Fear can hold you prisoner, hope can set you free
È questa la
frase in rilievo - tratta dal film “Le ali della libertà” - che colpisce
una volta aperto il booklet di “hope”,
l’album numero 24 di Fabrizio Poggi, in
questa occasione realizzato in coppia con Enrico
Pesce, una collaborazione che si distacca da quanto accaduto in
passato e che privilegia la proposizione acustica ed intimistica.
Fabrizio Poggi
significa blues, America, armonica, contatto con il pubblico e dialogo come
focus di ogni esibizione. E aggiungo… voce perfetta per il genere.
Su queste
pagine ho più volte scritto dei suoi lavori musicali e non, commentando alcuni
live di cui sono stato testimone.
L’acquese Enrico
Pesce è compositore, concertista, regista, direttore artistico e docente
musicale.
Due storie, due
culture, due percorsi che si incontrano per trovare una sintesi che produce
nobiltà sonora, un superamento dei generi e delle etichette a favore della
qualità assoluta utilizzata per dare corpo ad un messaggio di peso, rinforzato
da ospiti prestigiosi e utilizzando saldi binari su cui viaggiano un’armonica
che si adagia sulle note del pianoforte, i due strumenti principi del progetto.
Ma forse l’immagine dei binari non è la migliore possibile - se si esclude l’idea di viaggio - perché presuppone una distanza tra gli elementi, distinzione che in realtà non si avverte in nessuna parte del disco.
Ogni volta che
mi avvicino ad un nuovo progetto scaturiscono idee e pensieri che mi riportano
ad episodi vissuti, frammenti di memoria che mi permettono di dare una mia
interpretazione, magari lontana… molto lontana dal pensiero di chi ha creato;
in questo caso ha pesato il titolo e la lettura introduttiva di “hope”,
quella in cui la “speranza” degli autori diventa l’elemento di cui tutti
abbiamo enorme bisogno in questo momento così complicato, da cui spesso sembra
impossibile uscire; facile ritornare ad un vecchio brano di successo del 1980,
per molto tempo da me male interpretato, ma ora chiarissimo.
Questa la
fotografia: un uomo, un pittore, davanti ad una tela vuota che aspetta di
essere riempita (ma potrebbe essere un foglio su cui scrivere una canzone, o
una poesia… un obiettivo da raggiungere).
L’idea è quella
che nel nostro percorso di vita sia necessario lasciarsi andare, sognare senza
sosta, sfruttando un possibile vento propizio che ci potrà spingere nella
nostra navigazione.
Continuando a sognare e avendo dalla nostra un po’ di fortuna (il vento favorevole), si compirà il miracolo e la tela da pittore si riempirà prendendo, forse, una forma inaspettata, basterà solo avere la pazienza di attendere e qualcosa di magico accadrà.
Nella mia rivisitazione del pensiero di Poggi e Pesce la speranza si miscela alla fede - religiosa o laica - e la loro musica diventa magia pura.
Proverò a ripercorrere i vari episodi che caratterizzano l’album, tutti ascoltabili cliccando sul titolo.
Il brano di
apertura, inedito, è “Every Life Matters” ,
una potenziale hit in quanto di immediata presa.
Ogni vita è
importante, un’affermazione quasi banale ma che troviamo calpestata
quotidianamente. Concetti sui cui tutti a parole concordano ma che non trovano
un giusto corrispettivo nelle azioni.
Ma cosa può
fare una canzone per migliorare la situazione? Dilemma di sempre!
Si può
racchiudere un’anima tra quattro mura e la si può anche incatenare, ma non si
può arrestare la forza della musica, e la canzone si libererà da ogni vincolo e
volerà per sempre, in ogni luogo.
Magnifico duetto tra Poggi - creatore della lirica - e Pesce - autore della musica - con la nobile presenza vocale di Sharon White - da venti anni back vocalist di Eric Clapton - che contribuisce nel rendere il pezzo una sorta di manifesto che possa sottolineare l’impegno per i diritti civili.
A seguire “Leave Me to Singthe Blues”.
Il blues
utilizzato come denuncia e al contempo come attenuazione dei
dolori della vita.
Chiosa
Fabrizio: “È una rilettura in chiave blues e jazz di una celebre aria del
Settecento che si avvale di un’inedita scrittura pianistica di Enrico Pesce.
Con l’aggiunta di nuove liriche il brano si è trasformato in un antico canto di
libertà dalla schiavitù…”
Voce roca,
pianoforte virtuoso e armonica lancinante… sono questi gli ingredienti di una
canzone coinvolgente che riporta alla memoria momenti già vissuti, reali o
virtuali.
“Hard Times
(come again no more)” nonostante la sua freschezza e attualità, è stata scritta a metà dell’Ottocento
dal padre della musica americana, Stephen Foster, ed è anche una delle prime ad
essere stata incise con il fonografo a cilindro nel 1905.
Un grido di
dolore, un monito, una speranza, quella che i tempi difficili possano sparire e
non tornare più.
La delicatezza del topic richiede il giusto intimismo che emerge dal minimalismo musicale proposto dai due autori.
“Motherlesschild” (o Sometimes I feel like a motherless child) è un pezzo tradizionale che risale al periodo della schiavitù americana e
fornisce l’immagine tragica del dolore più forte, quello della separazione
forzata di un bimbo dai genitori, così come quello di un uomo dalla sua terra:
tempi che cambiano ma problemi che restano. Ma la descrizione della tragedia
non impedisce la visione di una luce, seppur lontana.
Brano blues/jazz che esalta il virtuosismo di Enrico Pesce e permette l’entrata in scena della splendida voce di Emilia Zamuner, giovane cantante jazz napoletana: un calarsi profondo nei locali musicali statunitensi, dove suonare, ascoltare e lenire le pene diventa un tutt’uno.
“Goin’down the road feelin’ bad” è un altro traditional che “sembra che fosse cantato sia dai poveri mezzadri
bianchi che dai prigionieri neri incarcerati ingiustamente nelle famigerate
galere del Sud”.
Forse basterebbe
la musica per emozionare, perché il lamento dell’armonica accompagnato da un
semplice giro di pianoforte spinge verso attimi evocativi.
Altro esempio di meraviglioso minimalismo e di facile accesso verso le complicazioni che a volte ci riserva il mondo della musica.
“My story”, due minuti di pura suggestione, una creazione del 2005 di Enrico Pesce, colonna sonora di un suo antico cortometraggio: un viaggio, sognando ad occhi aperti, abbattendo ogni tipo di barriera e ortodossia.
Quanto è
importante il testo in una canzone?
“I’m leavin’ home” rappresenta al contempo titolo e lirica, e ascoltando il magnifico tappeto
tastieristico rappresentato dal fraseggio ininterrotto del pianoforte si
potrebbe pensare di avere al cospetto una prateria su cui correre con estrema
libertà verbale, spargendo i pensieri in ogni dove.
Ma la forza del
sonetto conciso è condita dallo stesso ermetismo dell’ungarettiano “Mi
illumino di immenso”, concetto in cui ognuno può riconoscere il significato
che ritiene più appropriato.
Dice a
proposito Poggi: “Per scriverla mi sono ispirato al “ring shout”. Si tratta
di una danza cantata di origine africana che gli schiavi eseguivano per ore
sino allo sfinimento. Un rituale segreto, estatico e trascendente in cui i
partecipanti si muovevano in cerchio, trascinando e battendo piedi e mani come
fossero antichi tamburi. È nel “ring shout” che si trovano le radici del blues
e del jazz. È una sorta di “mantra” meditativo in cui la ripetizione di una
parola o di un verso diventa uno strumento così potente da riuscire ad elevare
e guarire ogni spirito.”
Segnalo un nuovo intervento di Sharon White.
“The house of the rising sun” è un’altra canzone tradizionale di cui non si conosce l’autore, anche se la
versione di maggior successo fu quella dei The Animals, nel ’64.
Originariamente
“The rising sun blues”, rappresentava il bridge tra i bordelli di New Orleans e
le case di tolleranza della Napoli degli Anni Venti del Novecento. In quei
luoghi di perdizione e svago, era facile trovare grandi musicisti e artisti
creativi, magari destinati a restare nel pieno oblio, nonostante le loro
qualità.
Questa versione, una delle tante esistenti, appare lontana dalla facile canzonetta coverizzata da miriadi di band ad azione locale, perché il sottofondo jazz e blues le conferiscono nuovo volto e nobiltà.
“I shall not walk alone” è una canzone di Ben Harper, riproposta più volte live da Fabrizio con i Blind Boys of Alabama: ancora voce, piano e armonica per un testo che, accompagnato dalla giusta atmosfera, produce un marcato spleen…
Per entrare nel
cuore di “Nobody knows the trouble I’ve seen” occorre l’aiuto di Fabrizio: “La canzone è stata pubblicata per la prima
volta nel 1867 ma secondo gli studiosi è stata creata dagli schiavi almeno
cent’anni prima e nessuno sapeva davvero le tribolazioni che dovette passare e
vedere con i propri occhi il popolo afroamericano piegato a raccogliere cotone
negli sterminati campi del sud degli States…”.
Un blues “ortodosso” che vede il rimbalzo continuo tra voce e armonica, mentre l’arpeggio di Pesce rompe gli schemi, quella rigidità cara a chi pensa che il genere sia proponibile in un solo modo possibile.
La chiusura,
così come l’apertura, presenta una canzone scritta dal duo Poggi/Pesce, dal
titolo “Song of hope”.
La speranza,
quella che ha ispirato l’album in ogni sua parte e che è il fulcro del brano,
rappresenta la degna chiusura del concept album.
La musica come
veicolo per alleggerire ogni peso… la musica come benessere fisico e
spirituale… la musica come aggregazione e unificazione del modo di essere… la
musica come concetto di rottura di ogni tipo di barriera.
Un ascolto liberatorio, se si è un minimo virtuosi!
Davvero un gran
lavoro quello proposto da Fabrizio Poggi e Enrico Pesce, un linguaggio che si
nutre di ingredienti consolidati e conosciuti, la cui miscela, però, produce
novità e superamento di ogni aspettativa, una fuga da quell’immagine che in
modo naturale segue l’artista e lo codifica a vita.
E poi esiste la musica universale, quella che mette tutti d’accordo!
TRACKLIST:
1 Every life matters (Fabrizio Poggi
– Enrico Pesce)
2 Leave me to sing the blues
(Fabrizio Poggi – Enrico Pesce)
3 Hard times (Stephen Foster)
4 Motherless child (traditional)
5 Goin’ down the road feelin’ bad
(traditional)
6 My story (Enrico Pesce)
7 I’m leavin’ home (Fabrizio Poggi)
8 The house of the rising sun
(traditional)
9 I shall not walk alone (Ben
Harper)
10 Nobody knows the trouble I’ve
seen (traditional)
11
Song of hope (Fabrizio Poggi – Enrico Pesce)
LINEUP:
Fabrizio
Poggi vocals, harmonica
Enrico Pesce piano
with
Sharon White vocals on “Every life
matters” and “I’m leavin’ home”
Emilia Zamuner vocals on “Motherless
child”
Hubert Dorigatti guitar
Jacopo Cipolla upright and electric
bass
Marialuisa
Berto percussion
Giacomo
Pisani percussion
Arranged by Enrico Pesce
Recorded, mixed and mastered by
Giuseppe Andrea Parisi
Produced
by Fabrizio Poggi with Enrico Pesce, Giuseppe Andrea Parisi, Angelina Megassini
Logistics and organization Angelina Megassini
Front cover picture and art: Mauro
Negri
Graphics: Manuela Huber
Fabrizio Poggi plays Hohner
Harmonicas
Fabrizio Poggi wears The Blues Foundation hat
in loving memory of Jean Franco
Formiga (1999 – 2021)