I Can't Explainé il primo singolo dei The Who, pubblicato nel 1964 negli Stati Uniti e
nel 1965 in Gran Bretagna.
Il brano occupa la posizione n. 372 nella classifica
delle 500 migliori canzoni di tutti i tempi stilata dalla rivista Rolling
Stone.
Fu il primo singolo pubblicato dal gruppo con il nuovo nome, "The
Who", dopo che avevano pubblicato il loro precedente singolo d'esordio,
I'm the Face/Zoot Suit, come "The High Numbers".
La cover italiana di "I can’t Explain" fu proposta da Gli Uraganinel
1966 e prese il nome di “Con quella voce”.
Ma chi furono… chi sono Gli Uragani?
Inseriti a pieno diritto a metà degli
anni '60 nei dieci migliori gruppi italiani, Gli Uragani, gruppo veneto
formatosi a Mestre, a differenza di altri complessi che coniugarono con abilità
le nuove tendenze musicali dell'oltremanica con le più tipiche melodie
italiane, abbracciarono in pieno e senza compromessi il tipico sound
anglosassone, espresso in primo luogo dagli Animals e dai Who, diventando
l'espressione più genuina, nel nostro paese, della tipica musica beat.
Lo riconobbero anche "Gianni
Boncompagni e Renzo Arbore", allora giovani programmisti RAI, che
ospitarono nei loro programmi i dischi dei sei Uragani.
Ritornati sulla scena a metà degli
anni '90, giusto trenta anni dopo il periodo migliore della loro carriera,
hanno saputo riproporre in modo intatto e con la stessa qualità quel sound
caratteristico, unico, tipico di un'epoca che ha innovato radicalmente la
musica.
E oggi sono a ragione ritenuti tra i
migliori interpreti italiani della musica dei famosi Sixties.
Non avevo notizie di Ferdinando Valsecchi dal 2014, anno
in cui commentai il suo “L’essenziale per una storia”, arrivato alla
fine di un momento per lui molto prolifico.
Scopro ora di un suo importante cambio di passo sul sentiero
della vita, un insieme di avvenimenti che lo hanno portato a far maturare ogni
nuova creazione, una semina nel lungo periodo in attesa di raccoglierne i frutti.
Il nome del suo progetto (Maelstrom) si è evoluto in “Maelstrom-Post”,dove
il “post” assume un significato ben preciso che è lui stesso a spiegare nell’intervista
a seguire, in cui definisce la sua musica “post-rock”.
Proviamo a sintetizzare il concetto, essendo un fondamento
della proposta di Valsecchi:
L'espressione post-rock è indicativa di un genere musicale
che utilizza una strumentazione rock tradizionale, ma in modo poco ortodosso
rispetto alla condizione del rock stesso, attingendo più da altre tradizioni
della musica d'avanguardia, come il jazz, la musica elettronica, il krautrock o
simili.
Ma la peculiarità di Maelstrom-Post risiede nella costruzione
dei brani, un modus unico che richiede piena sintonia tra i protagonisti
creativi e una forte competenza nell’adattare liriche a trame sonore.
Qualunque sia l’abbinamento tra musica e parole, il risultato
può rientrare a pieno titolo nella famiglia della “canzone”, sia essa impegnata
o leggera, lunga o tradizionalmente corta.
Rimanendo sempre nell’ortodossia, sono due i modelli possibili:
scrivere un testo e successivamente musicarlo o, viceversa, inventare un
ritornello o “giro musicale” che ben si sposa al verbo e alla scrittura già
esistenti.
Nel caso di Valsecchi, realizzatore delle musiche, ogni
singolo brano segue una strada unica, complessa, inusuale, un’invenzione a sé,
la cui destinazione è incerta nel momento della nascita.
A questo punto entra in gioco il poeta, l’amico Matteo
Simonelli, autore dei testi, e le due strade, che sino quel momento avevano usato binari paralleli, trovano la convergenza e la fusione, opera non certo agevole, ma portatrice di
grandi soddisfazioni.
Il loro nuovo atto prende il nome di “Katarsis”, titolo che rimanda immediatamente
alla copertina, dove trova posto una piccola costruzione in legno circondata
dalla neve, mentre lo sfondo propone una natura apparentemente perfetta, fatta di
sabbia, mare, monti e cielo.
È questo l’ambiente giusto per la purificazione, quello in
cui la musica può riuscire a pulire corpo e spirito da ogni contaminazione, luogo
dove va in scena il processo di liberazione dai conflitti e dai traumi, sempre
pronti a riemergere dalle ceneri: cercare conforto nella casetta o immergersi nell’ambiente
circostante sarà la conseguenza di scelte precise, probabilmente dolorose.
Questo disagio emerge in ogni singolo episodio di “Katarsis” e un cantato misto a sussurri parlati mantiene per tutti i cinquanta minuti
(divisi su otto tracce) la conduzione di una scena distopica e ipnotica, dove
le tinte dark prevalgono e condizionano lo stato d’animo d’ascolto.
Non è un disco adatto a chi ricerca la leggerezza, perché “Katarsis”
richiede concentrazione e predisposizione al lasciarsi coinvolgere cercando di
capire e di entrare nell’intimo pensiero degli autori, e se si accetta di
concepire la musica come elemento culturale, arte tra le arti, il lasciarsi
avvolgere dai brani in successione potrà rappresentare un’esperienza unica:
cinque anni di decantazione e maturazione richiedono assoluto rispetto!
Consiglio vivamente “Katarsis” di Maelstrom-Post, disponibile
in digitale su tutte le piattaforme.
QUATTRO CHIACCHIERE CON FERDINANDO
VALSECCHI
Il mio ultimo commento ad un tuo lavoro risale al 2014,
appare necessario chiederti che cosa ti sia successo in questo lungo periodo,
sia dal punto di vista musicale che da quello personale - senza entrare nel
privato invalicabile -, essendo i due aspetti quasi sempre correlati.
Un sacco di cose! Nel 2015 mi sono trasferito a Edimburgo e
ho fatto un Master in Sound Design all’Università di Edimburgo. 2015/2016 è
stato un anno fantastico, ho avuto l’opportunità di scoprire nuove sonorità e
sviluppare quelle che erano già mie. Ho lavorato come freelancer su alcuni
corti e documentari, sia come Sound Designer che come Compositore, ma ho anche
trovato un lavoro in un’azienda che mi permettesse di sostenermi. Piano piano,
il lavoro mi ha fatto scoprire altre passioni, e ha contribuito al ritardo di sei
anni sul rilascio dell’album!
Puoi sintetizzare la tua storia per chi non avesse ancora
avuto l’occasione di avvicinarsi alla tua musica?
Sono un musicista fiorentino,
autodidatta, che ha iniziato a suonare “tardi” - verso i 18 anni. Ho suonato
metal nella scena indipendente fiorentina per poi far partire alcuni progetti
personali, fra cui questo. Altri progetti rilasciati nel corso degli anni sono
Northern Mass (viking metal), Ferdinando Valsecchi (cantautorato) e
Maelstrom/Post (formalmente Maelstrom). Credo la mia musica abbia una vena
malinconica sempre presente, anche nei pezzi più “felici” … siete avvertiti!
In questo progetto lavoro con il mio
migliore amico, Matteo Simonelli: io scrivo musica e lui scrive poesie. Poi
decidiamo quali canzoni rilasciare, con quali testi, e da lì comincia un lavoro
che porta ad una nuova opera: l’unione dei nostri lavori diventa qualcosa di
nuovo che rilasciamo sotto lo pseudonimo Maelstrom/Post.
Il nome del tuo progetto si è evoluto, diventando
Maelstrom/Post: cosa c’è dietro al cambiamento?
Principalmente due cose: innanzi tutto
il fatto che era passato tanto tempo dal nostro ultimo lavoro. Tuttavia, mi ha
sempre colpito la definizione di “post-modernismo” di Chiurazzi: "indica[re]
piuttosto un diverso modo di rapportarsi al moderno, che non è né di
opposizione (antimoderno) né di superamento (ultramoderno)". Visto che
la nostra musica è (a nostro avviso) “post-rock”, o vicina alle sonorità “post”
in generale, Maelstrom/Post riassumeva bene tutti questi concetti.
Inoltre, avevamo scelto di
rilasciarlo sulle diverse piattaforme online (Apple Music, Spotify etc.), e che
quindi volevano distinguerci dalla marea di “Maelstrom” che già esistevano.
Il tuo nuovo album si intitola “KATARSIS”:
a cosa fa riferimento tale denominazione?
Entrambi pensiamo che quest’album abbia proprietà catartiche,
cosa che abbiamo provato sia nello scriverlo che nel riascoltarlo… speriamo sia
lo stesso per i nostri ascoltatori!
Entriamo nel progetto e focalizziamoci sulla tua spinta
creativa e sul messaggio che emerge dal tuo nuovo lavoro.
Gran parte delle canzoni sono state
scritte nei primi due anni a Edimburgo. Quando mi sono trasferito, ho comprato
una chitarra e un basso usati (in condizioni pessime!) e li ho utilizzati per
registrare idee e motivi per canzoni. Solitamente, scrivo molto velocemente, e
questa volta è stato uguale: la maggior parte delle melodie delle canzoni sono
state scritte in una sola sessione, e ho passato i successivi tre anni a
rifinirle, aggiungere altre linee complementari etc. Devo confessare di non
averci lavorato spesso nei tre anni, ma invece ho lasciato maturare ogni volta
che ho aggiunto elementi, per poi riesaminarli in seguito. È stato un percorso
lunghissimo, molto più lungo di ogni altro album abbia mai scritto, ma ne è
valsa decisamente la pena!
Anche le poesie di Matteo sono state
scritte nel corso degli anni, dettate dalle sue esperienze, nelle quali mi ci
sono rivisto quando le ha condivise con me. Il processo di accoppiare le poesie
con le canzoni è stato molto naturale, più che negli anni passati. Penso che anche
se distanti, avevamo avuto esperienze simili, il che ci ha riavvicinato ancora
di più. Entrambi abbiamo usato i metodi che conosciamo per esprimerci: per lui
la poesia, per me la musica. Questi per noi sono modi di incanalare le nostre
emozioni, anche quelle più buie. Anche per questo abbiamo chiamato l’album
“Katarsis”, è il prodotto del nostro personale processo di catarsi.
Della musica cosa mi dici? Cosa cambia rispetto al passato,
almeno negli intenti?
Come già menzionato, il processo è cambiato. Tuttavia, il
risultato penso che sia sempre simile. È curioso come un cambio di vita
importante come quello che ho vissuto io abbia dato un risultato musicale che riporta
a ciò che ho realizzato in passato.
Chi ha contribuito alla realizzazione di “KATARSIS”?
Matteo ha scritto i testi. Le batterie sono
state fatte al computer (ho una coordinazione pessima!), produzione e
post-produzione le ho fatte interamente io!
È qualcosa che potrebbe essere proposto in fase live?
Sarebbe bello, ma al momento non ci sono piani.
In che formato è stato rilasciato?
Solo digitale per ora, anche se stiamo pensando a qualcosa di
fisico per accompagnarlo!
Come è possibile ascoltare/acquistare “KATARSIS”?
È disponibile in tutte le piattaforme online, dalle più
famose alle più indie!
"Presente
Incoerente" è l’ultimo lavoro discografico di Unimother 27, progetto “one man band” che Piero
Ranalli ha creato nel 2002, parallelamente alle sue attività musicali in
team, una sorta di necessità vitale che lo porta ad esprimersi in modo prevalentemente
autarchico.
In passato, ho ripetutamente parlato
delle sue creazioni, molto particolari, originali, non per tutti, ma di estrema
qualità, frutto del connubio tra amori musicali precisi e la reazione agli
stimoli quotidiani, banale come concetto in sé, ma azione non sempre foriera di
positività per l’ascoltatore curioso.
Nella lunga intervista a seguire,
Ranalli ci racconta il suo mondo, il mood che lo ha portato a delineare il
nuovo album e i dettagli del suo pensiero; lo stato d’animo che viene disegnato
si avvolge ai singoli episodi, tutti strumentali, e il quadro prende forma e
luce.
Esistono due possibilità per fruire
di un album come “Presente Incoerente”.
La prima conduce alla ricerca della
sintonia piena con l’autore, la necessità di comprensione attraverso la
decodifica dei titoli e la ricerca dei significati che hanno stimolato la
creatività specifica.
Esiste poi un’altra via, quella che
porta a dimenticare volontariamente ogni tipo di informazione a favore dell’istintività e della reazione immediata allo stimolo musicale, una situazione in cui sarebbe
vantaggioso e prolifico trovare il giusto ambiente d’ascolto, chiudere gli
occhi e lasciarsi trasportare, un viaggio nel tempo, nello spazio, dando un significato
personale al singolo episodio.
Le indicazioni fornite da Ranalli - e
il mio ruolo di “commentatore” - impongono la presentazione dei “fatti
oggettivi”, quelli che si dipanano nel corso della nostra chiacchierata dove, le
argomentazioni estremamente personali, a tratti intime, fanno emergere la
tragicità dell’attuale situazione musicale, in particolare per una proposta
come quella di Unimother 27, da considerarsi una nicchia all’interno della
nicchia. E la drammaticità del contesto viene espressa con le seguenti due
affermazioni:
“1) La mia musica non ha mai
raggiunto una divulgazione tale da essere richiesta dal vivo;
2) È sempre più difficile trovare
persone disposte a sacrificare il proprio tempo libero per organizzare una
scaletta da eseguire, soprattutto se si tratta di creazioni proprie e sapendo
che il rientro economico è incerto o nullo.”.
Otto tracce spalmate su 38 minuti
propongono la miscela preferita da Ranalli - vero fil rouge tra il passato e il
presente -, quella che impone il modello psichedelico legato alla rigidità di
certi schemi kraut, soddisfacendo la necessità primaria di rock/blues, con una
sintesi ideologica che invita al paradigma del prog, genere che calza a
pennello per ogni composizione in cui emerge la libertà espressiva e lo sconfinamento
tra le varie caselle dell’ortodossia.
La necessità di Ranalli di manifestare
l’impotenza al cospetto di vincoli imposti - che portano spesso all’azione
incoerente - trova soddisfazione nella sua reazione che sfocia nell’invenzione
musicale, nella piena gratificazione che fugge dal concetto di razionalità a
vantaggio di vibrazioni positive percepibili dall’animo virtuoso, quello che
trae beneficio - forza e spinta verso la crescita - dall’assorbimento di trame
musicali che non richiedono indagini approfondite, ma un mero “lasciarsi andare”
privo di ogni genere di paletto intellettuale, il wall tipico di chi giudica la musica,
certa musica, realizzando un modello divisivo e non aggregativo.
"Presente Incoerente"
è un viaggio profondo nel mondo di Unimother 27, un itinerario di cui l’ascoltatore
di passaggio può diventare protagonista, un percorso che prevede il sentirsi
parte di un paesaggio distopico (a mio giudizio quello in cui stiamo vivendo)
da cui ogni tanto si riesce ad emergere, un pool di gallerie autostradali al
termine delle quali emerge una luce temporanea, il tutto vissuto come fatto
ineluttabile.
Il dark vandergraafiano di “Sognando
la vuota pienezza del tutto” si
unisce alla ripetitività ritmica e alla sperimentazione controllata di “L'eterno
duello tra pieno e vuoto”; modus psichedelico per “Abraxas...il
Dio difficile da conoscere”; tratti ipnotici e profumo di Fripp per “Eros
e l'Albero della vita”, mentre “L'incontro tra Phallos e Mater
Coelestis” presenta una sorta di pop elettronico che si snoda su di un
giro di basso che entra nelle viscere di chi è capace di captare certi particolari
salienti; “L'anacoreta e la maledizione del suo sapere” fonde
trame sonore dal sapore mediorientale con lancinanti urla di dolore provocate
da dilatazioni strumentali, mentre “La solitaria settima luce”
produce brividi spaziali, una sorta di immersione in una dimensione sconosciuta,
una divagazione che si avverte quasi fisicamente; la terminale “Systema
Munditotius” appare come una sorta di alba di un nuovo giorno, come un
Hendrix che suona a Woodstock mentre il popolo scema, lasciando un testamento
carico di contenuti, che occorre però saper leggere.
Ed è qui che la coscienza si
risveglia e prende forma consistente.
Un progetto che rinfranca e che apre
con impeto sentieri occupati in pianta stabile dalla mediocrità dei nostri giorni. Poco importa
se non tutti possono comprendere, il percorso di semina rappresenta di per sé l’obiettivo
da raggiungere.
Consigliato a tutti gli open mind
della musica!
Quattro chiacchiere con Piero Ranalli
Sono passati un paio di anni
dall’uscita di “CHRYSALIS”: che cosa ti è successo, musicalmente parlando, in
questo periodosignificativo?
La mia inclinazione naturale
all’introspezione ha subito un inasprimento e di conseguenza un consolidamento,
in parte causato da circostanze in ambito famigliare e in parte dal contesto
che si è venuto a creare in seguito all’emergenza sanitaria che ha coinvolto
tutto il pianeta. E questo ha avuto un influsso determinante sulla mia
espressione musicale. Ad ogni modo gli umori che ho sviscerato in “Presente
Incoerente” erano già silenziosamente in elaborazione dentro di me e le vicende
che ho passato hanno avuto un effetto catartico e mi hanno, in un certo senso,
incoraggiato nel farmele trasporre in musica.
Possiamo ricordare sinteticamente la
tua storia e la tua esperienza formativa, per chi ancora non ti conoscesse?
Cercherò di essere sintetico. Ho
iniziato a fare musica nel 1989 con mio fratello Marco Ranalli. La band si
chiamava "City Sewer System", la musica che facevamo era una specie
di garage rock psichedelico, uno stile simile a quello degli Stooges. Con
questo progetto abbiamo registrato tre demo-tapes ed io suonavo il basso. Poi
nel 1991 abbiamo iniziato a suonare come power-trio con “Insider”, avevamo uno
stile definito Space-Doom dalla stampa dell’epoca ed anche in questo progetto
suonavo il basso e abbiamo pubblicato sei album. Dal 2002 fino al 2007 sono
stato il bassista degli Areknamés, una band di dark progressive alla “Van Der
Graaf Generator” con la quale ho realizzato due album in studio ed uno dal vivo
al “Burg Herzberg festival” in Germania. Sempre nel 2002, contemporaneamente all’esperienza
Areknamés, iniziavo a gettare le basi per “Unimother 27”, il mio progetto
personale, con il quale Il primo lavoro omonimo è stato pubblicato nell'aprile
2006, "Escape from the ephemeral mind" nel maggio 2007,
"Grin" nel giugno 2008, "Frozen Information" nell'ottobre
2015, nel 2016 è uscito " Jammin 'from the network Vol. I-VII "(una
raccolta postuma di brani improvvisati in studio), "Fiore Spietato" a
febbraio 2017, "AcidoXodica" a febbraio 2018, "Chrysalis" a
maggio 2019 ed infine "Presente Incoerente" nel febbraio 2021. Nei
primi tre lavori suono tutti gli strumenti, da “Frozen Information” in poi mi accompagna
Mr. Fist alla batteria e percussioni. Tutti interamente registrati e mixati nel
mio laboratorio/etichetta “Pineal Gland”.
In quale ambito inseriresti la tua
proposta o, se preferisci, come descriveresti la tua musica a chi, incuriosito,
volesse avvicinarsi al tuo progetto?
Un calderone nel quale sono sempre
presenti quattro elementi fondamentali: la musica acida psichedelica di fine
anni ’60, il progressive, il blues e la musica cosmica anni ‘70 dei corrieri tedeschi,
volgarmente chiamata Krautrock. Elementi, che ogni volta che mi trovo in
prossimità di un nuovo lavoro, ribollono nel calderone e si combinano in
maniera diversa, mantenendo però quella matrice comune in tutti gli album così
da caratterizzare il mio stile musicale.
Il tuo ultimo album si intitola
“Presente Incoerente”: mi spieghi il titolo?
“Presente Incoerente” rappresenta il
mio io quotidiano, ordinario. Quello che ha a che fare con il contingente, con
i concetti di spazio e di tempo. Un io limitato da tali vincoli e per questo
motivo incoerente perché condizionato dalle loro pressioni estenuanti e
destinato pertanto ad agire con incoerenza, ma che nel contempo è il riflesso,
l’imitazione, la deformazione di un’informazione sempre accessibile, alla quale
possiamo attingere, rappresentata da un ”Assente Coerente” che non ha vincoli
di nessun tipo, che non esprime mai giudizi, impersonale, situato in un altrove
a noi sconosciuto di cui riusciamo a percepirne la presenza solo in alcuni
momenti ispirati. Ecco, questi scampoli di eternità, il mio io incoerente, li
riesce a decodificare e quindi a percepire attraverso la musica, istanti di
pura comunicazione simbolica trasposti in vibrazioni. Ho cercato di rendere
visibile, ovviamente attraverso i brani che compongono l’album, l’”Assente
Coerente” che è in me ed in ognuno di noi.
Trattasi di album strumentale e
quindi risulta difficile decodificare il messaggio che ti ha portato ai momenti
creativi, anche se i titoli dei brani sono di per sé indicativi: cosa c’è
dietro a questo lavoro, oltre al condizionamento legato al drammatico momento
contingente?
Una discesa negli Inferi, nelle
profondità dell’inconscio, un album che si fa portavoce di un’essenza astratta
nella quale sono incluse tutte le manifestazioni separate dell’io. Nel titolo
del brano di apertura, “Sognando la vuota pienezza del tutto”, è racchiuso il proposito
che si snoda lungo le tracce successive. Possiamo avvicinarci ad essa in sogno
o attraverso un linguaggio archetipico o riconciliando concetti, che da un
punto di vista ordinario, risultano discordanti, come ad esempio il vuoto ed il
pieno, anche l’anacoreta è solo e maledetto nel suo sterile sapere. Ecco queste
sono state le pulsioni che mi hanno poi condotto ai momenti creativi e a dare
voce, attraverso il suono ed il rumore, a questi frammenti di lava
incandescente. Il brano di chiusura, “Systema Munditotius”, è un tributo a C.
G. Jung, che aveva così chiamato un mandala, disegnato da lui stesso, nel quale
raffigurava gli opposti del microcosmo all’interno del mondo macrocosmico e
delle sue contraddizioni.
Se non sbaglio sei al tuo ottavo
disco e vorrei sapere come “Presente Incoerente” si lega al passato e che tipo
di evoluzione ha avuto il tuo credo musicale.
Da un punto di vista musicale gli
album contengono gli elementi di cui ho parlato in precedenza, solo combinati
in modo diverso. Se ad un ascolto superficiale potrebbero sembrare diversi ad
uno più analitico ed attento ci si accorge del loro denominatore comune, l’attitudine
a miscelare queste componenti è sempre la stessa. Si, è vero l’espressione
musicale è diversa, in alcuni prevale di più la consonanza in altri la
dissonanza, ma questo dipende anche dall’umore del momento che è unico e
irripetibile. “Presente Incoerente” si lega al passato anche da un punto di
vista concettuale, cambiano solo la sintassi e la semantica che vengono
utilizzate nel veicolare gli argomenti, ecco forse l’evoluzione andrebbe colta
in questa capacità di ribadire lo stesso concetto senza essere mai ripetitivo. È
come osservare lo stesso oggetto da angolazioni diverse, ciò permette di
cogliere delle sfumature che prima era impossibile cogliere. In “Chrysalis”, ad
esempio l’attenzione era focalizzata sulla trasformazione profonda che avviene
nel momento in cui tutte le nostre energie si ritirano dal mondo esteriore per
operare in quello interiore, e la metafora della crisalide è servita per
rendere chiara l’idea, questo bozzolo in apparenza inerme che racchiude,
invece, nel suo interno un lavorio di costruzione formidabile. Così come il
nostro io mondano, in apparenza incoerente, è il riflesso di un mondo altrove
nel quale coesistono pacificamente tutti gli opposti.
Lavori in proprio, fai tutto, o
quasi, da solo: è una precisa scelta ideologica o una necessità?
Il progetto “Unimother 27” è nato nel
2003 solo per mie esigenze espressive. Avevo modo di realizzare nel mio studio
(Pineal Gland Lab, che tuttora utilizzo) le mie idee. Non sentivo la necessità
di includere all’interno altri musicisti perché suonavo con gli Areknamés, ed
ero totalmente appagato da questa esperienza di gruppo. Ho portato avanti
parallelamente i due impegni fino al 2007 senza alcun problema, con molta
fluidità, anche perché, musicalmente parlando, viaggiavano su binari
differenti. Quindi per rispondere alla domanda, non è stata una necessità
quella di fare tutto da solo quanto un atto di volontà diretto a realizzare una
visione che sentivo di non poter condividere con altre persone, perché
estremamente intima. Poi quando è terminata l’esperienza di gruppo con gli
Areknamés, il progetto aveva già un corpo ed un’anima, erano usciti già tre
album e da quel momento in poi è andato avanti così con Mr Fist alla batteria e
percussioni come elemento aggiuntivo. Ovvio il problema si pone nel momento in
cui si crea l’esigenza di promuovere dal vivo il repertorio musicale, ma vedi
questo non è mai successo per due motivi: 1) La mia musica non ha mai raggiunto
una divulgazione tale da essere richiesta dal vivo; 2) È sempre più difficile
trovare persone disposte a sacrificare il proprio tempo libero per organizzare
una scaletta da eseguire, soprattutto se si tratta di creazioni proprie e
sapendo che il rientro economico è incerto o nullo.
Mi parli dell’artwork e della
copertina?
Da “Fiore Spietato” fino all’attuale
“Presente Incoerente”, le copertine sono state disegnate ed elaborate
graficamente da mia moglie, Bianca Carestia. Per “Fiore Spietato”, “AcidoXodica”
e “Chrysalis” l’idea dell’artwork è nata in simbiosi con i dischi e di conseguenza
con le tematiche trattate in essi. Per quest’ultimo lavoro la scelta è avvenuta
diversamente, si tratta di un quadro realizzato in precedenza dove sono
rappresentate delle visioni provenienti direttamente dalle profondità
dell’inconscio, uno sguardo rivolto a delle creature primordiali che dimorano
nelle nostre emozioni più viscerali che gli stimoli esterni plasmano donandogli
forme e colori mutevoli e inaspettati. Notando
le affinità con il concetto dal quale ha preso vita il disco la scelta è stata
naturale.
In quali formati è fruibile il disco
e come si può fare per ascoltarlo/acquistarlo?
“Presente Incoerente” è fruibile solo
in formato digitale ed è disponile per l’acquisto e l’ascolto solo su Bandcamp
ed è incluso in formato PDF anche l’artwork. Non ho alcuna difficoltà nel dirti
che ho optato per questa scelta solo per insufficienza di fondi altrimenti
sarebbe uscito su CD come tutti gli altri miei lavori. Il mio sogno è sempre
stato quello di realizzare dei vinili, ma la mia condizione economica,
purtroppo, ha dirottato le preferenze verso realizzazioni meno onerose. Le mie
sono autoproduzioni e non è sempre possibile mantenere uno standard.
Hai immaginato momenti di
pubblicizzazione di “CHRYSALIS”, emergenza sanitaria permettendo?
Se intendi un tour promozionale, al
riguardo posso dirti che non è mai stato contemplato, per cui l’emergenza
sanitaria non mi ha intaccato assolutamente.
Se è vero che etimologicamente
parlando il “cantautore” è colui che propone personalmente i brani che crea,
l’immagine dell’uomo solo sul palco con la sua chitarra è da tempo consolidata
e riconduce agli anni in cui, tra le tante svolte, ci fu quella musicale che,
tra le possibili direzioni, prese anche quella dell’impegno sociale e delle
liriche “mica stupide”.
Non so se le nuove generazioni hanno
chiaro tale ruolo, magari non è importante porsi il problema, ma sento sempre
la necessità di dare una collocazione all’artista di cui parlo.
Sono entrato in contatto col mondo diStefano Barotti nel 2014 quando ascoltai casualmente il suo secondo album
(il primo è “Uomini in costruzione” - del 2003), “Gli Ospiti”,
uscito sette anni prima, un disco che fa parte dei miei viaggi familiari e che,
nel tempo, ha contagiato tutti, diventando un must quando si sale in auto e il
programma prevede qualche ora di viaggio: impegno e leggerezza sonora, al
contempo.
Nel 2015 arriva “Pensieri
verticali” ed è di fresca uscita “Il grande temporale”,
oggetto del mio commento.
Alcuni giorni fa, in uno dei tanti
sondaggi/giochi sui social, qualcuno ha posto una domanda relativa al
“cantautore preferito” e io, senza pensarci un attimo, ho cliccato su Barotti,
un artista che riesce sempre a darmi grandi soddisfazioni: amo il colore della
sua voce -inconfondibile e caratterizzante -, la delicatezza usata
nell’affrontare temi giganteschi, la varietà della proposta sonora - tra
elemento acustico, elettrico e divagazioni tra i generi -, il dosato ermetismo
fatto di cose dette e subito nascoste - una coperta sonora usata con grande
perizia e sensibilità -, quell’interminabile tocco malinconico in cui a volte
piace crogiolarsi e che ti rimane dentro per tutto il giorno.
Il nuovo disco, distribuito da “La
Stanza Nascosta Records”, ha queste caratteristiche di fondo, anche se Barotti
indossa nuovi abiti, conseguenza di ovvi cambiamenti personali: chi meglio di
un cantautore è in grado di trasferire frammenti di vita propria in musica!
Registrato tra l’Italia e gli Stati
Uniti, “Il grande temporale” annovera un cast musicale d’eccezione che
inserisco a fine articolo, estrapolato dalle parole dell’autore.
Nel press kit fornito dall’Ufficio
Stampa è presente una descrizione minuziosa di ogni singolo brano, perfetta per
demolire il cripticismo che si cela dietro ogni canzone degna di questo nome,
un aiuto di cui anche io ho usufruito. Vediamo però dove mi conducono le
sollecitazioni da ascolto.
Si apre con la title track, un
biglietto da visita molto efficacie, il racconto di un amore impossibile,
lacerante e totalizzante, l’annullamento della razionalità a favore del
trasporto senza limiti.
Musicalmente molto coinvolgente, con
una dicotomia precisa fornita dai cambi di ritmo e di atmosfera che, partendo
dalla tranquillità acustica iniziale arriva allo stravolgimento dettato dal
rock, con finali venature prog.
Ma quanto è vincente la trasposizione
dell’amore sconvolgente con l’immagine del “grande temporale”!
“Painter Loser” tratta
un argomento attualissimo, acuitosi in questo anno appena terminato ma da
sempre presente in un paese in cui la parola “cultura” è tra le più gettonate
ma resta un termine che non trova un seguito pratico. E a quel punto, quando la
musica - ma l’arte in genere - non paga, ci si deve inventare un mestiere che
dia sostentamento, perché alla fine tutti tengono famiglia. Ogni mestiere ha
una propria dignità, ma i talenti personali vanno incanalati e utilizzati nel
modo corretto, senza dover ricorrere ad espedienti.
Musicalmente parlando un brano da
potenziale rotazione radiofonica, anche se la base reggae non rientra nei miei
gusti personali.
“Spatola e spugna”
parla di calcio, anche se per catturare i nomi che snocciola Barotti occorre
avere una certa età e sapere che, di una grande Inter, posizionata tra fine
anni ’70 e fine ’80, facevano parte personaggi come Beccalossi, Altobelli,
Bordon, Bersellini e Prisco.
L’autore ci riporta a tempi che,
anche calcisticamente parlando, non torneranno più e di cui si ha nostalgia,
anni in cui le partite andavano tutte in scena alla domenica e alla stessa ora
e le radioline ci tenevano aggiornati attraverso mitici speakers; i calciatori
era uomini in cui potersi riconoscere e il denaro a loro collegato non era
argomento presente nelle cronache quotidiane.
In questo contesto si inserisce la
storia di Paolo, lavoratore precario, fidanzato con Silvia e tifoso dell’Inter,
il cui sogno è quello di assistere a una finale di Coppa Campioni al Parco dei
Principi, ma soprattutto di avere un lavoro sicuro.
Una ballad che si trasforma in
tormentone positivo quando entra in scena il ritornello: “E allora spatola e
malta… spatola e spugna…”.
Il quarto episodio ci permette di
conoscere “Tra il cielo e il prato”: cosa è rimasto di noi, di
quel bimbo che eravamo? Se lo incontrassimo per caso, che tipo di confronto
sarebbe? Gli chiederemmo scusa pensando a quanto abbiamo deviato il percorso
rispetto ai sogni e agli obiettivi di quei giorni lontani? I cambiamenti fanno parte di ogni
vita, ma riuscire a trattenere frammenti di quel bimbo che eravamo appare oggi
imperativo.
Musica che ci riporta indietro nel
tempo, tra melodia di immediato appeal e atmosfere seventies.
“Aleppo” introduce il
tema della guerra. Capitale culturale del mondo islamico, centro di
interminabili e inutili battaglie, devastata da dolore e macerie.
In questo contesto viene descritta
una storia commovente che vede protagonisti una madre e il proprio cucciolo che
lei difende ad ogni passaggio aereo, trasformandosi da angelo a scudo, mentre
la luna - spesso presente dei pensieri di Barotti - osserva ogni movimento e
diventa simbolo di continuità. Mood melanconico e iter che non
prevede grossi sobbalzi ritmici ma fornisce il senso della tragedia.
“Stanotte ho fatto un sogno”
è devastante, da ascoltare in compagnia se si vuole mantenere un certo contegno
legato al pudore della lacrima spontanea.
Tutti, prima o poi, sono destinati a
patire l’assenza di un affetto, ma spesso è una mancanza unicamente fisica che
non impedisce al ricordo massacrante di riempire vuoti che restano comunque
incolmabili, perché l’opera di sostituzione non genera mai totale appagamento.
Gli archi rappresentano il
cesellamento della canzone, con una partecipazione che a posteriori diventa
simbolica, quella di Roberto Ortolan, scomparso lo scorso aprile. Probabile sia
questa l’ultima canzone registrata dal chitarrista.
Un blues lento è quello che introduce
e conduce “Mi ha telefonato Tom Waits”, un omaggio al primo album
del cantautore statunitense uscito nel 1973,“Closing time”, evidentemente un lavoro cha ha
saputo influenzare e toccare Barotti.
Una storia in cui l’autore segue il
consiglio di Waits, quello di eliminare il DJ che corteggia la sua fidanzata.
Bellissima la ricerca della rima
unendo la lingua italiana e quella inglese: “… e così ho sparato al dj, tre
colpi nella notte di yesterday…”.
Emozionante la parte finale, molto
“aperta” e corale, dove Barotti prende in prestito altre parole nobili, quelle
di “Jealous guy”: “I began to lose control, I’m a jealous guy”.
“Quando racconterò” è un’altra
pillola molto intimistica, un’atmosfera nostalgica acuita dall’uso di sax e
clarinetto, una parte significativa del viaggio descritto dall’autore.
Dice Barotti: “La canzone è nata a
Berlino durante un viaggio senza data di ritorno. La partenza, il viaggio, una
nuova pagina bianca dove scrivere giorni nuovi. Sentirsi cambiati spolverandosi
gli occhi con nuove realtà visive. E poi la sensazione delle ali, del non
tornare. Prendere le distanze dalle proprie impronte guardandole dall’alto,
sentendosi quasi un alieno nella propria astronave. Mettere insieme i propri
errori e farne un materasso per le notti a venire. L’idea che qualcuno ci stia
aspettando, ma non è chiaro se quel qualcuno lo ritroveremo nel passato o nel
futuro.”
Poesia nella poesia.
L’esclamazione “eiattattira”
introduce “Enzo”, una dedica e al contempo una sottolineatura
dell’importanza di un musicista come Enzo Jannacci, secondo Barotti il
cantautore che ha lasciato un vuoto maggiore.
La 127 rossa di Jannacci diventa
fonte di ispirazione all’interno di una canzone adatta al cabaret della Milano degli
anni Sessanta, sonorità semplici ma cariche di significati e critica educata ma
pesante alla musica che ci circonda: “Se ci fosse un dio delle canzoni
spegnerebbe le luci, butterebbe i microfoni, certamente abbasserebbe i volumi…”.
Con “Marta” arriva la
denuncia spinta e attuale: Barotti affronta il problema della violenza sulle
donne. Un quadretto antico e irrisolto quello che viene descritto, particolarmente
toccante quando la lirica si sposa alla musica e le bassezze umane e le
storture culturali si amplificano a dismisura.
Alcune sfumature mi hanno riportato a
trame acustiche del passato, invenzioni di Ian Anderson.
Chiude l’album “Tutto nuovo”,
dedicata al figlio o meglio, al momento in cui l’autore apprese la notizia del
forte cambiamento che da lì a poco lo avrebbe riguardato.
Privilegio dell’artista fissare per
sempre certi momenti, tra i più importanti nella vita.
Ho apprezzato tantissimo il suo
pensiero: “La sensazione è stata quella di essere finito dentro una specie
di bolla, dove tutto si dilata e rallenta e perdi definitivamente il diritto al
suicidio.”
Un modo importante per chiudere un
lavoro così impegnativo, un “rappelle” per tutti quelli che non comprendono la
responsabilità derivante dall’arrivo di una nuova vita, che porterà cambiamenti
e rinunce, ma darà significato all’esistenza.
Un maestro, Stefano Barotti, la cui
musica va tenuta nelle immediate vicinanze, pronta ad intervenire in tutte le
circostanze della vita, da custodire nei rivoli quotidiani, negli anfratti più
impensati, utilizzata per ricordare, riflettere, gioire e,
senza dubbio, piangere.
E se il mondo fosse un po’ più
equilibrato, se ci fossero più Jannacci in circolazione, le canzoni di Barotti
riempirebbero gli spazi radiofonici, gli spettacoli televisivi e tutto ciò che
produce visibilità. Non è questione di fama o di denaro, ma di arte, cultura, o
più semplicemente di canzoni, quelle che possono farci rivivere tutta la gamma
possibile dei sentimenti, diventando l’unità di misura del tempo che scorre.
L’ascolto di “Il grande temporale” mi
ha riportato ad un periodo preciso della mia vita, quell’adolescenza in cui
tutto avrebbe dovuto essere roseo, ma arrivava sempre la domenica sera e “Il
commissario Maigret”, rigorosamente in bianco e nero, alimentava il mio disagio
giovanile. Ma il lunedì era dietro l’angolo… fortunatamente!
Gli ospiti e le collaborazioni sono
parte importantissima di questo progetto e sono sviscerati dall’autore stesso:
“Tra gli ospiti speciali(dagli Stati Uniti e non solo) -racconta
il cantautore - Joe e Marc Pisapia, Jono Manson, Mark Clark e John Egenes.
Alla produzione artistica hanno
partecipato Fabrizio Sisti (prezioso il suo contributo alle tastiere, al piano,
ai sintetizzatori e all’organo Hammond), Alessio Bertelli, ingegnere del suono,
e il batterista Vladimiro Carboni.
Mi piace ricordare anche Marco
Giongrandi (chitarra elettrica e banjo), Max De Bernardi (chitarre) e Paolo
Ercoli (dobro e mandolino).
Due le voci femminili, la bravissima
Veronica Sbergia e l’esordiente Laura Bassani.
Gli arrangiamenti e la direzione
degli archi sono stati curati da Roberto Martinelli.
Hanno preso parte al lavoro anche
Roberto Ortolan (recentemente scomparso, N.d. R.), alla voce e alle chitarre,
Nico Pistolesi (piano), Davide L’Abbate (chitarre) e Vittorio Alinari (sax
soprano e clarinetto basso.) Le linee di basso sono di James Haggerty e Luca
Silvestri; al contrabbasso Pietro Martinelli e l’amico Matteo Giannetti.”
Quando incontrai la prima volta la musica di Federico
Romano era il 2012 e alla mia domanda atta a indagare la sua formazione
musicale rispose così: “La musica mi accompagna da sempre, da quando
piccolo ascoltavo seduto sul seggiolone mia madre suonare il pianoforte, poi
l'amore per i gruppi pop, credo fossero i primi anni '80, e l'inizio di questo
mio viaggio introspettivo fatto di parole e musica. Un viaggio mentale e la
creazione del mio mondo immaginario dove potermi nascondere da tutto ciò che é
reale e fa male.”
Il vero nome è celato da quello del progetto, June 1974, ovvero le coordinate anagrafiche di
Romano (“Semplicemente il mese e l'anno in cui sono nato a simboleggiare
che la mia musica è nata con me”).
L’album che proponeva in quei giorni era “Soundscapes
Of The Muse” e un paio di anni dopo commentai il suo "Atlantide".
Il nuovissimo disco si chiama “Avventura”, uscito per Visionaire Records su tutti
gli stores digitali mondiali il 15 febbraio.
Trattasi di tredici tracce strumentali che si snodano
su cinquantuno minuti di trame sonore in cui l’artista spazia tra i generi e attinge
dal contenitore delle sue passioni, tra rock, classica, pop, elettronica e world.
La conoscenza della biografia di Romano e la proposta
strumentale potrebbero condurre ad una sorta di ossimoro, perché da chi è noto
come scrittore di poesie, racconti e romanzi ci si dovrebbe aspettare una “produzione”
che non possa prescindere dalle liriche e invece ciò che “parla” è la musica,
solo la musica, e se è vero che i titoli a seguire possono dare un’indicazione
del sentimento che lega l’autore al singolo episodio, l’ascoltatore, seppur
condizionato da tali citazioni, potrà reinterpretare a piacimento diventando “coproprietario”
dell’essenza creativa, rinominando ogni traccia a seconda del feeling provato:
Avventura, Per Aspera Ad Astra, Madre, Tormentata
Quiete, L'Invisibile, Libera-Mente, Utopia feat. Giacomo Guatteri (Luciferme), Deliverance, Walzer Of
Innocence, Amore Lucifero, Kaamos, Finale, Utopia (Raw
version).
È la perfetta colonna sonora di un film, di
una vita, di un viaggio… un continuo lancio di messaggi che coinvolgono e
avvolgono, e viene da chiedersi quale sia l’avventura vissuta o sognata da June
1974, quanto passato e quanto futuro coesistano nelle sue attuali creazioni, quanto
abbia inciso il drammatico momento contingente e quanta speranza ci sia negli
anfratti delle sue canzoni.
Ma senza porci troppe domande, ricordando che
la razionalità non fa parte della connessione esistente tra suoni e loro gradimento,
potremmo lasciarci andare, seguire l'istinto e godere del nuovo progetto, una colonna sonora
perfetta per un film… per più film.
Per fornire un sample audio ho scelto “Utopia”,
che presenta un ospite di prestigio, Giacomo Guatteri (chitarrista dei Luciferme).
Brano rappresentativo dell’intero album,
propone atmosfere a tratti distopiche, ritmo tribale e sferzate chitarristiche
che contribuiscono e realizzare un bridge atmosferico con la psichedelia di cinquant’anni
fa, e improvvisamente lo spazio si accorcia, il tempo perde significato, perché
diventerà la musica l’unità di misura dello scorrere delle nostre vite.
Bando al modus cerebrale… “Avventura” è
un bel disco che si presta a differenti tipologie di ascolto, a ciascun fruitore della musica il compito/privilegio di trovare la propria; sarà importante soffermarsi e testare, la funzione “escape”, in questo caso, è da evitare!
Ultima annotazione per la magnifica copertina,
il famoso quadro di Jozef Israëls "Children of the Sea", per
gentile concessione del Rijksmuseum di Amsterdam.
June 1974 è il progetto musicale solista
creato a fine 2009 da Federico Romano. La sua musica abbraccia diversi stili
musicali dalla classica al rock, all'ambient, alla electro dance, al pop, al
metal/rock per citarne alcuni, dipende dal mood della canzone. Finora ha
pubblicato diversi album e tantissimi singoli tutti disponibili sul sito
ufficiale della band e su tutti i digital stores tipo Apple, Amazon, Google
ecc. Da segnalare la presenza in tante canzoni in qualità di ospiti di
musicisti di band note e non nel panorama musicale mondiale. Assolutamente da
non dimenticare anche la collaborazione con fotografi/modelle e artisti famosi
e non per le copertine dei singoli e album.
Nasceva il 7 marzo del 1944Townes
Van Zandt, cantautore statunitense, uomo schivo e malinconico, pur non avendo
ottenuto clamorosa popolarità rimase sempre una figura di culto nella musica
country statunitense e fu molto apprezzato dalla critica.
Certamente non un personaggio
“minore”, essendo considerato da molti il miglior songwriter del mondo.
Un po' di cose che lo riguardano...
È
una storia strana e anche piuttosto triste quella di Townes Van Zandt: per anni
è stato uno dei songwriter più influenti della sua generazione, i suoi colleghi
lo veneravano considerandolo un punto di riferimento (basti considerare la sua
“Poncho & Lefty” divenuta poi un grande successo di Emmylou Harris e Willie
Nelson) e di ispirazione mentre l’industria discografica lo ha sempre considerato
una mezza figura, un personaggio poco vendibile.
Troppo
schivo e modesto per recitare il ruolo di super star. Questo almeno fino al
1996/97 anno in cui Townes ha ceduto alla malattia abbandonando questo mondo
(non si è mai ben capito se fosse successo il 31 dicembre o il primo gennaio).
Townes Van Zandt nasce a Fort Worth, Texas, nel 1944. Il padre, uomo
d'affari nel settore degli oli lubrificanti, gira l'America per lavoro e la
famiglia lo segue: Colorado, Montana, Minnesota, Illinois prima di tornare in
Texas. Van Zandt si divide fra Houston e Austin.
Le
prime apparizioni in pubblico risalgono alla metà degli anni '60, i club si
chiamano Sand Mountain, Jester Lounge e Old Quarter dove spesso suona insieme
al suo amico Guy Clark.
La
scrittura folk, influenzata da Hank Williams, Lefty Frizzell (la più bella voce
della storia della musica country) e dal bluesman texano Lightnin' Hopkins (del
quale conserverà parecchi classici in repertorio) rispecchia il suo carattere
schivo e riservato ma lascia spazio anche a visioni solari e positive.
Dal
1968 - anno di pubblicazione di “For The Sake Of The Song” - al 1973, registra
sei dischi. Sarà l'unico periodo in cui inciderà regolarmente album di studio,
certamente il più importante dal punto di vista musicale insieme al biennio
1977/1978.
Il
suo talento si è orientato definitivamente verso una poetica malinconica,
tratteggiata delicatamente su un tessuto sonoro che tinge di blues il country.
Illuminanti in questo senso “High, Low And Between”
(1972) e “The Late Great Townes Van Zandt” (1973).
Townes
Van Zandt è ormai considerato in Texas come il punto di riferimento di quella
corrente di cantautori che comprende fra gli altri i vecchi amici Guy Clark e
Jerry Jeff Walker, Willis Alan Ramsey e Ray Willie Hubbard.
Abita
in mezzo ai boschi in una casa di legno da lui stesso ristrutturata ma la sua
esistenza è segnata da continue crisi depressive che lo portano a tentativi di
suicidio, dall'alcolismo e dall'uso di droghe.
Nel
1976 Emmylou Harris include “Poncho & Lefty” nell'album “Luxury Liner”
(la stessa canzone nel 1983 sarà n. 1 delle classifiche country
nell'interpretazione di Willie Nelson e Merle Haggard) ed il nome di Van Zandt
inizia a girare con una certa insistenza anche fuori dai confini degli States
senza tuttavia mai conoscere il successo commerciale.
Tre
anni di inattività prima di tornare al lavoro per merito di John M. Lomax III,
suo manager dal giugno del 1976, che gli restituisce fiducia e stimoli.
Townes
Van Zandt si sposta a Nashville, firma per la Tomato Music Company, etichetta
indipendente di NewYork, e nel luglio del 1977 realizza “Live At The Old
Quarter”, doppio album completamente acustico registrato nell'estate del 1973.
Il
disco è la somma delle sue esperienze artistiche ma soprattutto costituisce una
sorta di 'manifesto' del canone di musica del Texas, che egli stesso ha
delineato nel corso degli anni e che qui trova una compiuta sintesi. È il
lavoro che lo consacrerà definitivamente come uno dei più grandi e rispettati
folksinger della sua generazione. Sogni, visioni, dolci ballate, talking blues
si alternano legati da un sottile sense of humor in un coinvolgente dialogo con
il pubblico.
L'anno
successivo Van Zandt rientra in sala per registrare il suo più bel disco di
studio “Flyin' Shoes”.
L'ineccepibile
lavoro degli strumentisti, scelti personalmente da Van Zandt, gli arrangiamenti
delicati e fluidi, la voce evocativa e ispirata, regalano un suono carico di
dolcezza e sensibilità che si distende in canzoni indimenticabili.
Bisognerà
attendere nove anni prima di un nuovo disco.
Townes Van Zandt riappare nel 1987 con “At My Window”.
Durante
gli anni '90 la sua discografia si arricchirà soprattutto di album live (non
tutti imperdibili), segno inequivocabile del sopravvento dei demoni che lo
hanno continuamente perseguitato, sulla sua vita interiore. Del resto, gli
spettacoli dal vivo saranno in questi tempi la sua principale fonte di
sostentamento economico.
Anche
la timbrica vocale risente del momento oscuro ma tutto ciò non pregiudicherà la
consistenza dell'ottimo “No Deeper Blues” (1994) suo ultimo lavoro di studio
registrato in Irlanda con un gruppo di musicisti locali.
Van
Zandt muore tragicamente d'infarto il primo giorno del 1997 nella sua casa di
Mt. Juliet nel Tennessee (per uno strano caso lo stesso giorno, nel 1953, era
scomparso uno dei suoi idoli, Hank Williams).
L'elenco
degli interpreti delle sue canzoni ha nel frattempo coinvolto fra gli altri
anche Hoyt Axton, Bobby Bare, Jimmie Dale Gilmore e Nancy Griffith.
Suoi discepoli possono essere considerati la stessa
Griffith e Steve Earle che a proposito di Townes si è espresso in questi
termini: "Townes Van Zandt is the best songwriter in the whole world
and I'll stand on Bob Dylan's coffee table in my cowboy boots and say that".