martedì 13 maggio 2025

Popoff del 13 maggio 1974, conduce Carlo Massarini


Popoff del 13 maggio 1974- conduce Carlo Massarini 


Carlo Massarini propone una puntata di Popoff decisamente rock, con ampia presenza di Rolling Stones, Lou Reed impegnato nei suoi rock degli esordi con i Velvet Underground, Johnny Winter, Jimi Hendrix. Rappresentato anche il jazz, o meglio la fusion, con il successo planetario di Herbie Hancock, un estratto da Headhunters.

In quella serata del 13 maggio 1974 non saranno però stati moltissimi i ragazzi italiani in ascolto di questa musica eccellente. È più probabile che fossero per strada a festeggiare i risultati del referendum su divorzio, il cui esito, con la storica vittoria dei laici, era comunicato proprio in quelle ore.

La puntata non è completa (45') e anche in questo caso la cassetta originale presenta alcuni disturbi, in particolare sulle musiche, ma è ascoltabile senza problemi.

Scaletta: Rolling Stones (Sing It All Together e Citadel da Their Satanic Majesties Request, fine 1967), Rascals (People Got To Be Free), Lou Reed (White Light / White Heat Live), Johnny Winter (Blinded By Love), Herbie Hancock (Chameleon), Stevie Wonder (He's Misstra Know-It-All), Procol Harum (The Idol), Jimi Hendrix (1983 ... A Merman I Should Turn To Be).









 

Valerio Billeri - "Lo-fi"


Conosco Valerio Billeri da molto tempo, un artista eclettico che nel suo percorso musicale ha spesso toccato le corde del rock blues, ma la cui aspirazione più intima e costante sembra convergere verso una ricerca sonora essenziale, un anelito al minimalismo espressivo e a una dimensione di solitudine interiore. Questa tensione artistica trova una nuova e significativa manifestazione in Lo-fi, un album che si addentra nelle profondità di un isolamento che riecheggia la vicenda storica di Napoleone a Sant'Elena. 

La solitudine, in generale, è un tema universale, un'esperienza che può essere imposta dalle circostanze esterne o ricercata come spazio di riflessione e di verità. L'esilio dell'imperatore francese diviene qui una potente lente attraverso cui esplorare un distacco più intimo e spirituale, un allontanamento dal frastuono del mondo contemporaneo che Billeri traduce in un'esperienza d'ascolto analogica e profondamente introspettiva.

In un'epoca dominata dall'onnipresenza del digitale e dall'asetticità delle nuove tecnologie, Valerio Billeri intraprende un percorso controcorrente con "Lo-fi", un album di nove tracce (otto composizioni originali e una rilettura di un canto popolare di epoca napoleonica) meticolosamente registrato su un multitraccia analogico degli anni '90. Questa scelta tecnica non è un mero vezzo stilistico, bensì una dichiarazione d'intenti: restituire alla musica una fisicità, un'anima palpabile fatta di imperfezioni, di respiri e di risonanze che le fredde emulazioni virtuali faticano a replicare.

Il concept nucleare dell'opera affonda le radici nell'immagine evocativa dell'esilio di Napoleone a Sant'Elena. Tuttavia, questa segregazione fisica diviene nel tessuto narrativo dell'album una metafora potente dell'isolamento interiore, di un distacco spirituale dal rumore assordante e dalla superficialità del mondo contemporaneo. L'esilio si trasforma in una condizione mentale, in una ricerca solitaria della verità celata sotto la coltre delle distrazioni esterne.

Se il precedente lavoro di Billeri, "Verso Bisanzio", si proiettava verso orizzonti immaginifici e celestiali, "Lo-fi" si addentra in territori più nebulosi e introspettivi. L'incertezza diviene cifra stilistica, avvolgendo le narrazioni e lasciando l'io narrante – e di conseguenza l'ascoltatore – in balia di interrogativi esistenziali. La solitudine, lungi dall'essere percepita come una condanna, si configura come un'opportunità, seppur talvolta imposta, per una disamina profonda del sé.

Il filo conduttore concettuale dell'album trova una sintesi efficace nei versi della poetessa Sara Teasdale: "Lascia che io sfumi nell’oblio silente come un fiore o un fuoco una volta ardente", incastonati nel brano "Distese". Questa citazione non è un mero intermezzo lirico, ma una chiave di lettura per l'intero lavoro, suggerendo un desiderio di dissoluzione nell'essenza, di un ritorno a una purezza originaria.

Musicalmente, "Lo-fi" si presenta come un'opera acustica, caratterizzata da un minimalismo espressivo che non sfocia mai nella sterilità. L'essenzialità degli arrangiamenti – spesso affidati alla sola voce, chitarra e armonica – paradossalmente amplifica la densità emotiva dei brani. L'album si snoda come un romanzo in forma sonora, attraversando le geografie interiori della solitudine e della memoria, con incursioni stilistiche che spaziano da un blues scarno a inflessioni della canzone d'autore romana, il tutto filtrato attraverso una sensibilità cantautorale autentica e priva di orpelli superflui.

L'impatto emotivo sull'ascoltatore è graduale, ma profondamente risonante. La voce di Billeri, sempre più intima e vulnerabile con il progredire dell'ascolto, si fa portatrice di narrazioni che non necessitano di scenografie elaborate per colpire nel segno. La parola acquista un peso specifico notevole, dialogando con l'ascoltatore.

La struttura dell'album è concepita con una precisa coerenza narrativa: si apre come un diario di bordo, con annotazioni intime e riflessive, per poi culminare nella sensazione di un esilio, non fisico ma interiore, da un contesto sociale percepito come alienante. In questa geografia sonora fatta di sussurri e silenzi significativi, ogni brano si configura come una tappa in un altrove spirituale, uno spazio rarefatto in cui l'ascoltatore è invitato a perdersi per ritrovarsi.

L'inserimento di "Coraggio ben mio", un canto popolare romano di epoca napoleonica, rappresenta un'incursione nell'esterno, un "corpo estraneo" che tuttavia si integra sorprendentemente nell'organismo fragile e coeso dell'album, quasi a sottolineare un legame sotterraneo con una tradizione popolare autentica e scevra da contaminazioni moderne.

Billeri ci regala un'esperienza immersiva che invita alla riflessione e al raccoglimento. Estraneo alle logiche effimere del mercato musicale contemporaneo, il suo lavoro si radica in una ricerca di autenticità e di profondità emotiva che lo rende un'opera preziosa e duratura, capace di lasciare una traccia significativa nell'animo dell'ascoltatore.






lunedì 12 maggio 2025

12 maggio 1981: lo start a Mister Fantasy

Mister Fantasy - Musica da vedere” è stata una trasmissione televisiva andata in onda su Rai 1 in quattro edizioni, dal 12 maggio 1981 al 17 luglio 1984.

Sorta di rotocalco televisivo dedicato alla musica rock, è stata la prima trasmissione italiana riservata interamente ai videoclip musicali.

Fu ideata da Paolo Giaccio e condotta da Carlo Massarini con la partecipazione di Mario Luzzatto Fegiz.

Oltre a trasmettere in anteprima video musicali provenienti dall'estero, il programma produsse i videoclip di numerosi artisti italiani.

A maggio 2021, sei puntate della prima edizione ed uno “Speciale Franco Battiato” sono state pubblicate sulla piattaforma RaiPlay.

Nei primi anni Ottanta iniziavano a circolare in Italia video musicali per la promozione discografica di artisti stranieri, ma a parte alcuni utilizzi all'interno di trasmissioni dedicate ai giovani non esisteva nessuno spazio nella TV italiana espressamente dedicato a tali prodotti; trasmissioni di varietà, come Domenica in, prevedevano esclusivamente la presenza dell'artista in studio.

Paolo Giaccio ricordava che:

«Dissi a Brando Giordani che utilizzando questi supporti videomusicali si poteva fare un programma dal taglio molto visuale, legato all'immaginazione; raccontammo l'idea al direttore di rete di allora, Emanuele Milano, e il programma fu approvato; Brando Giordani suggerì il sottotitolo “Musica da vedere”.»

Il programma utilizzava uno studio interamente bianco con schermi che rimandavano immagini dei video musicali; anche il conduttore, Carlo Massarini, vestiva interamente di bianco. L'innovativa grafica del programma fu affidata a Mario Convertino. Ogni puntata, della durata di cinquanta minuti, era messa in onda il martedì sera attorno alle 23.

Il titolo del programma fu preso dal brano musicale “Dear Mr. Fantasy” (1967) contenuto nell'album di esordio del gruppo rock britannico Traffic, uno dei gruppi preferiti di Carlo Massarini.





L'anima eclettica di Steve Winwood: tanti Auguri!

 


La voce che ha attraversato i generi: l'incredibile viaggio sonoro di Steve Winwood, che compie gli anni il 12 maggio


Il nome di Steve Winwood risuona attraverso i decenni come un marchio di autenticità e talento multiforme. Non un semplice cantante o tastierista, ma un vero e proprio artigiano del suono, Winwood ha intrapreso un viaggio musicale eclettico, spaziando con disinvoltura dal rhythm and blues viscerale al rock psichedelico, dal folk britannico al sofisticato pop-soul degli anni Ottanta. La sua voce, un timbro caldo e potente intriso di un’anima blues profonda, è stata la colonna sonora di generazioni, mentre la sua maestria all’organo Hammond, alla chitarra e al basso ha arricchito innumerevoli paesaggi sonori.

La sua storia inizia in un’epoca d’oro per la musica britannica. Ancora adolescente, Winwood irrompe sulla scena come la voce bianca e l’anima musicale dello Spencer Davis Group. Era il 1963, e la Gran Bretagna era in fermento, cullata dall’onda del British Invasion. Canzoni come "Keep on Running" e l'inconfondibile "Gimme Some Lovin'" portano l'impronta indelebile del giovane Winwood: un talento precoce che sembrava incarnare lo spirito del blues americano trapiantato nel cuore dell'Inghilterra. La sua interpretazione intensa e la sua abilità strumentale, nonostante la giovane età, lo proiettarono immediatamente sotto i riflettori.

The Spencer Davis Group

Ma l'inquietudine creativa di Winwood non poteva essere confinata a un solo genere. Nel 1967, con un coraggio artistico ammirevole, lascia lo Spencer Davis Group per co-fondare i Traffic. Questa nuova avventura segnò una svolta stilistica radicale. I Traffic erano un crogiolo di influenze, mescolando rock, jazz, psichedelia e sonorità folk con una libertà espressiva che li rese unici nel panorama musicale. Album come Mr. Fantasy e Traffic sono pietre miliari di un’epoca, intrisi di atmosfere sognanti, improvvisazioni strumentali sofisticate e testi evocativi. La voce di Winwood si fece più sfumata, capace di navigare con agilità tra le intricate trame sonore create dalla band.

Traffic

Ancora una volta, l'insaziabile sete di esplorazione musicale spinse Winwood verso nuovi orizzonti. Alla fine degli anni Sessanta, diede vita ai Blind Faith, un supergruppo effimero ma leggendario che vedeva la partecipazione di Eric Clapton, Ginger Baker e Rick Grech. Sebbene la loro esistenza sia stata breve, il loro unico album omonimo lasciò un segno indelebile, con brani come "Can't Find My Way Home" che mettevano in risalto la vena melodica e malinconica della voce di Winwood in un contesto rock più diretto.

Blind Faith

Gli anni Settanta videro un ritorno, seppur intermittente, dei Traffic, con album che continuavano a esplorare nuove sfumature sonore. Contemporaneamente, Winwood intraprese una prolifica carriera solista, che lo portò a pubblicare album acclamati dalla critica come Steve Winwood e Arc of a Diver. Questi lavori rivelarono un artista maturo, capace di fondere elementi soul, funk e jazz in un suono personale e riconoscibile.

Ma fu negli anni Ottanta che Steve Winwood conobbe un successo commerciale planetario con album come Back in the High Life e Roll with It. Brani come "Higher Love" e la title track "Roll with It" scalarono le classifiche di tutto il mondo, portando la sua voce inconfondibile e il suo talento compositivo a un pubblico ancora più vasto. Queste canzoni incarnavano uno stile pop sofisticato, intriso di influenze soul e R&B, che dimostrava la sua capacità di evolversi senza perdere la sua anima musicale.

Anche negli anni successivi, Winwood ha continuato a creare musica di alta qualità, esplorando le sue radici blues e soul con una saggezza e una profondità che solo un artista con la sua esperienza può possedere. La sua carriera è una testimonianza di una curiosità musicale insaziabile e di un talento poliedrico che lo ha reso una figura iconica e rispettata nel panorama musicale internazionale.

Steve Winwood non è solo un musicista; è un camaleonte sonoro che ha saputo reinventarsi rimanendo fedele alla sua essenza. La sua voce, la sua abilità strumentale e la sua capacità di attraversare generi con naturalezza lo rendono un artista unico, la cui eredità continua a ispirare musicisti e appassionati di tutto il mondo. La sua musica è un viaggio attraverso le sfumature dell'anima, un’esplorazione continua di suoni e ritmi che testimoniano la vitalità e la ricchezza di un talento senza tempo.





domenica 11 maggio 2025

Dalle fucine di Newcastle al mito del rock: il timbro inconfondibile di Eric Burdon, che oggi compie gi anni...



Nell'epoca d'oro del rock britannico, un talento grezzo e potente emerse dalle ceneri industriali: Eric Burdon, il bluesman che con la sua voce inconfondibile diede un'anima intensa e ribelle alla musica degli anni '60


Nel panorama effervescente del British Invasion degli anni '60, tra le chitarre distorte e i ritmi incalzanti, emergeva una voce inconfondibile, roca e potente come il carbone della sua città natale: Eric Burdon. Nato l'11 maggio 1941 a Newcastle, in Inghilterra, Burdon non era il tipico belloccio da copertina pop. La sua forza risiedeva in un'intensità emotiva cruda, in un timbro bluesy che affondava le radici nelle difficili realtà della classe operaia e in un carisma magnetico che catturava l'essenza di un'epoca di cambiamenti radicali.

La Newcastle della sua giovinezza, con i suoi cantieri navali e la sua atmosfera industriale, forgiò in Burdon un'anima inquieta e un desiderio di esprimere le proprie emozioni in modo viscerale. Il blues americano divenne la sua prima grande passione, un linguaggio musicale che parlava direttamente al suo cuore e che trovava eco nelle durezze della vita quotidiana. Artisti come Bessie Smith, Muddy Waters e Howlin' Wolf furono le sue prime guide, instillando in lui un rispetto profondo per la tradizione e un desiderio di infondere quella stessa autenticità nella propria musica.

Il vero trampolino di lancio per Eric Burdon fu la formazione dei The Animals nei primi anni '60. Insieme a musicisti talentuosi come Alan Price, Chas Chandler, Hilton Valentine e John Steel, Burdon diede vita a un suono che fondeva l'energia del rock and roll con la visceralità del blues e un tocco di R&B. Il loro successo planetario con "House of the Rising Sun", nel 1964, non fu solo un trionfo commerciale, ma anche una dichiarazione d'intenti. La voce intensa e dolente di Burdon, che narrava la storia di una vita perduta a New Orleans, catturò l'immaginario di un'intera generazione, elevando una ballata folk tradizionale a un inno rock senza tempo.

Gli anni con gli Animals furono un periodo di intensa creatività ed evoluzione. Burdon, con la sua forte personalità e la sua inquietudine artistica, guidò la band attraverso una serie di successi che spaziavano dal blues-rock ("Don't Let Me Be Misunderstood") alla psichedelia ("When I Was Young", "Sky Pilot"). La sua voce divenne il marchio distintivo del gruppo, capace di trasmettere rabbia, malinconia, gioia e ribellione con una naturalezza disarmante.

Tuttavia, l'anima blues di Burdon lo spinse presto verso nuove esplorazioni sonore. Alla fine degli anni '60, formò gli Eric Burdon & The New Animals, una formazione più sperimentale che incorporava elementi di psichedelia, funk e jazz, creando brani che riflettevano lo spirito controculturale dell'epoca e la crescente influenza della musica californiana.

Anche negli anni successivi, attraverso cambi di formazione e progetti solisti, Eric Burdon rimase fedele alla sua essenza di bluesman, un artista che non ha mai avuto paura di sperimentare e di confrontarsi con le proprie radici. La sua voce, pur con il passare del tempo, ha mantenuto quella grinta e quell'autenticità che lo hanno reso unico.

Oggi, nell'anniversario della sua nascita, rendiamo omaggio a Eric Burdon, un artista che ha saputo incarnare lo spirito indomito del blues in un contesto rock in continua evoluzione. La sua voce, graffiante e passionale, rimane una pietra miliare della musica popolare, un ponte sonoro tra le fumose bettole di Chicago e i grandi palcoscenici del mondo.

Buon compleanno a un vero leone del rock e del blues, la cui eredità continua a ispirare musicisti e appassionati ovunque.




Nel ricordo di Noel Redding, mancato l'11 maggio di 22 anni fa.


Sono passati 22 anni dalla scomparsa di Noel Redding. Aveva solo 58 anni quell’’11 maggio del 2003.

Redding (nato a Folkestone il 25 dicembre del 1945) è stato un bassista e chitarrista britannico noto soprattutto per aver fatto parte del trio musicale Jimi Hendrix Experience.
Inizia a suonare il violino all'età di 9 anni e in seguito si avvicina al mandolino, alla chitarra e infine al basso.
Nel 1962, Redding entra a far parte del gruppo The Burnettes, cambiando il nome successivamente in The Loving King.
Con questo gruppo realizza tre singoli. Il gruppo si scioglierà poi nel 1966. In quello stesso anno, nel corso di un’audizione, incontra Chas Chandler che gli propone di suonare il basso in un gruppo che avrebbe dovuto nascere attorno ad un giovane chitarrista americano di nome Jimi Hendrix. Ai due si aggiunge il batterista Mitch Mitchell. Nel mese di ottobre nasceva così il trio Jimi Hendrix Experience.
Con gli Experience ebbe un grande successo e realizzò tre album considerati dei classici del rock: Are You Experienced?, Axis: Bold as Love e Electric Ladyland. Inoltre partecipò al Pop Festival di Monterey, considerato l'apice del successo del trio.
Nel 1969 Noel lascia la Band a causa di dissidi vari con Hendrix e realizza due album con un suo proprio gruppo: Fat Mattress.
Nel 1971 forma il trio Road, con Les Sampson alla batteria e Rod Richard alla chitarra.
Tornato a vivere in Irlanda forma la Noel Redding Band, gruppo che restò unito fino al 1980, cui seguì un progetto acustico insieme a Carol Appleby (divenuta sua moglie) fino al 1990.
In seguito ha partecipato a numerosi festival e ricorrenze, ricevendo numerose riconoscenze per il contributo dato a Hendrix ed agli Experience.
l'11 maggio del 2003 Noel scompare. La notizia, resa nota da Ian Grant della Trackrecords, e confermata dalla famiglia Hendrix qualche giorno dopo, non recava indicazioni ne sulla causa ne sul luogo del decesso.
Gli insuccessi artistici e i problemi economici avevano spinto Noel a ritirarsi a vita privata in un piccolo villaggio dell’Irlanda del nord. Qui Noel aveva trovato la tranquillità per portare a termine un desiderio covato a lungo: scrivere un libro sugli anni della Jimi Hendrix Experience.

Il libro, che (guarda caso) s’intitola “Are You Experienced?” è stato pubblicato nel 1996 da una piccola casa editrice londinese.
Ricordiamolo così…







44 anni senza il leone: il mondo continua a celebrare Bob Marley


 

Il ritmo non si ferma: a 44 anni dalla sua morte, Bob Marley vive nella sua musica


Kingston, Giamaica – Quarantaquattro anni fa, l'11 maggio 1981, il mondo perdeva Robert Nesta Marley, per sempre inciso nella storia come Bob Marley, l'icona indiscussa del reggae. Oggi, nel 2025, il suo spirito, la sua musica e il suo messaggio di pace, amore e ribellione pacifica continuano a risuonare con la stessa forza, se non maggiore, in ogni angolo del globo.

La sua prematura scomparsa, all'età di soli 36 anni, non ha fatto altro che amplificare la portata del suo impatto culturale. Marley non fu semplicemente un musicista; fu un profeta moderno, la voce degli emarginati, un simbolo di speranza che trascendeva i confini geografici e le barriere linguistiche. Le sue canzoni, con le loro ritmiche avvolgenti e i testi intrisi di coscienza sociale e spirituale, sono diventate l'inno di generazioni, mantenendo intatta la loro rilevanza nel corso dei decenni.

Dalle umili origini a Nine Mile, in Giamaica, Marley, insieme ai leggendari Wailers (Peter Tosh e Bunny Wailer), creò un suono inconfondibile che conquistò il mondo. Hit come "No Woman, No Cry", "Redemption Song", "One Love" e "Get Up, Stand Up" non sono solo brani musicali, ma veri e propri manifesti di un'epoca, capaci ancora oggi di emozionare e ispirare.

Il suo impegno sociale fu inscindibile dalla sua arte. Attraverso la sua musica, Marley denunciò le ingiustizie, il razzismo e la povertà, schierandosi con i movimenti di liberazione e promuovendo un messaggio di unità e fratellanza ispirato dalla sua profonda fede Rastafari. La sua visione di un mondo più equo e pacifico continua a essere un faro per molti.

A distanza di oltre quattro decenni dalla sua morte, l'influenza di Bob Marley sulla cultura popolare rimane innegabile. Il suo stile unico, il suo carisma e la sua spiritualità lo hanno consacrato come un'icona globale, un simbolo di resistenza pacifica e di lotta per i diritti umani. La sua immagine con i dreadlocks è un'icona intramontabile.

Nel 2025, la sua musica vive ancora nelle radio, nelle piattaforme di streaming e nei cuori di milioni di persone. Nuove generazioni scoprono la potenza del suo messaggio, la bellezza delle sue melodie e la profondità delle sue parole. Il ricordo di Bob Marley non si è affievolito; anzi, si è trasformato in una celebrazione continua di un'eredità musicale e spirituale che continua a plasmare il nostro mondo.

La Giamaica, la sua terra natale, lo onora costantemente, mantenendo viva la sua memoria attraverso eventi e iniziative che tramandano il suo messaggio. Oggi, come ogni anno l'11 maggio, il mondo si ferma per ricordare il Leone del Reggae, un artista che, nonostante la sua breve vita, ha lasciato un'impronta indelebile nella storia dell'umanità. La sua musica, ieri come oggi, è un inno alla speranza e un invito costante all'"One Love".




sabato 10 maggio 2025

Donovan: quando il vento si fece musica

 


Il menestrello psichedelico: Donovan Leitch, la voce flautata che plasmò il suono degli anni '60, tra ballate folk e sogni lisergici


Il vento gelido che sferzava le coste frastagliate della Scozia aveva plasmato il carattere di Donovan Philips Leitch fin dalla sua infanzia. Nato a Glasgow il 10 maggio del 1946, in un’epoca di austerità post-bellica, Donovan non conobbe subito la dolcezza delle melodie che un giorno avrebbero incantato il mondo. La sua infanzia fu segnata dalla malattia, una forma di poliomielite che lo costrinse a un lungo periodo di convalescenza. Fu in quel letto d’ospedale, tra le pagine di libri illustrati e il sussurro dei racconti materni, che il seme della sua immaginazione germogliò rigoglioso.

Trasferitosi con la famiglia a Hatfield, in Inghilterra, la sua salute migliorò gradualmente, ma l’inquietudine di un’anima artistica cominciava a farsi sentire. La scuola non lo attraeva quanto le strade, i caffè fumosi dove risuonavano le prime note del folk revival britannico. Donovan, un ragazzo dagli occhi sognanti e la chitarra sempre a portata di mano, si immerse in quel fermento culturale, assorbendo le ballate tradizionali, il blues ruvido e le nascenti sonorità del rock and roll.

La sua vera educazione avvenne sui palchi improvvisati, nei locali fumosi dove si esibiva per pochi scellini e per la passione di condividere la sua musica. La sua voce, morbida e flautata, si sposava perfettamente con le melodie acustiche della sua chitarra, creando un’atmosfera intima e sognante. Le sue prime canzoni, spesso intessute di immagini bucoliche e di un lirismo ingenuo ma sincero, riflettevano le sue radici scozzesi e il suo sguardo curioso sul mondo.

Il 1965 fu l’anno della svolta. A soli diciannove anni, Donovan fece la sua prima apparizione televisiva nel popolare programma “Ready Steady Go!”. La sua esibizione, con la sua chitarra acustica e il suo stile da menestrello moderno, catturò immediatamente l’attenzione del pubblico britannico. La sua immagine, con il cappello a tesa larga e l’aria da folletto malinconico, lo distinse subito dalla folla dei nascenti rocker.

Il suo primo singolo, “Catch the Wind, pubblicato nello stesso anno, divenne un successo immediato, scalando le classifiche e consacrandolo come una delle voci più promettenti della scena musicale britannica. La canzone, con la sua melodia orecchiabile e il testo poetico, incarnava lo spirito di un’epoca in fermento, un desiderio di libertà e di cambiamento che si diffondeva tra i giovani.

Nei mesi successivi, Donovan sfornò una serie di singoli di successo, tra cui “Colours”, "Mellow Yellow", “Universal Soldier” (una potente ballata pacifista scritta da Buffy Sainte-Marie), "Season of the Witche “Sunshine Superman”. Quest’ultima, con il suo arrangiamento psichedelico e i riferimenti onirici, segnò una svolta nel suo stile musicale, aprendo le porte a sonorità più sperimentali e influenzate dalla cultura hippie che stava esplodendo.

La sua ascesa fu rapida e vertiginosa. Donovan divenne un’icona della Swinging London, frequentando artisti del calibro dei Beatles e dei Rolling Stones. Il suo stile eclettico, che mescolava folk, pop e influenze psichedeliche, lo rese una figura unica nel panorama musicale dell’epoca. I suoi concerti erano eventi magici, dove la sua voce incantava il pubblico e le sue canzoni creavano un’atmosfera di sognante evasione.

La sua carriera, tuttavia, conobbe anche momenti controversi. L'uso di marijuana e alcune sue dichiarazioni lo posero in contrasto con una parte dell’establishment e della stampa. Ma Donovan, con la sua indole pacifica e il suo spirito libero, continuò a seguire la sua musa, creando un corpus di opere che avrebbero influenzato generazioni di musicisti.

Questo era Donovan Leitch negli anni del suo fulgore, un menestrello moderno che, con la sua chitarra e la sua voce incantata, aveva catturato il vento di un’epoca e lo aveva trasformato in canzoni indimenticabili. La sua storia, come una ballata senza tempo, ha continuato a risuonare, portando con sé l’eco di un’era di sogni e di rivoluzioni musicali.



venerdì 9 maggio 2025

The Left Banke: effimera bellezza barocca nel cuore della Beat Generation

 


Nella animata New York degli anni Sessanta, mentre l'onda lunga della British Invasion si propagava e la psichedelia iniziava a colorare le sonorità, una band emerse con un'eleganza anacronistica, un'oasi di melodia sofisticata in un panorama musicale in fermento: i The Left Banke. La loro parabola, intensa quanto breve, incise un solco profondo nel pop barocco, lasciando un'eredità di canzoni squisite e malinconiche.

La scintilla creativa scoccò dall'incontro tra il carismatico cantautore e tastierista Michael Brown e il talentuoso chitarrista Steve Martin Caro. Ben presto si unirono a loro il bassista Tom Finn e il batterista Warren David-Schierhorst, completando una formazione che, pur soggetta a frequenti cambiamenti, avrebbe plasmato un suono inconfondibile.

Il marchio di fabbrica dei The Left Banke era un pop orchestrale, intriso di influenze classiche. Archi sontuosi, clavicembali delicati, armonie vocali intricate e melodie carezzevoli si fondevano in un arazzo sonoro di rara bellezza. I testi, spesso incentrati su amori adolescenziali tormentati e fugaci, venivano interpretati con una vulnerabilità disarmante, catturando la fragilità emotiva di un'epoca in transizione.

Il loro periodo d'oro fu fulmineo. Il singolo di debutto del 1966, "Walk Away Renée", divenne un successo immediato, scalando le classifiche con la sua melodia indimenticabile e l'arrangiamento raffinato. Il brano incarnava perfettamente l'essenza della band: una dolce tristezza venata di speranza, un'eleganza quasi da camera proiettata nel contesto pop.

Il successo fu bissato nello stesso anno con "Pretty Ballerina", un altro gioiello di pop barocco che confermò la loro formula vincente. Entrambi i brani confluirono nel loro album di debutto, Walk Away Renée/Pretty Ballerina, un lavoro acclamato dalla critica che consacrò i The Left Banke come una delle voci più originali della scena musicale americana.

Tuttavia, la tensione creativa e le divergenze artistiche iniziarono presto a minare la stabilità del gruppo. Michael Brown, la mente musicale della band, lasciò temporaneamente la formazione, per poi farvi ritorno. Questi attriti interni, uniti alle pressioni del successo e alle diverse visioni sul futuro musicale, portarono a una serie di cambi di line-up che indebolirono la coesione del gruppo.

Il secondo album, The Left Banke Too (1968), pur contenendo momenti di indubbio fascino, non riuscì a replicare il successo del predecessore. Le sonorità si fecero leggermente più rock, perdendo in parte quella delicatezza barocca che aveva contraddistinto i loro esordi.

Quello che viene spesso indicato come il terzo album dei The Left Banke, Strangers on a Train, non fu un album ufficiale pubblicato dalla band durante il loro periodo di attività principale (fine anni '60 - inizio anni '70). Si tratta piuttosto di una raccolta postuma di materiale eterogeneo, comprendente registrazioni inedite, demo e singoli successivi realizzati da diverse formazioni del gruppo, spesso rimaneggiate e senza la guida del nucleo originale.

Le tracce contenute in questa compilation provengono da periodi differenti e vedono la partecipazione di vari membri, riflettendo i tentativi di Michael Brown di riformare la band. Di conseguenza, lo stile musicale all'interno di questa raccolta è meno coeso rispetto ai loro primi due album. Alcune canzoni mostrano un'evoluzione verso sonorità più pop rock, pur mantenendo in alcuni casi le caratteristiche armonie e melodie sofisticate che contraddistinguevano i The Left Banke. Strangers on a Train rappresenta quindi una testimonianza interessante, seppur frammentata, dell'evoluzione incompiuta della band e del potenziale delle loro diverse incarnazioni. Il materiale è stato pubblicato in varie compilation nel corso degli anni, contribuendo a preservare la loro eredità musicale. Tuttavia, è fondamentale distinguerlo dai loro due album ufficiali pubblicati durante il loro periodo di massimo splendore.

Nonostante i tentativi di ricostruire la band con nuove formazioni, il fulgore iniziale dei The Left Banke si era ormai affievolito. Alla fine degli anni Sessanta, il gruppo si sciolse, lasciando dietro di sé un catalogo prezioso ma esiguo.

La loro influenza, tuttavia, si è dimostrata duratura. Artisti come Elvis Costello, Elliott Smith e Belle and Sebastian hanno citato i The Left Banke come fonte di ispirazione, riconoscendo la loro capacità di fondere sofisticazione melodica e immediatezza pop. Le loro canzoni continuano a risuonare per la loro bellezza senza tempo, evocando un'epoca di sogni romantici e malinconica eleganza.

I The Left Banke furono un'anomalia affascinante nel panorama musicale degli anni Sessanta. La loro musica, un prezioso cameo di pop barocco, rimane una testimonianza di un'effimera stagione di creatività purissima, un sussurro di raffinata bellezza che ancora oggi incanta gli ascoltatori con la sua fragile e intramontabile magia.






"MONASTIR": l'album oltre le immagini video-Il commento

 


Monastir: un'odissea sonora tra solitudine cosmica e riscoperta spirituale


Monastir, l'album di cui mi occupo oggi, è parte integrante di un progetto più ampio, concepito e diretto da Francesco Paolo Paladino. L'opera musicale nasce infatti in stretta connessione con il film omonimo, anch'esso scritto e diretto da Paladino. Prima di immergerci nell'analisi dell'album, è doveroso segnalare che il commento al film "Monastir" è disponibile al seguente link:

https://athosenrile.blogspot.com/2025/05/monastir-un-viaggio-cosmico-tra.html


La premessa è fondamentale per comprendere appieno la ricchezza e la complessità di Monastir, in cui musica e immagini si intrecciano e si completano a vicenda.

Monastir si presenta come un'esperienza musicale e concettuale che trascende i confini convenzionali, trasportando l'ascoltatore in un viaggio attraverso le profondità dello spazio e dell'anima umana. Questo progetto ambizioso, frutto della sinergia tra numerosi artisti, si configura come una sorta di "opera cosmica", in cui la musica, la voce e le immagini si fondono per esplorare temi universali come la solitudine, la ricerca di significato e la tensione tra ragione e spirito.  

L'album si apre con un'atmosfera rarefatta e suggestiva, in cui le voci eteree di Dorothy Moskowitz si librano su paesaggi sonori stratificati e avvolgenti, creati da Paladino, le cui composizioni - che affondano le radici nella sua "Doubling Music" - si caratterizzano per la loro capacità di spaziare da momenti di minimalismo sonoro a esplosioni di intensa emotività, creando un continuo dialogo tra tradizione e sperimentazione.  

La voce della Moskowitz emerge come uno strumento potente ed espressivo, capace di comunicare una vasta gamma di emozioni, dalla fragilità alla forza, dalla malinconia alla speranza. Il suo contributo va oltre la semplice interpretazione dei testi, configurandosi come una vera e propria co-creazione dell'opera. Le sue armonizzazioni vocali aggiungono un ulteriore livello di profondità e complessità alle composizioni di Paladino, creando un connubio artistico di grande impatto.  

I testi, scritti da Francesco Paladino con adattamenti poetici di Dorothy Moskowitz e Luca Chino Ferrari, si addentrano in territori esistenziali e spirituali, esplorando la condizione dell'essere umano di fronte all'immensità del cosmo e alla ricerca di un senso di appartenenza. La solitudine cosmica, l'interrogarsi sul destino dell'umanità e la tensione tra la razionalità e la spiritualità emergono come temi centrali dell'opera, invitando l'ascoltatore a una profonda riflessione sul proprio posto nell'universo.  

Un elemento di particolare originalità è l'inserimento della narrazione legata al "Monastero delle Suore di Clausura di Plautin" e al diario di Suor Menfren, recitata dalla voce evocativa di Edward Ka-Spel. Questo espediente narrativo, che si articola in sezioni "Extra" all'interno dell'album, aggiunge un ulteriore strato di significato all'opera, suggerendo una riflessione sulla natura della fede, sulla ricerca della verità e sul potere della memoria.  

Il progetto si configura come un'opera corale, in cui ogni artista coinvolto contribuisce con la propria sensibilità e il proprio talento alla creazione di un tessuto sonoro ricco e sfaccettato. Dalle "texture di piano" di Riccardo Sinigaglia ai "suoni spaziali" di Alessandro Fogar, dalle percussioni di Stefano Scala alle tessiture oniriche della chitarra di Sean Breadin, ogni elemento si incastra perfettamente nel mosaico sonoro dell'album, creando un'esperienza d'ascolto immersiva e coinvolgente.  

Il packaging del CD, curato nei minimi dettagli da Deison, Silvana Tonizzo e Stefano Gentile, si integra perfettamente con l'opera musicale, trasformandola in un oggetto d'arte a tutto tondo. Le immagini evocative di Maria Assunta Karini e i contributi video di Dan Abbott, (collaboratore degli Hypgnosis) arricchiscono ulteriormente l'esperienza sensoriale, offrendo all'ascoltatore un'immersione totale nel mondo di "Monastir".  

Monastir è un'opera di grande respiro artistico, che si rivolge a un pubblico disposto a lasciarsi trasportare in un viaggio interstellare ed introspettivo. Un album che sfida le convenzioni, che esplora i confini della musica e che invita l'ascoltatore a interrogarsi sul significato della propria esistenza in un universo vasto e misterioso. 


Paladino ha risposto gentilmente alle mie domande…


Il booklet evidenzia il contributo di numerosi artisti. Potresti approfondire il processo collaborativo e come i diversi input artistici (musicali, vocali, visivi) sono stati intrecciati per creare l'opera finale?

È una bella responsabilità, potrei dimenticarmi di elencare uno di loro creando una ingiustizia oggettiva. Ci proviamo. Irene Lusignani quando registrai la sua voce era una bellissima neonata di 15 giorni che emetteva ultrasuoni che ancora stavano in paradiso; Riccardo Sinigaglia mi ha lasciato carta bianca donandomi meravigliose texture di piano; Fogar mi ha costruito appositamente una serie di “suoni spaziali”; Angelo Contini ha suonato il trombone nel cosmo o così sembra!; il Trio Cavalazzi, invitati da Riccardo, hanno offerto spunti creativi davvero profondi e geniali; Enten Hitti hanno creato stacchi e sonorità “da camera” come solo loro riescono a fare; Stefano Scala ha fornito un prezioso tappeto percussivo; Mauro Sambo ha esorcizzato gli spazi con il suo flauto; Sean Breadin ha costruito ragnatele di suoni onirici con la sua chitarra; Melissa Falarski ha affiancato la straordinaria voce di Dorothy. E come dimenticare Roberto Laneri, che con i suoi magnifici fiati e la sua incredibile esperienza mi ha creato diverse alternative al progetto originario! Infine, Dorothy e Luca Chino Ferrari. Dorothy è -così la ritengo- una coautrice di MONASTIR, perché ha creato tutte le armonizzazioni vocali, praticamente ha riscritto in un altro livello le mie musiche. È bellissimo confrontarmi con lei perché il nostro dialogo è tra persone affamate di sperimentazioni, di nuovo e di creativo. Non c’è limite a quello che stiamo facendo. Ci intendiamo alla perfezione. Neppure la lingua inglese è un problema. Dimentichiamo le nostre età, i nostri ovvi malanni, la nostra contingenza e siamo come bambini con le dita nella marmellata. Con Luca Chino Ferrari c’è una stima 30ennale. Siamo affascinati dei nostri rispettivi lavori e i suoi libri su Barrett, Taylor sono capolavori; collaboriamo insieme supportati da stima reciproca e siamo indispensabili l’un l’altro, prova ne sia che tutte le volte che litighiamo troviamo il modo per riconciliarci alzando il livello della nostra stima reciproca. 

I testi delle canzoni esplorano spesso temi di solitudine cosmica, amore e ricerca spirituale. Qual è stata l'ispirazione iniziale per questi temi e come si sono evoluti durante il processo creativo?

Solitudine cosmica ed evoluzione spirituale si uniscono, si scontrano, riemergono come sentimenti che sorreggono l’intero progetto. L’ispirazione è il nostro tempo, tanto impressionante per l’assenza di elementi poetici e spirituali, quanto denso di ogni tipo di essenza ripugnante basata sulla ragione e l’opportunismo. In un'epoca di strazianti guerre ciniche e assurde MONASTIR tenta di ergersi come una preghiera. In “Monastir” spero tu possa ritrovare il desiderio fortissimo di una evoluzione umana da una esistenza basata sulla ragione (razionale, ragion di stato, compromessi) allo spirito (che non ammette confini e barriere).

La sezione "Extra" include un testo che fa riferimento alle "Suore di Clausura di Plautin" e alla scoperta del diario di Suor Menfren. Plautin è un luogo di finzione, e quale significato ha questo elemento narrativo nel contesto più ampio di "MONASTIR"?

Nel film questi due momenti stanno all’inizio e alla fine del film come vere proprie spiegazioni introduttive e finali. Nel CD sono “bonus tracks”: questo per evitare di rallentare la comunicazione della musica ai fruitori del progetto. Sono parti recitati dall’immenso Edward Ka-Spell anima dei Legendary Pink Dots. Io e Edward siamo amici da tanto tempo e collaboriamo da anni. L’idea che potesse essere presente in un lavoro condiviso con la grande Dorothy lo aveva interessato fin dall’inizio. Luca Chino Ferrari ha scritto questi due testi che Edward ha recitato.

Il progetto sembra fondere vari stili musicali e paesaggi sonori. Come descriveresti il genere o lo stile complessivo di "MONASTIR", e quali sono state le sue principali influenze musicali nella composizione?

Lascerei più volentieri la definizione del “genere musicale” di MONASIR a voi critici e storici della musica. Se proprio devo farlo, pensandoci bene, devo dire che la musica di MONASTIR è una evoluzione della “DOUBLING MUSIC”, quel particolare genere che avevo creato con i Doubling Riders (i mitici Andreoni e Sinigaglia) e che, nel 1987, tentavo di definire nel catalogo di TIME ZONE. Ti allego quello scritto. Leggendolo capirai che in un’epoca in cui non esistevano i computer…parlavamo già di “scambio a distanza di basi musicali”, di “doubling”, di creazioni con l’aiuto di collettivi creativi; di non musicisti e musicisti che collaboravano insieme con pari dignità; di tentativi di suonare dal vivo qualcosa di estremamente teorico. Insomma, MONASTIR i suoi cromosomi li ripesca in quel nucleo originario e si evolve attraverso la tecnologia e la creatività dei nuovi protagonisti. Se dovessi elencare delle influenze esterne, “altre” rispetto ai miei precedenti progetti, tralasciando i seminali Eno e Cage, citerei Hal Willner: avrebbe senz’altro apprezzato l’accostamento di sonorità minimali alle vocalità di Dorothy; pensa a un duetto di Sakamoto con Nina Simone, seduti sul bordo di un buco nero di altre costellazioni… 

Qual è il formato fisico principale per la pubblicazione del tuo progetto musicale, e quali sono le tue considerazioni riguardo al vinile e all'importanza del packaging?

Il format è il cd. Lo so che molti fruitori di musica oggi come oggi preferiscono il vinile. Non so se Silentes programmerà l’uscita di un vinile. Per il tipo di proposta musicale ritengo molto più adatto il cd, ma non voglio entrare in sterili dispute. Il packaging del CD per me è magnifico ed ha trasformato il mio progetto in un oggetto bellissimo, creato dalle fervide menti dei designer della SILENTES, Deison, Silvana Tonizzo e Stefano Gentile; ad essi si sono aggiunti la geniale Maria Assunta Karini (con l’immagine incredibile di copertina), Silvano Tinelli (fotografo raffinato) e Dan Abbott che mi ha regalato alcuni frammenti video che sono stati trasfusi nel film. Dan -per chi non ne fosse informato- faceva parte del nucleo originario di creativi dell’Hypgnosis, lo studio che realizzò la cover di Dark Side of the moon” …




giovedì 8 maggio 2025

"Sandy Denny and the Strawbs": la compilation folk rock perfetta


Titolo: Sandy Denny and the Strawbs

Artista: Sandy Denny e Strawbs

Tipologia: Compilation album by Sandy Denny and the Strawbs

Pubblicazione: 1991

Registrazione: 1967 Copenaghen

Genere: Folk, rock

Durata: 36:54

Label: Hannibal

Produzione: Gustav Winckler-Joe Boyd

 

Sandy Denny and the Strawbs” è una raccolta di canzoni di Sandy Denny con gli Strawbs, band con cui collaborò prima di entrare nei Fairport Convention.

 

ASCOLTO E RIASCOLTO, DA ANNI, E OGNI VOLTA MI VIENE DA PENSARE CHE QUESTE CANZONI… NON INVECCHIANO MAI!

 

L'album, pubblicato nel 1991, è una rielaborazione di nastri registrati dalla band a Copenaghen nel luglio 1967. Le tracce di queste registrazioni furono rilasciate per la prima volta dall'etichetta Pickwick nel 1973 con il nome di “All Our Own Work”.

La tracklist di questo album è leggermente diversa e alcune delle canzoni presentano gli arrangiamenti originali degli archi, registrati nel 1967.

La più conosciuta "All Our Own Work" è un'opera interessante, collaborazione tra gli Strawbs e la cantante Sandy Denny, che in seguito avrebbe acquisito fama come membro dei Fairport Convention. Appare da subito chiaro il talento e la creatività di questo gruppo di artisti all'inizio della loro carriera.

L'album presenta una formazione dei Strawbs leggermente diversa rispetto a quella che sarebbe diventata quella più nota della band.

Le tracce dell'album sono una combinazione di composizioni originali e tradizionali, che fondono il folk britannico con influenze pop e rock.

Una delle caratteristiche distintive dell'album è la voce potente e affascinante di Sandy Denny, che si amalgama perfettamente con gli arrangiamenti delle canzoni. Tracce come "Who Knows Where the Time Goes?" e "On My Way" mostrano la sua abilità nell'esprimere emozioni profonde e nel coinvolgere l'ascoltatore.

La musicalità degli Strawbs è altrettanto notevole, con le loro abilità strumentali che si miscelano per creare un suono unico derivante dall’uso di chitarre acustiche, tastiere e archi, strumenti che contribuiscono a creare un'atmosfera ricca e coinvolgente.

In termini di produzione, "All Our Own Work" è solido, sebbene sia importante considerare che è stato registrato agli inizi della carriera della band e potrebbe mancare della perfezione tecnica di produzioni più moderne.

L'album che mostra il potenziale e il talento degli Strawbs e di Sandy Denny, e risulta un lavoro imperdibile per gli appassionati di folk rock britannico.

 


Tracce (cliccare sul titolo per ascoltare)

Lato A

Nothing Else Will Do (Dave Cousins) – 2:25

Who Knows Where the Time Goes (Sandy Denny) – 4:09

How Everyone But Sam Was a Hypocrite (Cousins) – 2:48

Sail Away to the Sea (Cousins) – 3:23

And You Need Me (Cousins) – 3:18

Poor Jimmy Wilson (Cousins) – 2:35

Side B

All I Need Is You (Cousins) – 2:23

Tell Me What You See in Me (Cousins) – 3:41

I've Been My Own Worst Friend (Cousins) – 2:42

On My Way (Cousins) – 3:07

Two Weeks Last Summer (Cousins) – 2:06

Always on My Mind (Tony Hooper) – 1:53

Stay Awhile With Me (Cousins) – 2:24


Musicisti

Sandy Denny - voce, cori, chitarra

Dave Cousins - voce, cori, chitarra, banjo

Tony Hooper - voce, cori, chitarra

Ron Chesterman - contrabbasso


Collaboratori

Ken Gudmand - batteria

Cy Nicklin – sitar 


Crediti

Svend Lundvig - arrangiamento archi su 2, 5, 7, 13

Registrazione

Registrato a Copenaghen, Danimarca 1967.

 

Le note di copertina riportano "The original 1967 sessions" anche se quelle di “All Our Own Work” indicano erroneamente August 1968. Questa è una discrepanza in quanto entrambi gli album derivano dalla stessa fonte di registrazioni. Joe Boyd scrive che lui e Denny ascoltarono una stampa dell'album poco prima dell'uscita di “Sgt. Pepper” (giugno 1967).

 

Gustav Winckler – produttore

Ivar Rosenberg – ingegnere del suono

Karl Emil Knudsen – coordinamento