martedì 28 settembre 2010

I Beatles, un magnifico quintetto


Articolo inviatomi da Innocenzo Alfano
Solo George Martin poteva parlare di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, il capolavoro “tecnologico” dei Beatles, la Hippie Symphony n. 1 per usare una definizione dello stesso Martin, ed illustrarne la genesi e tutti i meccanismi compositivi. E Sir George – classe 1926 – lo ha fatto. I fan dei Beatles e gli appassionati di musica rock gliene saranno per sempre grati.
Il libro di George Martin è uscito in Italia alla fine del 2008 per i tipi della Coniglio, ottimamente tradotto dall’inglese da Paolo Somigli, direttore del mensile Chitarre. L’edizione inglese è però più vecchia di ben quindici anni, e ciò è molto strano. E’ molto strano cioè che un libro sui Beatles, scritto da uno che i Beatles li conosceva assai bene, e che anzi è stato sempre e giustamente definito come “il quinto beatle”, non abbia trovato nessuno in Italia disposto a tradurlo per tre lustri consecutivi. Ma forse, a ben vedere, una ragione c’è: la presenza, nel testo, di termini musicali (non molti, a dire il vero) e di tre esempi su pentagramma (alle pagine 29, 121 e 162), ragioni più che sufficienti a terrorizzare gli editori italiani che stampano libri sul pop e sul rock perché, come si sa, il pop ed il rock sono sì materie musicali, ma guai a parlarne in termini musicologici, la gente non capirebbe. Il problema, infatti, come ha giustamente sottolineato in un suo libro sul jazz edito una decina d’anni fa il giornalista e scrittore Franco Fayenz, è che gli italiani sono quasi tutti ciechi di fronte a un pentagramma, e questo gli editori lo sanno benissimo.
Il titolo del libro è in ogni caso Summer of Love. Più che ovvio: Martin infatti sa bene che un disco come Sgt. Pepper è in una certa misura debitore del clima spensierato e sperimentale vissuto dal mondo della musica rock nel 1967, l’anno di pubblicazione del 33 giri. Non dimentichiamolo, il 1967 è l’anno del “Flower Power” e degli stili di vita alternativi, a cui molti giovani guardano con curiosità e un interesse crescente. E la stragrande maggioranza dei musicisti rock erano all’epoca, per l’appunto, giovani, oltre che musicisti. Ma i Beatles, con il loro ottavo long playing, fanno qualcosa di più: influenzano a loro volta, prepotentemente, le mode musicali a venire.
Martin, dunque, illustra al lettore la strategia compositiva scelta e poi utilizzata per dare vita a questo notevole – «rivoluzionario ed unico» direbbe lui – lp dei Beatles. In effetti, come abbiamo anticipato in apertura, George Martin è l’unico che possa farlo con cognizione di causa, essendo egli, a differenza dei quattro componenti del gruppo, un valido musicista, un esperto conoscitore del mondo della cosiddetta musica colta ma, soprattutto, il produttore nonché consulente musicale dei Fab Four fin dal 1962. Quando perciò si dice che era “il quinto beatle” non lo si dice di certo a caso, o a sproposito. Era proprio così. E’ lo stesso George Martin a ricordarcelo quando sottolinea il ruolo da lui svolto nel processo di costruzione dei brani da inserire negli album della band o da pubblicare in versione 45 giri. Siamo nel capitolo 8, e Martin scrive: «Le mie personali specialità erano le introduzioni, le conclusioni, e gli assoli. Quando arrivavano da me con una canzone, mi mettevo a riflettere su come arrangiarla in modo che partisse nel modo migliore, avesse qualcosa di interessante nel mezzo, e finisse bene. In genere una canzone pop va costruita partendo da una strofa iniziale, che generalmente non è particolarmente lunga, poi c’è bisogno di un inciso, di un assolo di chitarra, di un’altra strofa che si ripete e di una conclusione. Una formula decisamente semplice, ma contavano su di me per realizzarla al meglio» (p. 96). Più chiaro di così…
Nel 1967 gli arrangiamenti delle canzoni dei Beatles diventano assai più sofisticati, come testimoniano brani simbolo – veri e propri classici della musica rock – quali Strawberry Fields Forever e A Day In The Life. Sofisticati e sperimentali, per usare un termine che ricorre spesso, e a ragion veduta, nel libro. Un processo, in verità, iniziato l’anno prima con il 33 giri Revolver e in particolare con il brano Tomorrow Never Knows, definito da Martin «una canzone strana, divertente da realizzare, all’interno di un album che dette il via a quel tipo di registrazioni sperimentali che avremmo usato per Pepper. […] Fu un happening di tape loop, inseriti mentre tutti noi muovevamo cursori in modo assolutamente casuale, e volenti o nolenti fu un evento irripetibile» (p. 99).
Il risultato delle sperimentazioni realizzate all’interno di uno studio di registrazione, però, se da un lato fu innovativo ed artisticamente affascinante, dall’altro precluse ai Beatles, se mai ne avessero avuto il desiderio, di suonare dal vivo le loro nuove composizioni. E questo vale per Tomorrow Never Knows così come per la maggior parte di Revolver e di (pressoché tutto) Sgt. Pepper. Martin ovviamente continua, anche in questa fase, a dare il proprio contributo creativo agli arrangiamenti delle canzoni di Lennon, McCartney e – più di rado – Harrison, sovente con l’ausilio di orchestrali da lui diretti e, quando necessario, suonando personalmente il pianoforte e altri strumenti a tastiera. E anzi, «siccome i Beatles avevano cominciato a farsi beffe di tutte le regole precedenti in fatto di musica pop, questo mi permise di essere totalmente libero di fare quello che più amavo: sperimentare, costruire immagini sonore, creare un’atmosfera particolare per una canzone, tutte cose che comunque avevo sempre desiderato fare. Il nostro fu un matrimonio molto felice. Non dovevo chiedere il permesso a nessuno: era una cosa meravigliosa quell’autonomia, quel potere. Finché ognuno di noi cinque era d’accordo, chiunque altro poteva pure andare al diavolo!» (pp. 100-101). Notare come Martin usi in modo del tutto naturale il “noi” e addirittura l’“io” quando si riferisce alla fase preparatoria e poi realizzativa delle composizioni dei Beatles. In questo senso non c’è dubbio che il produttore inglese si sentisse, in generale, parte integrante del progetto Fab Four, e, in qualche caso, persino come un elemento imprescindibile dello stesso. Quel «finché ognuno di noi cinque era d’accordo» vale a mio avviso più di centinaia di disquisizioni accademiche per comprendere la natura e, per così dire, la “messa in opera” della musica contenuta nei dischi dei Beatles, il più famoso… quintetto della storia del rock.

Nota Bene L’articolo è stato pubblicato su “Apollinea”, Rivista bimestrale del territorio del Parco Nazionale del Pollino, Anno XIV – n. 5 – settembre-ottobre 2010, pag. 19.