L’album RED è
l'ultimo LP a nome "King Crimson"
uscito negli anni Settanta (esclusi raccolte e dischi live). Viene spesso
considerato dalla critica uno dei più grandi capolavori del rock progressivo.
Lunedì 1° luglio 1974 i King Crimson tengono il loro ultimo
concerto americano a Central Park. Giovedì 4 Robert Fripp rientra a Londra in
solitudine e il lunedì successivo il resto della band lo raggiunge agli Olympic
Studios per iniziare le registrazioni di “RED”.
L’atmosfera è quella di un gruppo di separati in casa, con
David Cross già licenziato all’unanimità eppur presente in “Providence”, e con
lo stesso Fripp che annuncia la lavorazione in corso e la volontà di sciogliere
la band.
Quest'ultima formazione dei King Crimson ha realizzato uno
dei loro lavori più belli, "Red", poco prima di cadere a pezzi. Dopo
cinque anni di musica sperimentale tra le più sorprendenti, dal loro
straordinario debutto nel 1969 in poi, lungo diversi cambi di linea, i King
Crimson morirono di morte improvvisa. In realtà, i King Crimson non sono mai
stati un vero gruppo, ma un continuo processo musicale creativo realizzato da
una delle menti musicali più brillanti, complesse e raffinate di sempre, Robert
Fripp.
Accaddero molte cose prima di arrivare a questa decisione.
Alla fine del 1972 al batterista degli Yes, Bill Bruford, fu
chiesto di unirsi a una nuova versione dei King Crimson, dopo che la prima
formazione aveva perso il suo spirito. In due anni, il nuovo quintetto dei King
Crimson si sviluppò molto rapidamente, e furono realizzati tre album, furono
suonati molti concerti e due membri, il percussionista Jamie Muir e il
violinista David Cross lasciarono il gruppo. Sebbene Cross abbia avuto un ruolo
nella creazione di "Red", l'album è stato ufficialmente pubblicato dal
trio Fripp, Bruford e Wetton, come si evince chiaramente dalla copertina.
"Red" si è rivelato l'ultimo album in studio dei King Crimson degli
anni '70 e sembra essere il preferito di molti fans.
Qualche nota di commento restando in superficie…
La title track apre l'album, ed è quanto di più tipico
si possa sperare per questa versione dei King Crimson: un riff iniziale semplice
ma potente, che porta avanti la traccia fino in fondo.
"Fallen Angel" presenta una forte linea
vocale con il mellotron mixato, mentre il ritornello è molto più pesante ed
elettrico.
"One More Red Nightmare" è un altro ottimo
esempio di come Fripp abbia potuto usare un trame molto semplice per creare un
brano di rock progressivo. L'album contiene anche un pezzo di nove minuti
costituito da suoni e rumori apparentemente casuali in "Providence".
Tuttavia, tutto passa in secondo piano poiché è in arrivo, forse, la più grande
canzone dei King Crimson mai realizzata, "Starless". Pezzo di
dodici minuti, è probabilmente la canzone definitiva dei King Crimson in quanto
riesce a presentare ogni lato caratteristico del suono e della personalità
della band. Inizia come una lenta e meravigliosa ballata intrisa di mellotron
con un bellissimo tema principale. Si passa poi a una parte strumentale
disarmonica che diventa via via più intensa prima di essere alleggerita da una
potente jam in cui Wetton dimostra davvero quanto sia bravo al basso. Ma il
vero climax non appare prima della fine, dove si ritorna al tema di apertura
della canzone, ma “amplificato” da tutta l’azione della band, un suono maestoso
e potente che da solo rende l'album degno di essere ascoltato.
"Red" è considerato uno degli album più importanti
nella storia della musica rock progressiva, audace, innovativo, emozionante, un
vero e proprio punto di riferimento per il prog.
I Boomfu una band
beat degli anni '60 che pubblicò un unico album nel 1973, “Smash”.
Ad aprire la strada il cantante Vittorio Lombardi, che con il suo
gruppo (rinominato Boom 67 o Boom 69) suonava spesso al Piper Club aprendo per
artisti stranieri, come Spencer Davis Group e Small Faces.
Suonarono anche al Festival Pop Italiano tenutosi nell'aprile 1971 al
Kilt Club di Roma.
Il suono de I Boom è ispirato a quello in voga negli anni Sessanta, e
varrebbe la pena ascoltare l’unica testimonianza tangibile del loro lavoro, un
disco raro e costoso che non è mai stato ristampato in nessuna forma.
Dopo aver suonato anche negli USA, il gruppo si sciolse e tre dei
componenti dei Boom (il batterista Viola, il chitarrista Deni e il
cantante-bassista Alan Farrington) formarono intorno al 1975 i Paco Andorra,
gruppo di pop melodico autore di diversi singoli e un LP.
Il tastierista Saccucci incise con il nome “Marcello” un LP nel 1981 per
la New Record dal titolo “L'amante”; in precedenza era uscito il singolo “Foggy
eyes/I'll sing for you”, a nome Marcello Ucci.
Il cantante/bassista originale del gruppo, Vittorio Lombardi, ha avuto
una lunga carriera solista con la sua orchestra. L'album "Smash"...
Le Tracce:
A1-Luce E Vita
A2-La Soffitta
A3-Pazzo
A4-Improvvisamente Notte
B1-Il Padre Sono Io
B2-Realtà
B3-Preghiera di Povertà
B4-Senza Di Lei
Registrato agli
Orthophonic Recording Studio, Roma
Formazione:
Alan
Farrington (basso, voce)
Salvatore
Deni (chitarra)
Marcello
Saccucci (tastiere, voce)
Bracco
(batteria)
Tecnici del suono-Pino Mastroianni, Sergio Marcotulli
IPink Floydsono sempre stati il
meno appariscente fra i gruppi progressive.
Già nel 1966, quando erano in procinto di abbandonare il R&B in favore del
nuovo suono psichedelico, i quattro timidi ragazzi amavano nascondersi dietro
le frangette e le luci caleidoscopiche del palco. Nel 1971, uscito da tempo di
scenaSyd Barrett, il
compositore più prolifico del gruppo, quest’attitudine elusiva non era ancora
venuta meno. Stavolta però erano montagne di modernissime apparecchiature a
celarli alle platee. Infine, nell’autunno di quell’anno, il progetto di un vero
e proprio fil musicale li indusse a rinunciare del tutto alla presenza del pubblico.
L’idea era quella di
riprendere un concerto, ma senza la situazione di contorno tipica di un teatro
o di un college. Così, su suggerimento del regista Adrian Maben, i quattro si
trasferirono in un anfiteatro fra lerovine
di Pompei,un’ambientazione perfetta
per i loro lunghi brani, quasi del tutto strumentali . Mentre vapori e acque
calde sgorgavano dal Vesuvio, i paesaggi sonori del gruppo si dipanavano con
l’epica maestosità di piccole sinfonie post psichedeliche come “Echoes” e “Sacerful of Secrets”.
“Il fatto che fosse girato in esterni e con immagini un po’ sgranate,
compensò ampiamente l’assenza di pubblico. Era un posto straordinario, battuto
dal vento, ma non sentimmo su di noi il peso della storia. Quando arrivammo con
le apparecchiature non ci vennero in mente cose del tipo:”Ecco, mille anni dopo, invece
dei leoni e dei cristiani , ci sono i Pink Floyd”.Ci sembrò più che altro un
posto interessante. Ci rendemmo davvero conto dove eravamo quando, lasciato
l’anfiteatro, visitammo le rovine intorno. La cosa più importante è che si
tratta di una performance sorprendentemente buona, anche riascoltata dopo tanti
anni. Era un periodo molto produttivo, forse il più produttivo nella storia del
gruppo”. Nick Mason, 2005.
La Seconda Genesifu un gruppo della provincia di Viterbo diventato celebre tra
gli appassionati del prog italiano per uno dei più costosi (e ricercati) LP del
genere, “Tutto deve finire” (Picci
Records - Roma), pubblicato nel 1972 in sole 200 copie - tutte con copertina
diversa -, che ha avuto una ristampa in vinile solo trent'anni dopo la sua
prima uscita.
La band, fondata dal chitarrista Paride De Carli nel
1971, era formata da cinque elementi: oltre a De Carli, il tastierista e cantante
Alberto Rocchetti, il fiatista Giambattista Bonavera (entrambi ex
“Rokketti”), il bassista Nazzareno Spaccia e Pier Sandro Leoni
alla batteria.
Interessanti le note di copertina del disco che spiegano il
nome della band:
“E se la notte e il grande silenzio cadessero ad un tratto
su un mondo privo di qualsiasi forma di vita? E se il tempo trascorresse per
millenni? E se infine l’ira di Dio si placasse e la sua mano tornasse a far
risplendere il sole, ricreando ancora esseri umani fiori ed animali? Così
fantasticando Paride De Carli e i suoi amici hanno trovato il nome col quale
battezzare il loro gruppo, cioè: Seconda Genesi”.
Registrato presso gli studi Titania di Roma, l'album
conteneva otto brani, tutti firmati da Bonavera e dai produttori Cassia e
Lucchetti.
Era piuttosto breve (poco più di mezz’ora) e fu il risultato
di un'unica session di otto ore in presa diretta in cui pare che durante certi
passaggi il batterista non riuscisse neppure a sentire il resto della band. Una
corsa al risparmio che però fu fortunatamente compensata da un eccellente resa
acustica, e soprattutto da una veste grafica che fece epoca.
Nonostante la produzione non eccellente l'album è molto
bello, con ottimo uso di flauto, organo hammond e chitarra in primo piano.
Lo si può considerare uno dei dischi più rari del progressivo
italiano, quotato oggi sul mercato del collezionismo oltre 1100 euro, con una
copertina che rappresentò il primo esempio prog dell’applicazione discografica
di una classica tecnica underground che, opponendosi idealmente alla
mercificazione seriale dell’arte, prevedeva per ciascuna stampa la smaltatura
manuale di un cartoncino bianco in Kromekote con inchiostri di colore casuale e
diverso, generando così esemplari unici e differenti l’uno dall’altro.
Negli anni ’90 è stato riscoperto e ristampato in CD e
diffuso anche fuori dall'Italia, ottenendo un buon successo soprattutto in
Giappone.
Nella breve storia il gruppo partecipò ad alcuni festival
pop, tra cui quello di Villa Pamphili in cui presentò l'intero album, ma furono
penalizzati da una promozione modesta e tornarono rapidamente nell’anonimato.
Il 4 ottobre del 1970 ci lasciava prematuramente Janis
Joplin: sono quindi passati 54 anni, ma la sua immagine, quella che la disegna come artista
maledetta, è ancora nitida e potente.
Per ricordarla ho recuperato una biografia sintetica
che aiuta ad inquadrarla…
Janis
Joplin fu uno dei grandi miti degli anni '60, situazione alimentata ancor più
dopo la sua morte.
E` uno
dei casi in cui vita e arte si confondono ed è difficile giudicare l'una senza
tener conto dell'altra. Fu senza dubbio una grande cantante, dotata di una voce
che è rimasta uno degli archetipi del canto blues. Fu invece una pessima
musicista, incapace di scrivere brani memorabili e limitata a eseguire cover
d'autore.
Janis
Joplin fu fedele nello spirito, travagliato e disperato, nel destino,
emarginato e fatale, e nel canto, vibrante e passionale, ai grandi bluesman del
Delta: "un incrocio fra una
locomotiva avapore,
Calamity Jane, Bessie Smith, una trivella e un liquore disgustoso",
com'ebbe a dire un critico del tempo.
Janis
Joplin era nata in Texas e
aveva avuto un'adolescenza turbolenta, nonostante fosse di famiglia abbiente.
Nel 1963 arrivò per la prima volta a San Francisco e cominciò a esibirsi nei
club alternativi. Nel 1966, nel pieno dell'era hippy, trovò impiego in pianta
stabile come cantante deiBig
Brother & The Holding Company.
Il loro
primo disco, Big Brother & The Holding Co (Mainstream, 1967), orrendamente
registrato, diede già la misura del blues-rock del gruppo, ma fu la loro
esibizione al festival di Monterey del giugno 1967 ad attirare l'attenzione su
quell'indemoniata cantante.
La
leggendaria potenza dei loro show venne meglio immortalata sul secondo album, “Cheap Thrills” (CBS, 1968), ora che le
chitarre di Sam Andrew e James Gurley erano maturate e fornivano l'adeguato
accompagnamento all'istrionismo della cantante.
Joplin
era già un personaggio, che sul palco metteva in vista esibizionismo, autocommiserazione e una scandalosa volgarità.
Univa un
temperamento emotivo e una personalità insicura, una disastrosa vita
sentimentale, una precoce assuefazione agli stupefacenti, alcoolismo da
angoscia e solitudine. Sfogava le sue nevrosi nei concerti. Davanti al pubblico
le sue terribili tensioni esplodevano. La sua voce roca, deteriorata
dall'alcool e dal fumo, strillava con forza disumana e bisbigliava con
tenerezza struggente. Più che "cantare", Joplin gemeva, rantolava,
delirava. Ogni canzone era un rituale di autodistruzione in cui Joplin elargiva
tutte le proprie forze.
Al
termine di un concerto disse che si sentiva come se avesse fatto l'amore con
migliaia di persone e fosse tornata a casa sola.
In "Pieces Of My Heart" sembra
veramente che le stiano strappando il cuore quando grida sgolata "... take
another little piece of my heart".
La lunga,
strascicata litania di "Ball And
Chain" (il classico di Big Mama Thornton) divenne un po' la metafora
della sua vita.
Lasciati
i Big Brother, Janis Joplin incise poi "I Got Dem Ol' Kozmic Blues” (1969), un disco molto meno spontaneo.
Joplin
sembra volersi inventare una nuova carriera come cantante soul, ma riesce
sempre meglio in blues tormentati come “Try”
(ancora di Ragovoy).
Era già
arrivata al capolinea. I suoi atteggiamenti da primadonna irritavano tutti.
Si stava
disintossicando ma nell'ottobre del 1970 ebbe una ricaduta che le fu fatale: morì
sola in una camera d'albergo di Hollywood.
I
discografici misero insieme le ultime registrazioni e pubblicarono "Pearl"(1970),
che è il suo album più maturo. Invece della strega oltraggiosa Joplin si rivela
una creatura vulnerabile, che si esprime nei blues melodrammatici di "Half Moon", "Move Over", "Cry Baby", "My Baby" e "Get It While You Can" (le ultime
tre ancora di Ragovoy), sposando la propria ruggente voce ora a un boogie da
saloon e ora a un gospel accorato.
E finisce per commuovere quando canta a cappella
"Mercedes Benz", senza
sapere che la ascolteranno come un requiem.
Joplin,
più che uno stile, impose un personaggio emblematico di quella generazione
disperata di ragazzi scappati da casa per cercare un mondo migliore, e, dopo
estenuanti torture, fucilati dalla realtà.per cercare un mondo migliore e, dopo estenuanti
torture, fucilati dalla realtà.
Il 7 marzo 2021 ho scoperto
che avevo, da anni, comunicazioni nella casella spam di facebook, alcune
meritevoli di attenzione. Per l’esattezza è mio figlio l’artefice del
ritrovamento.
Quella di cui voglio scrivere è datata
3 ottobre 2010ed
è di un certo… Keith Emerson!
Era diretta ai fans, non a me
personalmente - che lo avrei intervistato solo successivamente -, ma è la testimonianza
di un momento difficile da lui vissuto, con un racconto dettagliato e personale
molto toccante e inusuale nella sua chiarezza.
Ecco il suo pensiero:
Vorrei ringraziare tutti i
sostenitori che mi hanno scritto durante il mio recente ricovero. Vorrei anche
ringraziare i medici, i chirurghi e gli infermieri della London Clinic, nonché
le persone che hanno donato il sangue. A questo punto chiederei una preghiera
per tutti gli ammalati meno fortunati di me.
Per ricapitolare, tutto è iniziato
durante una routine medica che includeva un'endoscopia, una risonanza
magnetica, esami del sangue che si sono rivelati OK. Alla fine, il mio medico
ha controllato le mie cartelle cliniche precedenti. "Vedo che sono passati
più di cinque anni dalla tua ultima colonoscopia. Per essere al sicuro è tempo
di farne un'altra". Quel test ha causato preoccupazione per la scoperta di
un pericoloso polipo situato nel mio colon. È stato deciso che avrei dovuto
rimuoverlo immediatamente per poi procedere all'analisi. Ciò ha comportato un
intervento laparoscopico e un'incisione di due pollici (5 cm) nel mio stomaco
per rimuovere circa due pollici del colon a cui era attaccato. Tuttavia,
l'operazione si è presentata più seria di quanto chiunque si sarebbe aspettato.
Una vasta sezione del mio colon inferiore era affetta da una malattia
diverticolare con un numero significativo di diverticoli e tutto doveva venire
estratto: quasi un piede e mezzo (45 cm)! Quando mi sono riavuto
dall'anestesia, ho scoperto che avevo subìto un taglio dall'estremità inferiore
della gabbia toracica fino alla regione pubica, e ciò che avevano asportato era
ora in laboratorio per analizzarlo. Sarebbe passata una settimana prima di
conoscere i risultati. Nel frattempo, mentre giacevo sperando di potermi
riprendere, internamente sanguinavo molto. La decisione iniziale è stata quella
di aspettare e vedere se le due parti del colon sano si erano legate con
successo e l'emorragia si sarebbe fermata. Non è stato così. Dopo due
trasfusioni di sangue più tardi, alle 23:00, mi è stato detto che non avevo
altra scelta che essere immediatamente riportato in sala operatoria.
Ho davvero pensato che fosse finita.
Non avevo tempo per dirlo ad amici o familiari.
Il resto dei ricordi è un po’
sfuocato tranne il ricordo di un chirurgo che mi ha detto, il giorno dopo, che
aveva ricucito con successo le due parti del colon e fermato il vaso sanguigno
che zampillava. Ovviamente rimanevo dubbioso e quasi in preda al panico se
sentivo che stavo per starnutire, come lo sono ancora. Pochi giorni dopo sono
arrivati i risultati del laboratorio. Per fortuna, il polipo non era maligno.
Questa esperienza mi ha fatto capire l'importanza di avere uno screening del
colon e di donare il sangue.
Dopo due settimane in ospedale, mi
sto riprendendo nel Sussex dopo che medici e chirurghi mi hanno detto che ci
vorrà del tempo prima che riacquisti le forze. Sono molto grato a Mari per il
suo amore e attenzione, alla mia famiglia e a Greg Lake per la sua vicinanza e
il suo sostegno.
Musica beat, musica a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, performata
da un gruppo apparentemente improvvisato ma con un solido collante musicale.
In quella occasione ho conosciuto Marco
Bonino, musicista e chitarrista di lungo corso e di adeguata fama, il
cui pensiero - e parte della sua storia - emerge dall’intervista che propongo
a seguire.
Ma, oltre a cose “antiche” a cui non si può ovviamente
rinunciare, esiste uno sguardo attento verso nuovi progetti, e Marco mi ha mostrato
- e donato - il suo ultimo album, “The singer in
the band”, rilasciato nel 2023, diffuso in
digitale ma realizzato anche in formato fisico per un numero limitato di copie.
Tutto l'album, e i contenuti extra sulla chiavetta USB, sono
disponibili su:
L’immagine a seguire sintetizza track
list e crediti…
Dodici tracce suddivise su una quarantina di minuti con un
rispetto temporale della forma canzone, ed emerge come la collaborazione tra
Marco Bonino e Mike Shepstone sia una costante e qualcosa che trova
finalizzazione nella creazione di brani che, pur lasciando il profumo del
passato, si propongono come attuali e di una gradevolezza d’ascolto assoluta.
Vado ad intuito, avendo la certezza che “The singer in the
band” possa essere ascoltato da un pubblico trasversale e ogni singola
traccia abbia la potenzialità per trovare spazio in ogni rotazione radiofonica,
ma… credo che il progetto sia intimamente molto più complesso, ovvero, l’azione
creativa mi appare come legata ad una precisa necessità in questo particolare
momento della vita dell’autore.
Il percorso musicale di Bonino è stato lungo e variegato, ma
se facciamo riferimento ad album “da solista”, per trovare traccia di musica in
proprio occorre ritornare agli anni ’80, il che potrebbe significare che non c’è
stato tempo per realizzarla, ma, come accade in ogni campo artistico - anche in
ambito dilettantistico - quando arriva la giusta motivazione tutti gli alibi
cadono e ad ogni pensiero segue una rapida azione.
Ecco, nel mio “immaginare la situazione” ho idealizzato
Bonino che, arrivato ad un certo momento della vita, tira le fila delle sue
esperienze e riassume in musica la sua storia, l’incedere di un percorso
condizionato da un’era che lui definisce fortunata - e io concordo -, e nulla
come le rappresentazioni artistiche è in grado di disegnare uno stato d’animo
personale, che a quel punto va condiviso col mondo e resterà una testimonianza
per sempre.
Anticipo uno stralcio dell’intervista, quella dove l’autore
dice: “La mia intenzione era quella di “fissare” in un album le canzoni
scritte da me che più mi rappresentavano. Ci sono le influenze dei Beatles, c’è
Randy Newman, Neil Sedaka, John Martyn… il rock and roll, il blues, la pop
music anglosassone e anche qualche melodia latina. Insomma, c’è tutta la mia
vita”.
Il cantato è rigorosamente in lingua inglese e ogni singola
traccia riporta a trame sonore che sono intrappolate nella testa di chi ha
qualche lustro alle spalle.
Melodie orecchiabili proposte con una voce delicata e
sorprendente, con arrangiamenti notevoli.
Si inizia conGipsy Heart, canzone sognante,
tra fratelli Gibb e Paul Young, con cori cesellatori e un solo di chitarra che,
verso la fine, svolta verso il rock, il tutto a delineare un cuore zingaro…
Summer Love si mantiene sul binomio voce/piano per oltre un minuto per
poi sfociare in un combo completo, romantico, dove la melodia si fa driver e la
memoria ritorna a momenti davvero formativi, quando Bonino, viveva la sua
adolescenza con gli echi di ciò che stava rivoluzionando il mondo, partendo da
San Francisco.
Long Time, come per il brano iniziale, ripropone l’ausilio autorale di
Shepstone e appare una cartolina inviata dal duo Lennon-McCartney: ma che bella!
Con Little More Marco si mette totalmente in
proprio e sciorina un pop ottantiano accattivante e ballabile, e a questo punto
dell’ascolto appare chiaro che ad ogni angolo è possibile aspettarsi la
sorpresa sonora.
Giving è una ballad lenta, ed è facile realizzare il parallelo con
quanto accadeva cinquant’anni fa nelle sale da ballo o nelle discoteche, con l’alternanza
tra canzoni dinamiche e altre adatte al ballo lento.
Ma questo ricordo non deve mettere in secondo piano la vera
essenza musicale che una slide sognante e una voce molto “Lennon”, evidenziano.
A questo punto del percorso arriva la title track,
a cui è dedicata una domanda specifica dell’intervista a seguire, ma, di più,
posso proporre un magnifico video che, partendo da tracce di “Mr. Tambourine
Man”, smuove miriadi di ricordi. In questi giorni la canzone “The singer
in the band” è entrata di diritto nella mia play list quotidiana,
canzone che, ne sono certo, non abbandonerò più.
Eileen è, a mio giudizio, una delle perle dell’album, una di quelle
canzoni che non necessita di una etichetta o di uno spazio di collocazione, è
bella e basta! Piano e voce, con un arrangiamento orchestrale e la messa in mostra
di qualche virtuosismo messo al servizio dell’atmosfera generale.
In un altro momento, in un’altra vita, sarebbe diventato un
must irrinunciabile… ma per questo c’è ancora speranza!
Lost and Forsaken conduce verso il modus espressivo del
Dylan elettrico, con una certa misura, quasi sottovoce, brano da viaggio coast
to coast!
Smile Again propone una ulteriore versione di Bonino, un misto tra pop, soul
music, jazz e soft rock, insomma, un caleidoscopio di skills e buon gusto
concentrato in quattro minuti che strappano all’ascoltatore ben più di un altro
sorriso!
One More Time si presenta come una sorta di pop d’oltreoceano, con il
sax a sottolineare la capacità di movimento all’interno di ambientazione soul.
Non avrei scommesso sul tocco autorale di Mike, e invece…
United Again ha un sapore aulico e riporta ad un sound che mette
in primo piano la melodia, la pacatezza di volumi, l’eleganza compositiva e
interpretativa e, un ascolto non preparato, mi avrebbe condotto verso lidi lontani,
non certo italici.
L’album si conclude con Mama Song, una canzone
che immagino abbia un grande valore affettivo, una spremuta di ricordi che
ritornano a galla ogni volta che certe musiche emergono, più o meno volontarie.
La degna chiusura di un viaggio, gioioso e sofferto, stati d'animo che solo
l’album dei ricordi può provocare, un bilancio di vita, con la triste
consapevolezza che gran parte del percorso è stato fatto, ma con l’immensa
gioia di aver vissuto il meglio, e con la speranza/certezza che ci sia ancora
molto da dire e da fare.
Un album che consiglio, che fila via liscio mentre la nostra
auto ci trasporta, e la nostra mente vagola alla ricerca di momenti del passato
che solo la musica riesce a stimolare.
Grazie a Marco Bonino che, sfortunatamente, ho conosciuto con
colpevole ritardo. Ma c’è ancora tempo!
Giuseppe Terribile, Mike Shepstone, Gino Terribile, Marco Bonino, Slep
L'INTERVISTA
Vorrei iniziare con un tuo pensiero rispetto a quanto è
andato in scena il 19 settembre a Savona… il tuo feeling di serata…
Amo da sempre cantare e suonare in spazi piccoli in cui il
pubblico è “amico” e non “spettatore”. Nel periodo, ad esempio dei miei
concerti con Ron, Dalla e gli Stadio nei grandi spazi quasi non riuscivo a
vedere se il pubblico ci fosse o no. Mi piace molto anche parlare con gli
spettatori. Ai Serenella c’era proprio l’atmosfera che preferisco.
Potresti raccontare l’evoluzione della tua storia musicale
che, a quanto ho sentito appare corposa?
Ho iniziato prestissimo. A 10 anni cantavo e suonavo Elvis, Sedaka
e Anka. A 12 i Beatles. A 20 i Genesis con il gruppo OFF. Tra il 1978 e il 1982
i concerti come supporter e chitarrista con David Bromberg, John Martyn,i
Flying Burrito, i Pentangle, gli Strawbs e Mike Bloomfield. Fantastico periodo
di crescita. Poi la “Paul Kelly Band” e il blues. Poi il lavoro di arrangiatore
e produttore musicale per i Nuovi Angeli, Mal, Gian Pieretti, Donatello, Dino, Camaleonti
e i Rokes per cui ho suonato e scritto varie canzoni. E ancora i miei album da
solista: “Help me to hear” (MAMA BARLEY), 1981, con la partecipazione di
Bromberg, Byrds, Kelly, Happy Traum e John James. Poi nel 1984 “Unknown great
hits” (Homberger Records) e con i Blaze (“Green grass”(Acid Jazz Records)
pubblicato in UKnel 1998 e entrato
nelle classifiche inglesi). E arriviamo al mio nuovo album nuovo, “The singer
in the band” (PULL Records 2024).
Esiste un momento della tua vita che giudichi decisivo per
l’indirizzo del tuo percorso musicale?
Certo. I Beatles. Soprattutto John Lennon con il suo
atteggiamento e la sua ironia. Dal punto di vista musicale un’altra svolta è arrivata
con Randy Newman, un compositore ineguagliabile per intensità e melodia che ha
influenzato molto il mio modo di comporre musica.
Riesci a trovare nella tua storia personale un incontro
positivamente “sconvolgente”, di quelli mai avresti pensato di fare?
Tanti gli incontri e molti importanti. Quello con Bloomfield,
ad esempio, che voleva portarmi a Pasadena con lui. O quello con John Martyn
che di notte mi insegnava le sue “accordature aperte”.
Ho appena ascoltato il tuo album “The singer in the band”,
che a breve commenterò, ma ho qualche curiosità, e la prima riguarda la tua
collaborazione autorale con Mike Shepstone (ex batterista dei The Rokes): come
è nato il connubio?
Una decina di anni fa ci siamo conosciuti e abbiamo deciso di
comporre canzoni insieme. Prima abbiamo completato un album di loro hits e
qualche inedito (“Rokes4ever”, 2016, Azzurra Music). Un’emozione grandissima
anche suonare con Mike e Bobby Posner, l’altro “Rokes” con la voglia di
continuare. Con Mike poi c’è davvero una sintonia magica. Stiamo scrivendo da
anni anche nuovi brani per un grande produttore americano, Shel Talmy, che
produsse negli anni ‘60 i primi dischi degli WHO e dei KINKS. D’altronde Mike
dopo l’esperienza dei Rokes tornò in UK e divenne un autore di grande successo (Sylvie
Vartan, Joe Dassin, Freda, Middle of the road, Francoise Hardy, Demis Roussos).
Nei crediti ho visto il nome di un altro ex Rokes, quello di
Bobby Posner…
Anche con Bobby c’è una profonda amicizia e una grande
passione per il rock and roll. Da un po’ di anni vive in Italia e così almeno
regolarmente ci ritroviamo da me in studio a suonare e a ... ricordare: una
persona fantastica!
La title track riporta alla nota “Mr Tambourine Man”, con
l’arpeggio iniziale alla “Byrds”, cioè il brano che avete usato come bis nella performance
savonese: cosa lega te e Mike a quel pezzo?
Ho voluto inserire quel riff di Rickenbacker 12 corde per
puntualizzare che il “sound” del mio album voleva essere quello di un disco
“vero”, tutto “suonato”, senza elettronica, e mi sembrava che non ci fosse
nulla di più caratteristico di quel “riff”.
Mi piace cercare la concettualità in ogni album e anche in
questo caso mi viene spontaneo trovare il fil rouge, ma vorrei sapere il tuo
punto di vista sul collante che lega le varie tracce e quale sia l’esigenza
personale che ti ha portato alla creazione del progetto.
Il brano “Summer love” ha chiari riferimenti storici e lo
utilizzo per chiederti… come hai vissuto quegli anni in cui eri adolescente e
che influenza hanno avuto su di te?
La mia generazione è stata davvero fortunata. Sogni di
libertà, pace, musica e amore. Come una lunga interminabile “estate”. Sì, mi
sento davvero fortunato. La mia “visione della vita” non è mai cambiata, nonostante
quello che sta succedendo oggi.
Un’ultima cosa… pensi che potrà esserci occasione per
proporre dal vivo “The singer of the band?”.
Nonostante l’album sia stato presentato ormai da mesi, in
effetti non ho ancora iniziato una promozione vera. La sto organizzando a breve
perché è arrivato il momento di dedicare il mio tempo al pubblico. Quindi per
l’ennesima volta canterò e suonerò dal vivo e sicuramente con i miei “amici
storici”. Questa è la mia vita.
Siamo nella Roma del 1968, suonano i
Pink Floyd al Palazzo dello Sport ma nessuno ci va. Come mai? Questa è la
storia del First International Pop Festival
Sono capitato casualmente su di un video di ottima qualità
che riporta ad un festival pop romano del 1968, evento di cui non avevo mai
sentito parlare, il First International Pop Festival. Era il 1968.
Nelle righe a seguire è possibile chiarirsi le idee attraverso
informazioni che ho catturato da un articolo stilato da RollingStone, ma
anticipo un paio di chicche, per me assolute novità.
La prima riporta ai Ten Years After e a suo leader Alvin
Lee che per la prima volta ho visto con… i riccioli!
Ma la seconda è ancora più sorprendente perché fa riferimento
ai The Nice e… non avevo idea che anche Keith Emerson avesse mai un ruolo
vocale e devo dire che la sua voce non era niente male!
Il primo festival mai organizzato in Italia viene ricordato
come un totale disastro economico e organizzativo. Questo nonostante fossero
nel cartellone gruppi non proprio sconosciuti come Pink Floyd, Byrds o Captain
Beefheart in persona.
Si deve a una coppia di giovani americani, Jerry e Patricia
Fife, l’idea dell’intero evento. Solo un anno prima, i due videro Jimi Hendrix
rottamare col fuoco la sua chitarra sul palco del Monterey Pop Festival. È il
momento culminante della Summer Of Love e, trasportati dall’onda
dell’entusiasmo per questo nuovo movimento giovanile, non passa molto prima che
prendano una decisione: bisogna ripetere il tutto in Europa.
Ma perché “pop”? E perché proprio Roma? Alla prima domanda
qualsiasi papà potrà rispondere: all’epoca non c’è nessuna etichetta distintiva
fra rock, psych o persino il prog che verrà qualche anno più tardi. Si chiamavamo
tutto pop, musica pop, non intesa come popolare o commerciale, ma semplicemente
pop.
Quanto alla scelta di
Roma come location, probabilmente va ricercata nel crescente movimento di
“capelloni” di Piazza di Spagna e del circolo ristretto della Roma bene che
qualche anno prima aveva dato vita al Piper. Un’élite che grazie ai suoi vari
dandy e viveur aveva permesso al mito dolcevitiano di sopravvivere agli anni
Cinquanta, facendo della capitale uno snodo centrale dell’arte e della cultura
mondiale.
Peccato però che, come vedremo, le sole élite benpensanti non
bastino a riempire il Palazzo dello Sport dell’EUR.
E così, il First International Pop Festival viene
lanciato a inizio 1968. Sui primi volantini si legge che i quattro giorni del
festival si terranno il mese successivo, a febbraio.
A guardare i nomi sbandierati nel fantomatico cartellone c’è
da impallidire. Sono davvero grossi, forse un po’ troppo grossi per essere
veri: The Who, Pink Floyd, Cream, Soft Machine, Jimi Hendrix, Byrds, Nice,
Quicksilver Messenger Service. Poi però, tirate le prime somme, ci si rende
conto che 1) non è una mossa furba lanciare un evento del genere con un solo
mese di anticipo e 2) non esiste minimamente la cifra richiesta per pagare
tutti gli artisti promessi nei primi flyer. Ma neanche per pagarne la metà.
Così, dopo un paio di slittamenti, l’evento viene fissato
definitivamente a maggio 1968, da sabato 4 a martedì 7 compresi.
Quanto agli artisti, la prima lista viene ovviamente
ridimensionata. In compenso tra i confermati rimangono Pink Floyd, Byrds,
Nice, Captain Beefheart con la sua Magic Band, Nice, Soft Machine
più una sfilza di gruppi beat minori, tra cui gli italianissimi Camaleonti e
Giganti.
Anche Jimi Hendrix sulle prime conferma, ma per problemi di
incastri fra date è costretto a rinunciare in un secondo momento. Riuscirà ad
arrivare nella capitale il 25 maggio, dove suonerà in una doppia data in un
Teatro Brancaccio letteralmente preso d’assalto dalla folla.
Non soddisfatti di essersi dilapidati un patrimonio in
artisti famosi (si dice che Jerry Fife fece fuori tutti i soldi che aveva
ereditato dai parenti), gli organizzatori invitano anche fior fiore di stampa
internazionale, tra cui la BBC, Melody Maker, la TV bavarese o la radio
olandese VPRO. Ma è chiaro fin da subito che per colpa di una totale mancanza
di comunicazione e promozione preventiva, i giovani hippie europei non si
presentano né alla prima né alle altre serate al Palazzo dello Sport, immensa
struttura costruita otto anni prima in occasione delle Olimpiadi. Nemmeno i
giovani capelloni romani danno segno di vita, condannando il festival a una
presenza giornaliera di 800-1000 persone e a una complessiva di 4000. Per il
gran finale di martedì le porte del Palazzo nemmeno vengono aperte. La serata
viene infatti dirottata al più intimo Piper Club.
Va da sé che alla stampa straniera non rimane che stroncare
malamente gli sforzi ammirevoli ma maldestri di Jerry e Patricia Fife. Melody
Maker definisce il festival “The pop-flop of ´68”, la BBC si limita a un pacato
girato con poco commento e qualche veloce in quadratura al pubblico (uno
spezzone sta qualche riga qui sopra), mentre il commentatore olandese di VPRO
ci va più pesante di tutti: “La scelta di Roma è stata assurda. Per quanto
riguarda la musica pop l’Italia è così indietro. Non esiste una scena
underground di alcun genere, che è ciò di cui solitamente campano questi
festival. Roma è una strana città formale piena di impiegati statali. L’idea
che la gioventù sarebbe arrivata in auto da tutta l’Europa è stata un tipico
errore di valutazione americano, perché i giovani europei non hanno automobili.
Per farla breve, mi è venuto un nodo alla gola a vedere i Byrds esibirsi
davanti a 800 persone, metà delle quali ha chiacchierato per tutto il tempo».
La performance dei Floyd, tra l’altro una delle prime in
assoluto con David Gilmour al posto di Crazy Diamond Barrett, è assolutamente
dignitosa. È la sera del 6 maggio, i quattro attaccano con Astronomy Domine e
proseguono nella brevissima scaletta con altri tre pezzi: Pow R. Toc H,
Interstellar Overdrive e Set the Controls for the Heart of the Sun. Fanno un
bell’inchino davanti alle poche centinaia di fan soddisfatti e se ne vanno. È
dopo di loro che iniziano i problemi.
Salgono sul palco i Move di Roy Wood, che a metà esibizione
accendono dei fuochi d’artificio per movimentare lo spettacolo. La polizia non
capisce e interviene sparando lacrimogeni all’interno del Palazzetto. Panico.
La folla si disperde, la strumentazione viene danneggiata (non ci sarà verso di
convincere il service a sostituirla per il giorno dopo).
Il First International Pop Festival finisce così, con quattro
gatti al Piper e un buco nell’acqua grande come un Palazzo dello Sport.
Personaggio polivalente, come produttore e come musicista
(tastiere, chitarre e voce), ha registrato con Clapton, George Harrison, Tom Petty, B.B. King, Santana, Who e Rolling Stones; ha suonato l’organo in
Like
a Rolling Stone e in Blonde on Blonde di Bob Dylan e in Electric Ladyland di Hendrix; ha concepito il primo disco di
jam rok, Super Session; ha contribuito alla nascita dei Blues Project e dei Blood Sweat & Tears e ha scoperto e
prodotto i Lynyrd Skynyrd, alfiere
del southern rock. Un curriculum di tutto rispetto!
Nato a Brooklyn nel 1944, debutta discograficamente all’età di 13
anni con i Royal Teens, ma il suo
nome comincia a essere di dominio pubblico quando casualmente, alle sessions di
Like a Rolling Stones, incide una
traccia di Hammond sul pezzo già registrato da Dylan. Partecipa poi alla
controversa apparizione della svolta elettrica di Dylan al Festival di Newport
del 1965 e lavora in diversi dischi dell’artista di Duluth.
Dopo aver dato i natali a una delle prime band del blues revival
newyorchese, i Blues Project, aiuta
i Blood Sweat & Tears nella registrazione di Child Is Father To The Man, quindi è artefice della jam di Super
Session con Bloomfield e Stills, album seminale e leggendario
della storia del rock. Un altro suo lavoro all’insegna del blues è Kooper
Session, jam in compagnia del quindicenne chitarrista Shuggie Otis,figlio del veterano del
R&B Johnny Otis.
Nel pieno periodo beat, quando in Italia imperversavano le cover delle
canzoni famose provenienti dall’America e dall’Inghilterra, era usuale sentire
anche l’opposto, ovvero cantanti/gruppi stranieri che si esprimevano nella lingua
italiana, per avvicinarsi maggiormente ad un mercato/pubblico che si stava
rapidamente evolvendo.
Tra questi gli Ohio Express,che nel 1968 entrarono prepotentemente nelle nostre
case con un brano di facile presa, “Yummy Yummy Yummy”, sigla di una trasmissione per ragazzi all'epoca molto seguita, “Chissà chi
lo sa”, condotta da Febo Conti.
“Yummy Yummy Yummy” fu pubblicato come singolo nel maggio del 1968. Ecco la versione inglese...
Ma quale storia si cela dietro la band?
Ho raccolto a fatica un po’ di cronologia.
Gli americani Ohio Express si formarono a Mansfield, Ohio, nel 1967.
Anche se commercializzata come una band, sarebbe più preciso dire che il
nome "Ohio Express" serviva come marchio utilizzato da Jerry Kasenetz
e la Super K Productions di Jeffrey Katz per pubblicare la musica di un certo
numero di artisti.
Le canzoni più conosciute degli O.E. erano in realtà il prodotto di un
assemblaggio realizzato in studio da musicisti che lavoravano fuori New York, tra cui il
cantautore Joey Levine.
Molti altri successi dell'Ohio Express erano opera di diversi gruppi
musicali non collegati, tra cui i Rare Breed.
Inoltre, una versione “itinerante” parallela, completamente separata dagli Ohio Express,
apparve in tutte le date dal vivo e registrò alcune delle tracce dell'album
della band.
Gli inizi: The Rare Breed (1966-67)
Chi furono i The Rare Breed?
Il primo disco accreditato all'Ohio Express fu “Beg, Borrow and Steal”, che divenne una Top 40 hit negli
Stati Uniti e in Canada alla fine del 1967. Lo stesso disco era stato
inizialmente pubblicato dai Rare Breed all'inizio del 1966 per la Attack
Records, ma non riuscì ad avere successo a livello nazionale, anche se entrò
nelle classifiche regionali, nel New Hampshire e nello Utah.
I Rare Breed pubblicarono un altro singolo nel 1966 per la Attack, “Come
and Take a Ride in My Boat”, ma anche questo trovò solo una dimensione "regionale".
A seguito problemi con l’etichetta di riferimento il gruppo smise di
esistere in quella conformazione.
La registrazione originale di "Beg, Borrow & Steal",
cantata originariamente dall'ex membro Michael Fenneken, fu poi rimixata e
ristampata per la Cameo Parkway Records, accreditata all'Ohio
Express (un nome del quale la Super K Productions controllava tutti i diritti).
Il singolo arrivò alla prima posizione a Columbus, Ohio, e diventò gradualmente un successo in tutto il Canada e negli Stati Uniti, nei
mesi successivi.
Il cofanetto “Nuggets” (che include "Beg, Borrow and Steal") chiarisce
che i Rare Breed provenivano da New York o dal New Jersey, ma non offre altri dati
significativi.
Tuttavia, un'intervista del 2003 identifica i membri dei Rare Breed come:
John Freno (voce, chitarra), Barry Stolnick (tastiere), Joel Feigenbaum
(ritmo), Alexander "Bots" Narbut (voce York, basso) e Tony Cambri a
(batteria di Brooklyn).
Sir Timothy e i
Royals prendono il sopravvento (1967)
Senza alcun gruppo disponibile a promuovere il singolo suonando date dal
vivo, la Super K Productions assunse una band di Mansfield, Ohio, conosciuta
come Sir Timothy & the Royals e li rinominò Ohio Express. La
formazione era composta da Dale Powers (voce, chitarra solista), Doug Grassel
(chitarra ritmica), Dean Kastran (basso), Jim Pfahler (tastiere) e Tim Corwin
(batteria).
Il gruppo fece un tour come Ohio Express, e i loro impegni itineranti
resero difficile la registrazione di un nuovo singolo che seguisse "Beg,
Borrow and Steal". Dei membri del gruppo "ufficiale" solo Dale
Powers (voce solista) appare nel secondo singolo accreditato all'Ohio Express, “Try
It”, più tardi coverizzato dagli Standells. Il singolo si fermò ben al di fuori
della Top 40 degli Stati Uniti, raggiungendo la posizione numero 83.
Registrarono ben presto un album chiamato “Beg, Borrow and Steal”, un
mix che comprendeva la title track dei Rare Breed con tracce registrate dal
gruppo “live” dell'Ohio Express, così come altre registrate dai musicisti dello
staff dei Super K con la voce dei Powers. L'LP uscì per la Cameo-Parkway
Records di Filadelfia nell'autunno del 1967.
Sfortunatamente l'etichetta discografica andò in bancarotta poco dopo e
fu acquistata dal magnate della musica Allen Klein, che ancora oggi possiede i
master.
Due canzoni dell'album - “I Find I Think of You” e “And It's True” -,
furono registrate dai The Measles, guidati da Joe Walsh.
Inoltre, i Measles registrarono una versione strumentale di “And It's
True” (ribattezzata "Maybe") che fu posta sul lato B del singolo “Beg,
Borrow and Steal”.
Gli anni di Joey Levine (1968-69)
Joey Levine racconta (17 maggio 2008)
L'Ohio Express si trasferì quindi nell'etichetta di casa del bubblegum
pop, la Buddah Records. Allo stesso tempo Joey Levine (che aveva co-scritto “Try
It”) era pronto per presentare nuovo materiale per l'Ohio Express, per volontà
della Super K Productions. Registrò una versione demo del brano "Yummy
Yummy Yummy" con musicisti dello staff dei Super K. Tuttavia, il capo di Buddah, Neil Bogart apprezzò
la demo, tanto da rilasciare il disco così com'era, con la voce di Levine
intatta e nessun input dalla versione “da viaggio” dell'Ohio Express. La
canzone diventò un grande successo internazionale, raggiungendo il 4° posto
negli Stati Uniti, il 5° nel Regno Unito e Irlanda, il 7° in Australia e il 1°
in Canada. Due mesi dopo la sua uscita aveva venduto oltre un milione di copie,
e gli fu concesso lo status di disco d'oro dalla R.I.A.A. nel giugno 1968.
Il successo di "Yummy Yummy Yummy", guidato da Levine, stabilì
un modello per l'Ohio Express. Pubblicarono quattro LP e una moltitudine di
singoli per Buddah tra il 1968 e il 1970, ma il gruppo "ufficiale"
che appare sulle copertine degli album e agli spettacoli dal vivo non ha
contribuito con una sola nota ai loro 45 giri di successo.
L'anno successivo l'uscita di “Yummy Yummy…”, tutti i singoli dell'Ohio
Express furono scritti e cantati da Levine, con accompagnamento musicale di
anonimi session man di New York. In base a questo accordo, nel 1968 e 1969, il
gruppo segnò altri tre colpi top 40 negli Stati Uniti, in Canada e in Australia
con “Down at Lulu's”, "Chewy Chewy" e "Mercy".
“Chewy Chewy” vendette due milioni di copie.
In questo periodo il nome del gruppo perse definitivamente l'articolo davanti,
diventando "Ohio Express".
Non ci sono occasioni conosciute in cui Levine si esibisce con il
quintetto "ufficiale" dell'Ohio Express, dal vivo o in studio.
I cinque ragazzi dell'Ohio, nel frattempo, potevano essere ascoltati
solo su alcune delle tracce dell'album. Presumibilmente, il gruppo itinerante
non fu nemmeno informato dell'esistenza di "Chewy Chewy", il
nuovo singolo che era uscito con il loro nome - e quando i fan lo richiedevano
negli spettacoli dal vivo non erano in grado di suonarlo.
Tracce "riciclate" (1968-70)
La Super K Productions spesso riciclava tracce da una produzione ad
un’altra, emettendo esattamente la stessa registrazione con due diversi nomi di
band. Oltre alla hit dell'Ohio Express, "Beg, Borrow and Steal"
(inizialmente accreditata ai Rare Breed), i fan poterono notare che altri pezzi
dell'Ohio Express B-sides e tracce dell'album erano stati accreditati ad altri
artisti dell’etichetta Super K.
Alcuni esempi sono rappresentati dal lato B del singolo
"Sausalito" - “Make Love Not War” - originariamente pubblicato dai
Road Runner, dalla Music Explosion, e la traccia “Shake”, del 1970, inizialmente
pubblicata da Kasenetz Katz Super Circus.
L'era post-Levine (1969-70)
Dopo cinque singoli consecutivi scritti e cantati da Joey Levine
(quattro dei quali di successo negli Stati Uniti e in Canada), il musicista era
insoddisfatto del ritorno economico derivante dal suo contratto e lasciò la
Super K Productions all'inizio del 1969. L'etichetta si rivolse così ad altri
musicisti per scrivere, produrre ed eseguire singoli a nome Ohio Express:
nessuno però era parte del quintetto scelto per i tour.
Dopo che Levine se ne fu andato, gli Ohio Express non entrarono mai più nella
top 40 del Nord America.
Nel 1970 il modello era ormai consolidato, e nel 1972 il
nome del gruppo Ohio Express fu ritirato.
Nel 1975, Kasanetz e Katz misero insieme per un breve periodo una nuova
band dal vivo con il nome di Ohio Express. Si esibirono nei club di Long Island
con una formazione che comprendeva John Visconti alla voce e chitarra ritmica,
Irv Berner alla chitarra solista e voce, Elliot Schwartz alle tastiere e voce e
Angie al basso. Len Napolitano suonò la batteria per diverse esibizioni.
Anni dopo Tim Corwin rimise in piedi un'altra versione della band iniziando ad
esibirsi a livello nazionale e all'estero. Mantenendo attiva la band, nel 1999 presentò
la richiesta di utilizzo del marchio “Ohio Express”, ma non ottenne il consenso
delle etichette discografiche che possedevano i diritti sul nome.
La band negli anni 2000 si è esibita a Las Vegas, in altri casinò, e più
recentemente (2012) Corwin ha fatto un'apparizione su Cologne Television,
eseguendo "Yummy Yummy Yummy".
A metà degli anni Settanta si unì il chitarrista dei Mansfield Mike
Brumm e rimase nel gruppo fino alla fine degli anni 2000.
L'Ohio Express più recente
Una nuova versione itinerante di The Ohio Express fu rimessa in piedi negli
anni Ottanta. Successivamente, una formazione guidata dal batterista originale
Tim Corwin alla voce, John Baker (chitarra solista), Andy Lautzenheiser (basso),
Bill Hutchman (batteria), Jeff Burgess (tastiera) e Warren Sawyer (chitarra
ritmica e tastiere) iniziò a proporsi in tour nel circuito oldies.
Il 23 luglio 1988 il quintetto originale formato da Powers, Kastran,
Grassel, Pfahler e Corwin, si riunì per un "concerto celebrativo dei 20
anni”, al Renaissance Theater nella loro città, natale, Mansfield.
Due dei membri originali del gruppo itinerante sono morti: il
tastierista/cantante/cantautore Jim Pfahler il 10 marzo 2003 (54 anni) e il
chitarrista ritmico Doug Grassel il 21 settembre 2013, all'età di 64 anni.
Il bassista Dean Kastran ora suona il basso e canta nel gruppo
Eggerton-Kastran (alias E.a., EKG) - un duo acustico con il
cantante/chitarrista Denny Eggerton - e con una band di cinque elementi, i
Caffiends, entrambi i progetti con sede a Mansfield, Ohio.
Dale Powers è ora un evangelista di musica cristiana con sede a
Mansfield, Ohio, e ha fondato una sua etichetta discografica e sito web per diffondere
il suo credo.
Dean Kastran suona il basso nella Race Ministries Band e ha registrato
tracce con Dale nel suo album di canzoni originali intitolato "The Journey
Within!".
Indimenticabili,
nonostante i poco simpatici trucchetti commerciali che il pubblico, soprattutto di quei tempi, non poteva conoscere ne immaginare!
Album
Beg, Borrow and Steal - 1967
Ohio Express - 1967/1968
Chewy Chewy - 1969
Mercy – 1970
Compilation
The Very Best of The Ohio Express - 1970
The Best of The Ohio Express - Yummy Yummy Yummy -
2001