domenica 28 marzo 2021

The Who e Gli Uragani uniti da una canzone

I Can't Explain é il primo singolo dei The Who, pubblicato nel 1964 negli Stati Uniti e nel 1965 in Gran Bretagna. 

Il brano occupa la posizione n. 372 nella classifica delle 500 migliori canzoni di tutti i tempi stilata dalla rivista Rolling Stone. 

Fu il primo singolo pubblicato dal gruppo con il nuovo nome, "The Who", dopo che avevano pubblicato il loro precedente singolo d'esordio, I'm the Face/Zoot Suit, come "The High Numbers".


La cover italiana di "I can’t Explain" fu proposta da Gli Uragani nel 1966 e prese il nome di “Con quella voce”.

Ma chi furono… chi sono Gli Uragani?

Inseriti a pieno diritto a metà degli anni '60 nei dieci migliori gruppi italiani, Gli Uragani, gruppo veneto formatosi a Mestre, a differenza di altri complessi che coniugarono con abilità le nuove tendenze musicali dell'oltremanica con le più tipiche melodie italiane, abbracciarono in pieno e senza compromessi il tipico sound anglosassone, espresso in primo luogo dagli Animals e dai Who, diventando l'espressione più genuina, nel nostro paese, della tipica musica beat.

Lo riconobbero anche "Gianni Boncompagni e Renzo Arbore", allora giovani programmisti RAI, che ospitarono nei loro programmi i dischi dei sei Uragani.

Ritornati sulla scena a metà degli anni '90, giusto trenta anni dopo il periodo migliore della loro carriera, hanno saputo riproporre in modo intatto e con la stessa qualità quel sound caratteristico, unico, tipico di un'epoca che ha innovato radicalmente la musica.

E oggi sono a ragione ritenuti tra i migliori interpreti italiani della musica dei famosi Sixties.

Tratto dal portale “Live Beat FromMestre”.




sabato 27 marzo 2021

Maelstrom/Post - “Katarsis”


Maelstrom/Post - “Katarsis” 


Non avevo notizie di Ferdinando Valsecchi dal 2014, anno in cui commentai il suo “L’essenziale per una storia”, arrivato alla fine di un momento per lui molto prolifico.

Scopro ora di un suo importante cambio di passo sul sentiero della vita, un insieme di avvenimenti che lo hanno portato a far maturare ogni nuova creazione, una semina nel lungo periodo in attesa di raccoglierne i frutti.



Il nome del suo progetto (Maelstrom) si è evoluto in “Maelstrom-Post”, dove il “post” assume un significato ben preciso che è lui stesso a spiegare nell’intervista a seguire, in cui definisce la sua musica “post-rock”.

Proviamo a sintetizzare il concetto, essendo un fondamento della proposta di Valsecchi:

L'espressione post-rock è indicativa di un genere musicale che utilizza una strumentazione rock tradizionale, ma in modo poco ortodosso rispetto alla condizione del rock stesso, attingendo più da altre tradizioni della musica d'avanguardia, come il jazz, la musica elettronica, il krautrock o simili.

Ma la peculiarità di Maelstrom-Post risiede nella costruzione dei brani, un modus unico che richiede piena sintonia tra i protagonisti creativi e una forte competenza nell’adattare liriche a trame sonore.

Qualunque sia l’abbinamento tra musica e parole, il risultato può rientrare a pieno titolo nella famiglia della “canzone”, sia essa impegnata o leggera, lunga o tradizionalmente corta.

Rimanendo sempre nell’ortodossia, sono due i modelli possibili: scrivere un testo e successivamente musicarlo o, viceversa, inventare un ritornello o “giro musicale” che ben si sposa al verbo e alla scrittura già esistenti.

Nel caso di Valsecchi, realizzatore delle musiche, ogni singolo brano segue una strada unica, complessa, inusuale, un’invenzione a sé, la cui destinazione è incerta nel momento della nascita.

A questo punto entra in gioco il poeta, l’amico Matteo Simonelli, autore dei testi, e le due strade, che sino quel momento avevano usato binari paralleli, trovano la convergenza e la fusione, opera non certo agevole, ma portatrice di grandi soddisfazioni.

Il loro nuovo atto prende il nome di “Katarsis”, titolo che rimanda immediatamente alla copertina, dove trova posto una piccola costruzione in legno circondata dalla neve, mentre lo sfondo propone una natura apparentemente perfetta, fatta di sabbia, mare, monti e cielo.

È questo l’ambiente giusto per la purificazione, quello in cui la musica può riuscire a pulire corpo e spirito da ogni contaminazione, luogo dove va in scena il processo di liberazione dai conflitti e dai traumi, sempre pronti a riemergere dalle ceneri: cercare conforto nella casetta o immergersi nell’ambiente circostante sarà la conseguenza di scelte precise, probabilmente dolorose.

Questo disagio emerge in ogni singolo episodio di “Katarsis” e un cantato misto a sussurri parlati mantiene per tutti i cinquanta minuti (divisi su otto tracce) la conduzione di una scena distopica e ipnotica, dove le tinte dark prevalgono e condizionano lo stato d’animo d’ascolto.

Non è un disco adatto a chi ricerca la leggerezza, perché “Katarsis” richiede concentrazione e predisposizione al lasciarsi coinvolgere cercando di capire e di entrare nell’intimo pensiero degli autori, e se si accetta di concepire la musica come elemento culturale, arte tra le arti, il lasciarsi avvolgere dai brani in successione potrà rappresentare un’esperienza unica: cinque anni di decantazione e maturazione richiedono assoluto rispetto!

Consiglio vivamente “Katarsis” di Maelstrom-Post, disponibile in digitale su tutte le piattaforme.

 


QUATTRO CHIACCHIERE CON FERDINANDO VALSECCHI

 

Il mio ultimo commento ad un tuo lavoro risale al 2014, appare necessario chiederti che cosa ti sia successo in questo lungo periodo, sia dal punto di vista musicale che da quello personale - senza entrare nel privato invalicabile -, essendo i due aspetti quasi sempre correlati.

Un sacco di cose! Nel 2015 mi sono trasferito a Edimburgo e ho fatto un Master in Sound Design all’Università di Edimburgo. 2015/2016 è stato un anno fantastico, ho avuto l’opportunità di scoprire nuove sonorità e sviluppare quelle che erano già mie. Ho lavorato come freelancer su alcuni corti e documentari, sia come Sound Designer che come Compositore, ma ho anche trovato un lavoro in un’azienda che mi permettesse di sostenermi. Piano piano, il lavoro mi ha fatto scoprire altre passioni, e ha contribuito al ritardo di sei anni sul rilascio dell’album!

Puoi sintetizzare la tua storia per chi non avesse ancora avuto l’occasione di avvicinarsi alla tua musica?

Sono un musicista fiorentino, autodidatta, che ha iniziato a suonare “tardi” - verso i 18 anni. Ho suonato metal nella scena indipendente fiorentina per poi far partire alcuni progetti personali, fra cui questo. Altri progetti rilasciati nel corso degli anni sono Northern Mass (viking metal), Ferdinando Valsecchi (cantautorato) e Maelstrom/Post (formalmente Maelstrom). Credo la mia musica abbia una vena malinconica sempre presente, anche nei pezzi più “felici” … siete avvertiti!

In questo progetto lavoro con il mio migliore amico, Matteo Simonelli: io scrivo musica e lui scrive poesie. Poi decidiamo quali canzoni rilasciare, con quali testi, e da lì comincia un lavoro che porta ad una nuova opera: l’unione dei nostri lavori diventa qualcosa di nuovo che rilasciamo sotto lo pseudonimo Maelstrom/Post.

Il nome del tuo progetto si è evoluto, diventando Maelstrom/Post: cosa c’è dietro al cambiamento?

Principalmente due cose: innanzi tutto il fatto che era passato tanto tempo dal nostro ultimo lavoro. Tuttavia, mi ha sempre colpito la definizione di “post-modernismo” di Chiurazzi: "indica[re] piuttosto un diverso modo di rapportarsi al moderno, che non è né di opposizione (antimoderno) né di superamento (ultramoderno)". Visto che la nostra musica è (a nostro avviso) “post-rock”, o vicina alle sonorità “post” in generale, Maelstrom/Post riassumeva bene tutti questi concetti.

Inoltre, avevamo scelto di rilasciarlo sulle diverse piattaforme online (Apple Music, Spotify etc.), e che quindi volevano distinguerci dalla marea di “Maelstrom” che già esistevano.

Il tuo nuovo album si intitola “KATARSIS”: a cosa fa riferimento tale denominazione?

Entrambi pensiamo che quest’album abbia proprietà catartiche, cosa che abbiamo provato sia nello scriverlo che nel riascoltarlo… speriamo sia lo stesso per i nostri ascoltatori!

Entriamo nel progetto e focalizziamoci sulla tua spinta creativa e sul messaggio che emerge dal tuo nuovo lavoro.

Gran parte delle canzoni sono state scritte nei primi due anni a Edimburgo. Quando mi sono trasferito, ho comprato una chitarra e un basso usati (in condizioni pessime!) e li ho utilizzati per registrare idee e motivi per canzoni. Solitamente, scrivo molto velocemente, e questa volta è stato uguale: la maggior parte delle melodie delle canzoni sono state scritte in una sola sessione, e ho passato i successivi tre anni a rifinirle, aggiungere altre linee complementari etc. Devo confessare di non averci lavorato spesso nei tre anni, ma invece ho lasciato maturare ogni volta che ho aggiunto elementi, per poi riesaminarli in seguito. È stato un percorso lunghissimo, molto più lungo di ogni altro album abbia mai scritto, ma ne è valsa decisamente la pena!

Anche le poesie di Matteo sono state scritte nel corso degli anni, dettate dalle sue esperienze, nelle quali mi ci sono rivisto quando le ha condivise con me. Il processo di accoppiare le poesie con le canzoni è stato molto naturale, più che negli anni passati. Penso che anche se distanti, avevamo avuto esperienze simili, il che ci ha riavvicinato ancora di più. Entrambi abbiamo usato i metodi che conosciamo per esprimerci: per lui la poesia, per me la musica. Questi per noi sono modi di incanalare le nostre emozioni, anche quelle più buie. Anche per questo abbiamo chiamato l’album “Katarsis”, è il prodotto del nostro personale processo di catarsi.

Della musica cosa mi dici? Cosa cambia rispetto al passato, almeno negli intenti?

Come già menzionato, il processo è cambiato. Tuttavia, il risultato penso che sia sempre simile. È curioso come un cambio di vita importante come quello che ho vissuto io abbia dato un risultato musicale che riporta a ciò che ho realizzato in passato.

Chi ha contribuito alla realizzazione di “KATARSIS”?

Matteo ha scritto i testi. Le batterie sono state fatte al computer (ho una coordinazione pessima!), produzione e post-produzione le ho fatte interamente io!

È qualcosa che potrebbe essere proposto in fase live?

Sarebbe bello, ma al momento non ci sono piani.

In che formato è stato rilasciato?

Solo digitale per ora, anche se stiamo pensando a qualcosa di fisico per accompagnarlo!

Come è possibile ascoltare/acquistare “KATARSIS”?

È disponibile in tutte le piattaforme online, dalle più famose alle più indie!



Tracklist:

1-Lacryma (7:51)

2-Sguardo (5:40)

3-Vita (8:02)

4-Memo (7:28)

5-Bisogno (6:07)

6-Pensiero (4:40)

7-Addio (4:33)

8-Solitudine (7:42)


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sabato 20 marzo 2021

Unimother 27-"Presente Incoerente"




"Presente Incoerente" è l’ultimo lavoro discografico di Unimother 27, progetto “one man band” che Piero Ranalli ha creato nel 2002, parallelamente alle sue attività musicali in team, una sorta di necessità vitale che lo porta ad esprimersi in modo prevalentemente autarchico.

In passato, ho ripetutamente parlato delle sue creazioni, molto particolari, originali, non per tutti, ma di estrema qualità, frutto del connubio tra amori musicali precisi e la reazione agli stimoli quotidiani, banale come concetto in sé, ma azione non sempre foriera di positività per l’ascoltatore curioso.

Nella lunga intervista a seguire, Ranalli ci racconta il suo mondo, il mood che lo ha portato a delineare il nuovo album e i dettagli del suo pensiero; lo stato d’animo che viene disegnato si avvolge ai singoli episodi, tutti strumentali, e il quadro prende forma e luce.

Esistono due possibilità per fruire di un album come “Presente Incoerente”.

La prima conduce alla ricerca della sintonia piena con l’autore, la necessità di comprensione attraverso la decodifica dei titoli e la ricerca dei significati che hanno stimolato la creatività specifica.

Esiste poi un’altra via, quella che porta a dimenticare volontariamente ogni tipo di informazione a favore dell’istintività e della reazione immediata allo stimolo musicale, una situazione in cui sarebbe vantaggioso e prolifico trovare il giusto ambiente d’ascolto, chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare, un viaggio nel tempo, nello spazio, dando un significato personale al singolo episodio.

Le indicazioni fornite da Ranalli - e il mio ruolo di “commentatore” - impongono la presentazione dei “fatti oggettivi”, quelli che si dipanano nel corso della nostra chiacchierata dove, le argomentazioni estremamente personali, a tratti intime, fanno emergere la tragicità dell’attuale situazione musicale, in particolare per una proposta come quella di Unimother 27, da considerarsi una nicchia all’interno della nicchia. E la drammaticità del contesto viene espressa con le seguenti due affermazioni:

“1) La mia musica non ha mai raggiunto una divulgazione tale da essere richiesta dal vivo;

2) È sempre più difficile trovare persone disposte a sacrificare il proprio tempo libero per organizzare una scaletta da eseguire, soprattutto se si tratta di creazioni proprie e sapendo che il rientro economico è incerto o nullo.”.

Otto tracce spalmate su 38 minuti propongono la miscela preferita da Ranalli - vero fil rouge tra il passato e il presente -, quella che impone il modello psichedelico legato alla rigidità di certi schemi kraut, soddisfacendo la necessità primaria di rock/blues, con una sintesi ideologica che invita al paradigma del prog, genere che calza a pennello per ogni composizione in cui emerge la libertà espressiva e lo sconfinamento tra le varie caselle dell’ortodossia.

La necessità di Ranalli di manifestare l’impotenza al cospetto di vincoli imposti - che portano spesso all’azione incoerente - trova soddisfazione nella sua reazione che sfocia nell’invenzione musicale, nella piena gratificazione che fugge dal concetto di razionalità a vantaggio di vibrazioni positive percepibili dall’animo virtuoso, quello che trae beneficio - forza e spinta verso la crescita - dall’assorbimento di trame musicali che non richiedono indagini approfondite, ma un mero “lasciarsi andare” privo di ogni genere di paletto intellettuale, il wall tipico di chi giudica la musica, certa musica, realizzando un modello divisivo e non aggregativo.

"Presente Incoerente" è un viaggio profondo nel mondo di Unimother 27, un itinerario di cui l’ascoltatore di passaggio può diventare protagonista, un percorso che prevede il sentirsi parte di un paesaggio distopico (a mio giudizio quello in cui stiamo vivendo) da cui ogni tanto si riesce ad emergere, un pool di gallerie autostradali al termine delle quali emerge una luce temporanea, il tutto vissuto come fatto ineluttabile.

Il dark vandergraafiano di “Sognando la vuota pienezza del tutto” si unisce alla ripetitività ritmica e alla sperimentazione controllata di “L'eterno duello tra pieno e vuoto”; modus psichedelico per “Abraxas...il Dio difficile da conoscere”; tratti ipnotici e profumo di Fripp per “Eros e l'Albero della vita”, mentre “L'incontro tra Phallos e Mater Coelestis” presenta una sorta di pop elettronico che si snoda su di un giro di basso che entra nelle viscere di chi è capace di captare certi particolari salienti; “L'anacoreta e la maledizione del suo sapere” fonde trame sonore dal sapore mediorientale con lancinanti urla di dolore provocate da dilatazioni strumentali, mentre “La solitaria settima luce” produce brividi spaziali, una sorta di immersione in una dimensione sconosciuta, una divagazione che si avverte quasi fisicamente; la terminale “Systema Munditotius” appare come una sorta di alba di un nuovo giorno, come un Hendrix che suona a Woodstock mentre il popolo scema, lasciando un testamento carico di contenuti, che occorre però saper leggere.

Ed è qui che la coscienza si risveglia e prende forma consistente.

Un progetto che rinfranca e che apre con impeto sentieri occupati in pianta stabile dalla mediocrità dei nostri giorni. Poco importa se non tutti possono comprendere, il percorso di semina rappresenta di per sé l’obiettivo da raggiungere.

Consigliato a tutti gli open mind della musica!

 


Quattro chiacchiere con Piero Ranalli


Sono passati un paio di anni dall’uscita di “CHRYSALIS”: che cosa ti è successo, musicalmente parlando, in questo periodo significativo?

La mia inclinazione naturale all’introspezione ha subito un inasprimento e di conseguenza un consolidamento, in parte causato da circostanze in ambito famigliare e in parte dal contesto che si è venuto a creare in seguito all’emergenza sanitaria che ha coinvolto tutto il pianeta. E questo ha avuto un influsso determinante sulla mia espressione musicale. Ad ogni modo gli umori che ho sviscerato in “Presente Incoerente” erano già silenziosamente in elaborazione dentro di me e le vicende che ho passato hanno avuto un effetto catartico e mi hanno, in un certo senso, incoraggiato nel farmele trasporre in musica.

Possiamo ricordare sinteticamente la tua storia e la tua esperienza formativa, per chi ancora non ti conoscesse?

Cercherò di essere sintetico. Ho iniziato a fare musica nel 1989 con mio fratello Marco Ranalli. La band si chiamava "City Sewer System", la musica che facevamo era una specie di garage rock psichedelico, uno stile simile a quello degli Stooges. Con questo progetto abbiamo registrato tre demo-tapes ed io suonavo il basso. Poi nel 1991 abbiamo iniziato a suonare come power-trio con “Insider”, avevamo uno stile definito Space-Doom dalla stampa dell’epoca ed anche in questo progetto suonavo il basso e abbiamo pubblicato sei album. Dal 2002 fino al 2007 sono stato il bassista degli Areknamés, una band di dark progressive alla “Van Der Graaf Generator” con la quale ho realizzato due album in studio ed uno dal vivo al “Burg Herzberg festival” in Germania. Sempre nel 2002, contemporaneamente all’esperienza Areknamés, iniziavo a gettare le basi per “Unimother 27”, il mio progetto personale, con il quale Il primo lavoro omonimo è stato pubblicato nell'aprile 2006, "Escape from the ephemeral mind" nel maggio 2007, "Grin" nel giugno 2008, "Frozen Information" nell'ottobre 2015, nel 2016 è uscito " Jammin 'from the network Vol. I-VII "(una raccolta postuma di brani improvvisati in studio), "Fiore Spietato" a febbraio 2017, "AcidoXodica" a febbraio 2018, "Chrysalis" a maggio 2019 ed infine "Presente Incoerente" nel febbraio 2021. Nei primi tre lavori suono tutti gli strumenti, da “Frozen Information” in poi mi accompagna Mr. Fist alla batteria e percussioni. Tutti interamente registrati e mixati nel mio laboratorio/etichetta “Pineal Gland”.

In quale ambito inseriresti la tua proposta o, se preferisci, come descriveresti la tua musica a chi, incuriosito, volesse avvicinarsi al tuo progetto?

Un calderone nel quale sono sempre presenti quattro elementi fondamentali: la musica acida psichedelica di fine anni ’60, il progressive, il blues e la musica cosmica anni ‘70 dei corrieri tedeschi, volgarmente chiamata Krautrock. Elementi, che ogni volta che mi trovo in prossimità di un nuovo lavoro, ribollono nel calderone e si combinano in maniera diversa, mantenendo però quella matrice comune in tutti gli album così da caratterizzare il mio stile musicale.

Il tuo ultimo album si intitola “Presente Incoerente”: mi spieghi il titolo?

“Presente Incoerente” rappresenta il mio io quotidiano, ordinario. Quello che ha a che fare con il contingente, con i concetti di spazio e di tempo. Un io limitato da tali vincoli e per questo motivo incoerente perché condizionato dalle loro pressioni estenuanti e destinato pertanto ad agire con incoerenza, ma che nel contempo è il riflesso, l’imitazione, la deformazione di un’informazione sempre accessibile, alla quale possiamo attingere, rappresentata da un ”Assente Coerente” che non ha vincoli di nessun tipo, che non esprime mai giudizi, impersonale, situato in un altrove a noi sconosciuto di cui riusciamo a percepirne la presenza solo in alcuni momenti ispirati. Ecco, questi scampoli di eternità, il mio io incoerente, li riesce a decodificare e quindi a percepire attraverso la musica, istanti di pura comunicazione simbolica trasposti in vibrazioni. Ho cercato di rendere visibile, ovviamente attraverso i brani che compongono l’album, l’”Assente Coerente” che è in me ed in ognuno di noi.

Trattasi di album strumentale e quindi risulta difficile decodificare il messaggio che ti ha portato ai momenti creativi, anche se i titoli dei brani sono di per sé indicativi: cosa c’è dietro a questo lavoro, oltre al condizionamento legato al drammatico momento contingente?

Una discesa negli Inferi, nelle profondità dell’inconscio, un album che si fa portavoce di un’essenza astratta nella quale sono incluse tutte le manifestazioni separate dell’io. Nel titolo del brano di apertura, “Sognando la vuota pienezza del tutto”, è racchiuso il proposito che si snoda lungo le tracce successive. Possiamo avvicinarci ad essa in sogno o attraverso un linguaggio archetipico o riconciliando concetti, che da un punto di vista ordinario, risultano discordanti, come ad esempio il vuoto ed il pieno, anche l’anacoreta è solo e maledetto nel suo sterile sapere. Ecco queste sono state le pulsioni che mi hanno poi condotto ai momenti creativi e a dare voce, attraverso il suono ed il rumore, a questi frammenti di lava incandescente. Il brano di chiusura, “Systema Munditotius”, è un tributo a C. G. Jung, che aveva così chiamato un mandala, disegnato da lui stesso, nel quale raffigurava gli opposti del microcosmo all’interno del mondo macrocosmico e delle sue contraddizioni.

Se non sbaglio sei al tuo ottavo disco e vorrei sapere come “Presente Incoerente” si lega al passato e che tipo di evoluzione ha avuto il tuo credo musicale.

Da un punto di vista musicale gli album contengono gli elementi di cui ho parlato in precedenza, solo combinati in modo diverso. Se ad un ascolto superficiale potrebbero sembrare diversi ad uno più analitico ed attento ci si accorge del loro denominatore comune, l’attitudine a miscelare queste componenti è sempre la stessa. Si, è vero l’espressione musicale è diversa, in alcuni prevale di più la consonanza in altri la dissonanza, ma questo dipende anche dall’umore del momento che è unico e irripetibile. “Presente Incoerente” si lega al passato anche da un punto di vista concettuale, cambiano solo la sintassi e la semantica che vengono utilizzate nel veicolare gli argomenti, ecco forse l’evoluzione andrebbe colta in questa capacità di ribadire lo stesso concetto senza essere mai ripetitivo. È come osservare lo stesso oggetto da angolazioni diverse, ciò permette di cogliere delle sfumature che prima era impossibile cogliere. In “Chrysalis”, ad esempio l’attenzione era focalizzata sulla trasformazione profonda che avviene nel momento in cui tutte le nostre energie si ritirano dal mondo esteriore per operare in quello interiore, e la metafora della crisalide è servita per rendere chiara l’idea, questo bozzolo in apparenza inerme che racchiude, invece, nel suo interno un lavorio di costruzione formidabile. Così come il nostro io mondano, in apparenza incoerente, è il riflesso di un mondo altrove nel quale coesistono pacificamente tutti gli opposti.

Lavori in proprio, fai tutto, o quasi, da solo: è una precisa scelta ideologica o una necessità?

Il progetto “Unimother 27” è nato nel 2003 solo per mie esigenze espressive. Avevo modo di realizzare nel mio studio (Pineal Gland Lab, che tuttora utilizzo) le mie idee. Non sentivo la necessità di includere all’interno altri musicisti perché suonavo con gli Areknamés, ed ero totalmente appagato da questa esperienza di gruppo. Ho portato avanti parallelamente i due impegni fino al 2007 senza alcun problema, con molta fluidità, anche perché, musicalmente parlando, viaggiavano su binari differenti. Quindi per rispondere alla domanda, non è stata una necessità quella di fare tutto da solo quanto un atto di volontà diretto a realizzare una visione che sentivo di non poter condividere con altre persone, perché estremamente intima. Poi quando è terminata l’esperienza di gruppo con gli Areknamés, il progetto aveva già un corpo ed un’anima, erano usciti già tre album e da quel momento in poi è andato avanti così con Mr Fist alla batteria e percussioni come elemento aggiuntivo. Ovvio il problema si pone nel momento in cui si crea l’esigenza di promuovere dal vivo il repertorio musicale, ma vedi questo non è mai successo per due motivi: 1) La mia musica non ha mai raggiunto una divulgazione tale da essere richiesta dal vivo; 2) È sempre più difficile trovare persone disposte a sacrificare il proprio tempo libero per organizzare una scaletta da eseguire, soprattutto se si tratta di creazioni proprie e sapendo che il rientro economico è incerto o nullo.

Mi parli dell’artwork e della copertina?

Da “Fiore Spietato” fino all’attuale “Presente Incoerente”, le copertine sono state disegnate ed elaborate graficamente da mia moglie, Bianca Carestia. Per “Fiore Spietato”, “AcidoXodica” e “Chrysalis” l’idea dell’artwork è nata in simbiosi con i dischi e di conseguenza con le tematiche trattate in essi. Per quest’ultimo lavoro la scelta è avvenuta diversamente, si tratta di un quadro realizzato in precedenza dove sono rappresentate delle visioni provenienti direttamente dalle profondità dell’inconscio, uno sguardo rivolto a delle creature primordiali che dimorano nelle nostre emozioni più viscerali che gli stimoli esterni plasmano donandogli forme e colori mutevoli e inaspettati.  Notando le affinità con il concetto dal quale ha preso vita il disco la scelta è stata naturale.

In quali formati è fruibile il disco e come si può fare per ascoltarlo/acquistarlo?

“Presente Incoerente” è fruibile solo in formato digitale ed è disponile per l’acquisto e l’ascolto solo su Bandcamp ed è incluso in formato PDF anche l’artwork. Non ho alcuna difficoltà nel dirti che ho optato per questa scelta solo per insufficienza di fondi altrimenti sarebbe uscito su CD come tutti gli altri miei lavori. Il mio sogno è sempre stato quello di realizzare dei vinili, ma la mia condizione economica, purtroppo, ha dirottato le preferenze verso realizzazioni meno onerose. Le mie sono autoproduzioni e non è sempre possibile mantenere uno standard.

Hai immaginato momenti di pubblicizzazione di “CHRYSALIS”, emergenza sanitaria permettendo?

Se intendi un tour promozionale, al riguardo posso dirti che non è mai stato contemplato, per cui l’emergenza sanitaria non mi ha intaccato assolutamente.





mercoledì 17 marzo 2021

Stefano Barotti - “Il grande temporale”

 


Stefano Barotti – Il Grande Temporale

Stanza Nascosta Records

già pubblicato su MAT2020 di febbraio 


Se è vero che etimologicamente parlando il “cantautore” è colui che propone personalmente i brani che crea, l’immagine dell’uomo solo sul palco con la sua chitarra è da tempo consolidata e riconduce agli anni in cui, tra le tante svolte, ci fu quella musicale che, tra le possibili direzioni, prese anche quella dell’impegno sociale e delle liriche “mica stupide”.

Non so se le nuove generazioni hanno chiaro tale ruolo, magari non è importante porsi il problema, ma sento sempre la necessità di dare una collocazione all’artista di cui parlo.

Sono entrato in contatto col mondo di Stefano Barotti nel 2014 quando ascoltai casualmente il suo secondo album (il primo è “Uomini in costruzione” - del 2003), “Gli Ospiti”, uscito sette anni prima, un disco che fa parte dei miei viaggi familiari e che, nel tempo, ha contagiato tutti, diventando un must quando si sale in auto e il programma prevede qualche ora di viaggio: impegno e leggerezza sonora, al contempo.

Nel 2015 arriva “Pensieri verticali” ed è di fresca uscita “Il grande temporale”, oggetto del mio commento.

Alcuni giorni fa, in uno dei tanti sondaggi/giochi sui social, qualcuno ha posto una domanda relativa al “cantautore preferito” e io, senza pensarci un attimo, ho cliccato su Barotti, un artista che riesce sempre a darmi grandi soddisfazioni: amo il colore della sua voce -inconfondibile e caratterizzante -, la delicatezza usata nell’affrontare temi giganteschi, la varietà della proposta sonora - tra elemento acustico, elettrico e divagazioni tra i generi -, il dosato ermetismo fatto di cose dette e subito nascoste - una coperta sonora usata con grande perizia e sensibilità -, quell’interminabile tocco malinconico in cui a volte piace crogiolarsi e che ti rimane dentro per tutto il giorno.

Il nuovo disco, distribuito da “La Stanza Nascosta Records”, ha queste caratteristiche di fondo, anche se Barotti indossa nuovi abiti, conseguenza di ovvi cambiamenti personali: chi meglio di un cantautore è in grado di trasferire frammenti di vita propria in musica!

Registrato tra l’Italia e gli Stati Uniti, “Il grande temporale” annovera un cast musicale d’eccezione che inserisco a fine articolo, estrapolato dalle parole dell’autore.

Nel press kit fornito dall’Ufficio Stampa è presente una descrizione minuziosa di ogni singolo brano, perfetta per demolire il cripticismo che si cela dietro ogni canzone degna di questo nome, un aiuto di cui anche io ho usufruito. Vediamo però dove mi conducono le sollecitazioni da ascolto.


Si apre con la title track, un biglietto da visita molto efficacie, il racconto di un amore impossibile, lacerante e totalizzante, l’annullamento della razionalità a favore del trasporto senza limiti.

Musicalmente molto coinvolgente, con una dicotomia precisa fornita dai cambi di ritmo e di atmosfera che, partendo dalla tranquillità acustica iniziale arriva allo stravolgimento dettato dal rock, con finali venature prog.

Ma quanto è vincente la trasposizione dell’amore sconvolgente con l’immagine del “grande temporale”!

Painter Loser” tratta un argomento attualissimo, acuitosi in questo anno appena terminato ma da sempre presente in un paese in cui la parola “cultura” è tra le più gettonate ma resta un termine che non trova un seguito pratico. E a quel punto, quando la musica - ma l’arte in genere - non paga, ci si deve inventare un mestiere che dia sostentamento, perché alla fine tutti tengono famiglia. Ogni mestiere ha una propria dignità, ma i talenti personali vanno incanalati e utilizzati nel modo corretto, senza dover ricorrere ad espedienti.

Musicalmente parlando un brano da potenziale rotazione radiofonica, anche se la base reggae non rientra nei miei gusti personali.

Spatola e spugna” parla di calcio, anche se per catturare i nomi che snocciola Barotti occorre avere una certa età e sapere che, di una grande Inter, posizionata tra fine anni ’70 e fine ’80, facevano parte personaggi come Beccalossi, Altobelli, Bordon, Bersellini e Prisco.

L’autore ci riporta a tempi che, anche calcisticamente parlando, non torneranno più e di cui si ha nostalgia, anni in cui le partite andavano tutte in scena alla domenica e alla stessa ora e le radioline ci tenevano aggiornati attraverso mitici speakers; i calciatori era uomini in cui potersi riconoscere e il denaro a loro collegato non era argomento presente nelle cronache quotidiane.

In questo contesto si inserisce la storia di Paolo, lavoratore precario, fidanzato con Silvia e tifoso dell’Inter, il cui sogno è quello di assistere a una finale di Coppa Campioni al Parco dei Principi, ma soprattutto di avere un lavoro sicuro.

Una ballad che si trasforma in tormentone positivo quando entra in scena il ritornello: “E allora spatola e malta… spatola e spugna…”.

Il quarto episodio ci permette di conoscere “Tra il cielo e il prato”: cosa è rimasto di noi, di quel bimbo che eravamo? Se lo incontrassimo per caso, che tipo di confronto sarebbe? Gli chiederemmo scusa pensando a quanto abbiamo deviato il percorso rispetto ai sogni e agli obiettivi di quei giorni lontani? I cambiamenti fanno parte di ogni vita, ma riuscire a trattenere frammenti di quel bimbo che eravamo appare oggi imperativo. 

Musica che ci riporta indietro nel tempo, tra melodia di immediato appeal e atmosfere seventies.

Aleppo” introduce il tema della guerra. Capitale culturale del mondo islamico, centro di interminabili e inutili battaglie, devastata da dolore e macerie.

In questo contesto viene descritta una storia commovente che vede protagonisti una madre e il proprio cucciolo che lei difende ad ogni passaggio aereo, trasformandosi da angelo a scudo, mentre la luna - spesso presente dei pensieri di Barotti - osserva ogni movimento e diventa simbolo di continuità. Mood melanconico e iter che non prevede grossi sobbalzi ritmici ma fornisce il senso della tragedia.

Stanotte ho fatto un sogno” è devastante, da ascoltare in compagnia se si vuole mantenere un certo contegno legato al pudore della lacrima spontanea.

Tutti, prima o poi, sono destinati a patire l’assenza di un affetto, ma spesso è una mancanza unicamente fisica che non impedisce al ricordo massacrante di riempire vuoti che restano comunque incolmabili, perché l’opera di sostituzione non genera mai totale appagamento.

Gli archi rappresentano il cesellamento della canzone, con una partecipazione che a posteriori diventa simbolica, quella di Roberto Ortolan, scomparso lo scorso aprile. Probabile sia questa l’ultima canzone registrata dal chitarrista.

Un blues lento è quello che introduce e conduce “Mi ha telefonato Tom Waits”, un omaggio al primo album del cantautore statunitense uscito nel 1973, Closing time”, evidentemente un lavoro cha ha saputo influenzare e toccare Barotti.

Una storia in cui l’autore segue il consiglio di Waits, quello di eliminare il DJ che corteggia la sua fidanzata.

Bellissima la ricerca della rima unendo la lingua italiana e quella inglese: “… e così ho sparato al dj, tre colpi nella notte di yesterday…”.

Emozionante la parte finale, molto “aperta” e corale, dove Barotti prende in prestito altre parole nobili, quelle di “Jealous guy”: “I began to lose control, I’m a jealous guy”.

Quando racconterò” è un’altra pillola molto intimistica, un’atmosfera nostalgica acuita dall’uso di sax e clarinetto, una parte significativa del viaggio descritto dall’autore.

Dice Barotti: “La canzone è nata a Berlino durante un viaggio senza data di ritorno. La partenza, il viaggio, una nuova pagina bianca dove scrivere giorni nuovi. Sentirsi cambiati spolverandosi gli occhi con nuove realtà visive. E poi la sensazione delle ali, del non tornare. Prendere le distanze dalle proprie impronte guardandole dall’alto, sentendosi quasi un alieno nella propria astronave. Mettere insieme i propri errori e farne un materasso per le notti a venire. L’idea che qualcuno ci stia aspettando, ma non è chiaro se quel qualcuno lo ritroveremo nel passato o nel futuro.”

Poesia nella poesia.

L’esclamazione “eiattattira” introduce “Enzo”, una dedica e al contempo una sottolineatura dell’importanza di un musicista come Enzo Jannacci, secondo Barotti il cantautore che ha lasciato un vuoto maggiore.

La 127 rossa di Jannacci diventa fonte di ispirazione all’interno di una canzone adatta al cabaret della Milano degli anni Sessanta, sonorità semplici ma cariche di significati e critica educata ma pesante alla musica che ci circonda: “Se ci fosse un dio delle canzoni spegnerebbe le luci, butterebbe i microfoni, certamente abbasserebbe i volumi…”.

Con “Marta” arriva la denuncia spinta e attuale: Barotti affronta il problema della violenza sulle donne. Un quadretto antico e irrisolto quello che viene descritto, particolarmente toccante quando la lirica si sposa alla musica e le bassezze umane e le storture culturali si amplificano a dismisura.

Alcune sfumature mi hanno riportato a trame acustiche del passato, invenzioni di Ian Anderson.

Chiude l’album “Tutto nuovo”, dedicata al figlio o meglio, al momento in cui l’autore apprese la notizia del forte cambiamento che da lì a poco lo avrebbe riguardato.

Privilegio dell’artista fissare per sempre certi momenti, tra i più importanti nella vita.

Ho apprezzato tantissimo il suo pensiero: “La sensazione è stata quella di essere finito dentro una specie di bolla, dove tutto si dilata e rallenta e perdi definitivamente il diritto al suicidio.”

Un modo importante per chiudere un lavoro così impegnativo, un “rappelle” per tutti quelli che non comprendono la responsabilità derivante dall’arrivo di una nuova vita, che porterà cambiamenti e rinunce, ma darà significato all’esistenza.

Un maestro, Stefano Barotti, la cui musica va tenuta nelle immediate vicinanze, pronta ad intervenire in tutte le circostanze della vita, da custodire nei rivoli quotidiani, negli anfratti più impensati, utilizzata per ricordare, riflettere, gioire e, senza dubbio, piangere.

E se il mondo fosse un po’ più equilibrato, se ci fossero più Jannacci in circolazione, le canzoni di Barotti riempirebbero gli spazi radiofonici, gli spettacoli televisivi e tutto ciò che produce visibilità. Non è questione di fama o di denaro, ma di arte, cultura, o più semplicemente di canzoni, quelle che possono farci rivivere tutta la gamma possibile dei sentimenti, diventando l’unità di misura del tempo che scorre.

L’ascolto di “Il grande temporale” mi ha riportato ad un periodo preciso della mia vita, quell’adolescenza in cui tutto avrebbe dovuto essere roseo, ma arrivava sempre la domenica sera e “Il commissario Maigret”, rigorosamente in bianco e nero, alimentava il mio disagio giovanile. Ma il lunedì era dietro l’angolo… fortunatamente!

Gli ospiti e le collaborazioni sono parte importantissima di questo progetto e sono sviscerati dall’autore stesso:

“Tra gli ospiti speciali (dagli Stati Uniti e non solo) -racconta il cantautore - Joe e Marc Pisapia, Jono Manson, Mark Clark e John Egenes.

Alla produzione artistica hanno partecipato Fabrizio Sisti (prezioso il suo contributo alle tastiere, al piano, ai sintetizzatori e all’organo Hammond), Alessio Bertelli, ingegnere del suono, e il batterista Vladimiro Carboni.

Mi piace ricordare anche Marco Giongrandi (chitarra elettrica e banjo), Max De Bernardi (chitarre) e Paolo Ercoli (dobro e mandolino).

Due le voci femminili, la bravissima Veronica Sbergia e l’esordiente Laura Bassani.

Gli arrangiamenti e la direzione degli archi sono stati curati da Roberto Martinelli.

Hanno preso parte al lavoro anche Roberto Ortolan (recentemente scomparso, N.d. R.), alla voce e alle chitarre, Nico Pistolesi (piano), Davide L’Abbate (chitarre) e Vittorio Alinari (sax soprano e clarinetto basso.) Le linee di basso sono di James Haggerty e Luca Silvestri; al contrabbasso Pietro Martinelli e l’amico Matteo Giannetti.”

  

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martedì 9 marzo 2021

June 1974-“Avventura”

Quando incontrai la prima volta la musica di Federico Romano era il 2012 e alla mia domanda atta a indagare la sua formazione musicale rispose così: “La musica mi accompagna da sempre, da quando piccolo ascoltavo seduto sul seggiolone mia madre suonare il pianoforte, poi l'amore per i gruppi pop, credo fossero i primi anni '80, e l'inizio di questo mio viaggio introspettivo fatto di parole e musica. Un viaggio mentale e la creazione del mio mondo immaginario dove potermi nascondere da tutto ciò che é reale e fa male.”

Il vero nome è celato da quello del progetto, June 1974, ovvero le coordinate anagrafiche di Romano (“Semplicemente il mese e l'anno in cui sono nato a simboleggiare che  la mia musica è nata con me”).

L’album che proponeva in quei giorni era “Soundscapes Of The Muse” e un paio di anni dopo commentai il suo "Atlantide".

Il nuovissimo disco si chiama “Avventura”, uscito per Visionaire Records su tutti gli stores digitali mondiali il 15 febbraio.

Trattasi di tredici tracce strumentali che si snodano su cinquantuno minuti di trame sonore in cui l’artista spazia tra i generi e attinge dal contenitore delle sue passioni, tra rock, classica, pop, elettronica e world.

La conoscenza della biografia di Romano e la proposta strumentale potrebbero condurre ad una sorta di ossimoro, perché da chi è noto come scrittore di poesie, racconti e romanzi ci si dovrebbe aspettare una “produzione” che non possa prescindere dalle liriche e invece ciò che “parla” è la musica, solo la musica, e se è vero che i titoli a seguire possono dare un’indicazione del sentimento che lega l’autore al singolo episodio, l’ascoltatore, seppur condizionato da tali citazioni, potrà reinterpretare a piacimento diventando “coproprietario” dell’essenza creativa, rinominando ogni traccia a seconda del feeling provato:

Avventura, Per Aspera Ad Astra, Madre, Tormentata Quiete, L'Invisibile, Libera-Mente, Utopia feat. Giacomo Guatteri (Luciferme), Deliverance, Walzer Of Innocence, Amore Lucifero, Kaamos, Finale, Utopia (Raw version).

È la perfetta colonna sonora di un film, di una vita, di un viaggio… un continuo lancio di messaggi che coinvolgono e avvolgono, e viene da chiedersi quale sia l’avventura vissuta o sognata da June 1974, quanto passato e quanto futuro coesistano nelle sue attuali creazioni, quanto abbia inciso il drammatico momento contingente e quanta speranza ci sia negli anfratti delle sue canzoni.

Ma senza porci troppe domande, ricordando che la razionalità non fa parte della connessione esistente tra suoni e loro gradimento, potremmo lasciarci andare, seguire l'istinto e godere del nuovo progetto, una colonna sonora perfetta per un film… per più film.

Per fornire un sample audio ho scelto “Utopia”, che presenta un ospite di prestigio, Giacomo Guatteri (chitarrista dei Luciferme).


Brano rappresentativo dell’intero album, propone atmosfere a tratti distopiche, ritmo tribale e sferzate chitarristiche che contribuiscono e realizzare un bridge atmosferico con la psichedelia di cinquant’anni fa, e improvvisamente lo spazio si accorcia, il tempo perde significato, perché diventerà la musica l’unità di misura dello scorrere delle nostre vite.

Bando al modus cerebrale… “Avventura” è un bel disco che si presta a differenti tipologie di ascolto, a ciascun fruitore della musica il compito/privilegio di trovare la propria; sarà importante soffermarsi e testare, la funzione “escape”, in questo caso, è da evitare!

Ultima annotazione per la magnifica copertina, il famoso quadro di Jozef Israëls "Children of the Sea", per gentile concessione del Rijksmuseum di Amsterdam.

 

https://www.facebook.com/fromano1974

https://june1974.bandcamp.com/

june1974music@gmail.com

 

Note biografiche sintetiche

June 1974 è il progetto musicale solista creato a fine 2009 da Federico Romano. La sua musica abbraccia diversi stili musicali dalla classica al rock, all'ambient, alla electro dance, al pop, al metal/rock per citarne alcuni, dipende dal mood della canzone. Finora ha pubblicato diversi album e tantissimi singoli tutti disponibili sul sito ufficiale della band e su tutti i digital stores tipo Apple, Amazon, Google ecc. Da segnalare la presenza in tante canzoni in qualità di ospiti di musicisti di band note e non nel panorama musicale mondiale. Assolutamente da non dimenticare anche la collaborazione con fotografi/modelle e artisti famosi e non per le copertine dei singoli e album.

 

 

 


domenica 7 marzo 2021

Townes Van Zandt


Nasceva il 7 marzo del 1944 Townes Van Zandt, cantautore statunitense, uomo schivo e malinconico, pur non avendo ottenuto clamorosa popolarità rimase sempre una figura di culto nella musica country statunitense e fu molto apprezzato dalla critica.
Certamente non un personaggio “minore”, essendo considerato da molti il miglior songwriter del mondo.
Un po' di cose che lo riguardano...


È una storia strana e anche piuttosto triste quella di Townes Van Zandt: per anni è stato uno dei songwriter più influenti della sua generazione, i suoi colleghi lo veneravano considerandolo un punto di riferimento (basti considerare la sua “Poncho & Lefty” divenuta poi un grande successo di Emmylou Harris e Willie Nelson) e di ispirazione mentre l’industria discografica lo ha sempre considerato una mezza figura, un personaggio poco vendibile.

Troppo schivo e modesto per recitare il ruolo di super star. Questo almeno fino al 1996/97 anno in cui Townes ha ceduto alla malattia abbandonando questo mondo (non si è mai ben capito se fosse successo il 31 dicembre o il primo gennaio).

Townes Van Zandt nasce a Fort Worth, Texas, nel 1944. Il padre, uomo d'affari nel settore degli oli lubrificanti, gira l'America per lavoro e la famiglia lo segue: Colorado, Montana, Minnesota, Illinois prima di tornare in Texas. Van Zandt si divide fra Houston e Austin.

Le prime apparizioni in pubblico risalgono alla metà degli anni '60, i club si chiamano Sand Mountain, Jester Lounge e Old Quarter dove spesso suona insieme al suo amico Guy Clark.

La scrittura folk, influenzata da Hank Williams, Lefty Frizzell (la più bella voce della storia della musica country) e dal bluesman texano Lightnin' Hopkins (del quale conserverà parecchi classici in repertorio) rispecchia il suo carattere schivo e riservato ma lascia spazio anche a visioni solari e positive.

Dal 1968 - anno di pubblicazione di “For The Sake Of The Song” - al 1973, registra sei dischi. Sarà l'unico periodo in cui inciderà regolarmente album di studio, certamente il più importante dal punto di vista musicale insieme al biennio 1977/1978.

Il suo talento si è orientato definitivamente verso una poetica malinconica, tratteggiata delicatamente su un tessuto sonoro che tinge di blues il country.

Illuminanti in questo senso “High, Low And Between” (1972) e “The Late Great Townes Van Zandt” (1973).

Townes Van Zandt è ormai considerato in Texas come il punto di riferimento di quella corrente di cantautori che comprende fra gli altri i vecchi amici Guy Clark e Jerry Jeff Walker, Willis Alan Ramsey e Ray Willie Hubbard.

Abita in mezzo ai boschi in una casa di legno da lui stesso ristrutturata ma la sua esistenza è segnata da continue crisi depressive che lo portano a tentativi di suicidio, dall'alcolismo e dall'uso di droghe.

Nel 1976 Emmylou Harris include “Poncho & Lefty” nell'album “Luxury Liner” (la stessa canzone nel 1983 sarà n. 1 delle classifiche country nell'interpretazione di Willie Nelson e Merle Haggard) ed il nome di Van Zandt inizia a girare con una certa insistenza anche fuori dai confini degli States senza tuttavia mai conoscere il successo commerciale.

Tre anni di inattività prima di tornare al lavoro per merito di John M. Lomax III, suo manager dal giugno del 1976, che gli restituisce fiducia e stimoli.

Townes Van Zandt si sposta a Nashville, firma per la Tomato Music Company, etichetta indipendente di NewYork, e nel luglio del 1977 realizza “Live At The Old Quarter”, doppio album completamente acustico registrato nell'estate del 1973.

Il disco è la somma delle sue esperienze artistiche ma soprattutto costituisce una sorta di 'manifesto' del canone di musica del Texas, che egli stesso ha delineato nel corso degli anni e che qui trova una compiuta sintesi. È il lavoro che lo consacrerà definitivamente come uno dei più grandi e rispettati folksinger della sua generazione. Sogni, visioni, dolci ballate, talking blues si alternano legati da un sottile sense of humor in un coinvolgente dialogo con il pubblico.

L'anno successivo Van Zandt rientra in sala per registrare il suo più bel disco di studio “Flyin' Shoes”.

L'ineccepibile lavoro degli strumentisti, scelti personalmente da Van Zandt, gli arrangiamenti delicati e fluidi, la voce evocativa e ispirata, regalano un suono carico di dolcezza e sensibilità che si distende in canzoni indimenticabili.

Bisognerà attendere nove anni prima di un nuovo disco.

Townes Van Zandt riappare nel 1987 con “At My Window”.

Durante gli anni '90 la sua discografia si arricchirà soprattutto di album live (non tutti imperdibili), segno inequivocabile del sopravvento dei demoni che lo hanno continuamente perseguitato, sulla sua vita interiore. Del resto, gli spettacoli dal vivo saranno in questi tempi la sua principale fonte di sostentamento economico.

Anche la timbrica vocale risente del momento oscuro ma tutto ciò non pregiudicherà la consistenza dell'ottimo “No Deeper Blues” (1994) suo ultimo lavoro di studio registrato in Irlanda con un gruppo di musicisti locali.

Van Zandt muore tragicamente d'infarto il primo giorno del 1997 nella sua casa di Mt. Juliet nel Tennessee (per uno strano caso lo stesso giorno, nel 1953, era scomparso uno dei suoi idoli, Hank Williams).

L'elenco degli interpreti delle sue canzoni ha nel frattempo coinvolto fra gli altri anche Hoyt Axton, Bobby Bare, Jimmie Dale Gilmore e Nancy Griffith.
Suoi discepoli possono essere considerati la stessa Griffith e Steve Earle che a proposito di Townes si è espresso in questi termini: "Townes Van Zandt is the best songwriter in the whole world and I'll stand on Bob Dylan's coffee table in my cowboy boots and say that".