“21 GRAMMI DI SOLITUDINE”
è un libro di poesie proposto da Gianni Venturi,
di mestiere e per diletto “artista”. Che è qualcosa di più… qualcosa di diverso
dal concetto di specialista in un singolo “ramo”.
Ho conosciuto Venturi in ambito musicale, e con lui mi sono
sempre relazionato in quel settore, ma catalogare i suoi talenti sarebbe come
ingabbiarlo, porgli dei paletti rigidi e solide catene. Situazione inadeguata
al personaggio.
Le sue note bibliografiche riconducono ad una famiglia
bolognese in cui nacque al tramonto degli anni Cinquanta, padre fisarmonicista,
madre di origine gitana, entrambi ballerini di tango. La poesia lo colpisce da
giovincello e non lo abbandonerà più, tra pubblicazioni personali, performance
e organizzazioni di eventi.
Arriva anche la musica, che permette di sperimentare, di
unire suoni a liriche, di completare un percorso e soddisfare necessità
primarie.
Il libro “21 grammi…” rilasciato ad agosto rappresenta
il penultimo atto (dell’ultimo parlerò a breve) di un percorso molto lungo e
vario, costituito da produzioni poetiche e musicali.
Ma sono certo che qualcosa di altrettanto interessante
nascerebbe se Venturi si trovasse al cospetto di una tela vuota o con materiale
plasmabile tra le dita.
Arrivo all’oggetto del commento, con una premessa: l’ermeticità,
il celarsi dietro alle parole, il modus criptico sono parte dell’espressione
poetica - musicata o meno - e il mero lettore, accanto alla prova di decodificazione
mette in atto quasi sempre un processo di immedesimazione/comparazione,
trovando similitudini e congruenze, oppure valutazioni opposte; ma se l’acquisizione
delle parole lette sarà attiva, nascerà una sorta di interattività che renderà
la creazione una multiproprietà, e a quel punto il significato voluto dall’autore
potrà cambiare ad ogni passaggio di mano.
“un sentimento semplice dire per
sempre
e credere veramente
che sei consapevole che per sempre è
il tempo
di un respiro tra bacio e bacio
questa è la sera delle lucciole che
danzano
sul filo dei ricordi piccole schegge
di luce
quello che eravamo bimbi sognanti
che saltavano i fossi cosparsi di
viole
l’amore non è mai fuori tempo un
bacio non
[invecchia
le labbra eternamente morbide
Succhiano amore ad ogni età
mi guardo allo specchio sognante so
chi sono
l’uomo che vive al ritmo del cuore
seppure anni scavano la pelle
implacabili e definitivi
gli atomi che compongono questo corpo
sono eterni
è tempo di condividere l’assenza
tempo di estrema partenza
c’è un ponte di nebbia che separa le
strade
poco battute che conducono ovunque
partecipare condividere aggregare
mi sento la pietra lapidaria
non angolare nel muto dialogare
fuori tempo l’estremo abbandono.”
Queste strofe sono quelle che
concludono la prima parte del book, diviso in due sezioni, intitolata “La
memoria delle valli”.
L’ho presentata esattamente come ha
fatto Venturi, con la sua concezione di anarchia grammaticale, senza la minima
punteggiatura, una sola lettera maiuscola usata per iniziare i due capitoli, un
corsivo personalizzato, parantesi (quadre) che non trovano fermatura e un utilizzo,
a tratti, di una forma dialettale che necessita decodificazione.
Ma non sono casuali i pensieri che ho
scelto: l’epilogo di un bilancio di vita caratterizzato da un percorso che vede
sullo sfondo la pianura padana, la serenità legata alla semplicità, la terra,
le feste di paese, i canti e i balli, l’alternarsi felice - e rapido - delle
stagioni, il lavoro continuo nelle mani e nella testa, il sole accecante
contrapposto alla rigidità invernale e alla presenza di una nebbia che offusca
le idee e al contempo protegge come solo un isolante sa fare.
E quando ci si trova davanti ad uno specchio incapace di mentire, mentre il giorno della partenza diventa un punto sempre più vicino, il ristoro giace nei ricordi e nella consapevolezza che la semina realizzata durante il percorso è avvenuta avendo coscienza del metodo e del merito.
Non c’è creazione per lo meno
Non c’è felice creazione
La creazione è dolore che esplode
La fine gesto creativo
La seconda sezione è un poema unico e
regala il titolo al volume.
“vecchi curvi avanzano dimenticati
come roccia che si sgretola
il tempo che scorre e racconta il
silenzio
sono nel traffico impetuoso
questa distonia dimentica il passato
spaventa il bimbo in corpo di vecchio
la parola è vuota
un groviglio disarticolato
di bollette insolute e conti da
pagare
c’è vento dalle colline”
Il bilancio entra nel vivo e sgorga
un marcato pessimismo, o almeno così si percepisce.
Disagio e consapevolezza di uscire sconfitti dalla contesa nata su di un sentiero che qualcuno ingannevolmente ha descritto inizialmente come passeggiata colorata di rosa e che, a questo punto del percorso ha assunto tinte fosche. L’ambientazione diventa distopica e l’umore un potente freno che inibisce la reazione. Solo la parola e la musica alleggeriranno un peso talmente grande da dover inventare una nuova unità di misura.
“La linea orizzontale ci spinge verso la materia, quella verticale verso lo spirito” è una citazione presa in prestito da Battiato che mi porta a sottolineare come alla fine di ogni dura revisione personale ci sia una forte e intima speranza, quella che induce tutti - credenti, laici e agnostici - a immaginare che esista una logica, uno scopo, una motivazione che possa rendere utile il nostro combattere quotidiano e che alla fine quei 21 grammi di anima, una volta lontani da un corpo divenuto inadeguato, trovino una giusta dimensione, difficile da immaginare, ma questo è parte del mistero della vita.
Un plauso a Gianni Venturi che,
mimetizzato nella sua assoluta libertà di espressione riesce a mettersi
completamente a nudo, contagiando il lettore e spingendolo ad un minimo di autoanalisi
che facilmente sfocia in attimi di amarezza e grigiore di pensiero, o più
semplicemente fornisce uno specchio e gli occhi per guardarlo senza filtri.