venerdì 17 giugno 2011

Airportman-"Nino e l'inferno"


Ogni volta che mi appresto a parlare di un nuovo album, mi arrivano istantaneamente degli agganci, delle immagini, che traggono spunto dall’autobiografia di Bill Bruford. Sembra strano, ma in quei quarant’anni di vita raccontati in qualche centinaio di pagine, ho trovato miriadi di spunti di riflessione. Ho appena letto l’intervista che mi ha inviato Giovanni Risso, leader degli Airportman, ho riascoltato le musiche, rivisto il video e letto il testo, separatamente. Il tutto mi ha portato a pensare ad una frase che l’ex batterista degli YES butta sul tavolo, senza preavviso. Immagino la scena. Lui indaffarato per casa, e la pila di CD che arrivano da ogni parte del mondo, in attesa di suo giudizio; Bill, probabilmente non li ascolterà mai, ma ormai essi esistono, anche se sono stati dimenticati persino da chi li ha creati! Esistono e, ormai, “purtroppo”, occupano un loro spazio nell’universo, pur essendo spesso inutili.
E’ un esasperazione del concetto legata al fatto che chiunque, in quest'era di tecnologia avanzata, può creare da casa, senza sapere niente di musica, a dispetto di chi per essa fatica e suda.
Ma esiste anche la situazione opposta. Parlo di arte allo stato puro, che probabilmente non arriverà mai laddove dovrebbe arrivare, pur essendo unica, pregevole e forse inimitabile. Ma pare che la massa abbia bisogno di altro!
Ancora una volta mi tocca dire: “… un album così non lo avevo mai ascoltato!”
Provo a spiegare questo “Nino e L’inferno”, degli Airportman, un disco strumentale ma ricco di testo, concettuale ma emozionalmente frazionabile. Contraddizioni?
Nino è un personaggio vero, ancora vivente, anche se in non buone condizioni di salute. Anche il “suo inferno” è vero, e forse dura da troppo tempo. Il video (inserito a prima dell'intervista) che accompagna il CD racconta per intero la storia creata da Giovanni Risso, attraverso la voce del narratore e le immagini di un ambiente che, scorrendo sul parlato, provocano un certo disagio, diventando parte della storia stessa.
E già questa è un’operazione estremamente significativa: l’unione di realtà, immagini e cruda recitazione. In questo contesto la vita di un essere disperato si mischia a quella dei suoi simili, a quella di chi osserva( apparentemente più fortunato), a quella di chi vorrebbe intervenire ma non ha la possibilità di modificare i destini che qualcuno ha scelto per noi… e non ha nemmeno nemmeno il coraggio per provarci.
Questo tipo di rappresentazione starebbe già “in piedi” da solo e in questa forma monca avrebbe già grande valore simbolico e didascalico.
Ma se aggiungiamo la musica, questo “ contenitore” proposto degli Airportman, ormai al nono album, diventa ciò che è difficile immaginare possa esistere sul “mercato”, e se si seguissero alla lettera le riflessioni di Bruford, si perderebbe una grande occasione di afferrare un’idea tanto geniale quanto semplice: il racconto della realtà attraverso i protagonisti e la loro capacità di esprimersi.
Mi piace immaginare che gli otto brani strumentali che fanno parte di “Nino e l’inferno” siano nati in un tempo brevissimo, senza alcuna esitazione, sgorgati dalla storia, suonati col pensiero rivolto a Nino, a Victor, a Lane.
Musica di tipo minimalista, forse un po’ difficile da assimilare al primo colpo, con passaggi ripetitivi e creazione di atmosfere che, stranamente, si trasformano in concreto, in suggerimenti e stati d’animo, in tristezza e voglia di ripercorrere il proprio percorso personale.
Ho la quasi certezza che la mia chiave di lettura sia poco obiettiva, perché l’album tocca la sfera emotiva più intima e l’istinto prevale sulla razionalità.
Dall’intervista emerge comunque il pensiero ben più autorevole ed esplicativo di Giovanni Risso.
Come sintetizzare il mio giudizio? Come definire “Nino e l’inferno”?
Un’esperienza…


INTERVISTA
Come nasce e come si è evoluto nel tempo il progetto “Airportman”?
Airportman nasce dalle ceneri di un gruppo che si chiamava “ratarè”, ormai dieci anni fa; in realtà i “ratarè” erano una band con una voce femminile e con loro uscirono, in autoproduzione, almeno 5 dischi, ovviamente con canzoni vere e proprie. Dopo quell’esperienza io e Marco (Lamberti) ci accorgemmo che la dimensione canzone propriamente detta non riusciva più a rappresentare al meglio quello che volevamo dire nei testi, un po’ per l’adattamento che il testo doveva subire per essere incasellato nella musica ed un po’ perché i nostri testi in realtà erano cantati da qualcun altro. Da allora iniziammo a scrivere i testi ed a cucire attorno una musica che li avvolgesse e li rappresentasse senza per forza cantarli o semplicemente enunciarli. Fu da subito una dimensione perfetta per quello che volevamo fare. Da allora è nato il progetto Airportman e la formula è rimasta per lo più immutata, salvo cercare direzioni musicali nuove che comunque hanno la caratteristica di essere una sorta di colonna sonora alla parte letteraria. Al nucleo storico formato da me e Marco si è ben presto aggiunto Paolo (Bergese) che ha rappresentato da subito il vero terzo anello mancante e completante il progetto.

Ho ascoltato “Nino e l’inferno” una sola volta( per ora), ma le circostanze mi hanno portato alla completa fruizione in tre tappe: le musiche (in auto), il filmato con il solo audio( su un PC a cui mancava qualche codec), e il video intero a casa, alla sera. Ad ogni step il “lavoro” ha assunto valore aggiunto. Che cosa pensate del “raccontare storie” musicali utilizzando arti differenti, come integratrici dei più tradizionali “musica e testo?

Ti devo dire che ricercare nuove vie di fuga espressive per la musica, l’arte visiva o la letteratura in genere è davvero una bella sfida; farle dialogare tra di loro è assolutamente un idea costante in quello che cerchiamo di fare; questo non vuol dire non apprezzare la bella canzone, penso sia difficile scrivere una bella canzone ed in linea di massima mi piace anche il pop facile... ma il fatto di scovare angoli oscuri o diversi punti di vista, specialmente musicali, è certamente affascinante ed è quello che cerchiamo di fare. So che la nostra musica non è di facile fruizione, ma ho sempre trovato più interessanti quei dischi impegnativi, quelli che al primo ascolto non si scoprono ma che ad ogni ascolto successivo ti lasciano qualcosa di nuovo. Penso ad un qualsiasi lavori di David Grubbs, per esempio, contorto ma pieno di sorprese ad ogni ascolto.

Non conosco ancora il vostro lavoro pregresso, ma in “Nino e L’inferno” si evidenziano importanti aspetti esistenziali e messaggi di denuncia. Come riuscite ad essere efficaci in questo senso, in fase live?

“Nino e l’inferno” è un lavoro sofferto perché è una amara storia vera e Nino lo sento sovente ancora oggi, in un letto di ospedale ad aspettare che la sua luce si spenga. Per questo ha tutti i significati della vita e non lo posso solo considerare un nuovo disco degli airportman; per me è molto di più, è una lama che mi fa male ad ogni lettura o ascolto. Dal vivo il gruppo suona per intero la scaletta del disco, nella stessa sequenza, per lasciare intatto l’impatto del disco stesso. In alcune date abbiamo avuto la fortuna di avere alla voce Stefano Giaccone che ha interpretato l’intero testo ed è stato davvero intenso. Stefano è stato il primo a leggere il racconto di “Nino e l’inferno” e da subito ha voluto far parte del progetto. Stefano è un grande, un’anima autentica con un cuore grande, un fratello al quale puoi solo voler bene.

Non amo molto le etichette che incasellano i musicisti, e mi piace rifugiarmi sempre nella consolidata “ famiglia del rock”, ma mi sento di condividere le parole di Loris Furlan che definisce il vostro suono ”… soffuso, intimistico, più adatto ad immagini e storie più riflessive ed introspettive”. Ma è sempre Loris che prosegue “… tuttavia penso che il loro sound sia più realmente rock di tanti finti agitatori, cloni, metallari, ecc.”. Quanto siete rock… nel senso più tradizionale del termine?

Non saprei dirti realmente cosa significa essere rock, musicalmente parlando direi nell’approccio agli strumenti od in genere alla tecnica. Non sono amante del virtuosismo e mi piace fissare la irripetibilità della musica. Non amo ripetere le parti più volte e penso che la sala prove per il live sia la morte della creatività, nel senso che ho scoperto che la musica strumentale assume colori diversi ad ogni esecuzione ed assorbe gli umori di ognuno. Questa è la vara forza della musica. Quella di rappresentare sempre ciò che siamo. In questo penso che gli airportman siano rock.

Pochi giorni fa, ho ascoltato un “antico” conduttore di una radio storica cittadina che parlava di “crisi di idee e talenti”. Io che sono a contatto con tanti musicisti “nuovi” parlerei invece di crisi di opportunità. Qual è il vostro pensiero in proposito?

Sai cos’è, penso che certamente sia diminuita negli anni la curiosità più che la creatività, nel senso che, limitandoci ad un mondo musicale, i ragazzi non hanno più voglia di ricercare qualcosa di nuovo; sento tanto derivatismo, che, voglio dire, è anche positivo… se una band suona con echi radiohead va benissimo, ma trovo che in linea generale venga a mancare la vera fiamma che alimenta la tua storia. Io ho 43 anni, sono vecchio musicalmente, e negli anni ho capito che io avevo bisogno della musica più che la musica di me. Voglio dire che scrivo musica per curare la mia anima non quella degli altri. Questa esigenza mi permette di lavorare staccando la spina dal mondo la fuori e di avere un atteggiamento nei confronti della musica come di un bisogno per stare bene. Allora tutto ha un senso. Ed è lo stesso spirito che alimenta Loris che diffonde la nostra musica.

Qual è la genesi di “Nino e l’inferno”… come nascono le musiche in relazione al racconto, e come si intersecano i due elementi?

Come ti dicevo prima “Nino e l’inferno” ha una genesi tutta sua. Una notte di insonnia scendo e metto giù il testo per fissare le mie emozioni derivate dall’incontro con Nino avvenuto il giorno prima. Il testo nasce così di getto e così rimane. Lo rileggo il giorno dopo e continuo a stare male e decido che diventi qualcosa di più di un racconto. Ci troviamo in saletta e consegno copia del testo agli altri airportman; la settimana dopo registriamo tutte le parti musicali nate per lo più da piccoli rif che ognuno di noi porta ispirato dalla lettura del testo. Facciamo in modo di dividere il testo in una sorta di scene filmiche ad affidiamo ad ogni scena un colore musicale, un ambientazione sonora. Sono davvero contento del risultato e ancor più quando un ascoltatore qualsiasi mi confida di aver ritrovato in quelle parole ed in quelle note la stessa intensità che riesce ancora oggi a riconsegnarmi il disco.

Ho sentito la musica, ho guardato il filmato, ho afferrato il contenuto ( e la voce che lo propone) e ho aggiunto le foto di Sonia Ponzo. Ho trovato ovunque un po’ di dolore e tristezza, cose che spesso trovo (o cerco) anche io. Tutto molto realista, ma… è lecito, secondo voi, fuggire ogni tanto dalla realtà e raccontare un “quotidiano spensierato”, utilizzando comunque musica di impegno?

Penso che ognuno debba esprimere come meglio crede quello che ha dentro.
Nel mio caso sono generalmente una persona solare ma quando ho voglia di ritrovarmi con me stesso le note che escono dalla chitarra sono in minore; non ti so spiegare ma probabilmente scrivere musica rappresenta davvero una cura per l’anima. Ci sono autori che rappresentano un quotidiano spensierato e ti confesso che non disdegno quel tipo di approccio, anzi mi ci ritrovo anche, penso a lavori dei baustelle all’epoca del sussidiario o ai recenti amari... per carità va tutto bene... io però ho bisogno però di qualcosa di diverso per stare bene... ho bisogno di qualcosa che mi faccia stare male, che sia così forte da accartocciarmi il cuore, così forte da farmi lacrimare gli occhi, e allora metto su l’ultimo lavoro di Josh t. Pearson e con la sua voce sofferente esco rinato, rigenerato. Strano vero?


E se qualcuno vi chiedesse di inventare una musica… che ne so… guardando una foto di Pete Townshend, al suo primo concerto dopo la scomparsa di Keith Moon… sarebbe un esercizio di bravura o la comprensione di una vicenda umana, del dramma di un ricco, strampalato, genio musicale?

Sarebbe una sfida, certamente sarebbe una sfida per ricercare dei particolari della vicenda umana, con la voglia di sviscerare un qualche nuovo colore della vicenda stessa, sarebbe calarsi in una nuova dimensione, sarebbe anche interpretare l’espressione del volto, magari rappresentare semplicemente l’istante immortalato dalla fotografia.

Cosa significa per voi lavorare con la Lizard Records e con Loris Furlan?

Significa collaborare. Significa avere al fianco Loris che crede in quel che facciamo e che comprende appieno il nostro approccio musicale, che è riuscito nel tempo ha creare un alternativa possibile per tutti quelli come noi che credono nel potere della musica di farci stare bene, e che per vivere, si debba anche fare qualcos’altro e che non è necessario che tutti diventino delle star o che i dischi che produce entrino nel top delle vendite, ma che semplicemente si possa fare musica per noi stessi e per chiunque voglia farne parte senza affanno o priorità diverse da quelle del fare musica.

Se poteste immaginare il vostro futuro prossimo musicale, che cosa vorreste vedere realizzato?

Il mio personale sogno nel cassetto sarebbe quello di scrivere un intera colonna sonora per un film di Tim Burton... chiedo troppo ?
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