La ripetizione di un concerto all’esatta
distanza di 43 anni non può essere per me un
fatto qualunque. I King Crimson ritornano a Torino – due date consecutive – all’interno di
un contesto più ampio denominato The
Elements of King Crimson Tour 2016.
Rispetto a quel concerto antico, di cui sono
stato testimone, l’unico elemento comune è Robert
Fripp, of course, ma i nuovi compagni
di viaggio hanno dato un bel contributo alla creazione di una nuova magia.
Chiamare “nuovi” Tony Levin e Mel Collins suona un po’ strano, ma se il riferimento resta il 12
novembre del 1973, beh, tutto è cambiato.
Ripeto, la musica è sempre mistica, le trame
affascinanti, l’avvolgimento sonoro totale, ma certo è che una tale formazione,
e non parlo di nomi ma di logica di line up, è un caso unico. Ma andiamo per
gradi.
Se dovessi dare un giudizio globale,
parafrasando una frase storica di un noto allenatore di calcio, direi che… sono rimasto pienamente soddisfatto… a metà.
Il Teatro
Colosseo è
stracolmo quando una voce delicata detta le maledette regole della serata: la
portavoce ci informa infatti che non sarà possibile tenere acceso alcun
“electronic device”, salvo che nel corso del bis, quando “Tony” fotograferà il
pubblico, che potrà ricambiare scattando foto a ripetizione per… pochi secondi.
Non basta, l’esortazione è quella di “registrare” la serata solo con l’udito e
godersi lo spettacolo. Grazie per il consiglio! E forse Fripp ha ragione,
perché un evento del genere necessita di una sicura concentrazione, e lo scatto
selvaggio non fa parte dei piani del buon Fripp. Ma l’accanimento del servizio
d’ordine mi è risultato particolarmente sgradevole.
Inizia così uno spettacolo suddiviso in due
parti - con una sosta intermedia di venti minuti - che alla fine risulterà
consistente anche dal punto di vista dello spazio temporale.
Prende posto sul palco la formazione
sorprendente a cui facevo accenno che è bene sviscerare:
Robert Fripp – chitarra, mellotron, pianoforte elettrico, tastiere
Tony Levin – basso, Chapman Stick
Pat Mastellotto – batteria
Gavin Harrison – batteria
Mel Collins –sax, flauto fiati
Jakko Jakszyk – chitarra, voce
Jeremy Stacey – batteria, tastiera
Il brano di apertura è esattamente quello del ’73, quel Larks’ Tongues in Aspic, Part One che conduce ai primi brividi di serata.
I tre batteristi sono posizionati in belle evidenza, con il
centrale Jeremy Stacey che necessita di maggior spazio per le tastiere.
La domanda iniziale è proprio relativa al triplice drummer:
operazione spettacolare o azione funzionale alla nuova strategia musicale? Con
il passare dei minuti ci si rende conto che la triade di percussionisti è il
fulcro dello spettacolo: tutto ruota attorno a loro, che sanno fare il lavoro
solista ma al contempo svolgono il tipico lavoro richiesto da sempre al ruolo.
Agiscono a volte in simultanea, ma è possibile trovare Garrison
che porta il tempo regolare mentre Mastellotto va in controtempo innescando un
tourbillonn di ritmi da paura.
In alto capeggia il resto della band, un po’ ingessata,
atteggiamento dietro al quale dovrebbe esserci precisa volontà, avendo visto da
molto vicino Tony Levin, e sapendo quindi che la sua indole è un po’ diversa.
I brani passano e la pelle d’oca diventa caratteristica di serata:
da Epitaph a Easy Money, passando per The
Court of the Crimson King e The Letters, con il
raggiungimento dell’apice con Starless.
Non sono riuscito ad apprezzare a pieno la voce di Jakko Jakszyk, ma avendo nella testa il timbro di Lake e Wetton, il
condizionamento naturale mi impedisce una buona obiettività.
Il pubblico è apparso entusiasta, sottolineando l’eccitazione ad
ogni fine brano, ma fare uscire una minima soddisfazione dal volto di Fripp non
è roba per comuni mortali.
E proprio questa “relazione gelida” che rappresenta a mio giudizio
una discreta lacuna, perché il concerto è il luogo deputato allo scatenarsi
delle emozioni, dove nasce un rapporto osmotico che lega musicisti ad audience,
ma ho personalmente patito la rigidità autoimposta della band, capace di
regalare musica incredibile, ma abbastanza decisa nel… mantenere le distanze.
Di fatto credo sia il primo concerto della mia vita in cui nessuno dei
protagonisti sul palco apre la bocca per dire una parola, magari per presentare
la band, meglio ancora per ringraziare… nulla di nulla.
Ma noi eravamo lì per la musica, e nella condizione migliore
possibile per la fruizione di un evento del genere, probabilmente irripetibile.
E quando arriviamo al bis, 21st
Century Schizoid Man riporta
ad un 5 luglio del 1969, quando Fripp e soci affiancarono gli Stones ad Hyde
Park, due giorni dopo la morte di Brian Jones.
I King Crimson sono alla quarta renunion, sempre nel nome di
Mister Fripp, che appare saldamente al comando di una nave da battaglia, capace
ancora di realizzare sold out e fornire prove di longevità assoluta. In Italia
non li abbiamo mai dimenticati e credo che il tour in corso ne sia la
dimostrazione lampante.
Valeva la pena esserci anche se alle tante luci si contrappone
qualche ombra, secondo un sentimento del tutto personale.
E per una volta non ho alcun filmato da mostrare!