mercoledì 29 settembre 2021
Delaney e Bonnie
domenica 26 settembre 2021
Il percorso dei Silver Mirror
Ho ritrovato dopo un bel po’ di tempo
Paolo “Silver” Silvestri, conosciuto come hammondista in quella che mi
pare sia stata la prima formazione dei The Trip targati Pino Sinnone, attorno
al 2016.
Ho sottolineato “hammondista” perché
trattasi di strumento specialistico - in combinata con il Leslie -, abbinato
soprattutto all’ambito prog, ma non solo, come insegna la storia del rock, con
elementi di spicco come Brian Auger e Jon Lord, grandi innovatori che
riuscirono a rendere il suo suono ruggente e adatto al sound hard rock.
Il nome di Lord si interseca con
quello dei Deep Purple - ovviamente - ma anche dei Whitesnake, ovvero due band
riferimento per i Silver Mirror di cui mi appresto a parlare.
Partiamo dalla loro genesi e dallo
sviluppo successivo, utilizzando la biografia ufficiale.
I SILVER MIRROR nascono nel 1997 con un’idea
ben precisa, quella di riproporre dal vivo le cover delle grandi e
intramontabili rock band inglesi degli anni ’70, e chi ha avuto occasione di
partecipare ai loro concerti descrive l’atmosfera e le sonorità come “tipiche
dei seventies”.
I tributi regalano brani dei due
gruppi già citati, ma anche dei Raimbow e degli Uriah Heep, quindi parliamo di
classici del periodo performati rigorosamente con strumentazione dell’epoca e
chi, per mero elemento anagrafico ha vissuto quel periodo lontano, conosce
perfettamente la differenza tra proposta analogica e digitale, nella tipologia
sonora ma banalmente anche negli ingombri e nei pesi conseguenti, giacché lo
spazio che un tempo era richiesto ad hammond, moog, mellotron ed effetti vari,
oggi abbisogna di un perimetro minimale.
La ricerca della perfezione della
riproduzione è quindi uno degli obiettivi della band.
L’esperienza non manca e appare significativo come alcuni componenti siano stati scelti per accompagnare Ian Paice, batterista dei Deep Purple, in concerti in Italia e all'estero.
Altri
musicisti che fanno parte della attuale line up hanno collaborato con
G.Lynch (Dokken), Nikko Mc Brayan ( Iron
Maiden), Bernie Mardsen (Whitesnake ), Andrea Braido in “Braido plays Blackmore”
(Vasco Rossi Zucchero Pausini ecc...), Clive Bunker (Jethro Tull ).
In passato un ex membro della band ha collaborato con il
Maestro Ennio Morricone per l'arrangiamento di un quartetto d'archi.
Insomma, la materia grigia e la storia ci sono tutte.
In quasi 25 anni di vita quella attuale, nata nel 2013, è la
nona formazione dei Silver Mirror ed è anche la più longeva …
Nonostante il tributo al rock e ai
miti di una vita, arriva il momento di proporre le idee personali. Per i Silver
Mirror è accaduto nel 2017, con la registrazione e il rilascio di “BUT YOU”. Dice Silver: “Sette brani inediti
scritti dal gruppo, registrati a distanza, senza alcuna prova prima
dell’incisione, e anche quando sono stati proposti dal vivo sono stati eseguiti
senza test preliminari, grazie allo studio dei vari componenti, legati da
umiltà incredibile e da solida amicizia.”
Le novità sono dietro all’angolo, ma nell’attesa ho provato ad ascoltare “BUT YOU”, un album che rispetta le premesse citate, ma che lascia spazio ad aperture sinfoniche e di più ampio respiro, esattamente come accadeva anni fa, quando convivevano il filone hard rock e quello prog, con influenze reciproche che travasavano con buona naturalezza.
Apre “Magic Mirror”
(5:25) e tutti gli elementi di un particolare rock - quello appunto legato al
periodo settantiano - si palesano in modo netto: una voce fatta di larga
estensione e note altissime (Roberto Relitti), una sezione ritmica ossessiva
nel suo incedere (Fabio Nasuelli alla batteria e Alessandro
Pregnolato al basso), la chitarra solista di Beppe Chiolerio che,
oltre al virtuosismo, mette a disposizione dell’ensemble la capacità di
conduzione, mentre il mago delle tastiere Paolo “Silver” Silvestri
cesella e incolla i suoni, emettendo la risultante che appare DNA del gruppo.
Partenza col piede giusto!
Segue “Mr Rock & Lady Roll”
(6:38), un brano che ho apprezzato particolarmente perché capace di fondere
maggiormente gli stili in voga all’epoca, e la sintesi produce un brano che
risulta molto attuale: si respira il passato e si ascolta musica a mio giudizio
attuale. I fraseggi tastieristici risultano determinanti per la caratterizzazione del pezzo, che riporta ai Kansas.
Con “Somebody to Control”
(3:45) il ritmo aumenta e lo smell di Deep Purple penetra nelle narici, mentre
il power rock viene in parte addolcito dalle sinfonie “classiche” di Silver che
lasciano poi spazio all’elettrica che imperversa: una goduria, immagino, in un
potenziale live.
“Highlander Forever”
(6:05) è un'altra traccia molto elaborata, dove prevale l’elemento melodico su
una base che un tempo avrebbe avuto vita autorevole anche nei luoghi deputati
alla “danza”, con una vena pop che permette al brano di rimanere facilmente
nella testa.
“Fly with me” (1:58) è una pillola che abbassa
i toni, sin qui elevatissimi.
Ogni album rock che si rispetti -
almeno così accadeva 50 anni fa - propone una ballad e anche in questo caso
troviamo la “tranquillità” che segue “l’agitazione”.
Un pianoforte che indica la strada,
una voce che la strada la percorre, e poi l’impeto strumentale che conduce allo
scemare dell’episodio, forse del dolore.
“August and “September call”
(4:18) è un magnifico strumentale che Silver guida con le sue tastiere, un
‘evocazione di un paesaggio in un particolare momento dell’anno, una trama
classica apparentemente fuori contesto ma che, guardando l’album da visione più
“alta”, funge da calmieratore, con sinfonie capaci di sollecitare i sensi dando
pieno significato alla parola “MUSICA”, senza necessità di incasellare e
innalzare steccati: musica da film e … da lacrimuccia!
L’epilogo
è affidato a “Hey Bach, don’t you drink anything?” (8.00), il brano più lungo, dove un
maestro del passato viene chiamato in causa - un certo Bach -, e i Silver
Mirror lasciano la veste ufficiale e si trasformano nei The Nice, o negli ELP,
o forse ne Le Orme.
Lascio da parte i paragoni, che
probabilmente non piacciono a nessuno, ma il rock proposto in questo episodio
finale ha un aspetto diverso, a testimonianza dell’azione ad ampio spettro e
della poliedricità dei vari protagonisti, a loro agio con qualsiasi “materia”
musicale.
Un bellissimo disco, piacevole e di immediata
presa.
Questi sono i Silver Mirror del 2017, e ciò che è fatto rimane per sempre, ma sono curioso di ascoltare la proposta attuale della band, e se tanto mi dà tanto il prosieguo non potrà che essere di pieno gradimento.
venerdì 24 settembre 2021
Un po' di storia dei Frijid Pink
Mi sono imbattuto casualmente nei Frijid Pink, scoprendone l’importanza storica, ma non ho trovato molto di loro tra gli articoli italiani e sintetizzo quindi il mio riassunto derivante dalla traduzione di notizie trovate su sito inglese.
I Frijid Pink sono un gruppo rock statunitense formatosi a Detroit nel 1967, molto conosciuto per una personale interpretazione di "House of the Rising Sun", nel dicembre 1969.
La formazione iniziale della band comprendeva il batterista Richard Stevers, il chitarrista Gary Ray Thompson, il bassista Tom Harris, il cantante Tom Beaudry (alias Kelly Green), e in seguito aggiunse Larry Zelanka come tastierista aggiunto. Nel loro album, “All Pink Inside”, la formazione era composta da Craig Webb, chitarra, Larry Popolizio, basso, Rick Stevers, batteria, e Jo Baker arpa/voce, con l'aggiunta di Rockin' Reggie Vincent, voce, e David Ahlers, pianoforte.
I Frijid Pink
si formarono quando alla cover band locale di Detroit, i Detroit Vibrations, si
aggiunsero il chitarrista Gary Ray Thompson e il cantante Tom Beaudry.
Il gruppo trascorse i primi due anni in tour in tutta l'area del sud-est del Michigan / Detroit e alla fine firmò con la Parrot Records. I loro primi due singoli, "Tell Me Why" e "Drivin' Blues" (entrambi pubblicati nel 1969) non riuscirono ad attirare molta attenzione, ma il loro terzo sforzo del 1969, una versione distorta della chitarra di "House of the Rising Sun", raggiunse la Top Ten della Billboard Hot 100 degli Stati Uniti nella primavera del 1970.
La canzone vendette
oltre un milione di copie, ricevendo così un disco d'oro. Il brano raggiunse
anche il numero 4 nella UK Singles Chart e il numero 3 nelle classifiche
canadesi RPM Magazine.
La canzone
era inizialmente usata per riempire il tempo morto alla fine delle sessioni di
registrazione.
La band era molto popolare nella zona di Detroit, da dove provenivano, e capitò anche che un neonato Led Zeppelin aprisse aprì per loro al Grande Ballroom di Detroit, cosa normale per loro che hanno spesso condiviso il palco con personaggi del calibro di MC5, Stooges, Amboy Dukes e altri gruppi locali.
L'omonimo LP
di debutto di Frijid Pink uscì nel 1970, così come la loro seconda
pubblicazione, “Defrosted”, con praticamente tutta la scrittura
dell'album fornita dal duo di Beaudry e Thompson.
I singoli
successivi tra cui "Sing A Song For Freedom" e una cover di
"Heartbreak Hotel" non riuscirono a eguagliare i successi
precedenti, e dopo che Beaudry e Thompson fallirono nel tentativo di riformare
il gruppo, fu creata una nuova formazione con David Alexander (in seguito Jon
Wearing) alla voce, Craig Webb alla chitarra e Larry Zelanka alle tastiere.
Questa versione del gruppo registrò “Earth Omen”, nel 1972.
Il gruppo avrebbe utilizzato un'altra formazione prima di rientrare in studio per registrare “All Pink Inside”, album del 1975, con Jo Baker alla voce e Larry Popolizio al basso.
Nel 1981 Stevers e Harris unirono le forze con Arlen Viecelli, cantante/chitarrista dei Salem Witchcraft, e Ray Gunn, chitarrista dei Virgin Dawn, per registrare un album allo studio Sound Suite di Detroit, pronto per l’uscita nel 1982, ma dopo tentativi di negoziazione falliti con varie case discografiche da parte del manager del gruppo il gruppo si sciolse e il materiale non fu mai pubblicato.
Un'altra
formazione della band (senza membri del passato) si formò nel 2001. Registrarono
un album, “Inner Heat”, che avrebbe dovuto uscire nel 2002.
Dopo un
singolo concerto, che dimostrò uno scarso appeal nei confronti della band, l'album
fu ritirato dall'etichetta discografica, la Dynasty Records.
Nel 2005 nacque un'altra formazione con la maggior parte dei membri originali: il batterista Stevers riuscì a convincere a suonare insieme il bassista Tom Harris e il cantante Tom Beaudry insieme al chitarrista Steve Dansby (da una formazione della fine del 1970 dei Cactus) e al tastierista sconosciuto Larin Michaels.
Alla fine del
2006, dopo un altro tentativo fallito di riunire i membri originali, Stevers
iniziò a fare audizioni per i chitarristi per la riforma dei Frijid Pink e fu
reclutato anche un tastierista. Nel corso dei successivi cinque anni, questa
nuova formazione avrebbe suonato una dozzina di concerti, in sale locali e
fiere di strada ma, senza un buon management, non arrivò mai alla stabilità e
quindi non si riuscì a pianificare nessun tour.
L'attenzione
si spostò allora sulla registrazione e sulla messa insieme di un album, che è
stato pubblicato nel marzo 2011 dall'etichetta Repertoire, disponibile negli
Stati Uniti come importazione e composto da interpretazioni ri-registrate di
canzoni dei precedenti album del gruppo e nuova musica originale.
Alla fine del
2011, il cantante / chitarrista / ingegnere del suono e il tastierista furono
sostituiti, ponendo così fine alla più lunga e longeva formazione nella storia
della band.
Le
registrazioni e le esibizioni continuarono con la nuova lineup eun EP è stato
pubblicato nella tarda primavera del 2012.
Un altro EP, intitolato "Taste of Pink" è stato rilasciato all'inizio del 2017, con tre nuove canzoni e una nuova versione registrata di “House of the Rising Sun”. Le tre nuove canzoni presenti nell'EP sono state incluse nell'album del 2018 “On the Edge”.
Nel 2013 i Frijid Pink sono stati inseriti nella Michigan Rock and Roll Legends Hall of Fame.
Ecco una versione live del 2015…
DISCOGRAFIA
ALBUM
1970 Frijid Pink
Defrosted
1972 Earth Omen
1974 All Pink Inside
2011 Frijid Pink
2014 Made in Detroit
2017 Taste of Pink (EP)
2018 On the Edge
SINGOLI
1969 "Tell Me Why"
"Drivin'
Blues"
1970 "House of the Rising Sun"
"Sing
a Song for Freedom"
"Heartbreak
Hotel"
1971 "Music for the People"
"We're
Gonna Be There"
1972 "I Love Her"
"Earth
Omen"
"Go
Now"
1973 "Big Betty"
COMPILATION (ALBUM)
The Beginning Vol. 5 (Deram) 1973. Compilation
tedesca, rara e di importazione
Hibernated (2002) 3-CD Box Set che
includono i primi tre album più i singoli che non erano mai comparsi negli
album
giovedì 23 settembre 2021
Arthuan Rebis -"Sacred Woods"
Arthuan Rebis
"Sacred
Woods"
(LP,
CD, Digital)
Black
Widow Records
Black Widow Records produce un album lontano - in parte - dagli interessi predominanti, costituiti soprattutto da prog e metal, ma chi conosce la storia di Massimo Gasperini sa anche del suo amore per gli aspetti esoterici, mix di occulto, magia e spiritualità, e quindi non sorprende il trovare in catalogo “Sacred Woods”, di Arthuan Rebis, disco rilasciato a metà luglio.
Appare necessario scoprire di più su Rebis, partendo dal suo vero nome, Alessandro Arturo Cucurnia, compositore, polistrumentista, arpista, scrittore, operatore sonoro, concertista internazionale, dottore in musica. Studioso di tradizioni musicali e spirituali d'Oriente e d’Occidente. Con i suoi progetti e da solista ha collezionato più di 1000 esibizioni in Italia e all’estero.
Utilizzo ancora una sezione del
comunicato ufficiale che, in modo efficacie, fotografa il credo musicale dell’artista:
“La sua formazione musicale è caratterizzata dallo studio e dalla pratica di stilemi musicali lontani nello spazio e nel tempo, che spaziano dal folk nordico e celtico alle tradizioni orientali, dalla musica arcaica a quella medievale, fino a contaminazioni più moderne. Tra gli strumenti che suona ci sono arpa celtica, nyckelharpa, esraj, hulusi, bouzouki, chitarra, flauti, cornamuse, percussioni e tastiere.”
Non conoscevo la sua musica e quindi mi sono avvicinato con interesse e curiosità a “Sacred Woods", che vede ospiti pregiati quali Vincenzo Zitello, Mia Guldhammer, Glen Velez, Giada Colagrande, Paolo Tofani etc.
Arthuan Rebis è autore e compositore, ma anche il vocalist della band The Magic Door, fondato assieme a Giada Colagrande.
Il fascino del disco è racchiuso
nelle atmosfere che, a tratti, superano la potenza delle liriche e, attraverso
una strumentazione variegata e inusuale (fruibile nei credits a fine articolo)
- e una voce ideale per il racconto “fantastico” -, disegnano la via dei sogni,
quella che tutti, prima o poi, hanno immaginato di percorrere. Mi riferisco al
sentiero - reale e immaginario - che si può imboccare all’interno di una
foresta, dominato dal contrasto tra silenzio/serenità e la sensazione di essere
osservati, seppur con discrezione, nel nostro cammino.
Un mondo fatto di presenze invisibili
che pare possano giudicare il nostro incedere, intervenendo in caso di azioni
maldestre… quella convinzione che spesso provano i ferventi credenti, convinti che
esista un’entità superiore che possa controllare - e spesso giudicare - il
nostro passaggio che deve avvenire nel rispetto di regole non sempre scritte.
Il percorso descritto da Rebis
annulla ogni barriera temporale e, attraverso l’evocazione di culture e simbologie
agli antipodi tra loro, conduce all’esaltazione della “Foresta” e di chi la
abita, luogo che si trasforma in metafora della vita, tra cadute e virtuosismi.
Il genere proposto viene ufficialmente definito Celtic Folk Prog, appellativo che provo a spiegare più compiutamente evidenziando come possa essere riferito ad una musica caratteristica dei popoli celtici dell'Europa Occidentale, che si appoggia su tradizioni consolidate, fatte di costumi e superstizioni, sinfonia del popolo che si tramanda nel tempo e che, nella sua connotazione “prog”, porta ad una completa libertà espressiva.
“Sacred Woods” è composto da nove tracce che conducono ad una durata totale di circa 42 minuti.
Apre il disco “Albero Sacro” (3:54), un parlato dal piglio sciamanico che permette di rivolgersi ad un silente testimone del tempo che scorre:
“Sei il primo rifugio, la dimora degli esseri, la Casa della Saggezza ove crescono gli uomini che vedono il profondo, sei l’antico custode, il creatore del linguaggio… sei l’ombra luminosa delle civiltà”.
Il crescendo strumentale produce il senso della sacralità e indica il tono del viaggio appena intrapreso.
Segue “Driade” (4:02),
fruibile nel video a seguire.
Un’escursione nella mitologia classica evidenzia una ninfa abitatrice della quercia:
“Nella foresta tutt’uno con le foglie la driade della quercia sta, la sacra unione con il dio dei boschi lo specchio d’acqua svelerà”.
Magnifico canto evocativo che incede
a ritmo costante e sfocia nella tradizione dal sapore irlandese.
Con “Kernunnos” (5:20) si
avverte il cambio di passo, reale e figurato, con l’introduzione dell’elemento percussivo
spinto e un gioco vocale che vive sul contrasto tra sperimentazione e modus più
lineare, con una proposizione orientaleggiante che avvolge l’ascolto.
L’arpeggio conclusivo sembra fermare il cerchio da poco aperto.
Con “Runar” arriviamo alla
traccia più lunga dell’album (7:50).
Danza cadenzata e caratterizzata da
suoni provenienti dalla natura miscelati a strumentazione molto specifica e
proveniente dal folklore popolare.
Il cantato appare come litania e preghiera che produce un affetto d’ansia, la fretta di arrivare in un porto sicuro alla fine di un percorso incerto.
“Elbereth” (5:16) è un
brano intriso di nostalgia dedicato ad una figura divina capace di accendere le
stelle, con riferimento all’opera di Tolkien.
La musica descrive una bellezza che è
troppo grande per essere rappresentata dalle sole parole, e nasce l’idea di una
entità superiore, la cui potenza e la cui gioia risiedono nella Luce che solo Lei
è capace di creare.
Episodio magnifico”…
E arriviamo a “Come foglie
sospese” (3:57): un incontro, una relazione magica con un essere reale
o immaginato, una poesia accompagnata da una trama sonora acustica e carica di
romanticismo:
“E tra le foglie sospese nell’aria ho incontrato Lei, ma il canto di un essere quasi immortale, dove finirà? In una vita lontana io ero lì con te, in una terra lontana tu sarai qui con me, in un tempo lontano io sarò lì con te, io sarei qui con te”.
Un quadro pieno di serenità e dolcezza, dove la speranza dell’incontro dell’amore “per sempre” si trasforma in certezza.
“Fairy Dance” (3:10), una danza delle fate che avviene nel pieno della notte, un ballo secreto che va in scena nella terra in cui si compiono magie, mentre le luci si sovrappongono alle ombre e il tappeto di stelle diventa lo scenario più probabile.
“Danzatrice del Cielo” (5:59) è un episodio sublime, basterà chiudere gli occhi e la trama musicale permetterà di iniziare a sognare e, dopo un canto iniziale - una sorta di elegia - saranno le atmosfere sonore a trascinare e a toccare l’anima, come solo certa musica sa fare, quando chi la ascolta porta in dote un minimo di sensibilità e virtuosismo.
A chiusura “Diana” (4:07), altro brano intriso di magia, dall’andamento quasi zingaresco: largo spazio alla ritmica e all’aulicità, la degna chiusura di un salto tra tempi e generazioni, regioni e mondi sconosciuti, alla ricerca delle radici e di una luce che spesso è impossibile da trovare quando ci si concentra solamente sulle certezze materiali.
Ho provato ad interpretare a modo mio i vari step, probabilmente arrivando a conclusioni non perfettamente in linea rispetto all’idea dell’autore, ma sono queste le sollecitazioni che mi arrivano dalla musica di Arthuan Rebis e sono certo che ad ogni nuovo giro di giostra nuove strade si apriranno, condizionate dal momento contingente.
Rebis appare un grande musicista, coordinatore, coagulatore di esperienze proprie e altrui e il paradigma del suo nuovo progetto è rappresentato da un contenitore musicale che procura forti emozioni, e questo al di là dei significati profondi che solo l’autore conosce nei dettagli.
L’artwork, magnifico, appare una continuazione - o un prologo - della proposta musicale, con un contenuto che agevola l’entrata in un mondo sconosciuto ai più, quindi utile oltreché piacevole.
Album trasversale che consiglio
vivamente agli amanti della musica di qualità.
1.
ALBERO SACRO
2.
DRIADE
3.
KERNUNNOS
4.
RUNAR
5. ELBERETH
6. COME FOGLIE SOSPESE
7. FAIRY DANCE
8. DANZATRICE DEL CIELO
9. DIANA
Link utili:
https://arthuanrebis.jimdofree.com/
https://www.facebook.com/rebisarthuan/
https://arthuanrebis.bandcamp.com/album/sacred-woods
https://open.spotify.com/album/3Wuuh94D8oGog3K1jX3ts6?si=pjOV3X8UREyGfJb2AOBrog
Bands:
https://invinoveritasmusici.com/it
martedì 21 settembre 2021
I fratelli Jagger impegnati nel video "Anyone Seen My Heart?", tratto dal nuovo album del "piccolo" Chris, "Mixing up the medicine"
Forse non tutti sanno che Mick
Jagger ha un fratello minore. Il suo nome è Chris, classe 1947 -
quindi ha quattro anni di meno - e anche lui è un musicista, seppur di ridotta
visibilità.
Non nasce oggi la sua storia
artistica e il suo esordio discografico risale addirittura al 1973, ma il focus
attuale è rivolto al suo nuovo album, "Mixing up the medicine",
rilasciato da pochi giorni.
La peculiarità è rappresentata da un
duetto tra i due fratelli Jagger che assieme cantano il brano "Anyone
seen my heart?", scritta da Chris Jagger e ispirata dalle poesie
del poeta Thomas Beddoes.
L'album "Mixing up the
medicine" è stato realizzato insieme al pianista Charlie Hart durante
il lockdown, lavorando a distanza, utilizzando le tecnologie disponibili.
Oltre al disco, Chris Jagger ha pubblicato anche un'autobiografia, "Talking to myself".
Chris Jagger ha recentemente raccontato della sua infanzia nel
Kent col fratello maggiore Mick, che qualche anno più tardi sarebbe diventato
una leggenda vivente.
Quarant'anni di carriera alle spalle,
cinque figli, una vita variegata negli impegni, che lo ha visto cimentarsi con
la musica, il teatro, il giornalismo e la radio, il tutto, ovviamente, all’ombra
di Mick, fino a quando, dopo aver lavorato negli anni Ottanta a due dischi dei
Rolling Stones (Dirty Worke Steel Wheels), decise di sfilarsi dal legame -
artisticamente parlando - per mettersi
in proprio.
Il nuovo album è l’occasione per una
reunion e Chris duetta su due brani proprio con Mick.
Non è così scontato e facile da
realizzare ed è stato chiesto a Chris come sono andate le cose.
"Ho registrato il disco in
Francia, proprio negli studi della villa di Mick, a Poce-sur-Cisse e a un certo
punto lui è venuto ad ascoltare cosa stavamo facendo con la band. Così gli ho
chiesto di cantare su due brani, “Concertina Jack” e “Pearl of a Girl”, e lui è
stato al gioco molto volentieri. In fondo la cosa positiva di un fratello tanto
famoso è che puoi averlo ospite sul tuo album senza doverlo nemmeno pagare, no?".
E poi, ripercorrendo la storia a
cavallo tra due secoli ha aggiunto:
"Negli anni Settanta, dopo il
mio primo disco e il tentativo fallito di registrare un album a Los Angeles con
i Flying Burrito Brothers, avevo abbandonato per sempre la musica per darmi al
teatro. Non ho fatto molta carriera su quei palchi, ma ho capito una cosa: il
rock è puro teatro, Keith Richards durante gli show degli Stones mette in scena
sé stesso, così come fa Mick e quasi tutti le grandi rockstar del mondo. Per
quanto mi riguarda non sono cambiato troppo, suono solo per divertirmi, come
agli inizi".
E ancora, a proposito del rapporto
col fratello…
"Non è difficile la
convivenza, non soffro di complessi di inferiorità, e se li avevo ormai li ho
decisamente superati. Comunque, a volte, a fine concerto, qualcuno mi avvicina
e mi dice che preferisce la mia voce a quella di Mick. Certo, non ho bisogno di
sentire questi complimenti, però è un segnale: fa capire quanto la musica sia
una cosa soggettiva. E comunque io avrò sempre qualcosa che Mick non ha… sarò
sempre più giovane di lui! ".
lunedì 20 settembre 2021
Kimmo Pörsti-“Past and Present”
Kimmo Pörsti-“Past and Present”
Seacrest
Oy 2021
Un
anno e mezzo fa, in questo spazio, commentavo “Wayfarer”, un album di Kimmo Pörsti che arrivava a distanza di 23 anni dall’esordio.
Il
nome di Kimmo, per chi non lo conoscesse, è legato a doppia mandata ai The
Samurai Of Prog, band di cui è batterista.
Il
suo impegno, sia quello solista che assieme ai Samurai, appare incessante e in
continua evoluzione, una marea musicale che avvolge costantemente gli appassionati della musica progressiva.
Anche
in questo caso il contenitore proposto è gioia pura per gli amanti del genere,
ma penso che il gradimento potrebbe diventare trasversale se l’approccio
arrivasse senza pregiudizio: il mix tra classico e rock può essere affasciante,
qualunque sia l’età di chi decide di tentare un nuovo corso, lontano dalle
imposizioni dei media.
Il
terzo progetto solista di Kimmo si intitola “Past
and Present”, ad indicare una dicotomia tra brani realizzati nel
passato (5 canzoni create tra il 2004 e il 2016, alcune completamente
riarrangiate) e altri nuovi, composti da Kimmo e Rafael Pacha (uno è di
Jari Riitala).
Nonostante
il notevole salto temporale compositivo, l’anima dell’album presenta grande
omogeneità e segni caratteristici inconfondibili, che evidenziano un prog
sinfonico, dove gli aspetti strumentali superano la necessità dell’uso della
lirica, con l’introduzione di elementi folk e cura dei dettagli.
Provo a commentare le singole tracce, cercando di fornire utili indicazioni per l’ascoltatore.
Si
parte con “Awakening” (2:10), con la musica di Kimmo e gli
arrangiamenti di Pacha.
Un
meraviglioso e contenuto “risveglio” che vede i due autori protagonisti come
unici strumentisti, in bilico tra modus acustico e sognante viaggio elettrico.
Non
sempre servono le parole per documentare un attimo magico… le chitarre e le
percussioni sono ottimi sostitutivi, se usate sapientemente.
A
seguire “At Lombardy Convent” (8:40), uno dei brani del passato,
scritto da David Myers.
Fu
inserito nel “Decameron III” (4 CD Box) ma privo di parti percussive.
Quando Kimmo provò ad aggiungere la batteria rimase sorpreso della resa e chiese
all’ex tastierista dei The Musical Box il benestare per poter scrivere una
versione che comprendesse la parte ritmica; è arrivata così una nuova
rielaborazione del tastierista e compositore e a quel punto sono state aggiunte
le parti di Pörsti e Kari Riihimäki.
È il
brano più lungo, una mini-suite che oltre ai musicisti citati (tutta la sezione
ritmica registrata da Kimmo, le chitarre elettriche di Riihimäki e le tastiere
e la chitarra classica di Myers) vede la partecipazione di un ensemble “classico” formato da Cathy Anderson al violoncello, Sara
Traficante al flauto e Christine Chesebrough al violino.
Uno strumentale meraviglioso che non ha bisogno di molti ascolti per essere afferrato: sonorità immaginifiche che scuotono cuore e memoria e permettono di viaggiare e sognare ad occhi aperti.
Il
terzo episodio si intitola “Changewinds” (5:40), il primo cantato
che mette in evidenza le competenze del vocalist Carlos Espejo.
Brano
creato dalla solita coppia Pörsti/Pacha con l’ausilio scritturale di Dan
Schamber, tutti coinvolti strumentalmente all’interno del pezzo. Importante
l’ausilio del resto della famiglia “Pörsti” (Hanna al flauto e Paula
ai cori).
Brano
più tendente al rock, ritmato ma con cambi frequenti di atmosfere, una piena
libertà “prog” che permette di spaziare senza mai cadere nel più semplice pop.
E si
arriva a “Fused” (5:04), musica di Jari Riitala, che si
propone con i suoi strumenti di riferimento (chitarre, tastiere, basso)
unitamente alla batteria di Kimmo.
Un
deciso cambio di passo verso i sentieri del funk, privilegiando un percorso che
profuma di virtuosismo e improvvisazione da palco, e la dinamicità prende il
sopravvento sulla linea melodica.
“Sorrow
and Recovery” (6:26) è attribuita al solo Kimmo Pörsti; a completare la
sezione ritmica il “Samurai” Marco Bernard, il solito Pacha alle
chitarre, Hanna Pörsti al faluto e Ton Scherpenzeel al Synth.
Differenti
strumenti conducono la danza, mentre il sentiero sonoro passa dall’estrema
serenità alla nervosità dei tempi composti, delineando i diversi stati d’animo
che alimentano i percorsi di vita.
E
arriviamo ad un'altra traccia del passato, “Dance of the mistress”
(5:05) che appariva in “Woodlands”, secondo album dei Mist Season (2006)
in cui Kimmo militava.
Nomi usuali per quanto riguarda gli aspetti creativi e oltre ai “soliti due” troviamo Ton Scherpenzeel
alle tastiere e Jan-Olof Strandberg al basso.
Nell’occasione
la musica progressiva si sposa alla tradizione popolare e al folk, un balletto
rock tra natura e paesaggi incontaminati, un tragitto ad ampio respiro che
regala serenità e idee positive.
“Darker
Places” (5:47) è l’altro cantato e vede nuovamente al lavoro Dan
Schamber, che si occupa del testo e della sua proposizione vocale.
Nell’episodio
entrano in gioco nuovi protagonisti: la tromba di Marc Papeghin e i sax
di Marek Arnold.
Sezione
ritmica affidata ancora a Pörsti e Jan-Olof Strandberg, organo per Ton
Scherpenzeel e chitarre affidate e Pacha.
Vero
tuffo nei seventies, versante psichedelico e canterburiano, con la magnifica
voce di Schamber che riporta al giovane Richard Sinclair.
Curiosa
la storia di “Kati” (5:21). Fu composta da Kimmo nel 2000 come
valzer per il matrimonio di Kati e Santeri, suoi amici. Nel 2004 si evolse in un
walzer jazz e fu inserita nel primo album omonimo dei “Mist Season”.
Durante
il processo di registrazione le parti di batteria andarono distrutte, ma
successivamente ricreate attraverso il recupero dei minuscoli frammenti
rimasti. Però, nella testa dell’autore resta l’idea che, un giorno, si arriverà
ad una nuova versione.
Partecipano
nell’occasione Bo Hallgren alle tastiere, Jan-Olof Strandberg al basso,
Hanna Pörsti al flauto e Thomas Berglund alla chitarra elettrica.
Una
magnifica trasformazione che prende vita all’interno del brano stesso: un
passaggio dalla tradizione alla contaminazione che prevede il cambiamento da
brano popolare ad andamento jazz.
“Second
Arrival” (1:52) è un frammento realizzato dalla solita coppia che si
propone anche come unità strumentale.
Il
senso della partenza e del successivo approdo, la conferma che il viaggio sia
esso stesso la meta. Un andamento trionfale che suona come epilogo di una
storia reale.
E si
arriva alla title track, “Past and Present” (6:10), il titolo che
Jan Olof Strandberg diede a una canzone che Kimmo compose per il suo “Made
in Finland”, nel 2012, inclusa in questo album con l’introduzione di nuovi
elementi.
Ancora
in pista Pörsti e Strandberg, spina dorsale del brano, con l’aggiunta di
qualche new entry: Petteri Hirvanen alle chitarre elettriche, Otso
Pakarinen ai sintetizzatori, Risto Salmi al sax e Kimmo
Tapanainen alle tastiere.
Un
ritorno ad un sound funkeggiante diventa la base per interventi solistici
pregiati, e la modernità strumentale diventa il bridge tra il prima e il dopo,
tra il passato e il presente.
A
chiusura un brano tutto italiano e dal sapore antichissimo, performato dalla
coppia Kimmo Pörsti/Otso Pakarinen, quest’ultimo in azione alle tastiere, basso
e chitarre.
Il
titolo è “Nucleo Antirapina” (4:35) e fu scritto da Franco
Bixio/Fabio Frizzi/Vice Tempera come parte della colonna sonora del film "Operazione
Kappa: Sparate a Vista”, del 1977.
Dice Pörsti:
“La canzone ha una caratteristica speciale che la rende piuttosto
interessante da suonare: il tempo è in continuo aumento di velocità per tutta
la durata del brano.”
Non
c’è bisogno di pensarci su molto, almeno per chi ha vissuto il passaggio tra
anni ’70 e ’80, periodo in cui i film polizieschi avevano atmosfere codificate
e riconoscibili all’impatto.
L’impegno tecnico a cui fa riferimento il drummer finlandese permette la realizzazione di un andamento ipnotico ed è forse il culmine del concetto di “passato” evocato nel disco.
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Ancora
una grande proposta da parte del mondo prog targato “Samurai”, un disco
godibilissimo e vario, che vede una volta di più all'opera una squadra di professionisti
alimentati da skills e passioni non comuni, e il risultato è, a mio giudizio,
di altissimo livello.
Molto
curato, come sempre, l’aspetto grafico, con un magnifico packaging - con
booklet di 20 pagine - che è caratteristica specifica del lavoro del team
finlandese, un artwork curato dal mio “disegnatore” musicale preferito, Ed
Unitsky.
Una nota simpatica è evidenziata dallo stesso Kimmo che sottolinea l’importanza di Rafael Pacha: “Il suo contributo è stato talmente importante che avrei potuto denominare l’album “Rafael Pacha and Kimmo Pörsti” e l’ho proposto, ma lui ha gentilmente rifiutato. Inoltre, essendo un maestro in numerosi strumenti, il suo aiuto è stato prezioso - e invalutabile - nel fornirmi grandi idee che mi hanno consentito di completare i miei brani.”
Hanno
partecipato:
Marek
Arnold: sax
Thomas Berglund: chitarre
Marco Bernard: basso
Carlos Espejo: voce
Bo
Hallgren: tastiere
Petteri Hirvanen: chitarre
David Myers: tastiere
Rafael Pacha: chitarre, tastiere, registratori
etc…
Otso Pakarinen: tastiere
Marc Papeghin: tromba
Risto Salmi: sax
Cathy
Anderson: violoncello
Christine Chesebrough: violino
Sara Traficante: flauto
Hanna
Pörsti: flauto
Paula
Pörsti: voci
Kari Riihimäki: chitarre
Jari Riitala: chitarre, tastiere, basso
Dan
Schamber: voci
Ton
Scherpenzeel: tastiere
Jan-Olof
Strandberg: basso
Kimmo Tapanainen: tastiere
Presented in a Mini-LP-style gatefold package
including 20-page booklet,
and wonderful artwork by Ed Unitsky