Propongo oggi un altro autorevole articolo di Innocenzo Alfano
Chi compone le musiche nei gruppi rock? La risposta sembra
più che scontata: basta leggere il nome della persona, o delle persone, scritto sotto i titoli dei brani sulla
copertina dei dischi; quello è il soggetto che ha composto la musica. Ovvio,
verrebbe da dire. Il guaio, tuttavia, è che nel rock le domande apparentemente
più banali nascondono spesso risvolti inaspettati. In alcune parti di “Effetto Pop”, libro pubblicato
alla fine del 2008,
mi ero
sforzato di spiegare, facendo degli esempi, che la composizione di un brano di
musica rock, escluse le liriche, è quasi sempre di natura collettiva. Detto in
altri termini, i versi sono scritti (di solito) da una persona sola,
generalmente dal cantante, la musica da tutto il gruppo. Eppure, nella
stragrande maggioranza dei casi autore e titolare di interi brani risulta,
contro ogni logica, uno solo dei componenti di una band composta da almeno tre
individui, che così, oltre a veder crescere il proprio prestigio artistico, si
accaparra pure tutti i diritti economici legati alla commercializzazione e
diffusione radiofonica di quegli stessi brani. Cerchiamo ora di svolgere
qualche ulteriore riflessione, sia pure sintetica, sull’argomento.
Partirei dal mio amico Marco Masoni, cantante e bassista dei
Germinale, un ottimo gruppo di rock progressivo costituitosi a Pisa all’inizio
degli anni ’90, il quale, nel corso di un incontro pubblico in cui veniva
presentato “Effetto Pop”, sostenne che
la composizione di un brano di musica rock possa essere circoscritta alla linea
melodica principale e agli accordi che la sostengono, e che tutto il resto non
sia altro che “arrangiamento”. Quello di Masoni, a ben vedere, è un punto di
vista assai diffuso tra chi si occupa di musica rock, ma a mio avviso
sbagliato. Infatti è un po’ come dire che la Quinta Sinfonia di Beethoven, o
perlomeno il suo movimento iniziale (“Allegro con brio”), coinciderebbe con le
sue prime due battute – quelle, per intenderci, che contengono
il memorabile inciso di tre crome e una minima –, mentre tutto il resto, visto che è
costruito attorno a quelle due battute, non sarebbe altro che “arrangiamento”.
Una teoria un po’ troppo semplicistica, devo dire. A mio giudizio il cosiddetto
arrangiamento è al contrario parte integrante, cioè strutturale, di un brano
pop o rock che dir si voglia, e anzi è quasi sempre la parte più complessa da
immaginare, definire in tutti i suoi dettagli ed infine suonare: tutti aspetti
che hanno a che fare, volenti o nolenti, con ciò che chiamiamo composizione, e
a cui tutti i componenti di un gruppo prendono parte.
La prassi di
attribuire la titolarità di un brano rock ad uno solo dei membri di un ensemble
era particolarmente comune negli anni ’60. In certi casi, però, i musicisti
erano più solidali tra loro e soprattutto rispettosi del lavoro altrui. Sul
retro di copertina del 33 giri “Arthur or the Decline and Fall of the British
Empire”, pubblicato nel 1969, gli inglesi The Kinks, un quartetto all’epoca
molto noto, inserirono due piccole avvertenze per informare gli acquirenti del
disco circa il metodo usato per la composizione dei 13 brani inclusi
nell’album. La prima diceva All songs written by Ray Davies,
la seconda Tracks arranged by
The Kinks. Il che è corretto, perché se è vero che i testi delle canzoni
furono scritti dal solo Ray Davies, è anche vero che gli stessi vennero poi
musicati da tutto il gruppo. La collegialità del lavoro di composizione veniva
in questo modo per così dire certificata.
I Beatles, come si
sa, avevano invece l’abitudine di indicare come autori dei loro brani, tranne
rarissime eccezioni, la coppia Lennon-McCartney, escludendo sia Harrison che
Starr e sia, soprattutto, il loro produttore
e supervisore musicale George Martin, che con i suoi consigli ed i suoi
numerosi arrangiamenti contribuì a rendere indimenticabili molte delle canzoni
del più famoso gruppo rock degli anni ’60. Giusto per avere un’idea
dell’importanza avuta da un personaggio come George Martin nell’evoluzione
artistica dei Beatles, e, per quel che ci riguarda più da vicino, nel processo
compositivo del quartetto inglese, una volta di lui John Lennon disse: «Aveva
davvero una grande conoscenza della musica e un’eccellente preparazione, perciò
ha saputo tradurre in pratica le nostre idee e suggerire tutta una serie di
soluzioni tecniche… Quando gli dicevamo che volevamo fare ‘Ooh-ooh’ e ‘Ee-ee’!,
lui ci diceva, ‘Oh, fantastico! Grande! Mettiamolo qui!’. È difficile dire chi
fece cosa… Ci ha insegnato molto e sono sicuro che noi abbiamo insegnato a lui
altrettanto, con le nostre conoscenze musicali così primitive» (cfr. La teoria del Sale e Pepe, di
George Martin, in «Alias», Supplemento settimanale de “il Manifesto”, n. 48, 6
dicembre 2008, p. 13).
In quel mare di
anomalie e contraddizioni che è il rock esistono persino album intestati ad un
musicista che però non figura come autore di nessuno dei brani, o temi, inclusi
nel long playing. Un caso paradigmatico in tal senso è quello del 33 giri
“Wired” di Jeff Beck (1976), dove neppure una delle otto composizioni del disco
risulta “scritta” dall’eccellente chitarrista inglese. Metà dell’album è
infatti attribuita al batterista Narada Michael Walden, mentre i restanti quattro
brani portano la firma di quattro autori diversi, e cioè Max Middleton, Jan
Hammer, Charlie Mingus (suo è il memorabile tema di Goodbye Pork Pie Hat, l’unica
cover presente nell’lp) e Wilbur Bascomb/Andi Clark. Per di più Jeff Beck,
oltre a figurare come solitario titolare dell’album, è anche l’unico dei
musicisti coinvolti nell’ottimo progetto discografico – uno dei migliori in
ambito jazz-rock di quegli anni – a comparire sulla copertina del 33 giri, sia
sul fronte che (quattro volte) sul retro.
All’estremo opposto
troviamo il caso assurdo di un
pezzo per chitarra acustica intitolato Horizons incluso dai Genesis nell’album
“Foxtrot” (1972) ma attribuito a tutta la formazione e non al solo Steve
Hackett, che lo compose – ispirandosi a J. S. Bach – e lo eseguì nel 33 giri in
perfetta solitudine. A proposito di Hackett vorrei sottolineare la risposta che
l’ex chitarrista dei Genesis ha dato nel corso di un’intervista a chi gli
chiedeva del suo passato con la celebre formazione inglese di rock progressivo:
«Sono molto orgoglioso del mio contributo alla musica dei Genesis. Eravamo
una grande band» (Cfr. Hackett
dai Genesis in poi: «Io come Frankenstein», in “La
Nazione ”, 12 marzo 2009, p. 31). La cosa più interessante in
questa dichiarazione è il fatto che Hackett usi il termine “contributo”, una
parola che, a mio parere, è proprio quella più adatta, forse più di
composizione, per comprendere il problema del “chi ha composto cosa” nei brani
di musica rock.