Pochi giorni fa ho commentato il libro “Prati di lucciole per sempre” di Luciano Boero, cofondatore della Locanda delle Fate, bassista, autore e molto altro:
Nel corso della mia esposizione mi sono soffermato su di un brano in particolare, La Fine, che ho assunto come significativo dell’intera storia, il racconto di una parte cospicua di vita, con la parabola che disegna il nostro passaggio sulla terra.
La canzone fa parte del secondo
album del gruppo, Homo Omini Lupus”, rilasciato al limite del nuovo secolo, un disco meno “storico”
rispetto a “Forse le lucciole non si
amano più”, ma nato in un periodo lontano dai fasti del prog dei seventies.
A me piace moltissimo.
Ciò che mi ha maggiormente colpito
della canzone è la forza del messaggio che, grazie alle variazioni di atmosfera
che fanno lievitare lo stato di tristezza e riflessione conseguente, assume un
peso enorme, riportandoci alla caducità della nostra esistenza, che andrebbe
vissuta con atteggiamento diverso.
Chi meglio dell’autore potrebbe
spiegare come tutto è nato?
Ho estrapolato la sezione in cui Luciano Boero racconta nascita
e sviluppo de La Fine. L’“Ezio” più volte citato è Ezio Vevey, talentuoso chitarrista della band per buona parte della
vita del gruppo.
“La Fine è un brano di
Ezio, mio il testo. Quando Ezio me lo fece sentire, canticchiandolo in finto
inglese come al solito, fui subito colpito dalla maestosità di quella strofa,
che scorreva fluida e greve come se stesse declamando un epitaffio. Influssi
crimsoniani? Può essere…
Io non mi trovavo nei momenti
migliori della mia vita. Purtroppo mi avevano diagnosticato qualcosa di poco
piacevole; ogni tanto ci pensavo e mi buttavo un po’ giù. Scrissi:
Guarda ad occhi chiusi quando hai voglia di vedere
Ma non scordarti di dimenticare
Che fuori dalle luci di questa galleria
La notte ad occhi chiusi non è buia…
In questa frase c’è un gioco di
parole che ne cripta il significato, ma al lettore attento non sarà sfuggita l’amara
constatazione che dopo di noi ci sarà il nulla.
L’allegoria della galleria mi
venne una notte mentre, in macchina con degli amici, rientravamo ad Alba dopo
una cena consumata in un ristorantino tipico del porto di Savona. Ero seduto
dietro, tutti dormicchiavano (meno l’autista evidentemente); io pensavo ai miei
guai e, ogni qualvolta l’auto si infilava in un tunnel della Torino-Savona,
pensavo al parallelismo tra le difficoltà della vita e le gallerie, immaginando
che prima o poi tutti incontriamo quella “cattiva”, senza più uscita all’altra
estremità.
Per la cronaca, fui poi sottoposto
a intervento chirurgico. La cosa si risolse per il meglio, ma la constatazione
della labilità dell’esistenza umana contribuì non poco a farmi maturare e
migliorare caratterialmente, facendomi apprezzare anche le piccole cose che
prima davo per scontate.
Strutturalmente parlando, La
Fine ha una serie di ritornelli molto arditi, sia dal punto di vista
ritmico sia da quello armonico: ardite variazioni di tempo (con molte battute
in 7/4) e continue modulazioni, rendendo pressoché imprevedibile la linea
melodica. Solo la mente di Ezio poteva partorire un tale “trip” musicale.
Per quanto riguarda il testo, su
tali ritornelli mi limitai a giocherellare con le parole. E’ come se avessi
scritto le parole “tempo”, “fuori tempo”, “maltempo”, “vento”, “controvento” su
dei bigliettini e poi li avessi disposti a caso sul tavolo, cercando di
inanellare sequenze più o meno logiche... tutto cominciò la sera in cui Ezio arrivò con un foglietto..."