Nonostante la musica sia da sempre parte integrante della mia vita, devo ammettere che la storia di Simone Galassi mi era sfuggita. È stato solo grazie alla segnalazione di Francesco Pullè – che ha recensito l’ultimo album omonimo di Galassi (https://mat2020.blogspot.com/2025/10/maledetto-simone-che-fece-cantare-la.html) – che ho scoperto questo artista e il suo percorso. La curiosità è stata immediata, e ho sentito il bisogno di approfondire, di capire meglio l’uomo e il musicista, e cosa lo muovesse artisticamente. Così è nata questa intervista, pensata per soddisfare la mia curiosità e, spero, anche quella di chi leggerà.
Il tuo nuovo album è un viaggio sonoro tra rock-blues, psichedelia e funk. Qual è stato il filo conduttore emotivo e musicale che ti ha guidato nella composizione?
Un filo conduttore emotivo che mi ha guidato nella composizione è la grande passione per la musica rock e blues degli anni 60/70, sono cresciuto con quella e ne sono sempre rimasto fedele, l’ho suonata per anni ed è stato un passaggio doveroso cercare di prenderla per portarla ai giorni nostri, creando qualcosa di personale, parlando attraverso i testi un po’ del mio vissuto
Hai registrato il disco con Carlo Poddighe, utilizzando strumentazione vintage e missaggio analogico. Quanto è importante per te preservare quel calore “old school” nella produzione musicale contemporanea?
Penso che il suono sia importante tanto quanto l’esecuzione, forse ancor di più! Da appassionato di vintage ho dedicato la vita alla ricerca di strumenti d’epoca per studiare e cercare di ottenere quelle sonorità, di conseguenza ho voluto imprimere quei vecchi suoni nel mio album. Penso che in un mondo sempre più orientato verso la digitalizzazione e la tecnologia sia molto importante tener vivo e preservare quel sapere old school!
Nel tuo percorso ci sono tributi a Hendrix e Gallagher, ma anche influenze di Page, Clapton, Deep Purple. Come riesci a far convivere questi giganti nel tuo stile personale senza cadere nella semplice imitazione?
C’è un grande insegnamento che tutti questi artisti ci tramandano ma che molti ignorano, cadendo nella semplice imitazione; ognuno di essi aveva le proprie di influenze musicali (come noi abbiamo le nostre verso altri artisti) ma ne catturavano linguaggi e stili per poi farli propri, creando così un proprio stile personale, una identità in musica. Quindi ho cercato anche io di creare il mio stile, miscelando principalmente il sound di Jimi col mood di Rory e viceversa, inserendo le varie contaminazioni dagli altri artisti e aggiungendo sfumature funk.
“Hazy Nights” e “95” vedono la collaborazione con Martin Lee, mentre “Shooting Stars” è firmata con Alda Lolli. Come scegli i tuoi collaboratori per la scrittura dei testi e che ruolo ha la parola nella tua musica?
Non li ho proprio scelti, sono più cose che nascono in modo spontaneo e genuino dal nulla. Martin Lee è un carissimo amico di Ballyshannon, dove Rory nacque, ed è stato uno tra i primi a spronarmi nel comporre brani originali durante i miei tour irlandesi, scrivendo per me i testi da utilizzare. “Shooting stars” invece è stato buttato giù di pugno da Alda, la mia partner, quindi, averli immortalati nelle mie canzoni ha un significato particolare.
Hai calcato palchi in tutta Europa, dalla Germania all’Irlanda. Qual è stato il concerto che ti ha lasciato il segno più profondo e perché?
Difficile scegliere, in ogni posto citato trovo sempre persone meravigliose, un’accoglienza unica e tante belle emozioni su ogni palco, ma se devo sceglierne uno quello è il “Rory Gallagher festival” di Ballyshannon, forse perché è stato proprio lì che mi son fatto notare dall’Europa, ed è stato un po’ lo start di ciò che faccio oggi.
Nel tuo arsenale di chitarre c’è una Stratocaster che ha fatto innamorare anche chi non si sentiva all’altezza dello strumento. Qual è la chitarra che consideri la tua “compagna di vita” e perché?
Anche qua difficile scegliere, possiedo diverse Stratocaster che possono sembrare tutte uguali, ma ognuna di esse ha una propria voce e personalità, quindi a ritmi alterni sono un po’ tutte compagne di vita; ora la mia preferita è una Fiesta Red del 64, per via del tono più caldo e un look estremamente vissuto.
Sei anche insegnante di musica. Cosa cerchi di trasmettere ai tuoi allievi oltre alla tecnica? C’è un consiglio che ripeti spesso?
Ho insegnato per 5/6 anni ma negli ultimi tempi mi sono fermato per potermi dedicare totalmente alla mia musica, comunque ai miei allievi ho sempre cercato di dar loro gli strumenti necessari per muoversi liberamente attraverso la musica, piuttosto che copiarla e ricalcarla con tutorial online.
Il tuo album è disponibile anche in vinile, con una versione blu limited edition. Che rapporto hai con il formato fisico della musica e con il collezionismo sonoro?
Il mio rapporto col formato fisico della musica, e quindi con il collezionismo sonoro, è fondamentale; ho fortemente voluto stampare anche un lotto di 100 musicassette in tre colorazioni, numerate a mano, e penso che potrebbero essere un bell’oggetto da collezione. Da ragazzino poi la musica si ascoltava tutta su MC, dallo stereo portatile al walkman sino alle autoradio,quindi è stata una bella emozione avere tra le mani la mia musicassetta!
Nel brano “I Have to Tell You” emerge una forte intensità emotiva. C’è una storia personale dietro quel pezzo che ti va di condividere?
Sì, quel brano parla a un amico che cade nel tunnel della droga, quindi c’è una certa emotività. Non a caso il videoclip è stato registrato dentro le rovine del Kiwi, una discoteca storica delle nostre zone Emiliane, dove da ragazzi si andava per divertirci spensieratamente. Il locale, andato poi in rovina, si accosta esattamente al senso del testo, raccontando come sono andate le cose.
Come già evidenziato in una domanda precedente, nel tuo album c’è un brano intitolato “95”, scritto con Martin Lee. Cosa rappresenta per te quell’anno e come ha influenzato la tua evoluzione musicale?
Il brano parla di Rory Gallagher e della sua Ballyshannon, raccontata
da Martin Lee, un abitante del posto. Il 1995 è l’’anno in cui Rory ci ha
lasciati, e per coincidenza anche l’anno in cui ho formato la mia prima band, e
l’anno in cui ho assistito ad una serata tributo a Jimi Hendrix col suo
bassista originale, momento che mi ha cambiato letteralmente la vita. 95 è pure
l’anno in cui mi sono comprato la mia prima vera chitarra, una Gibson Les Paul cherry
sunburst. Insomma “95” è un anno molto significativo per me.
Non resta che seguirlo...

