martedì 31 agosto 2021

Le ultime dal "mondo Genesis"


Mentre sta per partire il primo tour dal 2007, i Genesis pubblicheranno la raccolta "The Last Domino?" che uscirà nelle versioni doppio CD e quadruplo vinile.

In Gran Bretagna sarà disponibile a partire dal 17 settembre, mentre negli Stati Uniti dal 19 novembre.

La band comunica ufficialmente: “Quando Tony Banks, Phil Collins e Mike Rutherford hanno annunciato l’evento, il tour si è trasformato in uno dei più venduti dell'anno.

Avrà inizio il 20 settembre con due serate alla Birmingham Utilita Arena e suoneranno un totale di 16 spettacoli nelle arene del Regno Unito, seguiti da un tour nelle arene del Nord America.

"The Last Domino?" è il compagno perfetto per il tour. Include 27 brani selezionati con la band e la maggior parte verranno eseguiti durante il tour; è un pacchetto che rappresenta il loro incredibile viaggio dall'essere una delle band pioniere del rock fino al successo globale che li ha visti suonare in stadi sold-out in tutto il mondo per decenni.

Il set presentato su quattro vinili è proposto in una confezione cartonata apribile come un libro, che include immagini rare e inedite della band dal loro archivio e immagini delle prove del 'The Last Domino? Tour'.

L'evoluzione dei Genesis è unica; il loro suono si è sviluppato e progredito durante la loro carriera con molteplici variazioni di formazione nei primi anni.

La line-up formata da Tony Banks, Phil Collins e Mike Rutherford ha preso forma nel 1976”.

 

Tracklist: 

CD1 

1. Dukes End 

2. Turn It On Again 

3. Mama 

4. Land Of Confusion 

5. Home By The Sea 

6. Second Home By The Sea 

7. Fading Lights

8. The Cinema Show

9. Afterglow

10. Hold On My Heart 

11. Jesus He Knows Me

12. That’s All

13. The Lamb Lies Down On Broadway

14. In Too Deep 

15. Follow You Follow Me 

CD2 

1. Duchess

2. No Son Of Mine

3. Firth Of Fifth

4. I Know What I Like 

5. Domino Medley 

6. Throwing It All Away 

7. Tonight, Tonight, Tonight 

8. Invisible Touch 

9. I Can’t Dance 

10. Dancing With The Moonlight Knight 

11. Carpet Crawlers 

12. Abacab 

LP1 

1.Dukes End 

2.Turn It On Again 

3.Mama 

4.Land Of Confusion 

5.Home By The Sea 

6.Second Home By The Sea 

7.Fading Lights 

LP2 

1.The Cinema Show 

2.Afterglow 

3.Hold On My Heart 

4.Jesus He Knows Me 

5.That's All 

6.The Lamb Lies Down On Broadway 

7.In Too Deep 

8.Follow You Follow Me 

LP3 

1.Duchess 

2.No Son Of Mine 

3.Firth Of Fifth 

4.I Know What I Like 

5.Domino Medley 

6.Throwing It All Away 

LP4 

1.Tonight, Tonight, Tonight 

2.Invisible Touch 

3.I Can’t Dance 

4.Dancing With The Moonlight Knight 

5.Carpet Crawlers 

6.Abacab







lunedì 30 agosto 2021

Il batterista degli Iron Butterfly Ron Bushi ci ha lasciato all'età di 79 anni.


 Il batterista degli Iron Butterfly Ron Bushi è mancato all'età di 79 anni

 

Il gruppo ha confermato la morte di Bush in un post su facebook il 29 agosto. Sebbene la causa della morte non sia stata ancora determinata, pare che lottasse da tempo contro una malattia incurabile.

"Il nostro amato batterista Ron Bush è morto pacificamente, con al suo fianco la moglie Nancy, al Santa Monica Hospital il 29 agosto alle 12:05 p.m" - comunica la band -, tutte e tre le figlie erano con lui. Era un vero guerriero.

Dal 1968 al 1975, la band pubblicò sei album, e Bushi fu l'unico membro del gruppo ad apparire in tutti e sei.

Nel 1968 furono pubblicati l’album di debutto degli Iron Butterfly, “Heavy”, e il famoso “In-A-Gadda-Da-Vida”. La title track di quest'ultimo diventò un successo mondiale e il disco raggiunse la quarta posizione nella classifica Billboard 200.

Imperdibile l’assolo di batteria di Bush.

“In-A-Gadda-Da-Vida” ha venduto più di otto milioni di copie nel suo primo anno negli Stati Uniti.

Bushi si era ritirato dalla musica a tempo pieno nel 2010.







domenica 29 agosto 2021

Luciano Boero ricorda Alberto Gaviglio

Quando ho appreso della prematura dipartita di Alberto Gaviglio non sono rimasto sorpreso, sapevo della sua malattia, ma a certe perdite non ci si riesce ad abituare, anche se, come nel nostro caso, il rapporto personale era di relativa recente costruzione, paradossalmente legato alla fine della Locanda delle fate e all'epilogo del 2017.

Da allora sono rimasto in contatto con lui e ho seguito alcuni suoi passi, rivedendolo dal vivo col fido Luciano Boero nel corso di una esibizione ligure nell’agosto del 2019.

Ma i ricordi personali non mi sembravano adeguati per una ricostruzione fedele dell’uomo e dell’artista, qualcosa che gli rendesse il giusto merito, e nell’immediato la frase sintetica più rappresentativa l’ho catturata dal suo stesso pensiero: 


"Architetto per necessità, Musicista & Autore per vocazione".


Ho quindi pensato di lasciare il passo a chi con lui ha vissuto e mi sono rivolto all’amico - di entrambi - Boero, che oltre ad essere un grande musicista è scrittore, ed è stato il collante che ha permesso di far nascere e coltivare un progetto durato 40 anni.


Ma i rapporti personali non vanno mai in pensione, a discapito dell’età che avanza e dell’evoluzione della vita.

Luciano ha accettato di buon grado il mio invito - come da sempre fa - e mi ha inviato il suo toccante mood a caldo.

Non mi sono quindi accontentato della dichiarazione ufficiale a seguire, ma ho cercato la profondità che è frutto di un percorso fatto fianco a fianco, condividendo gioie e dolori, sino alla fine:

 

Dopo lunga malattia, ieri sera Alberto ci ha lasciati. Con lui se ne va il musicista, ma soprattutto l’amico che ha contribuito a realizzare il sogno di sette ragazzi: uno dei più apprezzati album prog dei ‘70. Sua l’invenzione delle lucciole, suoi quasi tutti i testi. Che tu possa, Alberto, continuare a inventare favole volando su quei prati della fantasia dove, grazie a te, le lucciole vivranno per sempre".

 

Ecco come Luciano si rivolge al suo amico Alberto…

 


MENTRE VOLI IN ALTO

(lettera all’amico Alberto Gaviglio)

 

“Mentre voli in alto, in braccio a comete venute per te…”

 

Non son passate ventiquattr’ore dall’ultimo saluto e già mi tormenti per le frasi che avrei potuto dirti e che invece non ti ho detto. Ultimo saluto per modo di dire, tra l’altro, perché mentre fissavo quello scrigno di legno che ti racchiudeva, già lo sentivo vuoto. La tua presenza l’avvertivo ormai eterea e fluttuante oltre i bei coppi d’argilla del quartiere romano della tua Acqui.

Ne hai fatto di casino. Hai radunato tanta bella gente. Persino ex locandieri scomparsi da anni dall’orizzonte ottico. Ne sono stato oltremodo felice.

Per non parlare poi dei social, dove ancor ora ti starai stupendo di quanta popolarità godessi.


Siamo due gemelli separati alla nascita”. Me l’hai detto tu infinite volte quando scoprivamo per l’ennesima volta che nelle questioni più disparate avevamo lo stesso punto di vista, che entrambi avevamo avuto un trascorso giovanile impastato con gli stessi tormenti, le stesse emozioni.

Anche l’aspetto religioso ci ha sempre visto collimanti: entrambi agnostici. Non atei, giammai. Ateismo è presunzione, assoluta certezza al pari della fede. Tutti e due col rammarico di non essere riusciti a trovare il bandolo che portasse illuminazione alle domande senza risposta.

Ti ho sempre detto che ti invidiavo il testo di Molecole, che in punta di piedi muoveva un passo nell’infinito alla ricerca di Dio.

 

“Molecole di Dio

Nell’universo, nell’eternità

Dai nostri sogni sparsi in tutti gli angoli

Al grande volo verso l’aldilà…

Molecole di noi

Noi che facciamo la Sua volontà

Noi particelle micro-indispensabili

Del gran disegno che Lui solo sa…”

 

Ne parlavamo sovente, di queste cose ed altre, nella telefonata del lunedì pomeriggio, che per me coincideva col momento in cui la lavasciuga sfornava il bucato. Col telefono nella tasca posteriore, indossati gli auricolari, era un piacere stirare parlando con te del più e del meno.

Sì, è vero, si partiva sempre con l’acciacco del giorno, ma non durava tantissimo. Era facilissimo slittare su altri argomenti. La musica in primo piano. Magari annunciavi la nascita dell’ultima creatura, il brano “perfetto” - lo facevi spesso -, quello che avrebbe scalato le classifiche di mezzo mondo. Mi leggevi la frase “clou”, quello che in gergo chiamavamo slogan, quello che, se non c’è, il tuo testo rimane anonimo e non “funziona”.


Eri facile agli entusiasmi. Forse mi raccontavi le tue cose perché sapevi che io, altrettanto sognatore, godevo però di un pizzico di pragmatismo in più che faceva da giusto contrappeso alla tua maggior spregiudicatezza artistica. Come me, hai sempre preferito una critica sincera a un falso complimento.

Sai cosa pensavo proprio ieri mentre ascoltavo osservando lo scrigno di legno a centro navata? Che in un’occasione così si tende a pensare al passato, a ciò che di buono la persona appena scomparsa ha fatto nella vita.

E lì ci sono stati fiumi di parole: Architetto, Musicista, Compositore… Alberto, eccellevi in tantissimi campi e un libro non sarebbe bastato a descriverti in toto.

Nella mia testa, mi veniva però di sovvertire lo scontato - ti ricordi, lo facevamo spesso per gioco durante le nostre conversazioni telefoniche - prendere il microfono e parlare invece di futuro.

Perché, se è vero che nessuno di noi muore veramente finché rimane nei pensieri di chi resta, allora tu vivrai ancora a lungo.


Sai Alberto, prima di ogni insegnamento artistico - e tu mi hai insegnato come ci si destreggia con le parole coniugando il bel suono con un buon significato - con te ho imparato il valore della lealtà e dell’amicizia. Valori imprescindibili, se ci si trova all’interno di un gruppo.

Sembra semplice, scontato, ma non lo è affatto e tu lo sai bene.

Vabbè, in campo artistico succede che le parole a volte scappino di bocca, magari persino per augurarsi la morte, per poi finire abbracciati dieci minuti dopo con un pace-carote-patate. L’importante è ciò che si intuisce esserci “dentro” all’altro. La bella gente la si fiuta e la si riconosce. Se la si perde, prima o poi la si ritrova.

Ebbene, in futuro, son certo continuerai ad ispirarmi questi valori. Son certo che sarà lo stesso anche per le persone a cui hai voluto - e che ti hanno voluto - bene.

Sarà il tuo modo di continuare a vivere con noi, di seguirci dalla stanza accanto.


Sempre parlando di futuro, dato l’agnosticismo che ci accomuna - il che equivale a un “non si sa mai” - se per caso ti capitasse il brano perfetto, che può scalare le classifiche di mezzo mondo, i piedi tirali pure a me. Non stare lì a disturbare nessun altro.

Ciao. Ci vediamo.

Lucky

 

A conclusione ho preparato un medley a lui dedicato, un estratto dei due concerti di fine 2017: sarà facile afferrare l’atmosfera che avvolge i “Locandieri”, e sarà altrettanto naturale immaginare l’attuale dolore legato ad un percorso materiale che si è interrotto, mentre il legame affettivo proseguirà nel tempo, indissolubile, sentimento che solo le persone virtuose e sensibili possono provare.

 

Ecco la mia ricostruzione, con l’intenzione di ricordarlo sul palco, immaginando che ci resterà per un tempo infinito…

 






mercoledì 25 agosto 2021

Charlie Watts, gli Stones e un pensiero... impopolare!

Sta nella logica delle cose veder appassire e poi morire le persone che ci circondano, consci che prima o poi anche noi arriveremo alla meta non desiderata, ma è grande l’effetto e il disagio quando la dipartita riguarda un volto noto, storico, mitico, che da tutta la vita ti accompagna, nel mio caso dalle scuole medie in poi.

In realtà il mio amore per i Rolling Stones è finito presto e attorno a metà degli anni ’70 ho iniziato a perdere interesse per quella che, credo giustamente, è stata definita la più grande Rock and Roll band mai esistita.

Sino a quel momento ricordo bene come i loro singoli rappresentassero per me la rivoluzione rock contrapposta alle meravigliose melodie dei Beatles, brani - di entrambi i gruppi - che tutt’ora fanno parte della mia playlist… inutile elencarli.

In quella fantastica e primitiva formazione c’erano un paio di artisti illuminati e dal 1969, dopo la morte di Brian Jones, ne rimase uno solo, Mick Jagger.

Ovviamente è solo il mio pensiero e so già che molti non saranno d’accordo; ho già avuto prova che i miti non si possono contestare né scalfire ma solo osservare da lontano e ringraziare, e quando si avanza qualche cauta critica il mondo intero si mobilita per riportare al centro il pensiero ortodosso, quello che prevede un solo punto di vista che ha a che fare con l’approvazione incondizionata, spesso immotivata.

Negli Stones non ho mai riconosciuto elementi geniali, salvo il già citato polistrumentista Jones e il frontman e autore Jagger, ma in ogni caso la miscela è sempre risultata esplosiva e vincente: non è un caso se sono ancora in pista dopo tutti questi lustri.

Ma il valore di un musicista deve tener conto della sua capacità innovativa, del suo saper creare un modello nuovo, inesistente in precedenza.

Prendiamo Keith Richards, chitarrista dalla dimensione - e dalla vita - molto… criticata.

In tanti hanno descritto con veemenza la sua pochezza tecnica ma se abbiamo potuto godere di brani come “(I Can't Get No) Satisfaction”,Brown Sugar” o “Honky Tonk Women” il merito è proprio di Richards che, contaminato dai "suoi" musicisti blues, elimina da subito il “MI” dalla sua Telecaster - divenuta così a 5 corde - e imposta una accordatura aperta in “SOL”, aprendo la strada verso un mondo nuovo, quello che gli ha permesso di inventare i suoi famosi licks.

L’uomo giusto al posto giusto, senza poi parlare della sua significativa capacità autorale.

Dopo Jones (mancato nel '69) arriva un grande bluesman, il chitarrista Mick Taylor - che non resisterà molto in quel circuito pericoloso - seguito a ruota da Ronnie Wood, il perfetto compagno di Richards, il pittore, da sempre amico degli Stones.

Non dimentico un certo... Bill Wyman, per oltre trent'anni parte della sezione ritmica della band, un bassista "regolare" e poco avvezzo alla teatralità. 

E poi c’è…. c’era… Charlie Watts, silenzioso, elegante, moderato, fuori dalla cornice maledetta che circonda la super band inglese.

Oddio, anche lui passa dei brutti momenti negli anni ’80, e l’alcol e l’eroina non lo risparmiano, ma ne esce fuori e mantiene il contegno, con la regolarità che lo ha sempre contraddistinto.

Ha origini umili, è un autodidatta intelligente e appassionato di jazz e blues.

Sembrerebbe sempre sullo sfondo, defilato, ma il suo carattere forte e la sua leadership sono evidenti e dichiarati dai compagni di viaggio, e i suoi continui ammiccamenti da palco con l’amico Keith fanno pensare a rapporti solidi, coltivati e rafforzati nel tempo, oltre gli obblighi professionali.

Lo tsunami da performance, quello che spesso va on onda quando gli Stones sono in concerto, sembra non toccarlo, perché in qualunque direzione vada la nave ci vuole sempre qualcuno capace di raddrizzare la barra e tenere il tempo giusto, dall’inizio alla fine.

Ecco, Charlie Watts era, a mio giudizio, l’unico batterista possibile in un gruppo di pazzi scatenati, un buon batterista a cui non era richiesto di esagerare, di accelerare, di sorpassare, ma solo di mantenere la rotta.

Insomma, dalle mie parole è facile capire come Watts non mi abbia mai toccato più di tanto e, pur riconoscendone il ruolo fondamentale, vederlo al dodicesimo posto tra i migliori batteristi di tutti i tempi (classifica stilata dalla rivista “Rolling Stones”) mi pare azzardato.

Se invece discutiamo di funzionalità rispetto al progetto, beh… Charlie Watts appare unico e insostituibile.

Ma parlare di skills davanti a chi ha fatto la storia del rock è inutile e sicuramente impopolare ed è probabile che i nuovi Stones, con un altro drummer, non avranno molta vita. Ma certamente verrò smentito, e un po' me lo auguro.

Charlie Watts non era quindi il mio batterista del cuore, ma sicuramente l'elemento che più ho apprezzato tra gli Stones, perché la visibilità comporta enormi responsabilità e l’immagine che la band ha sempre regalato dal palco, fatta di trasgressione ad ogni costo, mi ha sempre infastidito.

Cosa c’entra tutto questo con la musica? Lascio ad ogni lettore la propria valutazione.

Ciao Charlie, batterista di una band che ho amato alla follia sino … al 1975, o giù di lì!

 





martedì 24 agosto 2021

Dave Dee, I Dozy, Beaky, Mick &Tich-Il pop/rock britannico degli anni Sessanta


Dave Dee, I Dozy, Beaky, Mick &Tich fu un gruppo pop/rock britannico degli anni Sessanta. Due dei loro singoli vendettero più di un milione di copie ciascuno, e raggiunsero il numero uno nella UK Singles Chart con il secondo di loro, "The Legend of Xanadu".


Un po' di storia…

Un giorno del 1961, cinque amici di Wiltshire (contea inglese) - David John Harman (Dave Dee), Trevor Leonard Ward-Davies (Dozy), John Dymond (Beaky), Michael Wilson (Mick) e Ian Frederick Stephen Amey (Tich) -, decisero di formare un gruppo, originariamente chiamato “Dave Dee and the Bostons”.  Presto rinunciarono al loro lavoro reale (ad esempio Dave Dee era un poliziotto) per provare a guadagnarsi da vivere con la musica. Oltre ad esibirsi nel Regno Unito, occasionalmente suonavano ad Amburgo (Star-Club, Top Ten Club) e a Colonia (Storyville).

Nell'estate del 1964, i cantautori britannici Ken Howard e Alan Blaikley si interessarono al loro lavoro, dopo che la band aveva iniziato a operare in studio con con Joe Meek (produttore discografico, tecnico del suono e compositore inglese), ma con scarsi risultati, e le sessioni di registrazione non decollavano. Dave Dee raccontò un episodio significativo: “Meek aveva tecniche di registrazione molto strane. Voleva che suonassimo la canzone a metà velocità e poi incrementava e inseriva tutti i suoi trucchetti, e così non riuscivamo a far quadrare le cose. Un giorno esplose, lanciò lontano il caffè sporcando le pareti dello studio e se ne andò nella sua stanza. Il suo assistente - Patrick Pink - entrò e disse che Meek non avrebbe più fatto registrazioni per quel giorno. Finì così, prendemmo tutta la nostra attrezzatura e tornammo a casa".

Il gruppo alla fine ottenne un contratto discografico con la Fontana Records.

Ken Howard, iniziando a seguire il quintetto, dichiarò che: "Abbiamo cambiato il loro nome in Dave Dee, Dozy, Beaky, Mick e Tich perché erano i veri soprannomi e perché volevamo sottolineare le loro personalità molto distinte tra loro, in un clima che tendeva a considerare le band esistenti solo come entità collettive”.

Il nuovo nome, unito alle canzoni ben prodotte e orecchiabili di Howard e Blaikley, catturò rapidamente l'immaginazione del pubblico britannico, e i loro dischi cominciarono a vendere in abbondanza. In effetti, tra il 1965 e il 1969, il gruppo trascorse più settimane nella UK Singles Chart rispetto alle Beatles e fece un tour in Australia e In Nuova Zelanda, paesi dove avevano avuto ottenuto un notevole successo di classifica.

Con "The Legend of Xanadu" superarono il milione di copie vendute, ma realizzarono altre hits, come "Hideaway", "Hold Tight!", "Bend It!", "Save Me!", "Touch Me, Touch Me", "Okay!", "Abadak!" e "Last Night in Soho".

La canzone "Bend It!" diventò un grande successo in Europa, numero uno in Germania. La canzone fu ispirata dalla musica della colonna sonora del film “Zorba il Greco”, e per ottenere un suono simile al bouzouki fu utilizzato un mandolino elettrificato.


Le vendite combinate nel Regno Unito e in Europa furono notevoli, tuttavia, nell'ottobre 1966, la rivista musicale britannica NME commentò che decine di stazioni radio statunitensi avevano vietato il disco perché il testo era considerato troppo… suggestivo. Il gruppo rispose registrando una nuova versione, a Londra, con un diverso insieme di parole, e il disco fu rilasciato negli Stati Uniti, poiché il singolo originale era stato ritirato dalla vendita.

Negli Stati Uniti, il gruppo non riuscì a sfondare in modo uniforme, anche se ebbero affermazioni regionali, in particolare nelle città nord-orientali come Cleveland, Buffalo, Syracuse, Albany e Boston, dove sia "Bend It" che "Hold Tight" ottennero un notevole ascolto ed entrarono nella top 10 delle stazioni radio locali. Durante l'inverno 1967-68 incrementarono la loro presenza americana, ma non raggiunsero mai il consenso di massa.


Nel settembre 1969 Dave Dee lasciò il gruppo per una breve carriera solista, e il resto della band, rinominato D, B, M e T, continuò a pubblicare dischi fino a quando non si sciolsero nel 1972.
Negli anni Ottanta il gruppo si riformò, sempre senza Dave Dee, che nel frattempo era diventato produttore discografico per la Magnet Records.

Negli anni Novanta il gruppo si ripropone dal vivo, questa volta con Dave Dee, che ha in ogni caso continuato le sue attività sino al 2008, nonostante il precario stato di salute dovuto ad una brutta malattia diagnosticata nel 2001

Nel 2013, John Dymond (l'originale Beaky) è tornato nella band e nel 2014 Tich si è ritirato dopo 50 anni.

Con Ray Frost come nuovo "Tich", la band, che includeva ancora due membri originali, si è impegnata a continuare, almeno sino alla morte di Trevor Ward-Davies (Dozy), mancato il 13 gennaio 2015, all'età di 70 anni, dopo una breve malattia.

Una storia che vale la pena ricordare!


Discografia:

Albums
Dave Dee, Dozy, Beaky, Mick & Tich (1966) – UK #11
If Music Be the Food of Love ... Then Prepare for Indigestion (1966) – UK #27
Golden Hits of Dave Dee, Dozy, Beaky, Mick & Tich (1967) (solo UK )
Greatest Hits (1967) (solo US) – US #155
What's in a Name (1967) (Netherlands release)
If No One Sang, Time to Take Off (US Title) (1968)
Together (1969)
Attention (1971)
The BBC Sessions (live) (2008)

sabato 21 agosto 2021

Uvarovite & The Thermal Breaks - “Bubblers in Balikesir”


 

Uvarovite & The Thermal Breaks - “Bubblers in Balikesir”

Fibermech Records

(11 tracce-56 minuti)

 

Accade di entrare in una libreria e di essere ammaliati dalla copertina, dall’involucro, dall’elemento estetico, tanto da trovarsi sulla via di casa con un nuovo book tra le mani, un libro di cui non si conosce nulla, né contenuto né autore, ma oramai sentiamo che ci appartiene, e alla fine scopriremo, magari, che l’acquisto è stato indovinato.

Nel campo musicale può accadere la stessa cosa… l’amore scocca a volte per una copertina suggestiva, per un titolo, per un’idea che sgorga spontanea.

È quanto è avvenuto quando casualmente ho adocchiato Bubblers in Balkesir”, di Uvarovite & The Thermal Breaks.

Cosa si cela dietro a denominazioni così inusuali?

Qualche chiacchiera con i protagonisti, riportata nel corso dell’articolo, risulterà alla fine icastica.

Il progetto si presenta come multietnico, con musicisti provenienti da posizioni geografiche diverse, che trovano la sintesi in un luogo di lavoro in terra straniera.

Appare chiaro quindi come la musica sia la grande passione, ma attività collaterale, situazione normale in questo ambito.

Partiamo dai componenti la band e proseguiamo con qualche etichettatura atta a chiarire la tipologia della proposta.

Leader della band è Marko Mounier, un francese che vive per un quarto del tempo nel suo paese, per un altro quarto in Italia e poi… in giro per il mondo.

Trombettista, pianista e tastierista, viene denominato “Il Professore” (oltre che Uvarovite Man”)”, per effetto della sua posizione all’Università del Vetro di Parigi.

L’anima e il motore, rigoroso e fantasioso.

La sezione ritmica è formata dal batterista e percussionista Henry Mex - scuola messicana, ritmo pazzesco e sempre sul pezzo - e dal bassista Daniele Tagliabue, direttamente da Cantù, entrambi con una lunga esperienza come session man in studio e su navi da crociera.

Chiudono la line up due musicisti interscambiabili - Andrea Colombi e Alberto Fabbri - entrambi vocalist e chitarristi, molto conosciuti nel circuito lombardo.

Gruppo che appare affiatato e che presenta un rock contaminato dal blues e dal folk, con particolare attenzione ai testi, mai banali, seppur a volte criptici.

L’album, rilasciato da poco, ha caratteristiche ben precise, essendo un concept ma formato da episodi - undici - ognuno dei quali può brillare di luce propria. Il cantato è rigorosamente in lingua inglese.

Il fil rouge, il comune denominatore, riporta ai diversi sentimenti che legano gli esseri pensanti, delineati ad uno ad uno mentre storie apparentemente separate sbocciano e si uniscono tra loro.

 

Questa la Setlist 

Viscosity

Why does the pull change?

I must ask

Gulin's nails

The dumper zone

Platinum or Rhodium?

The boosting is not enough

Ramada Hotel

Ten microns

Efficiency is our priority

Raki

 

Apre il disco “Viscosity” e appare subito chiara la necessità di metafora.

Il termine, che può prestarsi a differenti definizioni, parte dall’elemento tecnico per estrapolare il concetto di amicizia, di legame consistente di cui spesso si ha bisogno, capace però di trasformarsi in prigione se fuori dai limiti; e allora, quale sarà la giusta “viscosità” in una relazione in cui domina l’affetto?

Lo start musicale è grintoso, cinque minuti di energia pura che prevedono una discreta dicotomia tra una prima parte sognante - e qui il corno francese utilizzato da Mounier calza a pennello - ed una seconda molto “ruvida”, dove i giochi solistici di Colombi e Fabbri riportano alla migliore tradizione del rock.

Segue “Why does the pull change?”, il brano più lungo con i suoi suoi sette minuti e mezzo.

Nasce una sorta di dilemma che appare senza soluzione.

Perché cambiamo? Perché non esiste una valida motivazione nonostante la nostra voglia - e applicazione - di una continua analisi? Si tira e si spinge, si elidono le forze e ci si ritrova al punto di partenza.

Testo scritto da Tagliabue all’apice del suo esistenzialismo.

Anche in questo caso esiste un cambio di movimento, e dopo un iniziale momento acustico si mette in luce la ritmica di Mex, capace di sciorinare i tempi composti tipici del prog all’interno di trame decisamente tradizionali.

Il terzo pezzo, “I must ask”, fa riferimento al periodo della conoscenza e della nascita della band, quando un incontro lavorativo quasi fortuito a Balikesir, città della Turchia, li portò a legare e a pianificare un futuro musicale comune.

In quella occasione vennero in contatto con Sirtacchio, potenziale manager della band, che qui diventa simbolo di ignavia, di incapacità di prender posizione, di pigrizia di azione, indolenza e viltà eletta a norma di vita, o forse solo paura delle conseguenze. Il “devo chiedere” rappresenta il perenne prendere tempo, sempre e comunque, delegando ad altri l’azione e la responsabilità. Sirtacchio diventa quindi la rappresentazione di un comportamento umano da evitare.

Inizio acustico e quadretto idilliaco, con il piano di Mounier che incanta e disegna a mano libera paesaggi orientali e atmosfere sognanti. Gli arpeggi chitarristi di Colombi introducono il blues finale, utilizzato per rinforzare il messaggio di dolore e delusione.

Con “Gulin’s neals” si entra nel sociale.

L’antefatto riporta ad una giovane donna, amica comune, dedita per professione a lavori manuali, quelle che nell’immaginario comune richiedono abbigliamento adeguato, sicuramente poco femminile. Ma lei non riesce a rinunciare alla raffinatezza dei particolari, non può essere un’altra e così mantiene le sue unghie colorate e ben curate in ogni situazione, anche in quei momenti in cui le mani richiederebbero ben altra protezione.

La donna sempre al centro, senza condizionamenti e confini, la donna come fulcro del mondo, la vera opera d’arte!

L’anima italiana diventa preponderante e la melodia prende il sopravvento. Il lungo gioco di chitarre e tromba si trasforma in dialogo, quello tra la protagonista e chi non riesce ad accettare il suo coraggio.

Altro brano dai forti connotati sociali è “The dumper zone”.

L’immagine che fa riferimento al termine “Dumper” rappresenta una sorta di ostacolo al normale corso delle cose, una barriera che si frammezza allo scorrere dei flussi, un muro che tende ad incrostarsi e spesso si trova in balia del vento.

Ma forse una piccola ed elementare protezione potrebbe creare un riparo sicuro, un luogo in cui poter sostare per riflettere, godendo della più alta visione possibile.

Emozioni continue, un sample di cosa possa rappresentare un brano che contiene messaggio, competenza strumentale e bellezza estetica, un fiume in piena che diventa docile torrente, un salire e scendere un difficile pendio con facilità, un’agitazione smisurata che diventa quiete positiva.

Platinum or Rhodium?”. Dilemma che riporta a Shakespeare!

In realtà la lirica di Fabbri prende in considerazione il valore delle cose materiali, elementi apparentemente irrinunciabili, ma evanescenti e “di passaggio”.

Cosa scegliere tra l’oro e… l’oro? Esistono altri criteri di valutazione? Possiamo immaginare una diversa lega tra “metalli”, non risulterà vincente cercare un bilanciamento con aspetti più eterei e trascendenti ma fondanti?

La voce di Colombi conduce un dramma che si snocciola in momenti differenziati. Una marcetta riporta alla classicità pura, mentre le lancinanti svisature dell’elettrica penetrano nell’anima e realizzano un’andatura in pieno stile seventies, quando queste sonorità erano il nutrimento quotidiano.

Altro brano è “The boosting is not enough”.

Ci sono quei giorni, quei momenti, in cui l’energia non appare sufficiente, gli sforzi sono enormi e tutto appare inutile. La piattezza regna sovrana e non si intravedono all’orizzonte cambi di rotta, nonostante l’impegno constante.

“L’energia non è abbastanza”, chiediamo aiuto ma non sempre arriva, e l’indifferenza fa scendere quella nebbia che solo il tempo farà sparire, sperando che il tutto avvenga in un tempo accettabile.

Un pezzo di bravura di Mounier, che utilizza il suo piano chiudendo gli occhi e lasciando andare mani e mente, solo così si può raccontare musicalmente il parallelo tra infinita tristezza e speranza di luce infinita.

Ramada Hotel”, fa immediatamente pensare al rock settantiano degli Eagles, ma c’è molto di più in sottofondo.

Il Ramada di Balikesir è il luogo in cui tutto è nato, punto di incontro casuale ma fondamentale: un piccolo palco, strumenti folkloristici, voglia di musica dopo una giornata piena di lavoro. E la band prende forma, le anime si fondono e si ravvivano sentimenti, quelli a cui solo l’unione di intenti può garantire solidità.

Una traccia molto dura, metallica, con un sottofondo drammatico e un ritmo incalzante che toglie il fiato e preannuncia la novità ad ogni svoltar d’angolo… sonoro.

Con “Ten microns” il topic si sposta sul tema del desiderio e dell’obiettivo apparentemente inarrivabile; puntare in alto, sempre più in alto, appare legittimo, sognare ad occhi aperti un esercizio quotidiano, ma quanto siamo disposti a mettere in gioco per toccare il cielo con un dito?

Unico strumentale, un brano tutto atmosfera ed effetti, molto ambient, riflessivo e pitturato nel sonoro, una misura melodica che non lascia indifferenti, un aiuto nel sottolineare il virtuosismo di questi musicisti!

Efficiency is our priority” fa riferimento ad una frase che il gruppo era solito formulare nelle occasioni più svariate, irridendo tutti quelli che mettevano da parte i sentimenti e la voglia di relazione a vantaggio del profitto a tutti i costi.

Ma esiste qualcosa oltre alla perfezione di comportamento e l’ortodossia nei principi?

Un crescendo di effetti in stile floydiano, un ritmo cadenzato e controllato, una marcia verso l’ignoto, due chitarre elettriche laceranti il cui prodotto si lega indissolubilmente alla lirica.

Chiude l’album una ballad, quella che non può mai mancare in un album rock.

Raki, apparentemente leggera e divertente, nasce ripensando a due episodi particolari.

Precisiamo che il “Raki” è una bevanda all'anice turca, ottenuta da un distillato a base di mais, o patate, aromatizzato con anice e menta, con una gradazione alcolica minima del 40%. Conosciuto anche come "latte di leone", è considerata la bevanda nazionale.

Il primo episodio riporta agli incontri serali del Ramada, quando la ricerca del lavoro era assoluta priorità. In quel contesto nacque l’opportunità per Tagliabue di approfondire l’arte della preparazione del Raki, una sorta di “mestiere” che lo porterà a creare tutorial dedicati e divenuti di grande successo, fonte di futuro e sicuro reddito. Perché anche quando tutto sembra perduto l’intraprendenza e l’inventiva possono venire in nostro aiuto.

La seconda motivazione mette al centro Andrea Colombi e il suo abuso episodico di Raki. In questo caso la mancanza di consapevolezza, il senso di sfida, l’incoscienza e l’idea di immortalità, portano al disagio e al malessere fisico: niente di preoccupante se l’errore si trasforma in apprendimento e indicazione del corretto modello di vita.

Chitarre acustiche e cori vacanzieri per il finale di album, un motivo lineare e un ritornello che si trasforma in tormentone, ti si appiccica e non ti molla più!

Che altro dire… una sorpresa, un disco inaspettato, un gruppo di musicisti preparati e capaci di proporre nuove idee, in un momento in cui la buona musica latita.

Ho raggiunto telefonicamente “Il Professore” a cui ho chiesto lumi sul nome della band e sul titolo dell’album…

Dimmi Marko, cosa significaUvarovite & The Thermal Breaks”?

I termini sono stati estrapolati dalla mia professione e dai miei studi.

“Uvarovite” è un minerale che si trova generalmente in forma di piccoli cristalli ben disposti. Il suo colore è un verde smeraldo e presenta forme spesso molto complesse. La sua bellezza è ciò che ci ha colpito.

Ma accanto a tanto splendore che si vede in natura si cela talvolta una nascita non controllata - e non voluta -, non sempre spiegabile. E quando l’uvarovite appare all’improvviso emerge il contrasto tra perfezione estetica e danno che ne deriva, una sorta di virus a cui non sempre si trovano le contromisure.

Le “rotture termiche” sono invece qualcosa che in senso tecnico sono più comprensibili, a cui è più facile porre rimedio.

Anche noi sul palco mettiamo in evidenza le nostre contraddizioni e differenze.

Un’ultima cosa, mi spieghi il titolo dell’album, “Bubblers in Balikesir”?

Anche qui esiste una miscela tra elemento tecnico - e quindi vicino al nostro lavoro - e il luogo in cui nasce il progetto, Balikesir appunto.

I “bubblers” permetto di introdurre dell’aria in una massa vetrosa e hanno il compito di creare movimento, omogeneità, aggregazione, affinaggio. In questo senso li abbiamo considerati il simbolo della nostra unione di intenti, almeno in questo particolare momento della vita, ciò che verrà di conseguenza sarà ben accetto!


Non ci resta che ascoltare “Bubblers in Balikesir”, senza pregiudizi e aperti al nuovo, le sorprese non mancheranno.

Come e dove?

Su tutti gli store digitali, in attesa dell’uscita del CD, 100 copie numerate e firmate.

Fantastico l’artwork e il booklet annesso, con una meravigliosa copertina firmata dall’astro nascente dell’Art Design, Semih Orale.