Pochissime righe fornite da RedZen per stabilirne la genesi. Nell’intervista a seguire risulterà più chiara la filosofia comune.
Il progetto RedZen nasce in Italia nel 2009, per opera di Roberto Leoni, Ettore Salati, Marco Schembri e Angelo Racz. L’obiettivo è quello di dedicarsi alla realizzazione di musica “progressiva strumentale”, di orientamento “fusion”.
I membri della band sono musicisti molto conosciuti nel mondo musicale”prog-fusion” e il loro “incontro” è arrivato dopo la condivisione di diversi progetti caratterizzati da concerti e distribuzioni in tutta Europa, Stati Uniti, Sud America e Giappone.
Dopo alcune Jam-sessions come trio, si è unito al gruppo il virtuoso tastierista Racz, ma successivamente è arrivata una defezione, quella di Schembri , poi sostituito da Nicola Della Pepa.
A questo punto la band era pronta, con una sola parola d’ordine:” Jam Like Hell!”.
“Void” è quindi un album prettamente strumentale, frutto di alcune ore di improvvisazione e quindi con largo utilizzo di “fantasia e sapienza” su un copione amato, quello del rock e del jazz. Questo è quanto ho dedotto dalle poche informazioni di base in mio possesso, ma è lontano da ciò che nell’immaginario collettivo si attribuisce al termine “jam”. L’ascolto dell’album infatti, mi ha posto davanti a qualcosa di omogeneo, studiato, e con una sorta di filo conduttore. La tecnologia fa miracoli, e spesso per dare un giudizio sicuro su una band occorre ascoltarla dal vivo ma, non avendo dubbi sulle qualità di musicisti dalle importanti credenziali, mi pare di poter dire che il lavoro “faticoso” di assemblaggio, di “taglia e cuci”, di costruzione della forma, abbia portato a una situazione conclusiva che forse potrebbe andare oltre le speranze normalmente legate ad un "disco primo".
Un gruppo di lavoro, musicale, sportivo, scolastico, prescinde spesso dalla qualità dei singoli, ovvero quattro “assi”messi assieme possono dare minor risultato di chi ha meno qualità ma crede nella collaborazione e nell’aiuto reciproco.
Tutto questo per dire che le mie idee del dopo ascolto sono diverse dalle aspettative indotte dalla lettura della presentazione. Poco importante la mia personale chiave di lettura, ognuno vive la musica in mille maniere differenti, e non credo esista “un modo migliore”, ma il feeling che ho provato dopo l’aver sentito attentamente “Void” mi ha lasciato un’immagine di compattezza che solitamente è caratteristica di band alla seconda o terza uscita discografica.
Anche la definizione di “progetto strumentale” si può in parte modificare, in quanto un “cantato” esiste, seppur piccolo, ma assai riuscito, e ascoltando “Alexa in the Cage”, quarta traccia dell’album, la parte vocale non sembra una forzatura e mi pare al contrario un aspetto gradevole, un sentiero secondo me da perseguire in futuro.
Le influenze sono dichiarate, e vanno dal prog dei mostri sacri ELP, Crimson e Genesis, al Jazz rock di Colosseum , Mahavishnu Orchestra e Weather Report.
Non si possono cancellare le tracce della nostra crescita, ma anche in questo caso (mi capita sempre più spesso parlando di musica dei nuovi gruppi) ho trovato elementi nuovi, senza sforzami particolarmente nel cercarli.
L’utilizzo di tastiere come Shynt e Mellotron sono più che indizi, essendo strumenti alla base di certa musica di inizio anni 70; basti pensare che alcuni “scienziati” del settore li indicano come elementi caratterizzanti della musica prog e che, senza tali innovazioni, la musica sarebbe stata …“altra musica”, comunque non progressiva.
Ciò che ho trovato “fresco” è l’utilizzo di tracce melodiche e atmosfere sognanti (questo è l’incancellabile DNA italiano)intersecate, intercalate a ritmi funk e jazz. La miscela che ne deriva colpisce all’impatto. “Into the Void”, che presento a seguire, credo sia buona esemplificazione del mio pensiero.
Accanto a strumenti nuovi e antichi, ma normalmente utilizzati, compaiono due “novità”... vintage, poco frequenti on stage: parlo del Dulcimer e del Sitar. Sonorità e provenienze molto diverse, con motivazioni, azzardo, lontane da chi in passato subiva una sorta di condizionamento provocato da scelte spirituali (vedi Harrison con Shankar). Forse “Return to Kolkata” è solo il frutto di un recente viaggio in India e magari il dulcimer è la conseguenza dell’amore per Joni Mitchell, fatto sta che l’inserimento di suoni poco comuni in un contesto già assimilato da anni di ascolti, contribuisce a rendere “Void” un “lavoro” solido, gradevole dal mio punto di vista e, mi ripeto, probabilmente più intenso di quanto si poteva forse prevedere in fase di progetto. Ritmo, melodia e ricerca dei suoni sposati al virtuosismo puro.
Non mi è chiaro se in qualche modo l’album possa essere anche concettuale, e nemmeno mi è venuto in mente di chiederlo, influenzato anche io dal quasi dogma “musica strumentale” (ma sono tanti gli artisti che realizzano un “concept” senza l’uso delle liriche).
Picture paradossale? No, la sensibilità umana, ancora più elevata se si ama la musica, può far si che anche la storia del mondo possa essere rappresentata attraverso un’ora di suoni, senza proferir parola.
Anche “Void”, magari inconsciamente, potrebbe essere un disco concettuale!
Tracklist:
-Cluster
-Hot Wine
-Slapdash Dance
-Alexa in the Cage(vocal version)
-Into The Void
-Who’s Bisex?
-Return to Kolkata
-Spin the Wheel
-Alexa in the Cage(instrumental version)
Line up
Angelo Racz: piano, organ, synths, keyboards
Ettore Salati: electric, acoustic, 12 string and double-neck guitars, sitar, bass pedals, dulcimer
Nicola Della Pepa: electric, acoustic and double basses
Roberto Leoni: drums and percussions
Hometown: Milano, Italy
Distribuzione:
http://www.maracash.com/store.htm
INTERVISTA
Nella realizzazione di questa piccola intervista mi sono posto il problema se scrivere in italiano o in inglese, perché tutto quello che ho trovato sulla band, espresso da voi, ha caratteristiche ben precise. L’utilizzo della sola lingua di Albione (e non la doppia lingua come quasi sempre accade) è il frutto di un’esigenza particolare o è solo il mezzo espressivo con cui vi trovate di più a vostro agio?
Roberto Leoni (batterista): visto il genere musicale che proponiamo, e che pensiamo sia più appetibile per un pubblico straniero, ci è venuto naturale l’uso della lingua di Albione… ovviamente sempre aperti a passare anche alla nostra madre lingua.
Ettore Salati (chitarrista): The RedZen è un progetto strumentale, la sua lingua sono le note, ma siamo in un mondo globalizzato, e … si parla inglese. Il nostro passato come musicisti è di respiro internazionale e vogliamo che anche i RedZen abbiano questo tipo di immagine… ma ci auguriamo di essere ben accetti a casa nostra!
Il vostro progetto è recentissimo, eppure ho letto di una modifica alla line up, fatto che si presta a più interpretazioni. Quanto è difficile, in linea generale, creare un gruppo di lavoro musicale che persegue un obiettivo impegnativo, il cui raggiungimento dipende, purtroppo, solo in parte dalle idee e dalle capacità dei musicisti?
RL: Moltissimo, soprattutto per la mancanza di “soldi”, che ci costringe ad avere sempre più progetti e lavori, nello stesso tempo. Il cambio di line-up è stato causato da un esaurimento di energie e stimoli, perché il dover creare qualcosa di nuovo dal nulla non è cosa da poco.
ES: … e comunque siamo tutti debitori a Marco per averci permesso di far partire il progetto. Una parte degli arrangiamenti è sua, è giusto ricordarlo e crediamo di aver riconosciuto il suo ottimo lavoro. Del resto, io Roby e Marco abbiamo suonato per anni dal vivo in mezzo mondo ed era naturale che ci ritrovassimo di nuovo a lavorare assieme. Ognuno di noi ha messo quello che ha a disposizione come musicista, il risultato è stato “Void”, che sono sicuro ben rispecchi le personalità di tutti.
Come vi trovate nell’attuale “gioco” del businnes musicale?
RL: Giochiamo, e quando il gioco si fa duro…
ES: Sì! Conosciamo fin troppo bene le dinamiche del business ma non abbiamo intenzione di lasciarci coinvolgere né di esserne schiacciati. Lavoriamo per avere un nostro posto, e siamo sicuri di riuscirci. In questo, una menzione speciale anche alla nostra etichetta,
Non amo inserire un artista in una casella di riconoscimento, benché sia innegabile che la collocazione in categorie faciliti la scelta di chi si avvicina al “nuovo”. Io amo il Progressive, anche se quando è nato non sapevamo si chiamasse così, ma il termine “prog” è qualcosa che sento appiccicato ad ogni tipo di musica complessa e fuori dagli schemi. Come si può definire la musica “progressive fusion”?
RL: Anch’io non amo etichettare i generi musicali, divido semplicemente la musica buona da quella meno buona. Purtroppo ci troviamo all’interno di un meccanismo secondo me sbagliato, quello di etichettare qualunque cosa.
ES: “Void” è un disco piuttosto crossover, direi… se vogliamo chiamarlo “progressive fusion” è semplicemente perché è intriso di jazz-rock. Come piace a noi, del resto.
Ho letto quale sia il “pozzo” da cui attingete, musicalmente parlando; mi riferisco a quelle influenze che ci portiamo dietro sin da quando iniziamo a sentire la prima musica e col tempo… progrediscono. Esiste un artista, una band che considerate come il riferimento principale, e su cui siete tutti in pieno accordo?
RL: Non penso si abbiano artisti o band di riferimento, noi si suona improvvisando, e quello che esce, se ci piace, viene poi rielaborato e definito… senza aver nessun riferimento.
ES: la nostra fonte principale d’ispirazione sono i RedZen! Comunque, a disco concluso e mente fredda, ho notato in “Void” un po’ di Return To Forever e di King Crimson.
Nella presentazione che ho letto, è sottolineata la vostra predisposizione alla “Jam”, all’improvvisazione. Personalmente ritengo sia un importante situazione “liberatoria”, ma suppongo per voi sia molto di più. In fase di performance live è anche, solitamente, motivo di apprezzamento e coinvolgimento. Pensate che anche su disco il risultato, in termini di gradimento, possa essere lo stesso?
RL: Noi proporremo un live molto vicino al disco; l’improvvisazione è molto bella, ma per alcuni aspetti è anche molto rischiosa. Il live nel nostro caso servirà per farci conoscere e promuovere il disco, quindi porteremo un prodotto molto più professionale che improvvisato, di conseguenza si discosterà poco da quello che sentite su “Void”.
ES: per me è anche l’altra faccia della medaglia: abbiamo lavorato perché “Void” sia un disco molto immediato, e io lo considero fresco come un album dal vivo! Per cui diciamo che queste considerazioni sono le varie sfaccettature di una medesima realtà.
Restiamo in tema “live”. Che tipo di relazione riuscite a stabilire con il vostro pubblico, durante i concerti?
RL: al momento non siamo ancora saliti su di un palco come RedZen; spero che l’accoglienza sarà più che positiva.
ES: posso dire che singolarmente, in altri progetti, a me e forse a tutti noi, ha sempre interessato il “tiro” live. Quello che vogliamo comunicare viene veicolato al meglio tramite le dinamiche giuste, e lavoriamo in questo senso. Il pubblico restituisce immediatamente il proprio feedback da questo punto di visto, e ascoltarlo è fondamentale. Quando ci si diverte tutti, sia i musicisti sul palco che il pubblico, ecco che l’obbiettivo è raggiunto!
Ho letto il nome di Ettore Salati nell’album “In The Sanctuary”, di Alex Carpani. La musica scevra dal business è qualcosa di puro, capace di arrivare laddove non arriva nessun’altra forma comunicativa. Esiste l’amicizia nel vostro “mondo”, o deve per forza prevalere la professionalità?
RL: Esiste, anche se spesso viene “tradita”, per raggiungere lo scopo; quando c’è business (non nel nostro caso) è difficile coniugare le due cose. Io ed Ettore ne sappiamo qualcosa.
ES: effettivamente non è facile coniugare le due cose, ma è possibile. Per quel che riguarda i RedZen, siamo tutti professionisti, lavoriamo nella musica, suoniamo dal vivo, dobbiamo anche valutare il lato professionale e purtroppo non sempre coincide con quello artistico. Ho suonato in “Sanctuary” e seguo Alex dal vivo sin dal 2006, e prima ho lavorato per sette anni con The Watch registrando due album in studio, uno dal vivo e facendo tour in tutta Europa e Nordamerica. Roby è membro fondatore degli stessi Watch, con cui ha registrato tre dischi in studio e uno live, e anche lui suonando in mezzo mondo, per ben nove anni. Angelo e Nick sono turnisti di rilievo nella scena italiana. Non siamo di certo di primo pelo e cerchiamo di mantenere lo standard professionale che abbiamo sempre avuto come singoli. Dall’altra parte, fortunatamente, l’aspetto umano e l’approccio democratico che soggiace al progetto The RedZen contribuisce molto ad unire professionalità e gratificazione creativa.
Ascoltando il vostro album ( per ora … volutamente sommariamente), mi sono arrivate alcune immagini di musicisti conosciuti. Quali sono i vostri punti di riferimento dal punto di vista della tecnica strumentale?
RL: Gavin Harrison, e ho detto tutto…
ES: Jeff Beck! Ma anche Hackett, Page, Hendrix, Fripp… diciamo i grandi chitarristi rock degli anni ’70.
Solita domanda finale. Quale strada vi piacerebbe percorre nei prossimi cinque anni?
RL & ES: Un paio di altri album in studio, tante partecipazioni nei vari festival internazionali e non… e un’evoluzione stilistica che rifletta man mano le nostre personalità, come è già stato per “Void”.