L’angolo di Pupi Bracali
Mia mi raggiungeva, balzava sul letto e mi si accucciava accanto poggiandomi il muso sul fianco o sulla pancia. A un certo punto la cacofonia industriale e metallica della suite iconoclastica che stava su una delle due facciate sfumava lentamente lasciando il posto a due voci maschili che apparentemente in lontananza borbottavano qualcosa in tedesco. Era a quel punto che, ogni volta e immancabilmente, Mia sollevava il suo musetto bianco dalla mia pancia, drizzava le orecchie e poi cominciava a borbottare anch’essa in direzione della cassa acustica dalla quale provenivano le voci. Non era un ringhio, non era un latrato e nemmeno un guaito o un uggiolio, era un borbottio canino, un susseguirsi di buf buf sincopati che si alternavano a quelle voci teutoniche come in una conversazione. Mia osservava attentissima la cassa dello stereo per quel paio di minuti (forse meno) in cui “parlava” con i due tedeschi poi le voci terminavano, la musica riprendeva e la mia cagnetta si riaccucciava al mio fianco mentre io mi domandavo chissà cosa si erano detti lei e i Faust.
La stranezza del disco non era solo nella musica, era il primo LP che vedevo (e ascoltavo) in vinile trasparente anziché nel risaputo colore nero. Anche la copertina era una busta di spessa plastica trasparente attraverso la quale si vedeva il disco con, unica concessione artwork, la stampa di una radiografia a raggi X delle ossa di una mano. Quel disco non l’avevo comprato, l’avevo permutato: in cambio avevo ceduto al mio caro amico Santino, un patito della California più hippie, If i could only remember my name il capolavoro west coast di David Crosby. Santino sarcasticamente mi prendeva in giro, mi accusava di avere fatto il cambio solo perché quel disco dei Faust era strano e particolare ma che in fondo era inascoltabile e non mi piaceva neppure. Aveva ragione solo in parte; effettivamente avevo fatto il cambio perché quello sconosciuto disco dei Faust era strano e particolare, ma poi me n’ero innamorato. Ciliegina sulla torta, era venuto fuori dalle cronache dell’epoca ( il mitico Ciao 2001) che di quel disco originale ne esistevano solo seicento copie in tutto il mondo. Solo seicento copie! E una era la mia!
Comunque quei tempi erano il 1971, il titolo dell’album era eponimo del gruppo e tre lunghi brani percorrevano le due facciate in un’orgia catastrofica di suoni e di colori.
Why dont’you eat carrots? il primo brano, già annunciava la furia elettronica e indomita che si annidava tra quei solchi e che percorreva sismicamente l’album; in questo brano oserei dire c’è tutto; tutto quanto si possa (in)immaginare da un gruppo che fa sua e mette in musica, probabilmente senza consapevolezza, una sorta di stream of consciouness il flusso di coscienza non tanto di Joyce quanto quello Burroghsiano (e i futuri Faust Tapes del 1973 lo certificheranno con i loro ventisei frammenti dadaisti slegati e assemblati senza capo né coda che coprono quei quasi quarantaquattro minuti), in un concetto di non-musica che in tempi più recenti possiamo trovare in certe cose dei rumoristi californiani Negativland.
Sintetizzatori sibilanti, citazioni di canzoni famose di gruppi famosi, pianoforti dissonanti, fiati jazzati, musica da fiera di paese, marcette bandistiche, collages zappiani, ritmi convulsi, rumori siderali, canti da osteria e voci declamanti convivono in questo brano informale e alienato pervaso da una dissoluzione e dissolutezza totale e dadaista come si è già detto e bisogna accostarsi al successivo Meadows meal per ascoltare un arpeggio “normale” che si perde però subito dopo tra nuovi rumori e rimbombi tellurici, accenni di blues trasversale e un triste organo da chiesa che conduce una liturgia ossianica e scurissima fino all’esperienza stordente di Miss Fortune esperimento live che alterna situazioni di clamoroso clamore a silenzi improvvisi. Percussioni impazzite e fuori tempo ritmano la danza spaventevole e folle di un gruppo di esagitati agitatori di suoni che poi ironicamente di colpo cambiano marcia narrando inaspettate fiabe a due voci e cantilenando litanie fino all’orgia finale di reboante percussività e di elettronica compulsiva e sgangherata, simile al ritmo incrostato di una betoniera che si appresta a gettare le basi per la costruzione di un maniero gotico nella foresta nera e che si spinge imperterrita fino alla catarsi giungendo a far terminare l’ascolto smarriti ed estenuati.
Da tutto questo trapela comunque una sincerità d’intenti; e se sui Faust ho storto più volte il naso riguardo le loro (presunte) simpatie politiche destrorse, mi inchino alla loro integrità morale e anticommerciale, a una comprovata purezza d’animo e a una modestia di tutti i componenti che li portava a non scrivere nemmeno i loro nomi sulle copertine. Tutto questo fece sì che tra i Corrieri Cosmici furono gli esponenti più a latere, i meno conosciuti, i meno ascoltati e quelli dalla carriera più effimera.
Alcuni anni dopo, (sarà stato il ’74) presentatomi da un amico comune, conobbi un ragazzo di Torino. Si chiamava Stefano Moretto ed era venuto con la famiglia a trascorrere un’estate al mare nella mia città. Con Stefano c’intendemmo subito, nacque quella che si dice un’intensa e sincera amicizia. Passammo quella lunga estate insieme, bevendo birra con gli amici e suonando la chitarra tra la luna e i falò sulla riva del mare, parlando di musica e di ragazze e scoprii così che lui adorava i Faust; aveva tutti i dischi usciti fino ad allora più alcuni bootlegs dalle registrazioni approssimative e inascoltabili.
Aveva tutti i dischi dei Faust tranne il mitico primo album stampato fino a quel momento in sole seicento copie e naturalmente rarissimo e introvabile. Quello che avevo io.
Da parte di Stefano cominciò allora un corteggiamento assiduo e inarrestabile; ogni pochi giorni mi chiedeva di vendergli quell’album epocale, mi offriva soldi, la sua chitarra di marca, decine di altri dischi in cambio, ma io niente! Non cedevo alle lusinghe, sapevo che quel disco era troppo raro e prezioso per darlo via in cambio di alcunché.
L’estate poi passò; la nostra amicizia divenne sempre più forte, superò persino un momento di tensione quando la sua ragazza decise di lasciarlo per mettersi con me; poi a settembre Stefano dovette ripartire per Torino. Lo accompagnai alla stazione ci salutammo commossi e imbarazzati, sapevamo che tra breve si sarebbe trasferito a Ferrara e non sarebbe più tornato in vacanza nella mia città. Dicemmo le solite cose banali e risapute che si dicono proprio in quei momenti, poi, pochi minuti prima che arrivasse il treno gli dissi di aspettare un attimo che sarei tornato subito. Lui non capì e lo abbandonai col suo stupore. Abitavo vicino alla stazione, mi precipitai e pochi minuti dopo ero di ritorno. Mentre il treno sbucava dalla curva che lo portava al marciapiede raggiunsi Stefano con le mani nascoste dietro la schiena e mentre lui saliva e ci abbracciavamo per l’ultima volta tirai fuori da dietro la schiena il primo album dei Faust e glielo diedi.
“Tieni”, gli dissi, “tu hai tutti gli altri dischi e sei un vero appassionato, te lo meriti più di me.”
Stefano si mise a piangere dalla commozione e io ci andai molto vicino. Dopo, come in una canzone di Claudio Lolli, il treno si rimise in moto e ci salutammo coi lacrimoni venir giù mentre mi salutava dal finestrino agitando il disco.
Ora sono passati oltre trent’anni. Mia, la mia cagnetta breton è morta ovviamente da moltissimo tempo, di Stefano dopo alcune lettere e qualche telefonata da Ferrara, ho perso ogni notizia. Santino, il mio amico fricchettone westcoastiano, abita in una cittadina a pochi chilometri ma non ci frequentiamo e non ci vediamo più da anni e alcuni mesi fa un mio conoscente sapendo della mia passione per il rock mi ha regalato circa trecento LP che altrimenti avrebbe sconsideratamente buttato via.
Era tutta roba degli anni settanta soprattutto americana e californiana.
Quando sono arrivato a casa me li sono guardati attentamente uno per uno e osservando alcune scritte a margine delle copertine e delle buste interne ho scoperto con sorpresa che erano dischi appartenuti proprio a Santino il mio amico hippie. Ho continuato la visione di quegli album e finalmente l’ho trovato: If i could only remember my name il mio vecchio disco che avevo scambiato coi Faust.
“Era ora che ritornassi a casa dopo tutti questi anni”, ho detto al faccione rosso di David Crosby sul retro-copertina e poi ho aggiunto parlando con me stesso: “E chissà che un giorno non ritorni anche il primo album dei Faust, in questa vita non si può mai sapere...”.