
ascoltando un album dei “suoi” Bullfrogg.
La seconda esibizione prevede una band di casa, i Fungus Family,
tra prog, psichedelia e rock, tanto per dare soddisfazione a chi ama appiccicare
etichette.
Amo la loro musica perché trovo sia il miglior compendio possibile
tra passato e visione del futuro.
Il cantante Dorian Mino Deminstrel è a mio giudizio tra i
migliori frontman in assoluto per la sua capacità di trasferire all’audience il
sentimento da palco, che è quello dell’ensemble, ma inevitabilmente il vocalist
diventa la connessione che conduce al pubblico, modellando e veicolando i
messaggi attraverso contenuti e comunicazione non verbale.
Alla fine, arriva anche la novità, un brano cantato in italiano
che porta a pensare che un nuovo lavoro, magari con novità espressive, sia in
cantiere.
È tanta la curiosità di
vedere/ascoltare la proposta di RaneStrane, band romana che ha concluso
la kermesse e che ha potuto contare sul supporto del Fanclub.
Partiamo col dire che i quattro componenti
hanno un curriculum di primissimo piano e collaborazioni ed esperienze
stellari.
Mi riferisco a Daniele Pomo -
batteria e voce -, Riccardo Romano - tastiere e voce -, Massimo Pomo
- chitarra - e Maurizio Meo al basso.
Vidi una loro performance tre anni fa
in contesto simile, ma la loro proposta era di tipo tradizionale, mentre
accomunare il loro nome a “The Wall”, come accaduto in questa occasione,
stimola l’immaginazione.
Il nuovo progetto della band si
inserisce nell’ambito del “CineConcerto”, una commistione di musica e immagini
che si trasforma in opera rock.
Nello specifico viene quindi proiettato
“The Wall” - film del 1982 diretto da Alan Parker -, dove le parti
vocali con i testi originali si intrecciano con frammenti dei dialoghi cinematografici.
Daniele Pomo, intervistato, ha dichiarato: “Il film di
Alan Parker è esattamente ciò che ha ispirato la band, oltre 20 anni fa, a
intraprendere un viaggio originale e multimediale nella scena rock
contemporanea. È un onore per la band italiana rendere omaggio a questo
capolavoro. La reinterpretazione personale dei RanestRane della colonna sonora
del film e della musica originale e delle parti totalmente inedite viene accompagnata
da una completa sincronizzazione con il film, per creare quello che ora è il
"marchio" dei RanestRane: il CineConcerto, uno spettacolo unico nel
suo genere.”
Prima parte di concerto magica, dedicata totalmente al film
che aveva come protagonista Bob Geldof.
È un modo particolarissimo di vivere il concetto di
“progressive”, con un’estensione verso differenti rappresentazioni dell’arte
che coinvolgono tutti i sensi dell’appassionato virtuoso e open mind.
Il pubblico gradisce incondizionatamente e la normale
conseguenza è un lungo bis che prevede un estratto dei precedenti album
estrapolato dalla “trilogia di Stanley Kubrick”.
La speranza è che il video a seguire possa fornire una
piccola idea dell’atmosfera venutasi a creare… approfondire potrebbe essere lo
step successivo.
Ancora una volta la musica ha unito e permesso di accantonare
i disagi del momento, non ha eliminato la difficoltà oggettiva ma ha
contribuito alla creazione di attimi di serenità accompagnati dalla qualità
della proposta.
Non resta che ringraziare, come al solito, chi ci mette
faccia e portafoglio, tecnici e organizzatori. Ovviamente i musicisti.
Naturalmente il pubblico, quella branchia di intrepidi - alcuni arrivati dalla
Francia - e mai domi che, anno dopo anno, si ritrovano per commentare il
conosciuto e gioire al cospetto delle novità, quelle che danno maggiori
soddisfazioni se arrivano dai giovani.
A distanza di
pochi mesi dall’ultima uscita, “dévoiler”, Elisa Montaldoprepara “Fistful of planets part II” - il seguito del “part I” (uscito nel 2016) - che ho ascoltato in anteprima.
Potrei dare
un’immagine di insieme citando… “l’inizio di un viaggio e la fermatura del
cerchio” … va da sé che un lustro di vita comporta cambiamenti e differenti
visioni del mondo, anche se il credo basico rimane lo stesso.
Il commento di
un nuovo progetto può essere guidato dall’interpretazione personale, ma appare
illuminante poter avere la visione di chi crea, concetti basati su elementi
oggettivi e linee guida certe. Ed è per questo che, come spesso capita, ho
posto alcune domande a Elisa che, rispondendo come sempre con entusiasmo, mi ha
permesso di andare in profondità: l’intervista a seguire risulterà icastica.
L’immagine di
Elisa Montaldo è, a mio giudizio, in continua evoluzione e il ruolo di
tastierista in ambito prog, seppur gratificante, risulta sempre più stretto e
limitativo, perché le sue qualità, coltivate nel tempo, le permettono di ambire
ad una dimensione che oltrepassa il singolo genere, una nuova proposta musicale
che annoda passioni, credo profondo, impegno sociale, cultura e sperimentazione.
Un raccontarsi
mettendo a disposizione del mondo le proprie emozioni utilizzando l’elemento
sonoro e visivo.
Ma non basta.
Chiosa Elisa: “Ho scoperto che scrivere musica per me è ancora qualcosa di
inspiegabile, l’idea, la melodia, le parole, arrivano così, senza
premeditazione, e ogni volta sembra l’ultima ispirazione…”.
Avverto che
una delle attuali preoccupazioni della sensibile Elisa sia quella di non essere
compresa appieno e c’è da concordare, perché un lavoro così complesso, vario e
fuori dagli schemi come “part II” potrebbe trovare resistenza in chi ha
negli occhi e nella testa un quadretto ben preciso che la colloca tra le poche
donne del prog, davanti ad una tastiera.
“We need
people with an open mind…”, mi viene da dire, perché l’“esperienza
polisensoriale” che ci viene proposta necessita di apertura mentale e voglia di
allargare gli orizzonti personali.
Per tutti i
dati oggettivi. Le info e i contatti consiglio un clic sul seguente link:
Partiamo dalle
protagoniste, più di una, perché oltre ad Elisa troviamo Delphine -
fotografa/grafica, visionaria - e La Strega del Castello, creatrice di
profumi artistici e scrittrice.
Nelle prossime
righe sarà la stessa Elisa a raccontare nei dettagli la distribuzione dei
compiti e la meta, ma vorrei sottolineare un concetto che conosco nei dettagli
e di cui sono stato testimone nel tempo, quello legato all’effetto sinestesico
della musica, capace di creare situazioni
in cui la stimolazione uditiva si unisce a quella olfattiva, tattile o visiva,
una miscela, non sempre positiva, attraverso la quale i ricordi prendono vita,
spinti da sonorità conosciute che al loro arrivo producono profumi e immagini
indelebili.
La volontà di
Elisa è quella di… “creare uno spazio “polveroso”, come se il passare del
tempo cosmico avesse fatto arrugginire i pianeti e avesse cosparso di polvere
la galassia, un cumulo di relitti meccanici in orbita e di pietre millenarie
che fluttuano con incrostazioni e polveri gravitanti…”.
Questa lunga
introduzione è necessaria per dare rilievo ad un lavoro che, lo anticipo, è di
grandissima qualità, al di fuori di schemi ed etichette riconosciute.
I quasi 45 di
musica - suddivisa su 9 tracce - permettono di creare un viaggio che può essere
comparativo - tra fruitore e artista - perché il tentativo di decodificare lo
spirito dell’autrice convive con un itinerario del tutto personale, quello che
scaturisce spontaneo quando l’ascolto diventa esperienza di vita. E così il
percorso di Elisa suggerisce differenti ramificazioni.
Dal punto di
vista delle collaborazioni, una mia domanda specifica porta alla sottolineatura
dei vari ospiti… ancora un po’ di pazienza!
Veniamo agli
aspetti musicali, gli unici di cui posso scrivere al momento.
Il viaggio nel
tempo - e nello spazio - inizia con “Valse des Sirenés” - musica
e parole di Attala Alexandre, che vede Elisa alla voce e al
piano, con l’intervento di Matteo Nahum per quanto riguarda gli
arrangiamenti.
La perla
trovata in rotazione libera nella galassia è una canzone/valzer che, attraverso
un suono antico e la puntina claudicante di un vecchio grammofono, riporta ad
una musica sacra, ancestrale, primigenia.
È un punto di
partenza carico di malinconia, come solo la lingua francese sa suscitare, una
proposta di immagini in bianco e nero e un odore intenso di fumo proveniente
dai tabarin, tra danze notturne e varietà.
Segue “Floating
/Wasting Life”, parole e musica di Elisa Montaldo che canta e si
propone alle tastiere con le percussioni affidate a Paolo Tixi/Mattia Olsson
e Hampus Nordgren Hemlin impegnato in una miriade di strumenti (mellotron, basso, vibrafono e tubular bells).
“Smettiamola
di sprecare la vita, dobbiamo smetterla di sprecare la vita e perderci…
proviamo a trovare un significato, svegliamoci e facciamo la scelta giusta…”.
Magnifica nel
significato e nella concatenazione vocale, con arrangiamenti raffinati che
realizzano il bridge tra generi ed ere.
Lo strumentale
“Earth’s Call”, di Elisa Montaldo, vede l’autrice alle tastiere
accompagnata ancora da Olsson e Hampus Nordgren, con l’entrata in scena di
frammenti del “mondo Samurai”: Steve Unruh al flauto, Rafael Pacha
alla chitarra classica, Nina Uzelac al violoncello e Jose Manuel
Medina alla gestione degli archi.
Il riferimento
è all’esosfera, lo strato più esterno dell'atmosfera terrestre.
La sensazione
d’ascolto rende vivide immagini caratterizzate da particelle che si disperdono
nello spazio interplanetario, in rotazione libera in un caos entropico
affascinate e preoccupante allo stesso tempo.
Un sogno ad
occhi aperti!
“We are
magic” (parole e musica di E.M), permette l’utilizzo di effetti e
strumenti ricercati, come accade un po’ in tutto l’album.
Elisa Montaldo
- piano, tastiere, effetti vari e autoharp - chiede ausilio ancora a Mattias
Olsson e Hampus Nordgren Hemlin e realizza un “pezzo” sognante, di facilissima
presa, questa volta in lingua inglese:
“Quando non
sai dove stai andando, quando non riesci a vedere il tuo percorso, fermati un
attimo e prova a sentire il respiro del vento; se sei preoccupato per le tue
scelte, se non trovi pace nella tua mente, rilassati e bevi un bicchiere di
vino, c'è un modo segreto per fermare il tempo: cavalca tuo istinto e starai
bene, respira la libertà del presente e non voltarti indietro… siamo magici!”.
La
complicatezza degli arrangiamenti viene qui resa apparentemente semplice e concetti che
pesano come macigni si riducono ad una dimensione comprensibile e "umana".
“Haiku”
è un altro “quasi strumentale” di EM che la vede nel suo ruolo naturale,
accompagnata ancora da Olsson alle percussioni ma con l’aggiunta di Ignazio
Serventi alla chitarra classica e David Keller al violoncello; la
parte recitativa e affidata a Yuko Tomiyama e Maitè Castrillo.
L’utilizzo di
un componimento poetico giapponese per la descrizione in musica del “pianeta
arancione”, una traccia acustica di grande atmosfera che permette di azzerare
l’effetto gravità e liberare corpo e mente. Meravigliosa!
“Feeling/Nothing/Into
the black hole” vede la compartecipazione autorale di Mattias Olsson e
il ritorno di Steve Unruh al flauto e al violino elettrico, Stefano Guazzo
al sassofono e Tiger Olsson alla voce nella seconda parte del brano.
Diviso in due
sezioni, con la prima preparatoria ad una atmosfera distopica, sottolineata da
un sax devastante che disegna emozioni molto forti:
“All'improvviso
la luce sta svanendo e la gravità mi tira su fino al soffitto della mia stanza:
dove sto galleggiando? Non è il mio solito mondo! Ho lasciato la terra
dirigendomi verso l'ignoto perché qui non c'è speranza. Il buio del silenzio ci
abbraccerà tutti e i fantasmi dei cieli antichi ci mostreranno come guardare
nei buchi neri delle nostre anime perdute…”
Elisa,
solitaria al pianoforte, descrive la sua interpretazione del “Wesak”,
uno di quei giorni speciali in cui la divinità si piega amorevole sui suoi
figli e li benedice, affinché ciascuno possa ricevere la sua parte di felicità.
L’idea che si materializza è quella del
lungo cammino utile a presenziare alla grande festa, ogni anno in primavera, per
partecipare ad un grande evento spirituale.
“Washing
the clouds” è una canzone di Elisa di cui ho già parlato in altre
occasioni, anche se in questo nuovo progetto assume ulteriore volto.
Una delle
domande a seguire verte proprio su questo argomento, che sarà quindi sviscerato
a dovere.
I protagonisti
e i relativi strumenti sono:
Elisa Montaldo
al piano, tastiere e voce
Paolo Tixi e
Mattias Olsson alla batteria e percussioni
Diego Banchero
al basso
Ignazio
Serventi alle chitarre
Hampus
Nordgren Hemlin al mellotron
David Keller
al violoncello
Dice Elisa a
proposito:
“Un giorno
guardando dalla finestra, vidi nel cielo delle nuvole nere e, poco distante,
delle altre nuvole bianchissime. Immaginai che le nuvole fossero nere perché piene
di “sporco”, di negatività… e quelle bianche non erano nient’altro che nuvole
nere ma “pulite”, come se fossero state passate in lavatrice. Da questa
surreale visione ho elaborato nella mia mente l’idea che, se le anime delle
persone fossero come quelle nuvole, si potrebbero “lavare” e purificare per
tornare ad essere belle e pure come all’inizio.”
Una creazione
che si è evoluta nel tempo, lasciando intatta l’idea di completa armonia con
ciò che di bello ci circonda.
A chiusura si
ritorna su “Valse des sirenes (grand finale)”, con gli
arrangiamenti orchestrali di Jose Manuel Medina e il pianoforte di Elisa
Montaldo.
Valzer
meraviglioso che termina con un recitato simultaneo in doppia lingua, inglese e
italiana:
“… ora, che
ti sei trovato i confini della tua mente le tue mani e il tuo olfatto sapranno
scoprire dove la verità si nasconde, i tuoi occhi vedranno più chiaramente la
forma delle cose e le tue orecchie sapranno riconoscere il suono del richiamo
cosmico; smetti di sprecare la vita, devi smettere di sprecare la vita…”.
Un monito, una
speranza, il contributo che ognuno di noi può dare e che, nel caso di una
artista come Elisa Montaldo, può trovare facile amplificazione.
Trovo l’album
impegnativo e bellissimo, cibo per la mente, un superamento di ogni idea
tradizionale di progetto musicale.
Il mio
giudizio è ovviamente parziale perché si sofferma sui soli aspetti compositivi ma, come già detto, c’è molto di più in gioco.
Ho cercato di fornire una mia interpretazione, sperando che non sia troppo lontana dagli
intenti di EM, ma in fondo reinterpretare in modo personale l’arte altrui
rientra nella bellezza delle cose.
Elisa Montaldo
si conferma una musicista straordinaria, capace di esibirsi in differenti
lingue, costruendo in proprio ogni singolo episodio, padroneggiando il suo
strumento e, sempre di più, la voce.
A tutto questo
aggiungiamo la sua voglia di percorrere nuove strade unendo il necessario
pragmatismo alla spiritualità, elementi con cui tratta argomenti di ordine
superiore.
Svolgere il
ruolo di apripista rappresenta un valore aggiunto e ciò che è contenuto in “Fistful of
planets part II” non mi pare abbia eguali, e allora mi sovviene una
citazione nobile dantesca:
“Facesti
come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé
fa le persone dotte...”
Ma cosa ne
pensa Elisa?
Come nasce
il tuo ultimo progetto, così “nuovo” rispetto alle esperienze precedenti?
Già dal
2016 avevo voglia di continuare il mio viaggio “galattico” iniziato con “Fistful
of Planets part I”, ma per motivi personali e di lavoro ho avuto un lungo
periodo di difficoltà e blocco artistico. Lavorare come musicista mi aveva
inizialmente reso “arida” … suonare sei ore al giorno toglie molte energie e
l’ultima cosa che avevo voglia di fare quando stavo a casa era quella di
mettermi a suonare. A marzo dell’anno scorso, con l’avvento della pandemia, mi
sono ritrovata ferma per alcuni mesi. Ciò mi ha permesso di ritrovare
finalmente del tempo per me e soprattutto il piacere di fare musica con
l’anima, la mia musica. Avevo già alcune idee in cantiere da anni, ma è tra
marzo e dicembre 2020 che “Fistful of Planets part II” ha preso forma (così
come anche il mio album “devoiler”) … due album in pochi mesi: è chiaro che
fossi in astinenza!
Sono tre le
figure femminili coinvolte ma il preascolto di cui mi hai privilegiato - quindi
essenzialmente gli aspetti musicali - mi impedisce di comprendere appieno il
contributo delle tue compagne di viaggio: me ne parli?
Le altre
due donne - artiste sono coinvolte nella produzione in modi differenti: quando
ho pensato al progetto del “box polisensoriale” sono partita dall’idea di voler
corredare il disco di elementi che potessero stimolare i sensi umani. Ho
proposto a Delphine - una fotografa/grafica che avevo conosciuto all’hotel in
cui lavoro e che fin da subito mi è sembrata in sintonia con il mio mondo - di
partecipare e di aiutarmi a creare la veste grafica del CD. Ma non solo: le ho
spiegato il progetto e la mia volontà di creare uno spazio, ma non come quello
dei film di fantascienza, realistico e “scientifico”: uno spazio più
“polveroso”, come se il passare del tempo cosmico abbia fatto arrugginire i
pianeti e abbia cosparso di polvere la galassia. Io immagino veramente lo
spazio in questo modo, pieno di relitti meccanici in orbita e di pietre
millenarie che fluttuano con incrostazioni e polveri gravitanti. Abbiamo poco a
poco collegato l’idea del concetto musicale alle immagini, che si sono poi
estese sul mio sito e sulle foto che Delphine ha fatto ed elaborato per
decorare il libretto e comunicare l’avvento di questa nuova “galassia”.
Nella
scatola, oltre al CD, ci sarà una stampa di un ritratto fatto ed elaborato da
Delphine su una carta speciale “velvet” (numerato e autografato) e ancora, la
scatola di cartone è decorata con timbri realizzati da lei riproducenti i
nostri tre loghi “stregati”.
La Strega
del Castello è una creatrice di profumi artistici di Genova: sono venuta a sua
conoscenza tramite una coincidenza incredibile, proprio quando stavo cercando
un produttore di profumi che potesse essere in linea con la mia idea. Ci siamo
subito incontrate e abbiamo capito di avere visioni simili dell’arte e la
passione dei profumi come elementi capaci di risvegliare memorie sepolte nella
mente e richiamare in modo istintivo momenti del nostro passato o sogni e
visioni.
Insieme
abbiamo trovato un profumo che potesse “raccontare” e accompagnare
l’ascoltatore nella prima parte del disco: è un sogno che ho da anni, fin da
quando durante i concerti del Tempio delle clessidre spruzzavo dal palco un
profumo a base di datura prima di eseguire il nostro brano “danza esoterica di
datura”, quindi sono molto felice di essere riuscita a realizzare questo
connubio! Credo molto al potere dell’olfatto unito a quello dell’udito per
portare ad un livello superiore l’ascolto della musica e comprenderne i
messaggi nascosti.
Il profumo
sarà presente nella scatola e avrà un’etichetta personalizzata e “misteriosa”,
lasciando così sconosciuto il sentore al fine di stimolare al massimo il senso
dell’odorato e lasciare che l’ascoltatore si lasci trasportare dal proprio
istinto e dalla propria memoria olfattiva.
Mi pare che
al momento non sia garantita una distribuzione tradizionale: come hai
pianificato la pubblicizzazione?
Ho
preferito procedere in modo del tutto autonomo, non conoscendo lo sviluppo
della situazione generale e personale. Ho composto le canzoni in fretta perché
ero davvero molto ispirata, lavorando 10/12 ore al giorno in casa per oltre tre
mesi. Ho registrato tutto da sola nel mio appartamento, ma con materiale
professionale (un amico mi ha prestato un bel microfono a condensatore e mi
sono costruita un rudimentale studio nella mia cantina!). Quando la stesura dei
brani era completata ho coinvolto i musicisti e ho passato la parte della
coproduzione a Mattias Olsson, che lavorando da Stoccolma ha completato il
tutto. Non è facile lavorare a distanza, ma per fortuna in questi ultimi anni
ci siamo abituati (anche per “il-ludere” del Tempio era stato fatto così). Ho
poi raccolto tutte le registrazioni e gestito l’editing. Questa è la parte che
meno amo del lavoro, e avrei voluto avere la possibilità di delegare tutto ciò
a uno studio professionale. Ma, come si dice, “di necessità virtù”, ho fatto
passi avanti e a forza di risolvere problemi sono riuscita ad arrivare alla
fine anche con i miei mezzi limitati!
Ho
elaborato il mio sito e il mio Bandcamp personale in modo certosino affinché
possa essere comodo ed efficace gestire le vendite dei miei lavori.
Sono
attualmente in discussione per avere una distribuzione dell’album, alla fine
credo ne valga la pena. Presto saprò come muovermi in questo senso.
Mi parli
delle collaborazioni musicali? Mi pare ci siano molti nomi del “vecchio”
habitat più nuove conoscenze derivanti dal mondo dei The Samurai Of Prog…
Alcune
collaborazioni sono arrivate per caso, come quella con Ignazio Serventi,
chitarrista che conoscevo da anni ma che avevo perso di vista, con cui
casualmente è iniziata la collaborazione su alcuni brani di “dévoiler”.
Gli ho mandato alcuni brani per Fistful e li ha da subito amati. Per le
batterie ho subito pensato a Paolo Tixi, semplicemente perché è il batterista
che preferisco tra tutti quelli con cui ho suonato, per stile e intenzione
sonora. L’ho coinvolto per i brani più “prog”, mentre per quelli più
sperimentali ho dato la palla a Mattias, anche perché gli arrangiamenti
prevedevano anche percussioni e suoni orchestrali.
Diego
Banchero suona il basso in “Washing the clouds” ed è stato casuale, poiché
proprio quando Ignazio stava registrando per me, si è incontrato con Diego:
visto che nel brano mancava ancora il basso il tempismo era perfetto e dopo un
breve scambio di messaggi Diego ha registrato la parte: gli sono davvero
riconoscente e ovviamente dà un valore in più a questo brano!
Stefano
Guazzo è un sassofonista genovese che ammiro molto: ho pensato subito a lui
perché so che avrebbe dato qualcosa di speciale nell’improvvisazione “folle”
del brano “Into the black hole”. Volevo un sax, anzi due, che potessero
richiamare i brani più jazzati dei King Crimson e che potessero dare quella
sensazione di “aggressività” che il suono del sax può dare, quando è usato in
un certo modo.
C’è poi
Steve Unruh, polistrumentista che ho avuto il piacere di conoscere grazie alle
collaborazioni con The Samurai Of Prog: per me è un musicista fenomenale e lo
ha confermato con i suoi interventi, ha aggiunto personalità e vibrazioni
meravigliose alle parti che avevo composto con strumenti virtuali.
Importantissima
ovviamente la collaborazione con Mattias Olsson, che ha coinvolto anche il suo
collega Hampus e ha portato i brani ad un livello superiore: incredibile la
ricerca sonora con l’uso di sintetizzatori vintage ma processati in maniera
sperimentale… l’uso di vere tubular bells, di mellotron che hanno sostituito i
miei virtuali, di percussioni e ritmiche che hanno dato colore e dinamica come
mai avrei potuto fare da sola.
Questi sono
alcuni dei musicisti coinvolti, quindi puoi immaginare la mole di lavoro che
c’è dietro nel gestire il tutto e la difficoltà di portare avanti un filo
logico senzatroppo
andare fuori tema. Ma ora posso dire di aver raggiunto l’obiettivo senza
discostarmi, e grazie alla disponibilità degli amici e artisti questo è stato
possibile.
Come avevo
già anticipato commentando “dévoiler” - tuo album rilasciato ad aprile - su
“Fistful of planets part II” è presente la canzone “Washing the clouds”,
ricorrente nei tuoi ultimi lavori, seppur con diversi arrangiamenti: cosa
rappresenta per te?
Washing
the clouds è
una canzone che scrissi nel 2017. Come ho detto prima, stavo vivendo un periodo
molto difficile, mi ero appena trasferita in Svizzera per lavoro, mi sentivo
sperduta e non parlavo nemmeno il francese. Non componevo musica da quasi un
anno e mi sentivo triste. Un giorno guardando dalla finestra, vidi nel cielo
delle nuvole nere e, poco distante, delle altre nuvole bianchissime. Immaginai
che le nuvole fossero nere perché piene di “sporco”, di negatività… e quelle
bianche non erano nient’altro che nuvole nere ma “pulite”, come se fossero
state passate in lavatrice. Da questa surreale visione ho elaborato nella mia
mente l’idea che, se le anime delle persone fossero come quelle nuvole, si
potrebbero “lavare” e purificare per tornare ad essere belle e pure come
all’inizio. Questo pensiero anche perché ero a contatto con persone fortemente
negative e piene di “energia tossica” e stavo soffrendo molto cercando di
curare in qualche modo gli altri, ma non riuscendoci mai. Ho pensato dunque di
farlo scrivendo questa canzone. Per questo motivo l’arrangiamento non è stato
subito creato, ho registrato una rudimentale versione solo piano e voce e suoni
virtuali, ma soltanto nel 2020 sono riuscita a riprenderla in mano ed
elaborarla. Prima con i “Samurai”, avendo già un’idea di come procedere per “Fistful”,
e poi con quella “ufficiale” per il mio disco. A differenza della versione proposta
con i TSOP, che è stata gestita interamente da loro, per questa versione
abbiamo attraversato molte difficoltà e problemi durante la lavorazione. Non
ero mai soddisfatta del risultato, è stato un vero e proprio travaglio! Alla
fine, però, ci siamo riusciti. Mattias è stato paziente ed è arrivato a
ricreare il finale che volevo… per me è estremamente importante riuscire ad
esprimere le emozioni allo stato puro tramite la musica, ma non sempre si sa
come fare. Qui l’arrangiamento è incredibilmente complesso, pensa che ci sono nove
piste soltanto per il violoncello, oltre a mie voci sovrapposte, mellotron,
percussioni di vario tipo, strumenti con il suono di “sirena spaziale”, tutto è
volto a creare una melodia che faccia volare e che si stacchi dalla realtà.
Seguendo
costantemente la tua proposta si ha la netta sensazione dell’evoluzione e della
tua crescita personale, nonché della maturazione che passa attraverso la
ricerca di nuovi percorsi: puoi provare ad autodefinire il tuo momento
professionale?
Da quando
faccio musica a tempo pieno lotto con la stanchezza e la pigrizia durante il
tempo libero, ma dall’anno scorso ho ritrovato un equilibrio e ho deciso di
usare tutto il tempo e le energie che ho a disposizione per evolvere e creare. È
il mio scopo di vita e niente e nessuno può più soffocare questo istinto. Mi
sento serena sotto questo punto di vista poiché sono maturata come persona e
come musicista. Suonare da soli per ore ed ore può portare a “fossilizzarsi”
oppure a una continua evoluzione. La paura di divenire un esecutore meccanico
di piano bar mi ha fatto reagire e andare ancora più a fondo nella mia
personalità artistica. Ho dedicato tutto quanto prendendo questa direzione e ho
scoperto che scrivere musica per me è ancora qualcosa di inspiegabile, l’idea,
la melodia, le parole, arrivano così, senza premeditazione, e ogni volta sembra
l’ultima ispirazione. Se vogliamo è una sorta di sofferenza perché non so mai
se ci saranno nuove ispirazioni o se mi bloccherò. parallelamente a ciò mi sono
rimboccata le maniche e ho passato giorni al computer cercando di riuscire ad
essere il più autosufficiente possibile in fatto di produzione musicale (e da
un po’ di tempo anche video e web), ammetto che è molto faticoso perché non possiedo
basi adeguate, ma ho risolto problemi e raggiunto risultati che mai avrei
pensato di essere capace di raggiungere. Questa mia attitudine si rispecchia un
po’ in tutti gli aspetti della mia vita. Sono aperta e non ho paura di
esprimermi… certo spesso sento frustrazione e sono triste per l’indifferenza
che c’è tutt’intorno, ma non perdo tempo a farmi domande e continuo, perché so
che per qualcuno potrebbe avere un senso e perché è il senso della mia vita.
Puoi
tracciare l’elemento di continuità tra “Fistful of planets” part I e part II?
La parte 1
è stato l’inizio del viaggio, concretamente, perché sono partita per andare a
lavorare in vari luoghi e artisticamente, perché ho creato questa idea della
galassia immaginaria e dei pianeti/canzoni di diversi colori. Adoro tutto ciò
che è spazio e ignoto, astronomia ed enigmatica sono state tra le mie passioni
più spiccate da quando ero bambina. Durante i miei spostamenti ho voluto
provare a fissare alcune sensazioni e visioni. Nella “part I” tutto ciò è
ancora piuttosto timido, i brani sono brevi e la durata del disco è limitata,
proprio perché avevo paura di “rubare troppo tempo” all’ascoltatore e di
annoiarlo. Questa paura esiste tuttora, credo non la supererò mai. Ma nella “part
II” ho osato di più. Mi sono sentita di raccontare in modo più incisivo questo
universo, ho aggiunto elementi come il buco nero e l’esosfera proprio per
sensibilizzare l’ascoltatore su come questo viaggio sia adesso più profondo e
importante. “Fistful of Planets part II” inizia con un forte legame alla Terra,
ad un’epoca passata dove esistevano i grammofoni, le stoffe vellutate, le foto
sfumate seppia… e passa velocemente ad uno stato di smarrimento algido in un
abisso sconosciuto, con echi di pianeti amici, ma con un inevitabile senso di
vuoto e di introspezione che spesso fa paura. Spero davvero di portarvi con me
in questo viaggio e di sorprendervi trovandovi diversi alla fine dell’ascolto.
Per ora non
saprei. Me lo sono immaginato più volte durante il processo lavorativo, perché
mi piacerebbe tantissimo poter portare questa musica dal vivo. Gli
arrangiamenti sono articolati e sarebbe impossibile riproporli tali e quali in
sede di live, ma le canzoni sono state composte quasi tutte in modo intimo e
con l’idea di essere “raccontate”. Io credo che se una canzone ha questo tipo
di anima, essa può essere eseguita in diversi modi ma mantiene la sua essenza.
Se ci saranno occasioni di live, ho già previsto delle eventuali soluzioni e
non mi tirerò indietro, anzi, ne sarei emozionata e contenta!