E’ da poco tempo in circolo Echoes From The Deep,
album della band bresciana Psycho
Praxis.
Giovani, giovanissimi
rispetto alla qualità della musica proposta, non certo di semplice creazione e
proposizione.
Ho avuto l’opportunità di
vedere una loro performance dal vivo, probabilmente tra le prime (un frammento
è fruibile a fine post), e di seguire da molto vicino l’esibizione, e questo contribuisce
alla creazione di un’immagine completa del lavoro di insieme.
Ma il caso ha voluto che io
potessi vedere la genesi, avendo l’opportunità di ascoltare i brani ancora in
fase embrionale.
Come adolescenti in cerca di
novità musicali (un tempo accadeva così), mi sono ritrovato con Pino Pintabona
della Black Widow Records nella sua
auto, mentre lui mi rendeva partecipe della sua recente scoperta: due bambini
al cospetto di un nuovo giocattolo!
L’intervista a seguire è,
come sempre utilissima, e fornisce il pensiero diretto della band,
probabilmente l’unico che conta, e così emerge un certo orgoglio giovanile, una
voglia di sottolienare le idee personali, che non sono la copia del già esistente.
Ma le influenze che in un
modo o nell’altro si assimilano condizionano chi crea e anche chi ascolta, e le
reminiscenze del passato saranno utilizzate per chiarire i contorni di ciò che è
appena nato, fornendo un’etichetta che facilita il compito a chi si avvicina ad
un nuovo gruppo e alla loro musica.
I cinque musicisti hanno
background differenziati, e le diversità
provocano completezza di prodotto, una volta uniti gli intenti.
I testi sono in lingua
inglese, e la strumentazione quella tipica del rock, con l’aggiunta del flauto
traverso che, ovviamente riporta ai Jethro Tull. Ma non è solo il flauto che ricorda
Ian Anderson, un artista ancora in auge, ma penalizzato dalla perdita di una
caratteristica fondamentale… la voce.
Andrea
Calzoni, oltre ad essere un bravo flautista è anche un
ottimo vocalist, e se a questo sommiamo le trame tastieristiche di Paolo Tognazzi e il piglio acustico del
chitarrista Paolo Vacchelli, completiamo un quadretto che
riporta agli albori tulliani.
La sezione ritmica, formata
da Matteo Marini al basso ( e acustica)
e Matteo Tognazzi alla batteria, garantiscono
la fuga verso un sound sostenuto, un rock carico di energia.
Sei le tracce, con buona
varietà di proposta, tra il prog, il folk ed un certo rock blues prettamente
chitarristico (vedi il riff iniziale di Hoodlums
- potenzialmente perfetto per Steve Ray Vaughan - sfociante poi in ambiente
pinkfloydiano).
Difficile trovare album di
esordio altrettanto azzeccati, e gli amanti del genere, ne sono certo, sono già
in attesa di conferme, affamati di musica di qualità.
Il futuro è già oggi, e il
nuovo materiale è già in lavorazione, un
concept che permetterà di sperimentare nuove soluzioni tecniche e armoniche.
Ma leggiamo il pensiero dei
protagonisti.
L’INTERVISTA
La prima cosa che stupisce ascoltandovi è la
relazione tra la giovane età ed il genere proposto. Come nasce l’amore per
certa musica nata molti anni fa?
Per rispondere alla domanda
occorre innanzitutto chiarire una questione: noi non siamo nati con lo scopo di
suonare musica progressive né ci consideriamo un gruppo che suona quel genere.
In generale non ci è mai interessato seguire delle particolari mode, ci siamo
sempre affidati al nostro istinto musicale: in sala prove quello che cerchiamo
di fare è costruire pezzi elaborati, in cui una piccola quantità di materiale
tematico viene sviscerata in maniera il più esaustiva possibile, modificando
contemporaneamente struttura armonica e idee melodiche fino a raggiungere un
risultato che sia per noi soddisfacente. Per cercare soluzioni inusitate
abbiamo indagato sia nel presente sia nel passato: nella ricerca abbiamo
toccato anche il capitolo “progressive”, a cui assomigliamo forse più per il
tipo di atteggiamento nei confronti della storia che per altro.
Che tipo di cultura musicale avete alle
spalle?
Il nostro background è
piuttosto eterogeneo: venendo da esperienze molto diversificate, ognuno di noi
ha seguito un percorso personale, il che fa si che ognuno di noi abbia gusti
musicali molto differenti. C'è chi ha avuto i primi input musicali ascoltando i
vinili dei genitori, altri hanno sviluppato il proprio gusto da zero; c'è chi
ha studiato in conservatorio, chi ha seguito lezioni private, chi è
autodidatta. Questo ci permette di avere a disposizione moltissime idee mutuate
dai più disparati ambiti musicali, il che, per i nostri obbiettivi, è una
situazione ideale.
La tipologia di line up è influenzata
dall’amore per un particolare gruppo? Il flauto visto usare dal vivo, ad
esempio, riporta all’immagine di Ian Anderson… è una casualità?
A dirla tutta, la line-up
attuale è nata casualmente: Paolo Vacchelli, il chitarrista, suonava sia nella prima
formazione degli Psycho, sia in un gruppo orientato più verso l'hard rock, i
Footstompin', e nel momento in cui tutti e due i gruppi sono rimasti orfani di
qualche componente ha avuto la brillante idea di presentarci. Ed eccoci qui!
Certo, è naturale che sentendo il suono del flauto vengano subito in mente i
grandissimi Jethro Tull, ma nello stesso modo in cui da parte nostra non c'è
nessuna volontà passatista-nostalgica di riproporre un genere che ha avuto il
suo momento di massimo splendore quarant'anni fa, non c'è neppure la volontà di
scimmiottare un maestro che a quell'epoca appartiene. La strada che cerchiamo è
personale.
Echoes from the Deep è fresco d’uscita. Quali sono le maggiori
soddisfazione derivanti dalla fase di registrazione?
Oserei dire... la fine! La fase
di produzione è stata shockante e traumatica. Abbiamo dovuto fare registrazione
e mixaggio in soli cinque giorni. Paolo Vacchelli è stato ricoverato d'urgenza
in manicomio, dove è rimasto cura per quattro settimane. Il fonico ha cambiato
sesso. Il nostro manager, dopo una crisi mistica, ha deciso di ritirarsi in un
monastero in clausura, da dove siamo riusciti a tirarlo fuori solo pochi giorni
fa. È stata decisamente dura!
Cosa
amate invece della performance live?
Credo che la cosa che dà più
soddisfazione in un concerto sia il fatto che si ha la possibilità di esprimere
qualcosa per qualcuno, e non solo per noi stessi come accade in sala prove.
Essendo la nostra musica il prodotto di una ricerca tanto meticolosa, trovare
persone per cui questa rappresenti qualcosa di apprezzabile è un piacere
immenso.
Come nasce la vostra
collaborazione con la Black Widow?
Per un inaspettato
concatenamento di colpi di fortuna: una sera, ad un convegno prog svoltosi a Brescia, abbiamo
consegnato il nostro demo ad uno sconosciuto amico di amici, e il giorno dopo
siamo stati ricontattati dallo stesso che si è presentato come Alessandro Siani
(I Met Doyle mgt), il quale era in contatto con la Black Widow e l'ha coinvolta
nel progetto. Non saremo mai grati abbastanza né a lui ne alla B.W., in
particolare a Pino Pintabona, per aver creduto profondamente nel progetto e
aver assecondato le nostre idee e le tempistiche spesso al limite del
tollerabile.
Come definireste l’esperienza del 15 febbraio
a Genova, quando vi siete esibiti con i Flower Flash e con la Maschera di Cera?
L'occasione e il posto erano
meravigliosi: ascoltando i Flower Flesh prima e La Maschera di Cera poi, non
abbiamo potuto non rimanere colpiti dall'elevatissima qualità della musica e
dell'esecuzione; complessivamente l'esperienza è stata entusiasmante.
Vi piace sperimentare e utilizzare la
tecnologia disponibile o siete piuttosto tradizionalisti?
Osservando la nostra
strumentazione si potrebbe pensare che siamo orientati verso la seconda
tendenza. In realtà ci piace sperimentare, ma siamo limitati dalle nostre
disponibilità economiche. In pratica siamo tradizionalisti per forza: il
“vintage” è dannatamente economico, specialmente quando recuperi gli strumenti
nelle cantine e te li ripari da solo! Ultimamente avevamo iniziato ad inserire
delle parti di sintetizzatore, utilizzando un meraviglioso OSCar, ma purtroppo
tale gioiellino è appena stato sollecitato dal legittimo proprietario dal quale
l'avevamo avuto in prestito a tempo indeterminato! Se avete sintetizzatori da
prestarci scrivete a thepsychopraxis@gmail.com.
Come nascono i vostri brani: lavoro in team o
elaborazione delle idee che arrivano da un’unica fonte?
Non abbiamo un metodo di lavoro
preciso: PSM, ad esempio, è nata
quasi completamente in sala prove, senza partire da idee predeterminate,
jammando a lungo su due accordi fino ad ottenere sezioni ritmicamente
interessanti che poi abbiamo legato; all'opposto troviamo Black Crow, che è stata quasi interamente scritta e arrangiata a
tavolino. In generale la composizione dei pezzi di Echoes from the Deep è stata lunga e travagliata, i brani sono
stati scritti da mani diverse in un lunghissimo corso di tempo, per essere poi
reinventati completamente una volta raggiunta la formazione a cinque. È stato
un lavoro molto complicato ma che ha dato grandi soddisfazioni! Le canzoni
subiscono modifiche tutt'ora, anche per rimediare al fatto che ogni tanto la
strumentazione vintage ci abbandona, e dobbiamo ricalibrare i suoni usando
diversi strumenti.
Che cosa avete pianificato per il futuro
prossimo, musicalmente parlando?
Non c'è molto di
pianificato: subito dopo la pubblicazione del disco abbiamo iniziato a lavorare
su materiale nuovo. Diversamente da quanto fatto per il lavoro precedente,
abbiamo deciso di sviluppare come prima cosa un “simil-concept”, un contenitore
di idee che ci permetterà di avere testi legati tra loro da un filo conduttore
un po' più chiaro rispetto a quello di Echoes from the Deep, e in generale di
poter sviluppare tutta l'opera avendo un riferimento preciso. Il pezzo che
stiamo componendo è piuttosto differente, a livello musicale, da quanto sentito
in EFTD: introducendo scale non appartenenti alla tradizione classica, abbiamo
ampliato la tavolozza delle sonorità con accordi dai colori molto peculiari; e
anche gli incastri ritmici sono più elaborati e raffinati. È comunque troppo
presto per capire tutto questo dove ci porterà.
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