Il mio primo impatto con la musica,
quando avevo ancora i pantaloni corti, riporta a brani musicali per me all’epoca
sorprendenti, eseguiti dai gruppi italiani allora in voga che esercitavano in
modo assolutamente libero l’esercizio di “copiatura” sonora, modificando e adattando
il testo, che da inglese diventava italiano, cambiando completamente
significato.
Non era una grande perdita, a quei
tempi le liriche non presentavano ancora nulla di serio, nemmeno al di fuori dei
nostri confini, anche se qualcosa, soprattutto in America, stava cambiando, con
l’impegno sociale di Dylan e Baez.
La tecnologia fu di grande aiuto per
la diffusione capillare della musica, attraverso prodotti e supporti sempre più
alla portata di tutti, che permettevano peraltro la socializzazione, i quei
primi anni Sessanta: rock’n roll, il twist, il folk, il beat, il rythm &
blues, il funky… musica da ascoltare, musica per ballare.
L’Italia era ben predisposta al cambiamento, ma la cosa che risultò più rapida e semplice per i giovani musicisti e i loro "gestori" fu quella di pescare a man bassa nella produzione anglosassone e farla propria, in tempi in cui non si guardava
molto ai diritti d’autore.
In pochissimi parlavano e cantavano
in inglese, e spesso i grandi nomi stranieri si prestavano a mettere da parte
il loro idioma naturale a favore dell’italico verbo, diventando loro stessi “cantanti
italiani”.
Due le alternative per i gruppi e i cantanti: prendere brani di
riconosciuto successo facendoli diventare la copia nostrana, oppure pescare nel mare magnum britannico, appropriandosi di canzoni sconosciute, rendendole “nuove”
per il pubblico italiano. E attraverso questo modus il brano originale prendeva
luce anche entro i nostri confini.
Di lì a poco, come è noto, tutto sarebbe cambiato,
ma restano dei gioiellini che credo non siano conosciuti da tutti, per cui a
partire da oggi, sporadicamente, proporrò un brano originale e la cover corrispondente,
e sono certo che qualche cosa di inaspettato verrà a galla.
Dopo aver proposto i QUELLI/Tommy Roe, passo a Michel Delpeche, da cui attinsero i Dik Dik.
Il brano originale si chiamava “Wight
Is Wight”, diventato in italiano “L’isola di Wight”,tormentone dell’epoca.
La canzone francese, che celebrava il
festival rock-hippy organizzato nell’isola al largo della Gran Bretagna, ideale
continuazione della esperienza dell’anno prima a Woodstock, divenne un successo
internazionale.
Dal punto di vista musicale era però
un “lentone” del tutto asincrono con quello che si sentiva nel festival
(Hendrix e compagni), niente di comparabile alla canzone simbolo del festival
americano, “Woodstock” appunto, scritta da Joni Mitchell e cantata da
Crosby, Stillts, Nash & Young.
Nel periodo di sosta forzata, chiuso
in casa, sono andato alla ricerca di musica che non conoscevo, nonostante
coincidesse con il mio periodo più attivo, quello in cui mi sono formato.
Molti validi gruppi italiani dei
seventies sono rimasti nell’anonimato, e solo i più fortunati sono riusciti a
lasciare una testimonianza concreta. Per altri è accaduto che la musica rimasta
per lustri nel cassetto - sotto forma di registrazione scadente - sia stata rimessa
a nuovo in tempi recenti, grazie alla tecnologia e alla voglia di riappropriarsi
di uno spicchio di passato fatto di arte concreta che rinnova la memoria.
Era quello il periodo di un subbuglio
generazionale che trovava sbocco - parlando di musica - nella forma canzone, ma
il movimento discografico tendeva a mantenere le distanze dall’impegno sociale,
perché per molti la politica e il businnes musicale, dovevano avere una decisa
linea di demarcazione.
Nel corso della mia ricerca ho
trovato nel mare magnum delle band dell’epoca i Gramigna,
e dopo l’ascolto del loro unico album del 1977, “Gran
disordine sotto il cielo”, ho deciso di approfondire, acquisendo
qualche notizia dalla rete.
L’ascolto mi ha portato verso la
formazione, abbastanza singolare, sia per numero che per tipologia
strumentistica, e nelle righe a seguire si comprenderà il motivo.
Nella lineup spunta un nome femminile,
quello di Françoise Goddard (voce e chitarra), che ho contattato, e con lei ho provato ad
approfondire l’argomento.
La chiacchierata risultante mi pare interessante e
icastica di un mondo che non esiste più, che personalmente ricordo con grande nostalgia, e non
solo per un ovvio dato anagrafico.
Chiacchierando con Françoise Goddard...
Il mio commento a seguire incomincia così: “I GRAMIGNA fanno parte di quelle band
arrivate tardi all’appuntamento… troppo tardi per essere allettanti nella sfera
del prog, e fuori tempo rispetto al cantautorato italiano e al punk in arrivo
da Oltremanica.”
Sei d’accordo?
Effettivamente, il tuo punto di vista non è
sbagliato, ma penso che nessuno di noi fosse interessato ad essere messo in una
o l’altra categoria. Volevamo solo suonare, esprimere dei concetti che ci
parevano importanti, e qualcuno ci ha pubblicato.
Come nacque la band? Che tipo di modelli
avevate, dal momento che non era usuale vedere un gruppo di otto/nove elementi?
La band nacque da una tournée con Patty Pravo
in cui per caso c’ero anch’io come corista, e dove ho conosciuto Alberto
Mompellio e Maurizio Martelli. Io divenni la pisquella della band, altri,
come Maurizio Martelli o Alberto Mompellio, invece erano molto preparati e
dovresti chiedere a loro quali erano i modelli di riferimento. Alberto è un
musicista “serio” che aveva già ascoltato e anche prodotto musica
“contemporanea”. Maurizio aveva un gusto straordinario che poi ha sviluppato
nella musica antica (credo…). I due fiati studiavano classico. Poi c’erano gli
altri, anche loro bravissimi. Io al massimo cantavo (male…) le canzoni di
Cat Stevens, Joni Mitchell, Beatles e West Coast.
Basta dare una lettura rapida della vostra
strumentazione e appare chiaro il piacere della contaminazione, tra rock, folk
e classica: come definiresti la vostra musica?
Eravamo anche molto politicizzati: “polprog”
ti va bene come definizione? C’era comunque un gruppo al quale ci
accomunavano, ed erano gli “Henry Cow”.
Avete in ogni caso avuto l’opportunità di rilasciare
un album significativo nel 1977, “Gran disordine sotto il cielo”, con un’attenzione
particolare al messaggio e alle liriche: cosa ricordi del disco? Come riusciste
a pubblicarlo e che soddisfazioni vi diede?
Eravamo “impegnati” e disordinati. Erano i
famosi anni di piombo, ed eri o da una parte o dall’altra, ma secondo me rimanevamo più musicisti che politicanti. Per pubblicare il disco arrivò Nanni Ricordi,
che aveva un’etichetta, “L’Ultima spiaggia”. Penso che fosse naturale per lui
aiutarci, perché c’era molta carne al fuoco e molta energia.
L’album non è facilissimo da trovare, e mi
pare non sia mai stato ristampato in alcuna forma: non varrebbe la pena
riesumarlo e portarlo a conoscenza del pubblico ignaro?
Why not…
Mi racconti qualche aneddoto che possa far
capire quegli anni, l’atmosfera vissuta dalla parte del musicista?
Io arrivavo direttamente dalle atmosfere della
swinging London e della West Coast, e per me, malgrado l’estremizzazione delle
lotte politiche in Italia, era comunque un momento di libertà. Allora non me ne
rendevo conto, ma me ne accorgo adesso, dove tutto è estremamente compresso e
vengono messi blocchi e limiti dovunque ti giri. Magari la mia è solo la
percezione di una persona che sta invecchiando, ma ne dubito. La mia
generazione è la seconda dopo la guerra. Già mia madre si era mossa a “colpi di
testa” e io arrivavo subito dopo con una bella porta aperta davanti a me. Le
donne tra l’altro avevano tutto da conquistare, ma era tutto molto semplice. Se
dovevi lavorare lavoravi, se volevi studiare studiavi, se volevi suonare
suonavi…
Non erano molte le figure femminili nelle rock
band, in Italia come nel resto del mondo: come arrivasti nei GRAMIGNA? Avevi un
ruolo anche nella fase compositiva?
Beh… non è che “sono arrivata nei Gramigna”,
ma la band fu formata assieme a me. Io suonicchiavo la chitarra per cui feci la
musica sui pezzi di Alice (non mi ricordo quali…). Non ero iscritta alla SIAE,
così li firmò Alberto. I testi erano di Paolo Farnetti.
Tu e il resto della band avevate alle spalle
delle buone basi musicali?
Chi più chi meno, ma con la guida di Alberto
sicuramente miglioravamo.
Perché vi scioglieste e cosa ne è stato dei
tuoi compagni di viaggio?
Non saprei dirtelo. Tenere assieme un gruppo è
comunque molto faticoso, e credo che ognuno avesse un proprio percorso da
affrontare.
Che svolta ha preso la tua vita dopo quei
giorni? Hai continuato a restare nel mondo della musica? È rimasta una tua
grande passione?
In quel periodo mi ero messa a studiare
seriamente canto, e questo mi ha portato a fare un giro lunghissimo nella
musica classica grazie alla mia meravigliosa insegnante. Da allora mi sono
diplomata, ho scritto dei libri sulla voce, ho insegnato canto per tanti anni
(lo faccio ancora, ma meno), collaboro tuttora con una casa editrice musicale
(la migliore…) e il canto è diventato per me una forma di meditazione.
Ultimamente mi sono immersa nel mondo vocale barocco, e di conseguenza ho
scritto un racconto che si svolge agli inizi del Settecento e che sta per
essere pubblicato. Per cui definire il canto come una passione è
riduttivo, direi piuttosto che è la mia vita parallela.
I
GRAMIGNA fanno parte di quelle band
arrivate tardi all’appuntamento… troppo tardi per essere allettanti nella sfera
del prog, e fuori tempo rispetto al cantautorato italiano e al punk in arrivo
da Oltremanica.
La
band milanese era formata da otto elementi che proponevano, oltre ai classici
strumenti della tradizione rock, mandolini, sitar, cetre, salteri, violini, un
fagotto e un oboe. Insomma, una perfetta miscela di rock e tradizione, quella
che avrebbe aperto molte strade se si fosse rivelata un lustro prima. E la
qualità c’era!
Il
gruppo non avrà quindi molta fortuna, ma nel 1977 rilascerà un bell’album, “Gran disordine sotto il cielo”, molto convincente,
anche dal punto di vista del messaggio e del contesto del momento:
“Il
racconto di una donna, Alice, che prima analizza la sua e l’altrui condizione
di donna per scoprire di essere schiava di ruoli e cliché (amante, ma succube
di un uomo; seducente ma ingabbiata nella propria bellezza). Poi, raggiunge la
consapevolezza di non voler niente e nessuno al di sopra di sé, né regine, né
re, e da quel punto in poi, è tutta un’analisi sulla società e i suoi modelli. La
speranza, naturalmente, è che un giorno arrivino dei “nuovi barbari rossi” a
far piazza pulita di qualunque ipocrisia”.
Vediamo
la formazione...
Umberto Calice (voce, percussioni)
Françoise Goddard (voce, chitarra)
Maurizio Martelli (chitarre)
Alberto Mompellio (tastiere, violino,
voce)
Dino Mariani (fagotto)
Mario Arcari (oboe)
Raoul Scacchi (basso, chitarra)
Mario Ultre (batteria)
Nel gruppo entrò, subito dopo la
registrazione, un nono elemento, il vibrafonista Valentino Marrè.
Album
non facilissimo da trovare, ma assolutamente non costoso, non è mai stato
ristampato in alcuna forma, vale la pena riesumarlo e portarlo a conoscenza del
pubblico ignaro.
Gran
disordine sotto il cielo (1977 )
Ultima Spiaggia
Lato A
Per / Alice nel pozzo / Alice e le
Regine / Alice oltre lo specchio / Piccole voci
Lato B
Ombre rosse / Per il bene della patria
/ È una notte / Arrivano i barbari / Tarantola
Testi di Paolo Farnetti (con la collaborazione di
Giovanna Pezzuoli e Francoise Goddard per Alice nel pozzo e Alice oltre lo
specchio e di Cesare Brie per Per il bene della patria)
Musiche di Maurizio Martelli: Ombre rosse, Tarantola e
di Alberto Mompellio: Per, Alice nel pozzo, Alice e le regine, Alice oltre lo
specchio (su temi di Francoise Goddard), È una notte, Per il bene della patria,
Arrivano i barbari (da idee di Roul Scacchi), Piccole voci (con la
collaborazione di Maurizio Martelli e Franco Mompellio).
Con la collaborazione di Flaviano
Cuffari (batteria in Alice nel pozzo, Piccole voci, Ombre rosse, Per il bene
della patria) e Nanni Ricordi, Lella Cardente, Gianfranco e Roberto Manfredi
(voci recitanti in Piccole voci e Per il bene della patria).
Coordinamento ed elaborazione musicale
di Alberto Mompellio, con l'aiuto in studio di Gianluigi Pezzera.
Registrazioni effettuate a Milano nel marzo-aprile 1977 presso
gli Studi Ricordi.
Tecnico del suono
e missaggi: Gianluigi Pezzera (con l'aiuto di
Giorgio Anastasi e Walter Patergnani)
Commentare i progetti dei The Samurai
Of Prog e dei vari spin-off richiede sempre ampio spazio, e le indicazioni dei
protagonisti - comunicati, interviste, didascalie varie - risulteranno alla
fine necessarie per la comprensione degli intenti basici, perché parlare solo
delle sensazioni derivanti dalla musica sarebbe limitativo.
L’album che presento oggi è da
attribuire al duo BERNARD & PÖRSTI(Marco e Kimmo), ovvero a due terzi dei Samurai (la
sezione ritmica), anche se Steve Unruh - l’ultimo terzo della band - compare
come gradito ospite.
Il titolo è “La Tierra”, e i contenuti si presentano come
al solito corposi, con un gran numero di collaborazioni - quasi tutti musicisti
di madre lingua spagnola -, tra cui spiccano alcune “nobiltà” musicali, come John
Hackett e il “nostro” Oliviero Lacagnina.
Tema centrale la condizione dell’uomo
all’interno di un mondo che lui stesso ha contribuito a degradare, un continuo
viaggio tra passato e speranze future, tra realtà e immaginazione, un iter fantastico
e fantasioso che sottolinea stati d’animo caratteristici della specie umana.
Una critica a modelli di vita a cui
siamo abituati, un “j’accuse” esposto elegantemente che spinge alla
riflessione.
La musica è come sempre molto
articolata e capace di esemplificare il concetto di “prog”, almeno per come lo
intendo io, e anche il cantato totalmente in spagnolo diventa indispensabile
per il compimento pieno degli intenti che alimentano il progetto.
Vediamo brano dopo brano, con l’aiuto
delle note del booklet; nella seconda parte dell’articolo l’intervista a Marco Bernard
e Kimmo Pörsti completerà la comprensione del progetto.
Si parte col botto, “Vuelo
sagrado”,un brano di quasi nove minuti ad ampio respiro, dove
troviamo tutti gli elementi simbolo della musica progressiva, con una sezione
tastieristica che padroneggia, mentre la ripetizione degli ascolti porta al
totale apprezzamento della voce accattivante di Ariane Valdiviè. Intervento al
violino per Steve Unruh.
Le parti strumentali disegnano
l'intensità della contesa e della contrapposizione spinta inclusa nella
storia.
Musica e liriche: Eduardo G. Salueña
Marco Bernard · basso
Kimmo Pörsti · batteria e percussioni
Eduardo G. Salueña · piano, organo, mellotron,
sintetizzatori
Ariane Valdivié · voce
Rubèn Alvarez · chitarra elettrica e
acustica
José Manuel Medina · arrangiamenti
Steve Unruh · violino
“Vuelo Segrado” si ispira
direttamente alle cerimonie sacre degli indigeni Rapa Nui, che coinvolgono il
cosiddetto uomo-uccello (Tangata manu o hombres pájaro). La maggior parte delle
volte questi rituali erano molto pericolosi a causa dell'enorme forza fisica e
abilità mentali richieste ai partecipanti. Nuotare vicino agli squali,
arrampicarsi in alto sulle scogliere e correre attraverso rocce appuntite erano
alcuni dei punti salienti più rischiosi, ma anche vincenti. Il rispetto del
resto della tribù e la considerazione di una divinità erano fattori importanti capaci
di incoraggiare gli aspiranti uomo-uccello.
Le liriche descrivono l'esitazione, la
motivazione e le riflessioni delle persone che prendono parte alla gara, stati
d'animo comuni a tutti.
La seconda traccia prende il nome di “El Error”, oltre
undici minuti per raccontare il seguente accadimento…
Due scienziati - che sono una coppia nella vita e una squadra
al lavoro - prendono parte a un concorso per creare una nuova forma vivente da
inserire in un nuovo ed evoluto ecosistema. Finiscono per creare qualcosa che
chiamano "Uomo". L'uomo viene assegnato al pianeta Terra e un
comitato segue da vicino il suo sviluppo per valutare il lavoro degli
scienziati. Ben presto si accorgono che l'Uomo non si integra nell'ecosistema,
anzi, con il passare del tempo, distrugge lentamente l'ecosistema stesso,
nonostante sia l'unica cosa che lo mantiene in vita. A causa di questo
incredibile fallimento gli organizzatori sospettano che gli scienziati possano
aver fatto qualcosa di sbagliato. Indagano e scoprono che uno di loro ha
aggiunto un codice del proprio DNA a quello dell'uomo, per accelerare il
processo di creazione, e ciò ha reso l'uomo difettoso. Questo metterà a
repentaglio la carriera degli scienziati e porrà fine alla loro relazione.
Il brano - musica e liriche dell’italiano
Alessandro Di Benedetti - propone l’entrata in scena di John Hackett
al flauto.
Pezzo diviso idealmente in due
sezioni atte a caratterizzare i diversi momenti della storia. Pregevole la
capacità di realizzare quadri sonori che raccontano l’eccitazione della scoperta
e la successiva drammaticità legata al fallimento. Una chicca!
Musica e liriche: Alessandro Di Benedetti
Marco Bernard· basso
Kimmo Pörsti· batteria e percussioni
Alessandro Di Benedetti· tastiere
Ariane Valdivié ·voce
Rafael Pacha · chitarra elettrica e
acustica
Rubèn Alvarez · chitarra elettrica solista
John Hackett· flauto
Con “Voz de Estrella que Muere” (5:30) ritroviamo un habitué
di questo “ambiente”, Oliviero Lacagnina, che firma la musica mentre il testo è
da attribuire a Sonia Vatteroni.
Ed è proprio l’autore che mi ha raccontato la genesi del
brano, il cui significato è racchiuso nelle seguenti note di copertina:
Una terra cibernetica nel deserto di
Acatama. Lui è un uomo ricostruito che migrò nello spazio insieme ad altre
intelligenze artificiali quando la Terra divenne inabitabile. Nel suo cervello
non ci sono ricordi di chi qui ha vissuto, amato, odiato, persino ucciso.
Viene in pace, vuole solo conoscere
la loro storia e le storie, come un'ape cosmica. In questo modo, costruirà la
sua anima, nata da una serie di ricordi che creano emozioni, sensazioni.
Seguendo il suo esempio, verranno create nuove storie attraverso le galassie,
che saranno la base per una musica delle stelle che risuonerà all'infinito,
fino alla morte dell'ultima stella, perché la musica è a linguaggio universale,
divinamente umano.
Oliviero Lacagnina ricorda così il
suo intervento: “Quando mi venne proposta la storia sul deserto di Atacama
mi apparve come particolarmente complessa, nel senso che mi risultava difficile
estrapolare quelle immagini evidenti che, in altri contesti, mi avevano offerto
la possibilità di un commento musicale, e la mia attività musicale è
prevalentemente dedicata all'immagine. In più l'ambiente immaginifico che
solitamente i “Samurai” preferiscono qui diventa meno evidente, pertanto il mio
compito risultava un po' più in salita. Ho dovuto allora chiedere ad una
poetessa come Sonia Vatteroni di offrirmi delle stimolazioni che solo la parola
poteva offrirmi. “Voz de estrella que muere”, testo prima concepito in italiano
e poi tradotto in spagnolo, racconta più di sensazioni che delle situazioni a
cui far riferimento, un processo creativo al di fuori della routine alla quale
il prog ci ha abituato. Il procedimento da cui sono partito è stato quello
della “crittografia musicale”, quella usata già nei secoli passati da vari
compositori. Il nome “Atacama”, con una nota per ogni lettera, costituisce
l'avvio del brano con un riferimento strumentale a strumenti etnici del Sud
America e da lì sono partito. Il brano è composto da due parti, una lenta
iniziale dove l'utilizzo di una certa orchestrazione cerca di dare l'idea
dell'immensità del deserto cileno, e la seconda parte, più veloce, che stacca
completamente, con evidenti parti affidate al violino e alla lead guitar, parte
che poi, mantenendo il ritmo, si apre con melodie più larghe, una sorta di
ritorno alle atmosfere della parte iniziale. La chiusura è affidata alla
chitarra elettrica, strumento indispensabile che non manca mai nel mio
repertorio prog”.
Musica di Oliviero Lacagnina, testo di Sonia Vatteroni
Marco Bernard · basso
Kimmo Pörsti · batteria e percussioni
Oliviero Lacagnina · tastiere
Steve Unruh · violino
Ariane Valdivié · voce
Rubén Alvarez · chitarra elettrica
Rafael Pacha · chitarra acustica
Marc Papeghin· corno francese e
tromba
“Ansia de Soñar” (10:20) propone il cambio di vocalist, e
tocca a Marcelo Ezcurra (autore del testo) finalizzare una parta strumentale ricca
di fughe tastieristiche inframezzate dai virtuosismi chitarristici di Pablo
Robotti.
Una donna ci guarda con i suoi occhi puri e luminosi. Tutto
il nostro dolore se ne va, goccia dopo goccia come la pioggia sul vetro di una
finestra, come le sabbie del tempo nella clessidra dell'eternità. Non esiste
niente altro tranne la voglia di sognare, e con essa la luce che bandisce
l'oscurità, quella ci sveglia, questo ci fa uscire, mettendo fine al sogno o
forse rendendolo reale. È nostra anima, è l'anima del mondo, l'anima
dell'universo, l'anima della vita stessa.
Musica di Octavio Stampalìa, testo di
Marcelo Ezcurra
Marco Bernard · basso
Kimmo Pörsti· batteria e percussioni
Octavio Stampalìa · tastiere
Marcelo Ezcurra · voce
Pablo Robotti · chitarre
John
Hackett · flauto
“Canción desde la Caravana” (3:30) è uno strumentale ideato e
suonato al grand piano da David Myers, un frammento di quiete e pensiero libero
prima di affrontare la seconda parte del progetto, quella che dà il titolo all’album.
Musica di David Myers che suona il grand piano
E arriviamo a “La Tierra”,fulcro del disco,una lunga suite di trenta minuti divisa concettualmente in tre parti,
ispirata da una visita di alcuni anni fa nel deserto di Atacama, in Cile, da
parte dell’autore, il cileno Jaime Rosas, il cui pensiero icastico viene
proposto nel corso dell’intervista.
La sua idea viene sviluppata in modo quasi cinematografico, e
la conoscenza dello spunto narrativo, collegata agli aspetti sonori, fa sì che
nel corso dell’ascolto le immagini nascano spontanee, commentate da una musica
superlativa che risulterà un vero godimento per gli amanti del genere, una
giusta complessità legata a trame melodiche, con una larga contaminazione che
sfocia in nicchie auliche, perfettamente cesellate dagli interventi corali
guidati da un nuovo vocalist, Jaime Scalpello.
Si apprende dal booklet…
L'ispirazione è sempre stata una parte centrale del mio
processo musicale in un modo non tradizionale. La maggior parte dei compositori
presenta un momento mistico di ispirazione che poi si spinge in profondità, nel
processo di creazione, con l’applicazione delle tecniche che sono state
insegnate. Io, al contrario, ho bisogno di un flusso continuo di ispirazione,
ecco perché l'ambiente in cui creo è importante quanto la composizione,
un’abilità che il mio maestro mi ha insegnato. In tutti i miei lavori recenti
devo andare nel deserto di Atacama, dove posso comporre e registrare, perché è
un luogo magico, con energia, profondità e il più bel silenzio che si possa
desiderare.
17 settembre.
Siamo nel deserto da ormai due settimane, siamo un gruppo di sette
amici, musicisti, ingegneri e le nostre compagne. In questo luogo magico
meditiamo, componiamo, registriamo la musica. Qualcosa è accaduto di insolito:
non siamo soli. In questo ultimo viaggio ho sentito una presenza, come se
qualcuno ci stesse osservando. Quando ho meditato questa mattina, ho visto un
sentiero che conduceva a un ingresso nascosto in una montagna vicina. Stasera,
dopo le sessioni di registrazione, ho seguito il percorso e sono entrato di
soppiatto nel cunicolo, ed eccolo lì ad aspettarmi. Kryx è un membro anziano
dei Gentili, simile agli umani, razza che ha abitato la Terra sin dall'inizio
dei tempi. Hanno avuto diversi incontri con gli umani nel corso della storia,
ma negli ultimi cento anni hanno preferito rimanere nascosti: da allora la
violenza umana li spaventa davvero e restano lontano dalle persone. Sono
testimoni dell'olocausto; loro videro l'orrore. Una razza nobile che vuole
vivere in pace, prendendosi cura della nostra Terra, vita, evoluzione, amore. Da
quel giorno, Kryx e la sua gente sono diventati nostri amici.
20 novembre.
Siamo diventati molto vicini ai nostri nuovi fratelli. Hanno
deciso di venire da noi perché rispettano cosa facciamo. Cerchiamo di vivere in
armonia con l'ambiente, cerchiamo di vivere con onore, proviamo a lasciare
un'eredità. Arte, amore, passione, rispetto per la natura. Si sentiono parte
della nostra visione. Ce ne sono pochi, perché stanno lasciando questo pianeta.
Il sole è malato, dicono. Le persone si ammalano dalla stessa luce che ha dato
loro la vita in passato. A poco a poco lasciano la Terra per andare a vivere
con altre razze su diversi pianeti nella costellazione della Vergine. Kryx, mentre
mi salutava da lontano, mi ha chiesto di andare con loro. La vita sulla Terra è
al momento difficile, a causa dell’avidità, della violenza, dell’individualismo,
della corruzione, di politici incompetenti e così via. È una offerta
allettante…
24 dicembre.
Siamo andati a Santiago per salutare le nostre famiglie,
poiché la maggior parte di noi lascia la Terra per sempre. Non sappiamo quando
o se torneremo. La mia ragazza sta partendo con me, quindi questo viaggio
diventerà un'avventura che condivideremo con amore e speranza. Ci è stato detto
che altri umani stanno già vivendo in quei luoghi, e la presenza umana risale
al Rinascimento. Forse possiamo costruire una massa critica per poi tornare
sulla Terra e avere la possibilità di cambiare la situazione in questo mondo
travagliato. Forse dovremmo continuare con l'evoluzione della nostra razza al
di fuori della Terra. Non possiamo saperlo in questo momento.
Musica e testo di Jaime Rosas
Marco Bernard · basso
Kimmo Pörsti · batteria e percussioni
Jaime Rosas · tastiere
Jaime Scalpello · voce
Rodrigo Godoy · chitarra e cori
Rafael Pacha · chitarre
Marek Arnold · sax
Nonostante l’assenza di un
collaboratore storico, il grafico Ed Unitsky, appare particolarmente vincente
l’artwork, affidato ancora una volta (era già accaduto in "Wayfarer")
alla tedesca Nele Diel, e occorre segnalare come la famiglia dei Samurai
sia molto attenta agli aspetti visual: un consiglio è quello di provare ad
ascoltare i singoli brani avendo davanti le immagini relative.
Grande lavoro come al solito per
Marco Bernard (basso) e Kimmo Pörsti (batteria), il cui merito oltrepassa i
meri aspetti musicali, perché coniugare qualità, quantità (circa 68 minuti di
musica) e prolificità alla gestione di una squadra dislocata - come sempre - in
giro per il mondo, richiede un impegno e una passione che mi appaiono
giganteschi.
Ancora un grande album per la sezione
finlandese della musica progressiva!
L’intervista a BERNARD & PÖRSTI
Come e quando nasce l’idea del
progetto “La Tierra”?
Nel 2019 il cileno Jaime Rosas ci ha
inviato una demo di una suite di mezz'ora composta durante la sua visita nel
deserto di Atacama (Cile) alcuni anni fa. Il canto era già previsto in
spagnolo, quindi abbiamo deciso di mantenere la stessa lingua per l'intero
album. Per dare ulteriore continuità, abbiamo cercato di mantenere la stessa
sensazione / idea anche con le altre tracce.
Rosas ha scritto alcune note riguardo
al suo brano concept intitolato "La Tierra":
“Questa è la storia di “The
Seekers”, un gruppo di musicisti che trovano ispirazione nell'archeologia;
cercano una connessione con l'ancestrale, scoprendo racconti e miti nel deserto
di Atacama. L'importanza di salvare la storia antica è un modo per unire il
passato con il futuro; il loro obiettivo è scoprire testimonianze antiche come
un modo per nutrirsi con l'energia del passato. Si concentrano sull'importanza
di proporre narrazioni attraverso la musica, nell’intento di collegare la
storia direttamente all'anima. La band ha uno studio mobile quindi si addentra
nel deserto in cerca di ispirazione. Compongono e registrano sul posto”.
Come avrai ascoltato la suite è
divisa in tre parti, ciascuna di circa dieci minuti (Los Gentiles - Sol - Adios
a la Tierra), forse un giorno faremo uscire La Tierra in versione inglese, ma
non a breve.
1. Los Gentiles
Riguarda una razza che precede gli homo
sapiens. Sono piccoli esseri umani, la cui origine si perde nel tempo. Vivono
nelle montagne del deserto di Atacama e generalmente non si fidano degli umani.
Ma vengono attratti da "The Seekers" per la curiosità che provano
quando ascoltano la loro musica. Lentamente, diventano amici e iniziano a
fidarsi.
2-3. Sol- Adios a la Tierra
Il sole colpisce sempre di più i
Gentili, portandoli a credere che le radiazioni producano tra loro molti
malati. Ma hanno conoscenza dei viaggi intergalattici, e così a poco a poco
lasciano la Terra per andare a vivere con altre razze su diversi pianeti nella
costellazione della Vergine.
Anche questa volta gli ospiti sono
numerosi e sparsi per il mondo: come è nata la scelta?
Avendo invitato per questo progetto,
per la maggior parte, compositori madrelingua spagnoli, come Rosas dal Cile,
Stampalìa dall'Argentina, Saluena dalla Spagna, abbiamo scelto di coinvolgere
cantanti e musicisti che abbiano conoscenza della lingua e dei luoghi.
Steve Unruh compare solo come ospite:
lo vedremo presto appieno nei Samurai?
Steve sta attualmente registrando due
nuovi album per The Samurai of Prog ed è anche impegnato con altri suoi
progetti, quindi la sua partecipazione con Bernard e Pörsti, in questo caso, è
solo come ospite.
Scorrendo il booklet le immagini
appaiono fantastiche, da osservare mentre si ascolta: mi parlate dell’artwork?
Questa volta, a causa del fitto
calendario di Ed Unitsky, ci siamo rivolti all'artista tedesca Nele Diel, che
ha già lavorato per l'album solista di Kimmo, "Weyfarer", e troviamo
il suo stile molto stimolante; d'altra parte la parte grafica è gestita da
Kimmo Heikkilä dalla Finlandia.
Quali sono gli imminenti progetti
futuri che, ho inteso, sono molteplici?
Dopo "La Tierra", e la
riedizione in edizione limitata di "The Demise of the Third King's
Empire", stiamo attualmente mixando l'album di debutto di The Guildmaster,
"The Knight and the Ghost"; è questo è un progetto che include Ton
Scherpenzeel, Rafael Pacha, Kimmo Pörsti e Marco Bernard, e come al solito
diversi musicisti ospiti. Lo stile è più verso il Prog-Folk. Come accennato,
Steve sta attualmente lavorando al nuovo The Samurai of Prog, “Beyond the
Wardrobe,” che è previsto per novembre, e “The Lady and the Lion” (ispirato ai
racconti dei fratelli Grimms), in uscita all'inizio del 2021.
A parte il difficile momento
contingente, c’è la speranza di vedervi dal vivo?
Al momento non abbiamo in programma
concerti dal vivo ma non sai mai cosa porterà il futuro.
L’effetto domino mi ha
condotto verso i Chicken Shack, gruppo musicale britannico tra i protagonisti della scena del British blues, di cui mi ero completamente dimenticato.
La
formazione, che si rifaceva ad una miscela tra Chicago blues e sonorità rock,
attraverso la sensibilità inglese, ha goduto di buona
popolarità in patria sul finire degli anni Sessanta.
La genesi conduce ai
Sound of Blue, un gruppo di rock & roll nato a Stourbridge nel 1964, che
raccoglieva fra gli altri Christine Perfect, il bassista Andy Silvester e Chris
Wood ai fiati (quest'ultimo sarebbe poi entrato nei Traffic).
L'anno successivo
il chitarrista Stan Webb prese con sé Andy Silvester dei Sound of Blue e radunò
Alan Morley, Al Sykes, Hughie Flint e Dave Bidwell, formando così i Chicken
Shack. Il gruppo fece i primi passi andando a suonare per un paio d'anni nei
locali di Amburgo, fra i quali lo Star-Club.
Al rientro in patria,
nel 1967, si aggregò alla formazione la tastierista Christine Perfect, e con
lei fu registrato il primo album con l'etichetta Blue Horizon; il gruppo
inoltre partecipò all'ottavo National Jazz & Blues Festival.
Nel 1969 i Chicken
Shack divennero popolari con il loro singolo “I'd Rather Go Blind” (https://www.youtube.com/watch?v=lU5tfYYNyY4),
ma proprio allora la Perfect, dopo il matrimonio con John McVie e il suo
passaggio nelle file dei Fleetwood Mac, lasciò il gruppo e venne sostituita da
Paul Raymond, proveniente dai Plastic Penny.
Sempre con la Blue
Horizon incisero altri due album, ma l'ultimo dei due, “Accept Chicken Shack”,
fece emergere dei dissidi musicali insanabili fra Webb e il produttore Mike
Vernon, divergenze che portarono al divorzio fra il gruppo e la casa
discografica. Inoltre, la perdita di Christine Perfect si rivelò un colpo da
cui i Chicken Shack non si sarebbero più ripresi.
La rottura con la Blue
Horizon ebbe come conseguenza lo scioglimento temporaneo dei Chicken Shack, che
però l'anno successivo si ritrovarono in forma di trio, con una nuova line up
composta da Stan Webb, il batterista Paul Hancox e il bassista John Glascock.
Glascock passò poi ai Jethro Tull, sostituito da Bob Daisley, e i mutamenti si
susseguirono finché Webb non sciolse i Chicken Shack per confluire, assieme a
Kim Simmons e Miller Anderson, in una rinnovata formazione dei Savoy Brown.
Dopo due anni, i
Chicken Shack risorsero con una nuova line up che ruotava attorno al
chitarrista Stan Webb. La formazione comprendeva Paul Martinez, Steve York al
basso, Robbie Blunt alla chitarra, Ed Spivock alle percussioni e Dave Winthrop
ai sassofoni.
Il gruppo partecipò a
tour in patria e in Europa e registrò un album.
Nell'ottobre del 1979
i Chicken Shack attraversarono di nuovo profondi cambiamenti. Paul Butler
subentrò alla chitarra, Keef Hartley alla batteria e Bob Daisley fu richiamato
per dare il suo contributo al basso.
Negli anni che
seguirono il gruppo andò incontro a diversi rimaneggiamenti, con l'apporto di
elementi provenienti dall'ambiente del blues inglese. Fra di essi, il bassista
Andy Pyle, ex membro dei Juicy Lucy, dei Savoy Brown, dei Colosseum II, dei
Kinks e di altre formazioni.
Album principali
1968 – 40 Blue Fingers, Freshly Packed and Ready to
Serve
Dopo il Porto Antico Prog Fest dello
scorso 11 luglio, primo evento live del post lockdown, Black Widow si
ripete in occasione della celebrazione dei 30 anni di attività e propone un
altro evento sontuoso all’interno dell’ABRACADABRA FESTIVAL, seconda
edizione di una manifestazione dedicata alla magia, alla creatività e alla
musica.
Un programma spalmato su due giorni -
12 e 13 settembre - basato non solo sul palco rock, ma anche su di una attività
fatta di laboratori per i più piccoli, banchi di oggettistica e cartomanzia,
specialità culinarie tipiche della zona e molte altre attività adatte ad ogni
palato ed età.
Ma la cosa magnifica riguarda
l’ambientazione scelta, la Villa Serra di Comago, con un parco meraviglioso,
definito da qualcuno come un “pezzo di Inghilterra verde installata a Genova”.
In questo luogo da sogno avevo già
assistito ad un doppio concerto estivo di BANCO e ORME, qualche anno fa, ma
girare tra i curatissimi prati verdi in pieno giorno, in una giornata di sole e
cielo limpido, mi ha permesso di apprezzare maggiormente i dettagli.
Qualche immagine “mossa” per fornire
un’idea della location…
A partire dalle ore13 si sono susseguite
sul palco sei band, alcune locali ed altre in arrivo dal Piemonte, ma il comune
denominatore è stato il rock nelle sue varie sfaccettature, e non sono mancate
le sorprese.
Non sono in grado di proporre un
reportage completo - come cerco di fare normalmente - perché la mia presenza è
stata temporalmente limitata, ma un commento completo verrà fornito su di un
futuro numero di MAT2020, ad opera di Evandro Piantelli, presente per tutta la
giornata.
Al mio arrivo trovo sul palco la Small Band- che
non conoscevo - che propone cover famose che vanno da Hendrix ai The Doobie
Brothers passando per i Creedence Clearwater Revival.
Ho potuto ascoltare solo un paio di
brani, ma il tutto mi è sembrato gradevole, e la presenza di quattro ballerine
dall’abbigliamento seventies ha contribuito a “fare ambiente”.
È molto presto, il sole acceca i
musicisti, e la calura che incombe sull’ampio spazio dedicato al pubblico fa sì
che la maggior parte delle sedie “in front of the band” sia vuota, ma il
pubblico c’è - nonostante l’ora -, solo che trova riparo sui lati, all’ombra
degli alberi protettivi.
Una tempistica rigorosa, gestita da Ricky
Pelle e dal suo team tecnico, fa sì che allo scadere del tempo a
disposizione della Small Band sia già pronta la seconda band, The Ikan Method,
Trattasi di un progetto recente del
batterista Luca Grosso che ha trovato sintesi nel disco di esordio, “Blue Sun”,
un prog sinfonico con venature di puro rock, tra gli album più significativi
del 2020 in ambito Prog.
Band proveniente dal Piemonte ma
dalle origine ibride - il vocalist Davide Garbarino è di Savona - ha confermato
le sue caratteristiche e la validità dal vivo, un momento in cui le correzioni
tecnologiche hanno meno valore rispetto alla confortevole registrazione in
studio. Una buona miscela anagrafica, con una chitarra solista di lungo corso,
quel Marcello Chiaraluce che, nonostante la giovane età, ha bazzicato la
nobiltà del prog e del rock Internazionale.
Ho gradito il mix, e il modo in cui è
stato proposto.
A seguire i Melting Clock, giovane band genovese che avevo già
visto - e presentato - sul palco del Porto Antico Prog Fest, nel 2017.
Il loro set è diviso in due parti: si
inizia con un piacevole e sostanzioso tributo ai King Crimson per poi
proseguire con estratti dal loro album del 2019, “Destinazioni”. Rispetto a tre
anni fa presentano una ovvia maggior sicurezza da palco, e la frontwoman Emanuela
Vedana, nonostante il genere non richieda irruenza, dimostra la scioltezza necessaria
al ruolo, situazione che si acquisisce solo nel tempo.
La sintesi del loro disco di esordio
sottolinea le loro peculiarità: una bella conferma.
E arriva il turno di un’altra band
locale, i Fungus Family, oramai veterani
e capaci di tenere il palco come pochi altri. Mentre li ascoltavo pensavo alla
capacità del frontman Dorian Deminstrel di trasferire al pubblico lo stato di
tensione - positiva - che deriva dalla sua performance.
Ma è l’insieme della loro musica che
colpisce, un genere che, soprattutto nella fase live, avvolge l’audience, che
viene trasportata in un viaggio che ha forte tinte psichedeliche.
Molto bravi anche questa volta.
Entrano poi in scena i RAMROD, e qui il mio giudizio si ferma al primo
brano, l’unico che ho potuto ascoltare. Loro sono di Novara e, nonostante la
giovane età, sono in attività da alcuni anni. A colpirmi d’acchito è il loro
abbigliamento, tipico dei “miei” anni ’70, ovvero ciò che anche io indossavo in
quei giorni. Questo per dire come un dettaglio visuale apparentemente insignificante
possa essere al contrario l’introduzione ad una proposta musicale, un biglietto
da visita, una passione certificata che emerge prima ancora di dare potenza
agli ampli.
Da quel poco che ho ascoltato ho
tratto grande soddisfazione, un rock coinvolgente, e anche in questo caso è una
voce femminile a condurre il gioco, quella della grintosa Martina Picaro.
Ho chiesto a chi si è fermato sino
alla fine - Evandro Piantelli - di darmi un giudizio al volo:
“Ottima
band rock-blues con venature prog. Piacevole sorpresa, con ottimi musicisti e una cantante
grintosa e coinvolgente. Non il solito blues, ma brani lunghi e articolati con
testo in inglese (il pezzo conclusivo, "Leda", ad occhio e croce è
durato una ventina di minuti. La rivelazione del festival!”.
Mi è mancata, ovviamente, anche la
band conclusiva, ma è certo che la musica dei Pink Floyd appare perfetta per l’ambientazione,
e ho immaginato un prato verde carico di anime al calar del sole, in attesa
della musica che mette tutti d’accordo, in questo caso quella degli Empty Spaces.
Ancora una volta Evandro è venuto
in mio aiuto:
“Per quanto riguarda gli Empty
Spaces, si tratta della classica tribute band dei Pink Floyd, con un gran
numero di componenti (2 chitarristi, 2 tastieristi, basso, batteria e 3
coriste), che ha presentato una scaletta incentrata sui brani più conosciuti (Money,
Time, Another brick, Confortably Numb, ...), con in più una (troppo) lunga
versione di Echoes.
Comunque, è il set che ha registrato
il maggior numero di spettatori.”
Una bella e inaspettata giornata di
musica proposta in un luogo incredibile, nonostante le difficoltà sanitarie; un
evento musicale che merita un seguito, anche se, guardandomi attorno, mi è
parso di rilevare numerose defezioni di un mondo che conosco molto bene e che
so… contare! Chissà se nel futuro Black Widow potrà attrezzarsi per realizzare
concerti a domicilio!
Un ringraziamento ad Ago Sauro
per le splendide immagini.
Nel video a seguire un piccolo - E SCADENTE
- ricordo video della giornata (un grazie a Giorgio Nasso per la registrazione
degli Empty Spaces).