“A trovare i miei amici ci vado in bici ”
è l’album appena realizzato da Enrico Botti, disponibile
in free download:
Enrico è un cantautore che, partendo da basi classiche, riesce ad aggiungere
tutto il suo vissuto, condensando generi ed esperienze in un disco che profuma
del luogo agreste in cui è stato registrato - un garage di campagna - ma che
presenta uno scenario compositivo dalle molteplici sfaccettature, costituito da
generi musicali e tempi ritmici diversi tra loro.
Nel corso dell’intervista proposta a seguire emerge come la figura
del cantautore non sia cambiata nel tempo, di come siano immutate le ragioni
per cui un artista decide di esprimersi attraverso liriche e trame sonore da
lui realizzate, mentre appare profondamente modificato il pubblico medio che
della proposta fruisce.
Correnti di pensiero attribuiscono al cantautorato anni ’70 -
quello dei Guccini, De Gregori, Bennato… - la “colpa” della fine di certa
musica dall’architettura decisamente complessa - quella prog - ma i messaggi (ed
i successi) di quei giorni antichi,
soprattutto di tenore impegnato, erano giustificati dal periodo storico e dal
momento culturale specifico. L’evoluzione di quella picture conduce sino ad
Enrico Botti, musicista completo e curioso, slegato, nonostante la sua formazione, dal binomio voce/chitarra,
voglioso di raccontare la sua vita con una buona dose di ironia, affrontando
tutti i temi che ci affliggono e ci condizionano nel quotidiano, dal rapporto col
denaro all’ecologia, dall’amicizia alle differenze sociali, raccontando di un
disagio che è il denominatore comune di più generazioni.
Un album piacevole, curato
nei dettagli, intriso di blues, folk e molto altro ancora.
Difficile inquadrare… incasellare la musica di Enrico Botti, ma
senza sforzarsi troppo nella ricerca di didascalie applicabili al modello
sonoro, si può optare per un ascolto libero, e accanto alle liriche
significative emergerà con delicatezza un mood che porta ad assaporare una
fetta di passato - per chi l’ha vissuto - che sa di provincia, di tranquillità,
di pacatezza, e di tanta nostalgia.
E se perdere momentaneamente la patente può costringere alla
riscoperta della bicicletta - e delle proprie radici - come raccontato nella
title track, incontrare casualmente la musica di Enrico Botti determinerà
certamente una sorpresa con riflessione annessa. E in tutto questo il ruolo del
cantautore appare davvero come quello di un tempo.
L’INTERVISTA
Mi racconti
qualcosa del tuo percorso musicale, dagli inizi ad oggi?
Ho
studiato chitarra classica, per la quale continuo ad avere una predilezione
speciale. Mi sono col tempo avvicinato ad altri strumenti per ampliare la mia
percezione musicale. La chitarra, essendo molto tecnica, tende a rendere il
chitarrista troppo legato allo strumento, penalizzando la sensibilità
compositiva ed esecutiva. Questo naturalmente secondo la mia opinione e non per
fortuna nella totalità dei casi. Nel corso della mia carriera da strumentista
ho affrontato moltissimi generi musicali, dal blues, mio primo amore al rock,
dal reggae allo swing. Mi sono avvicinato a varie musiche etniche sperimentando
l’uso di altri strumenti a corda. Ho scritto uno spettacolo basato sulla musica
elettronica, il cui ascolto mi ha comunque in un certo modo influenzato.
Insomma cerco di attingere da tutto quello che mi piace e da ciò che sento.
Che cosa lega i
brani del tuo album, “A trovare i miei amici ci vado in bici”?
Sicuramente il
sound del disco. E’ stato registrato in un garage di campagna, vibravano tutti
gli oggetti che vi erano presenti. Sublima in pieno il periodo della vita in
cui mi trovavo, mi sentivo proprio come quel suono che viene fuori e che è il
collante degli undici brani che propongo nell’ album. Sono state consumate, durante
le riprese avvenute nell’ ottobre2011, notevoli quantità di birra, nonostante
in autunno dalle nostre parti sia solitamente più apprezzato il vino. Per di
più ho fatto conoscere a Ettore Magliano, che è il produttore del disco,
l’esistenza dei peperoncini habanero, frutto per il quale ha sviluppato poi con
il tempo una sorta di dipendenza psicofisica difficile da sconfiggere. Sono
stati tutti fattori che hanno portato, in concorso di colpa, al raggiungimento
di questo sound che è obbiettivamente difficile da definire in maniera
inequivocabile. Per questo mi trovo in imbarazzo quando mi viene posta la
domanda: “che genere fai?” e
solitamente cerco di imbastire un raffazzonato stratagemma teso a portare direttamente all’ascolto e ad
eludere la risposta che non saprei fornire. Per il resto posso dire che sono
dei pezzi che ho scritto nell’ arco di diversi anni, quindi eterogenei sia
nelle tematiche che negli arrangiamenti musicali e nelle composizioni stesse.
Come descriveresti le tue più importanti influenze musicali?
Non credo si
possano descrivere. Sento un qualcosa che mi piace e cerco di assimilarlo
cercando di ampliare sempre di più il mio vocabolario sonoro ed il mio idioma
musicale.
Quali sono, secondo te, le sostanziali differenze tra il cantautorato tradizionale e
quello attuale, di cui tu sei espressione?
La differenza è
che qualche tempo fa il pubblico era molto più interessato ai cantautori ed
alla musica in generale. Ora non più. Dal lato del compositore non credo sia
cambiato granché. Nasce tutto da una propria esigenza di esprimere se stessi
attraverso un testo ed una musica. Ci sono dei cantautori che hanno voluto
smuovere delle coscienze, sollevare problematiche, protestare contro qualcosa o
qualcuno. Io vorrei che chi mi ascolta non pensasse a me come ad uno di questi,
ma semplicemente ad un individuo che si prende un attimo di libertà per
raccontare ciò che è (o ciò che pensa di essere) e ciò che gli succede(o che
immagina). Credo sia fondamentale per un autore avere un rapporto distorto con
la realtà e sfumarne i contorni con la fantasia.
Riesci a concepire una musica priva di liriche?
Certo. Ho nel
cassetto varie composizioni solo musicali. Un giorno credo che mi arrogherò
l’ambizione di scrivere musica per film e colonne sonore. Riesco anche a
concepire liriche prive di musica. Mi piace concepire, ma solo se si considera
questo termine nell’ accezione musicale e non riproduttiva.
Cosa rappresenta per te la performance live?
Rappresenta il
culmine, il rapporto diretto con gli ascoltatori. C’è un palco, l’adrenalina, i
musicisti con cui hai passato ore ed ore in saletta. Ci sono anche quelli che
urlano più forte della tua voce mentre canti e magari seduto vicino uno che ti vorrebbe
ascoltare. Il pubblico è croce e delizia.
Che tipo di percorso hai pianificato per promuovere il tuo album?
Un percorso
telematico che trova le sue ragioni nella convinzione, che poi viene in pieno
confermata dalla realtà dei fatti, che il presente ed il futuro della
comunicazione risieda nella rete. Per il resto mi auguro di poter fare più live
possibili e di fare partire un progetto estivo riguardante un tour in
bicicletta. A Gennaio inizierò ad allenarmi duramente come non faccio da anni,
ma considerando che tutto sommato sono ancora abbastanza giovane posso farcela.
Dalle tue note
biografiche emerge il tuo status di polistrumentista, ma qual è lo strumento con cui riesci a comporre la maggior
parte delle tue canzoni?
La chitarra.
Sei anche scrittore e ti sei avvicinato al mondo della recitazione. Cosa pensi della fusione di più arti che si uniscono alla musica?
Credo che gli
esseri umani siano molto più attratti da ciò che vedono rispetto a ciò che
sentono, escluso i ciechi naturalmente. Non a caso molti ciechi sono stati
grandi musicisti. Una performance visuale avrà sempre la precedenza sull’
attenzione del pubblico e in quel caso la musica diventerà inesorabilmente
quanto ineluttabilmente d’appoggio. Le prime forme di musica sono nate come
accompagnamento a rappresentazioni teatrali nell’ antica Grecia. Non è cambiato
poi molto, tolto che la civiltà greca sia scomparsa, nonostante si possano
ravvisare ancora delle fortissime influenze nella società occidentale odierna
in termini di mentalità, che si scontra in maniera piuttosto netta con quella
di stampo orientale. Anche nella musica è così. Noi ci siamo fermati al
semitono mentre dalle parti dell’ india si sentono intervalli molto minori che
essendo abituati a dare un nome ad ogni cosa definiamo come “quarti di tono”. Meno
male che c’erano anche gli africani con il loro innato ritmo. E paradossalmente
bisogna ringraziare quei criminali che si sono macchiati dell’ infamia della
deportazione degli schiavi in America, altrimenti il blues non sarebbe mai
nato. O benedire i cannoni che hanno
distrutto Smirne portando all’involontaria quanto musicalmente preziosa nascita
del rembetiko. Questo non per creare uno scontro di mentalità o affermare che
una è meglio dell’ altra, ci mancherebbe. Anzi al contrario quando questi
diversi mondi si fondono parte la magia e come abbiamo potuto constatare
poc’anzi molte cose sono frutto della casualità. Per concludere questa mia
divagazione, spero non troppo inopportuna, credo che il cinema sia l’arte più
completa e di immediata presa sul pubblico proprio perché è la fusione di tutte
le arti.
Qual è il tuo rapporto con la tecnologia applicata al mondo dei suoni?
Buono. Il
prossimo disco, se avrò la fortuna di farlo, subirà una svolta decisa verso
l’elettronica. Coniugare tradizione e innovazione è sempre stato il giusto
viatico per l’originalità o per lo meno per un degno tentativo di raggiungerla.
Purtroppo vorrei avere più conoscenze tecniche a riguardo ma non ho un rapporto
buono con la matematica ed i numeri in generale.
Un pò di storia…
Enrico Botti
nasce come chitarrista classico. Nel corso della sua formazione suona in diversi
gruppi e affronta diversi generi musicali. Ha cosi l’occasione di esibirsi su
palchi grandi e piccoli, dalla strada ai teatri, dai club alle piazze. Allarga
le sue competenze musicali avvicinandosi al polistrumentismo. E’ autore di un
romanzo breve dal titolo “il malinteso” edito da edizioni glendora, dal quale
nasce uno spettacolo teatrale sperimentale, concepito con la collaborazione di
Nicolas J. Roncea. Grazie a questo show si avvicina al mondo della recitazione
e della musica elettronica.