Nel mio lungo racconto legato alla venuta della "Prog Family" Osanna a Savona, uno degli elementi di spicco è senza dubbio Gianni Leone, tastierista, cantante e compositore mitico, a partire da inizio anni 7o.
Lo vidi nel luglio del 73( mi ha ricordato lui la data) al festival di Altare, e fu quella la sua unica apparizione nel savonese.
Talento? Ovviamente sì, ma anche enciclopedia musicale vivente.
Cercherò di sfruttare la valanga di materiale che mi ha inviato, perchè attraverso i suoi ricordi si ritorna "nella" storia della musica rock italiana e non, e le pillole di Leo diventano l'occasione per parlare del "mio mondo ideale".
Partiamo da una testimonianza che avevo letto da poco sul libro di Carmine Aymone.
OSANNA – Naples in the world
Storia di un rock che compie 30 anni
Di Carmine Aymone
La testimonianza di Gianni Leone
In quegli anni non esistevano ancora la “moda giovane”, la cultura dei giovani. Ci sentivamo degli esclusi, la società dei “grandi” ci considerava semplicemente individui in attesa di diventare adulti. In Italia, a Napoli, eravamo particolarmente penalizzati rispetto alle realtà che potevano offrire capitali europee come Londra o Amsterdam. Abbiamo dovuto conquistarci giorno dopo giorno una nostra identità artistica e umana con i denti e gli artigli. Non è stato facile. Acquistavamo i dischi non reperibili sul mercato italiano alla base Nato, dove suonavamo spesso con la formazione Città Frontale. Così scoprimmo gruppi come i Nice, con un giovane e straordinario Keith Emerson, Frank Zappa e the Mothers of Invention e tanti altri. Per noi si aprì un mondo nuovo e sconvolgente. Scoprimmo di avere nuove esigenze, ma poi ci guardavamo intorno e vedevamo una realtà che non ci corrispondeva. Strappavamo le tende di casa per trasformarle in camicie straordinariamente eccentriche che ci cuciva con grande maestria la madre di Lino Vairetti. Noi eravamo personaggi veri, credibili, ma soprattutto determinatissimi, nonostante le discriminazioni di una società che considerava noi “capelloni” -e bastava già che i capelli coprissero la parte alta del padiglione auricolare– elementi da disprezzare e deridere. Bisognava lottare continuamente per rimanere se stessi. Questo, però, ci ha forgiato per sempre. Oggi invece tutto è svilito a una sciocca e superficiale moda di massa: la moda della notte, della musica, dei locali, dello sballo, delle cosiddette trasgressioni… La droga è diventata un dramma sociale quando l’hanno fatta degenerare in una moda sciagurata per ragazzini qualunque. Le droghe –che restano in ogni caso “giocattoli” pericolosissimi- servono per spalancare certe porte della nostra psiche per disinibirci, per vedere cosa c’è dietro. Una volta capito il meccanismo, riusciamo ad aprirle, se vogliamo, anche con un semplice bicchier d’acqua e quelle chiavi non servono più. Chiuso. Io penso che almeno per un periodo bisogna praticare gli eccessi in tutti i campi della vita, come il sesso per esempio, per poi trovare un proprio SANO equilibrio in un punto non necessariamente coincidente con ciò che comunemente (secondo la visione DEGLI ”ALTRI”, cioè) viene definito come “bene” o “male”. La nostra libertà, noi, ce la siamo conquistata!
Ci incontravamo a Piazza Vanvitelli al Vomero (abitavamo quasi tutti in zona, io in via Bonito 21, poi tutta la mia famiglia si trasferì a Roma), davanti al bar Sangiuliano -che oggi non esiste più: sostituito da una stramaledetta banca, of course- che era diventato una piccola oasi artistica. Parlavamo di musica per notti intere. Sentivamo di avere un potenziale immenso, sapevamo che di lì a poco avremmo perlomeno tentato di cambiare qualcosa in un panorama musicale, come quello partenopeo, estremamente difficile e duro da scalfire. Eravamo schiacciati dalla melodia napoletana, un macigno sul nostro bagaglio culturale, e solo alcuni di noi hanno poi saputo o voluto prendere elementi della tradizione e riportarli nella propria musica. Ce la mettevamo tutta per sfondare quell’odiata prigione fatta di canzonette imperanti e melodie all’italiana infarcite di cuore-amore, quella triste e deprimente realtà in cui perfino i cantanti “per i giovani” avevano spesso un aspetto così insulso e una presenza scenica così ingessata e imbranata da renderli simili a bambinetti dello Zecchino d’Oro, oppure a dei seminaristi o a delle educande al saggio scolastico di fine anno. In quel momento volevamo andare contro tutto ciò ed era molto faticoso inventarci una nostra identità artistica e umana. I dischi li cercavamo, le stoffe le procuravamo, i vestiti ce li cucivamo noi. Invece oggi, specialmente in Italia, tutto è alla portata di chiunque, ma in forma di moda cretina e conformista, svuotata dei contenuti originali: capita per esempio di vedere liceali ricoperti –LORO MALGRADO- di trucidi tatuaggi, con nasi, capezzoli e prepuzi forati, coi capelli color fucsia, che ignorano perfino cosa sia stato il fenomeno Punk; o giovani gommisti e garzoni di salumeria travestiti da perfetti freaks anni ’70, con vestiti e accessori che oggi si trovano tranquillamente e inoffensivamente anche ai grandi magazzini. E questo in fin dei conti lo possono fare grazie a noi. La vera trasgressione –oggi- sarebbe riuscire ad essere originali e credibili.
In città ero considerato un bravissimo tastierista, anche perché avevo delle basi classiche. La tastiera è uno strumento complesso, va studiato, rispettato. Sono un purista e pretendo perciò che la mano, quando si suona il piano o l’organo, rispetti la diteggiatura ideale e sia sempre esteticamente bella. E poi ero il più giovane di tutti: un bambinetto che dietro il suo Farfisa, cercava di emulare Keith Emerson o Brian Auger, “mostri” di bravura tecnica e interpretativa tuttora insuperabili. Poi iniziai a comprare libri noiosissimi come “Tecnica del Contrappunto” di Arnold Schoenberg. Tentai di non diventare uno dei soliti tastieristi italiani che scimmiottavano Emerson o Auger. Cercai di sviluppare uno stile mio. Sono stato tra i primi a Napoli a possedere l’Hammond.
Conobbi Lino Vairetti nella funicolare Centrale di piazza Fuga. Di lì a poco ci ritrovammo a suonare nello stesso gruppo, i Volti di Pietra. Facevamo cover dei Kinks, Spencer Davis Group, Procol Harum, Doors, John Mayall, Family, poi con l’ingresso di Lello Brandi al posto di Enzo Petrone e Danilo Rustici che sostituì Peppe Sanniola, cambiammo il nome in Città Frontale. Ricordo un periodo di grande entusiasmo e attività, andavamo a suonare o alle prove in cinque più gli strumenti incastrati in una Cinquecento. Incredibile! Lino e Danilo iniziarono a comporre, mentre io non ero ancora interessato alla composizione. Molti dei brani che suonavamo allora, più tardi apparvero sul primo album degli Osanna, “L’Uomo”. Ma io volevo sperimentare un diverso tipo di musica, più contorta dal punto di vista melodico, quasi vicina alla atonalità, e realizzai che questa mia idea non sarebbe stata in linea con lo stile di Città Frontale. Una notte trovai sotto casa il chitarrista del Balletto di Bronzo, Lino Ajello, che mi aspettava. Parlammo entusiasticamente per ore ed ore, trovandoci perfettamente in sintonia. A seguito di quell’incontro, entrai subito a far parte del gruppo. Così cominciò la mia avventura col Balletto di Bronzo. Intanto, Elio D’Anna si unì a Città Frontale. Si pensò di cambiare nome al gruppo. Nacquero, così, gli Osanna.
Gianni Leone
(2001)
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