Alcuni giorni fa ho presentato le note di Synpress relative a “In the Abstract”, il debutto dei Mytho, gruppo di Latina, da non molto sulla scena.
Nove brani suddivisi in tre quarti d’ora di musica, gradevole già al primo ascolto.
A questo link è possibile ricavare elementi biografici e line up.
http://athosenrile.blogspot.com/search/label/Mytho
Il bassista e cantante Marco Machera canta in un buon inglese ( come è sottolineato dal gruppo), e francamente non riesco ad uscire dal dubbio se sia meglio comprendere al volo testi italiani, e captare i messaggi senza fatica, o godersi il vero rock anglosassone o affine, quello di cui ci siamo innamorati quando ancora mancava ... la padronanza della lingua.
C’è spazio per tutto e occorre tenere presente che le collaborazioni con personaggi stranieri(nella fattispecie John Payne, ex ASIA, che ha cantato e scritto il testo in “New Gemini’s Rising”)spingono nella direzione dell’apparente esterofilia che altro non è, in questi casi, che “il trovarsi a proprio agio” con l’espressione base, quella con cui “tutto è nato”.
Il giudizio sulla musica mi porta sempre a dei paragoni, utili al potenziale lettore, ma probabilmente sgradevoli per i musicisti. Ascoltando “In the abstract” ho sentito differenti influenze, quelle che ci modellano sin dai primi vagiti musicali e che nemmeno ci si sogna di rinnegare. Ma alla fine ogni definizione risulta riduttiva e forse poco rispettosa del lavoro di chi probabilmente mette l’anima, il sangue e il sudore, per realizzare qualcosa in cui crede e che desidera poi condividere.
Il contesto di questo lavoro è il prog, inteso come “arie ad ampio respiro”, sperimentazione, complessità di architettura musicale, tempi dispari e così via.
Se però dovessi dare l’impronta da primo ascolto, che non è mutata nelle successive “passate”, direi che l’abbinamento voce/ chitarre(synth in questo caso), mi riporta ai Dream Theatre … e non mi pare cosa da poco.
E in questo contenitore rock (che bello dare un’unica definizione alla “nostra” musica!) c’è spazio per spruzzate di Genesis e gocce di YES, e sicuramente ogni prossimo ascoltatore avrà da aggiungere un nuovo suono che riconduce a fantastiche reminiscenze del passato.
Il mio consiglio è di ascoltare lasciandosi guidare dagli istinti, senza sforzarsi nel cercare qualcosa di conosciuto. “In the abstract” è un bel disco di musica e stop.
Io l’ho ascoltato in contemplazione delle onde del mare (due volte, dotato di cuffie , isolato dal resto del mondo) e in replay sul mio divano.
I dischi “veri”, di musica vera, sono quelli che puoi scegliere e “usare” in differenti momenti, per tirarti su, per ballare, per riflettere e, perché no, per piangere.
Il sound dei Mytho, almeno nell’occasione, presenta tutte queste caratteristiche … perché non ascoltarlo lasciandosi andare?
L'INTERVISTA
Credo siamo in sintonia sull’immortalità di certa musica prog degli anni ’70, ma a differenza di altra musica universale, occorre ricordare che il merito di certe band è quello di avere creato qualcosa che prima non esisteva, un sound unico e riconoscibilissimo che non può attingere a modelli completi già esistenti. Secondo te/voi, c’è la possibilità che si ripeta un periodo così prolifico e, soprattutto, che i fruitori della musica siano preparati a questo?
(Marco) Mai dire mai. Certo, i tempi sono cambiati, oggi è tutto più difficile. Insieme alla qualità della musica sono cambiati anche i gusti delle persone. Adesso la musica si “sente”, non la si “ascolta” più. Purtroppo l’esperienza stessa di ascolto è andata degradandosi, si è trasformata in un’esperienza superficiale, vuota. Il musicista non può far altro che sforzarsi di creare il miglior prodotto possibile, per sé stesso; se piace agli altri, tanto meglio. Allo stesso tempo, credo che non basti il “prodotto giusto” per dare vita ad un movimento, ad una successione di capolavori, come accadeva anni fa. Serve anche un contesto adeguato, un interesse partecipe, una certa predisposizione all’ascolto, che purtroppo attualmente sembra latitare.
(Antonio) Esclusi i pur tantissimi appassionati sparsi per il mondo, oggi l’ascolto di massa verte meno verso i veri e propri gruppi, anche i contenuti si sono per così dire ridotti. Un “Tales from topographic oceans” poteva essere tranquillamente primo in classifica perché veniva capito, veniva letteralmente “squagliato”da gruppi di amici che i pomeriggi si riunivano per ascoltarlo. Ma non era una eccezione, era la regola, era la “massa” che si comportava così. Oggi semplicemente, ed è un vero peccato, non si fa più. Ma chissà che non si ritorni a quello, io sono fiducioso.
Qual è la strada che un gruppo, conosciuto o appena costituito, deve percorrere per poter vivere di sola musica?
(Marco) La strada della dedizione e della disciplina. Non si fanno le cose tanto per farle. Ma il divertimento non deve mancare mai. Suonare, comporre, deve essere innanzitutto un piacere. Pensa alla forma inglese del verbo “suonare”, “to play”: vuol dire anche “giocare”, ha una connotazione ludica, è importante. Ci vuole semplicità e tanta passione.
So dell’armonia che regna nel vostro gruppo. E’ possibile “lavorare” ed essere professionali in studio e sul palco, senza essere “amici”?
(Marco) E’ possibile, specialmente quando non è richiesto un contributo intellettuale significativo, che al contrario è un aspetto fondamentale nelle dinamiche interne a un gruppo, composto da persone che suonano insieme abitualmente, e che soprattutto creano e decidono insieme. A volte mi capita di suonare come turnista per altri progetti, e in quei casi non è importante essere “amico” con gli altri musicisti coinvolti. Non è sempre necessario essere “amici per la pelle” quando si suona ma, allo stesso tempo, è importante trovarsi in un ambiente favorevole, che metta a proprio agio, con persone con le quali ci sia un’intesa particolare.
Le vostre collaborazioni con musicisti affermati forse un tempo non sarebbero state semplici da realizzare. Quanto contano le nuove tecnologie disponibili per allacciare nuovi rapporti e realizzare progetti musicali?
Come si sta evolvendo il businnes legato all’industria discografica?
(Antonio) Sempre escludendo le etichette ad hoc come ad esempio la nostra Btf, che ha il merito di pubblicare le opere di tanti gruppi giovani (tra cui noi) e la meritoria attenzione a ristampare tanti album del nostro progressive italiano altrimenti irreperibili, se non a cifre folli, la situazione non è delle più facili. Ora le etichette puntano sull’immediato, sembra quasi che si accontentino del piccolo e il più delle volte stupido motivetto estivo; come dire, meglio una settimana in classifica con una sciocchezza che scovare nuove proposte di più spessore artistico. Ma questo succede, come ho detto, con etichette per lo più legate alle tendenze del momento. Per le altre posso dire che il loro lavoro è assolutamente meritorio, nell’epoca del download selvaggio capisco benissimo che non è facile far quadrare i conti. Ma io credo comunque che chi è appassionato gli album li compri, ed è a questo pubblico che questo tipo di etichette si rivolge, a persone che hanno una cultura dell’ascolto. Chi vuole la compilation di Sanremo se la scarica, chi cerca la discografia dei Gentle Giant se la compra tutta, anche per capire l’evoluzione avuta dal gruppo, altrimenti ti ritrovi sul computer un minestrone pazzesco che non serve a niente. In definitiva direi che il mercato tende a frastagliarsi: c’è un mercato più di massa che quasi tira a campare aggrappandosi alla manie di settimana in settimana e un mercato per gli appassionati e intenditori che sicuramente non ha le stesse dimensioni dell’altro, ma che comunque ritengo molto vivo.
Le reunion di band in auge quarant’anni fa sono all’ordine del giorno (e ce ne sono di clamorose in arrivo). Dalla mia postazione di osservatore/ascoltatore … ne vale sempre la pena! Cosa pensa un giovane musicista quando è di fronte a quattro terribili sessantenni che, al di là dell’aspetto fisico, sembrano ragazzini on stage?
(Antonio) Abbiamo tutto da imparare da queste persone, e soprattutto spero di arrivare anche io alla loro età mantenendo quel piglio e quella dedizione. Ho visto recentemente Steve Howe con gli Asia nella loro data romana: è incredibile, non sbaglia un colpo e l’ho osservato bene in tanti suoi piccoli movimenti e accorgimenti che denotano la sua grandissima esperienza da palcoscenico. Avere ancora l’opportunità di vedere lui (come anche tutti quelli della “vecchia guardia”) dal vivo lo ritengo un vero e proprio privilegio che non va sprecato. Guarda ad esempio Phil Collins nel suo ultimo tour con i Genesis nel 2007: solo ora si è saputo che aveva dei problemi abbastanza seri alla schiena, eppure ha dato il massimo. Ecco, da queste leggende viventi dovremmo imparare anche questo, non solo la loro perizia tecnica.
Avete scelto la lingua inglese e ho visto le motivazioni. Tutti si sono innamorati della musica rock, da adolescenti, senza capire una parola e anche ora che siamo più… colti, per comprendere un testo occorre leggerlo e tradurlo. Ma è davvero importante il messaggio racchiuso nelle liriche?
(Antonio) Sono sincero, non penso siano più importanti della musica, altrimenti sarebbe pura prosa. Per il resto, è un discorso un po’ ampio. Un testo nasce dai motivi più disparati nella testa del suo autore e magari non sempre chi è dall’altra parte ne coglie appieno il significato e sinceramente credo che neanche sia tenuto a farlo. A volte in un testo basta una frase, un capoverso, per farti immedesimare appieno nella canzone , e per me quello è sufficiente. Ad esempio, io preferisco i testi più aperti ad interpretazioni che non quelli con un vero e proprio soggetto forte e delineato. Ma attenzione, con questo non voglio dire che i testi debbano essere banali riempitivi: più che altro mi piacciono le liriche che parlano, ad esempio, dei vari stati d’animo della persona, in cui tutti ci possiamo riconoscere, che descrivano per quanto è possibile sensazioni che vanno dalla nostalgia all’allegrezza, dalla poetica malinconia alla più viva speranza; o ancora, liriche di stampo immaginifico e fantasioso, che stimolino l’immaginazione di chi ascolta. Ad esempio, mi piace trattare testi con ambientazioni mitologiche (da qui il nome del gruppo ), che trattino di leggende e racconti che si perdono nella storia dell’uomo, ma sempre riconducibili all’animo umano e alle sue sfaccettature.
Quale dovrebbe essere il futuro di “Mytho” ?
(Antonio) Ci piacerebbe avere una carriera regolare e sempre all’altezza, conquistare la nostra piccola fetta di pubblico che ci permetta di andare avanti, tutto quello che può venire in più è ben accetto ovviamente.