giovedì 6 giugno 2013

Sloe Gin- A Matter Of Time


Gianni Sapia ci racconta A Matter Of Time, degli Sloe Gin…

Mi ci tuffo dentro. Anzi no. Meglio. Lascio che mi coli addosso. Parte dalla testa, poi va sulla faccia, il collo, le spalle, il busto, il pube e le gambe e giù fino ai piedi. La sonora colata oleosa mi permea dalla realtà e mi introduce in un mondo terrifico ed affascinante che, fino ad ora, avevo conosciuto solo attraverso esperienze altrui. All’improvviso un rumore proveniente dall’altra stanza spacca il silenzio che si è creato al di fuori del mio viscoso impermeabile sonoro. Il cuore sobbalza. Non voglio ancora chiamarla paura, per ora mi limito a irrequietezza. Devo alzarmi e andare a controllare però, perché l’ansia si nutre della mia agitazione e non voglio che progredisca fino alla paura. Non sarà niente penso. E infatti non è niente. Solo Tom, il mio gatto, che dà la caccia a una mosca e nel frattempo fa strage di suppellettili. Cito da Wikipedia: ”Il rilascio di adrenalina è stimolato da forti emozioni, in particolare la paura, e in generale in quelle situazioni dove sia prevedibile la necessità di una fuga, un combattimento o comunque un'aumentata attività fisica”. Suspense nella mia vita dovuta all’adrenalina prodotta dall’ascolto di musica che, nella mia banalità, pensavo non si potesse fare. Ma poi metto su A Matter Of Time, degli Sloe Gin e scopro che si può. Pensavo non si potesse fare un disco in tre. Mi spiego. So bene che si può, ma di solito i tre sono chitarra, basso e batteria o almeno tastiera, basso e batteria e uno dei tre canta, invece loro sono voce, basso e batteria, ovvero, nell’ordine, Eugenio Mucci, Enio Nicolini e Giuseppe Miccoli, tre esperti musicisti con alle spalle esperienze metal e doom-metal con gruppi come The Black o Requiem, ispirati a loro volta da bands quali The Black Widow, Pentagram e dagli strepitosi Black Sabbath, che sfornano un album che di banale non ha niente, a cominciare dalla formazione. Ho cercato quindi di rendere l’atmosfera che si incontra ascoltando A Matter Of Time, il lavoro degli Sloe Gin, che sarà gotica, cupa, tenebrosa, sabbatica, proprio come il genere richiede e che stimolerà senz’altro il sistema nervoso simpatico degli appassionati, con la conseguente ed inevitabile produzione di adrenalina. Si comincia con Lord Of Snowflakes e già il basso di Nicolini spadroneggia e sono colpi pesanti e frenetici, che accompagnano una voce profonda e dilaniata. E questa voce che sembra arrivare da profondità abissali senza però perdere personalità, la ritroviamo nel secondo brano, My Dog Is Beautiful, dove il basso resta sì ossessivo, ma assume toni maggiormente psichedelici e inusuali. Un breve galoppare di batteria ci introduce a Spiritual Coma, pezzo di nebulosa atmosfera, permeato da una foschia sonora generata con sapienza dalla band, che non lascia intravedere orizzonti, fino al repentino stop finale. Giusta atmosfera dovuta ad un testo in cui è protagonista il disagio esistenziale dell’uomo. Le martellate iniziali di Dreams In A Jar annichiliscono con decisione ogni speranza di apertura a qualcosa di diverso che non sia duro e compatto come la testuggine romana, inespugnabile e che travolge tutto quanto incontri sul suo cammino. Potenza intestinale di voce e ritmo. E se in Jesus Christ Superstar Pilato sogna di incontrare un Galileo, nel brano seguente, Islero sogna di incontrare Manolete e da inizio alla triste storia che li vide protagonisti il 28 agosto 1947. Una storia di sangue e morte ben resa dalle paranoiche sonorità del brano, che avvolgono come un sudario l’incedere mortifero di una vicenda senza lieto fine, sia che si guardi dal punto di vista del toro, sia da quello del torero, sia che si ascolti il punto di vista degli Sloe Gin. Con The Fugitive il concetto principale diventa la necessità di vivere dignitosamente, tipo “I chose to stand up, fight and die/instead of living a life on my knees” e la voglia di libertà espressa dal testo viene resa altrettanto bene con riff senza schemi apparenti e con le usuali unghiate della parte vocale. La preghiera di Don’t Be Afraid Of The Dark invita il figlio a non abbandonare i propri sogni, anzi, lo esorta a far di essi una specie di guida nelle scelte della vita e la musica non fa altro che enfatizzare questo aspetto quasi liturgico, con litanie basse e lente e cantilene ed urla che si perdono in echi lontani. Bring On The Lion è solo una molla psichedelica carica, pronta ad esplodere la sua potenza, niente di più. Il sinistro di Gigi Riva pronto a calciare. L’asta che si piega sotto il peso di Serhij Bubka. Il maglio perforante di Goldrake. Abbastanza quindi. La narrazione di Clouds Floating In A Blue Sky ci riporta a camminare su sentieri di sperimentazione doom, che i ragazzi hanno dimostrato per tutto l’album di saper affrontare con cognizione di causa e le nebbie di palude da Signore degli Anelli balzano chiare agli occhi. Echi di basso pinkfoydiani alla One Of These Days riecheggiano nel penultimo brano, Decline And Fall Of Progress And Illusions, forse il pezzo più orecchiabile dell’album, dove l’intreccio di basso e batteria tessono la tela su cui la voce di Eugenio Mucci stenderà i propri colori, regalandoci l’ultimo dipinto della sua voce graffiante e psichedelica. Ultimo sì, perché il brano di chiusura dell’album, Digital Space Wave, è un commiato strumentale, in cui Enio Nicolini e Giuseppe Miccoli si abbandonano a ritmiche visionarie ed ossessive, quasi fossero stregoni di un’antica tribù africana. L’album regge, insomma, e regge bene. Gli appassionati del genere non resteranno delusi. E anche chi, come me, è un astemio del genere, un bicchiere di Sloe Gin non può che far bene! Salute!