Uvarovite
& The Thermal Breaks - “Bubblers in Balikesir”
Fibermech Records
(11 tracce-56 minuti)
Accade di entrare in una libreria e
di essere ammaliati dalla copertina, dall’involucro, dall’elemento estetico,
tanto da trovarsi sulla via di casa con un nuovo book tra le mani, un libro di
cui non si conosce nulla, né contenuto né autore, ma oramai sentiamo che ci
appartiene, e alla fine scopriremo, magari, che l’acquisto è stato indovinato.
Nel campo musicale può accadere la
stessa cosa… l’amore scocca a volte per una copertina suggestiva, per un
titolo, per un’idea che sgorga spontanea.
È quanto è avvenuto quando
casualmente ho adocchiato “Bubblers in Balkesir”, di Uvarovite & The Thermal
Breaks.
Cosa si cela dietro a denominazioni
così inusuali?
Qualche chiacchiera con i
protagonisti, riportata nel corso dell’articolo, risulterà alla fine icastica.
Il progetto si presenta come
multietnico, con musicisti provenienti da posizioni geografiche diverse, che
trovano la sintesi in un luogo di lavoro in terra straniera.
Appare chiaro quindi come la musica
sia la grande passione, ma attività collaterale, situazione normale in questo
ambito.
Partiamo dai componenti la band e
proseguiamo con qualche etichettatura atta a chiarire la tipologia della
proposta.
Leader della band è Marko Mounier,
un francese che vive per un quarto del tempo nel suo paese, per un altro quarto
in Italia e poi… in giro per il mondo.
Trombettista, pianista e tastierista,
viene denominato “Il Professore” (oltre che Uvarovite Man”)”, per effetto della
sua posizione all’Università del Vetro di Parigi.
L’anima e il motore, rigoroso e
fantasioso.
La sezione ritmica è formata dal
batterista e percussionista Henry Mex - scuola messicana, ritmo pazzesco
e sempre sul pezzo - e dal bassista Daniele Tagliabue, direttamente da
Cantù, entrambi con una lunga esperienza come session man in studio e su navi
da crociera.
Chiudono la line up due musicisti
interscambiabili - Andrea Colombi e Alberto Fabbri - entrambi
vocalist e chitarristi, molto conosciuti nel circuito lombardo.
Gruppo che appare affiatato e che
presenta un rock contaminato dal blues e dal folk, con particolare attenzione
ai testi, mai banali, seppur a volte criptici.
L’album, rilasciato da poco, ha
caratteristiche ben precise, essendo un concept ma formato da episodi - undici -
ognuno dei quali può brillare di luce propria. Il cantato è rigorosamente in
lingua inglese.
Il fil rouge, il comune denominatore,
riporta ai diversi sentimenti che legano gli esseri pensanti, delineati ad uno
ad uno mentre storie apparentemente separate sbocciano e si uniscono tra loro.
Questa
la Setlist
Viscosity
Why
does the pull change?
I
must ask
Gulin's
nails
The
dumper zone
Platinum
or Rhodium?
The
boosting is not enough
Ramada
Hotel
Ten
microns
Efficiency
is our priority
Raki
Apre il disco “Viscosity”
e appare subito chiara la necessità di metafora.
Il termine, che può prestarsi a
differenti definizioni, parte dall’elemento tecnico per estrapolare il concetto
di amicizia, di legame consistente di cui spesso si ha bisogno, capace però di
trasformarsi in prigione se fuori dai limiti; e allora, quale sarà la giusta
“viscosità” in una relazione in cui domina l’affetto?
Lo start musicale è grintoso, cinque minuti
di energia pura che prevedono una discreta dicotomia tra una prima parte
sognante - e qui il corno francese utilizzato da Mounier calza a pennello - ed
una seconda molto “ruvida”, dove i giochi solistici di Colombi e Fabbri
riportano alla migliore tradizione del rock.
Segue “Why does the pull
change?”, il brano più lungo con i suoi suoi sette minuti e mezzo.
Nasce una sorta di dilemma che appare
senza soluzione.
Perché cambiamo? Perché non esiste
una valida motivazione nonostante la nostra voglia - e applicazione - di una
continua analisi? Si tira e si spinge, si elidono le forze e ci si ritrova al
punto di partenza.
Testo scritto da Tagliabue all’apice
del suo esistenzialismo.
Anche in questo caso esiste un cambio
di movimento, e dopo un iniziale momento acustico si mette in luce la ritmica
di Mex, capace di sciorinare i tempi composti tipici del prog all’interno di
trame decisamente tradizionali.
Il terzo pezzo, “I must ask”,
fa riferimento al periodo della conoscenza e della nascita della band, quando un
incontro lavorativo quasi fortuito a Balikesir, città della Turchia, li portò a
legare e a pianificare un futuro musicale comune.
In quella occasione vennero in
contatto con Sirtacchio, potenziale manager della band, che qui diventa simbolo
di ignavia, di incapacità di prender posizione, di pigrizia di azione, indolenza
e viltà eletta a norma di vita, o forse solo paura delle conseguenze. Il “devo
chiedere” rappresenta il perenne prendere tempo, sempre e comunque, delegando
ad altri l’azione e la responsabilità. Sirtacchio diventa quindi la
rappresentazione di un comportamento umano da evitare.
Inizio acustico e quadretto
idilliaco, con il piano di Mounier che incanta e disegna a mano libera
paesaggi orientali e atmosfere sognanti. Gli arpeggi chitarristi di Colombi
introducono il blues finale, utilizzato per rinforzare il messaggio di dolore e
delusione.
Con “Gulin’s neals” si
entra nel sociale.
L’antefatto riporta ad una giovane
donna, amica comune, dedita per professione a lavori manuali, quelle che
nell’immaginario comune richiedono abbigliamento adeguato, sicuramente poco
femminile. Ma lei non riesce a rinunciare alla raffinatezza dei particolari,
non può essere un’altra e così mantiene le sue unghie colorate e ben curate in
ogni situazione, anche in quei momenti in cui le mani richiederebbero ben altra
protezione.
La donna sempre al centro, senza
condizionamenti e confini, la donna come fulcro del mondo, la vera opera
d’arte!
L’anima italiana diventa
preponderante e la melodia prende il sopravvento. Il lungo gioco di chitarre e
tromba si trasforma in dialogo, quello tra la protagonista e chi non riesce ad accettare
il suo coraggio.
Altro brano dai forti connotati
sociali è “The dumper zone”.
L’immagine che fa riferimento al
termine “Dumper” rappresenta una sorta di ostacolo al normale corso delle cose,
una barriera che si frammezza allo scorrere dei flussi, un muro che tende ad
incrostarsi e spesso si trova in balia del vento.
Ma forse una piccola ed elementare
protezione potrebbe creare un riparo sicuro, un luogo in cui poter sostare per
riflettere, godendo della più alta visione possibile.
Emozioni continue, un sample di cosa
possa rappresentare un brano che contiene messaggio, competenza strumentale e
bellezza estetica, un fiume in piena che diventa docile torrente, un salire e
scendere un difficile pendio con facilità, un’agitazione smisurata che diventa
quiete positiva.
“Platinum or Rhodium?”.
Dilemma che riporta a Shakespeare!
In realtà la lirica di Fabbri prende
in considerazione il valore delle cose materiali, elementi apparentemente
irrinunciabili, ma evanescenti e “di passaggio”.
Cosa scegliere tra l’oro e… l’oro?
Esistono altri criteri di valutazione? Possiamo immaginare una diversa lega tra
“metalli”, non risulterà vincente cercare un bilanciamento con aspetti più
eterei e trascendenti ma fondanti?
La voce di Colombi conduce un dramma
che si snocciola in momenti differenziati. Una marcetta riporta alla classicità
pura, mentre le lancinanti svisature dell’elettrica penetrano nell’anima e
realizzano un’andatura in pieno stile seventies, quando queste sonorità erano
il nutrimento quotidiano.
Altro
brano è “The boosting is not enough”.
Ci sono quei giorni, quei momenti, in
cui l’energia non appare sufficiente, gli sforzi sono enormi e tutto appare
inutile. La piattezza regna sovrana e non si intravedono all’orizzonte cambi di
rotta, nonostante l’impegno constante.
“L’energia non è abbastanza”,
chiediamo aiuto ma non sempre arriva, e l’indifferenza fa scendere quella
nebbia che solo il tempo farà sparire, sperando che il tutto avvenga in un
tempo accettabile.
Un pezzo di bravura di Mounier, che
utilizza il suo piano chiudendo gli occhi e lasciando andare mani e mente, solo
così si può raccontare musicalmente il parallelo tra infinita tristezza e
speranza di luce infinita.
“Ramada Hotel”,
fa immediatamente pensare al rock settantiano degli Eagles, ma c’è molto di più
in sottofondo.
Il Ramada di Balikesir è il luogo in
cui tutto è nato, punto di incontro casuale ma fondamentale: un piccolo palco,
strumenti folkloristici, voglia di musica dopo una giornata piena di lavoro. E
la band prende forma, le anime si fondono e si ravvivano sentimenti, quelli a cui solo
l’unione di intenti può garantire solidità.
Una traccia molto dura, metallica,
con un sottofondo drammatico e un ritmo incalzante che toglie il fiato e
preannuncia la novità ad ogni svoltar d’angolo… sonoro.
Con “Ten microns” il
topic si sposta sul tema del desiderio e dell’obiettivo apparentemente
inarrivabile; puntare in alto, sempre più in alto, appare legittimo, sognare ad
occhi aperti un esercizio quotidiano, ma quanto siamo disposti a mettere in
gioco per toccare il cielo con un dito?
Unico strumentale, un brano tutto
atmosfera ed effetti, molto ambient, riflessivo e pitturato nel sonoro, una
misura melodica che non lascia indifferenti, un aiuto nel sottolineare il
virtuosismo di questi musicisti!
“Efficiency is our priority”
fa riferimento ad una frase che il gruppo era solito formulare nelle occasioni
più svariate, irridendo tutti quelli che mettevano da parte i sentimenti e la
voglia di relazione a vantaggio del profitto a tutti i costi.
Ma esiste qualcosa oltre alla
perfezione di comportamento e l’ortodossia nei principi?
Un crescendo di effetti in stile
floydiano, un ritmo cadenzato e controllato, una marcia verso l’ignoto, due chitarre
elettriche laceranti il cui prodotto si lega indissolubilmente alla lirica.
Chiude l’album una ballad, quella che
non può mai mancare in un album rock.
“Raki”, apparentemente leggera e
divertente, nasce ripensando a due episodi particolari.
Precisiamo che il “Raki” è una
bevanda all'anice turca, ottenuta da un distillato a base di mais, o patate,
aromatizzato con anice e menta, con una gradazione alcolica minima del 40%. Conosciuto
anche come "latte di leone", è considerata la bevanda nazionale.
Il primo episodio riporta agli
incontri serali del Ramada, quando la ricerca del lavoro era assoluta priorità.
In quel contesto nacque l’opportunità per Tagliabue di approfondire l’arte
della preparazione del Raki, una sorta di “mestiere” che lo porterà a creare
tutorial dedicati e divenuti di grande successo, fonte di futuro e sicuro
reddito. Perché anche quando tutto sembra perduto l’intraprendenza e
l’inventiva possono venire in nostro aiuto.
La seconda motivazione mette al
centro Andrea Colombi e il suo abuso episodico di Raki. In questo caso la
mancanza di consapevolezza, il senso di sfida, l’incoscienza e l’idea di
immortalità, portano al disagio e al malessere fisico: niente di preoccupante
se l’errore si trasforma in apprendimento e indicazione del corretto modello di
vita.
Chitarre acustiche e cori vacanzieri
per il finale di album, un motivo lineare e un ritornello che si trasforma in
tormentone, ti si appiccica e non ti molla più!
Che altro dire… una sorpresa, un
disco inaspettato, un gruppo di musicisti preparati e capaci di proporre nuove
idee, in un momento in cui la buona musica latita.
Ho raggiunto telefonicamente “Il Professore”
a cui ho chiesto lumi sul nome della band e sul titolo dell’album…
Dimmi Marko, cosa significa “Uvarovite & The Thermal
Breaks”?
I termini sono stati estrapolati dalla
mia professione e dai miei studi.
“Uvarovite” è un minerale che si
trova generalmente in forma di piccoli cristalli ben disposti. Il suo colore è
un verde smeraldo e presenta forme spesso molto complesse. La sua bellezza è
ciò che ci ha colpito.
Ma accanto a tanto splendore che si
vede in natura si cela talvolta una nascita non controllata - e non voluta -,
non sempre spiegabile. E quando l’uvarovite appare all’improvviso emerge il
contrasto tra perfezione estetica e danno che ne deriva, una sorta di virus a cui
non sempre si trovano le contromisure.
Le “rotture termiche” sono invece
qualcosa che in senso tecnico sono più comprensibili, a cui è più facile porre
rimedio.
Anche noi sul palco mettiamo in
evidenza le nostre contraddizioni e differenze.
Un’ultima cosa, mi spieghi il titolo
dell’album, “Bubblers in Balikesir”?
Anche qui esiste una miscela tra
elemento tecnico - e quindi vicino al nostro lavoro - e il luogo in cui nasce
il progetto, Balikesir appunto.
I “bubblers” permetto di introdurre
dell’aria in una massa vetrosa e hanno il compito di creare movimento,
omogeneità, aggregazione, affinaggio. In questo senso li abbiamo considerati il
simbolo della nostra unione di intenti, almeno in questo particolare momento
della vita, ciò che verrà di conseguenza sarà ben accetto!
Non ci resta che ascoltare “Bubblers
in Balikesir”, senza pregiudizi e aperti al nuovo, le sorprese non
mancheranno.
Come e dove?
Su tutti gli store digitali, in
attesa dell’uscita del CD, 100 copie numerate e firmate.
Fantastico l’artwork e il booklet
annesso, con una meravigliosa copertina firmata dall’astro nascente dell’Art
Design, Semih Orale.