Nel periodo di sosta forzata, chiuso
in casa, sono andato alla ricerca di musica che non conoscevo, nonostante
coincidesse con il mio periodo più attivo, quello in cui mi sono formato.
Molti validi gruppi italiani dei
seventies sono rimasti nell’anonimato, e solo i più fortunati sono riusciti a
lasciare una testimonianza concreta. Per altri è accaduto che la musica rimasta
per lustri nel cassetto - sotto forma di registrazione scadente - sia stata rimessa
a nuovo in tempi recenti, grazie alla tecnologia e alla voglia di riappropriarsi
di uno spicchio di passato fatto di arte concreta che rinnova la memoria.
Era quello il periodo di un subbuglio generazionale che trovava sbocco - parlando di musica - nella forma canzone, ma il movimento discografico tendeva a mantenere le distanze dall’impegno sociale, perché per molti la politica e il businnes musicale, dovevano avere una decisa linea di demarcazione.
Nel corso della mia ricerca ho
trovato nel mare magnum delle band dell’epoca i Gramigna,
e dopo l’ascolto del loro unico album del 1977, “Gran
disordine sotto il cielo”, ho deciso di approfondire, acquisendo
qualche notizia dalla rete.
L’ascolto mi ha portato verso la
formazione, abbastanza singolare, sia per numero che per tipologia
strumentistica, e nelle righe a seguire si comprenderà il motivo.
Nella lineup spunta un nome femminile, quello di Françoise Goddard (voce e chitarra), che ho contattato, e con lei ho provato ad approfondire l’argomento.
La chiacchierata risultante mi pare interessante e icastica di un mondo che non esiste più, che personalmente ricordo con grande nostalgia, e non solo per un ovvio dato anagrafico.
Chiacchierando con Françoise Goddard...
Il mio commento a seguire incomincia così: “I GRAMIGNA fanno parte di quelle band
arrivate tardi all’appuntamento… troppo tardi per essere allettanti nella sfera
del prog, e fuori tempo rispetto al cantautorato italiano e al punk in arrivo
da Oltremanica.”
Sei d’accordo?
Effettivamente, il tuo punto di vista non è sbagliato, ma penso che nessuno di noi fosse interessato ad essere messo in una o l’altra categoria. Volevamo solo suonare, esprimere dei concetti che ci parevano importanti, e qualcuno ci ha pubblicato.
Come nacque la band? Che tipo di modelli avevate, dal momento che non era usuale vedere un gruppo di otto/nove elementi?
La band nacque da una tournée con Patty Pravo in cui per caso c’ero anch’io come corista, e dove ho conosciuto Alberto Mompellio e Maurizio Martelli. Io divenni la pisquella della band, altri, come Maurizio Martelli o Alberto Mompellio, invece erano molto preparati e dovresti chiedere a loro quali erano i modelli di riferimento. Alberto è un musicista “serio” che aveva già ascoltato e anche prodotto musica “contemporanea”. Maurizio aveva un gusto straordinario che poi ha sviluppato nella musica antica (credo…). I due fiati studiavano classico. Poi c’erano gli altri, anche loro bravissimi. Io al massimo cantavo (male…) le canzoni di Cat Stevens, Joni Mitchell, Beatles e West Coast.
Basta dare una lettura rapida della vostra strumentazione e appare chiaro il piacere della contaminazione, tra rock, folk e classica: come definiresti la vostra musica?
Eravamo anche molto politicizzati: “polprog” ti va bene come definizione? C’era comunque un gruppo al quale ci accomunavano, ed erano gli “Henry Cow”.
Avete in ogni caso avuto l’opportunità di rilasciare un album significativo nel 1977, “Gran disordine sotto il cielo”, con un’attenzione particolare al messaggio e alle liriche: cosa ricordi del disco? Come riusciste a pubblicarlo e che soddisfazioni vi diede?
Eravamo “impegnati” e disordinati. Erano i famosi anni di piombo, ed eri o da una parte o dall’altra, ma secondo me rimanevamo più musicisti che politicanti. Per pubblicare il disco arrivò Nanni Ricordi, che aveva un’etichetta, “L’Ultima spiaggia”. Penso che fosse naturale per lui aiutarci, perché c’era molta carne al fuoco e molta energia.
L’album non è facilissimo da trovare, e mi pare non sia mai stato ristampato in alcuna forma: non varrebbe la pena riesumarlo e portarlo a conoscenza del pubblico ignaro?
Why not…
Mi racconti qualche aneddoto che possa far capire quegli anni, l’atmosfera vissuta dalla parte del musicista?
Io arrivavo direttamente dalle atmosfere della swinging London e della West Coast, e per me, malgrado l’estremizzazione delle lotte politiche in Italia, era comunque un momento di libertà. Allora non me ne rendevo conto, ma me ne accorgo adesso, dove tutto è estremamente compresso e vengono messi blocchi e limiti dovunque ti giri. Magari la mia è solo la percezione di una persona che sta invecchiando, ma ne dubito. La mia generazione è la seconda dopo la guerra. Già mia madre si era mossa a “colpi di testa” e io arrivavo subito dopo con una bella porta aperta davanti a me. Le donne tra l’altro avevano tutto da conquistare, ma era tutto molto semplice. Se dovevi lavorare lavoravi, se volevi studiare studiavi, se volevi suonare suonavi…
Non erano molte le figure femminili nelle rock band, in Italia come nel resto del mondo: come arrivasti nei GRAMIGNA? Avevi un ruolo anche nella fase compositiva?
Beh… non è che “sono arrivata nei Gramigna”, ma la band fu formata assieme a me. Io suonicchiavo la chitarra per cui feci la musica sui pezzi di Alice (non mi ricordo quali…). Non ero iscritta alla SIAE, così li firmò Alberto. I testi erano di Paolo Farnetti.
Tu e il resto della band avevate alle spalle delle buone basi musicali?
Chi più chi meno, ma con la guida di Alberto sicuramente miglioravamo.
Perché vi scioglieste e cosa ne è stato dei tuoi compagni di viaggio?
Non saprei dirtelo. Tenere assieme un gruppo è comunque molto faticoso, e credo che ognuno avesse un proprio percorso da affrontare.
Che svolta ha preso la tua vita dopo quei giorni? Hai continuato a restare nel mondo della musica? È rimasta una tua grande passione?
In quel periodo mi ero messa a studiare seriamente canto, e questo mi ha portato a fare un giro lunghissimo nella musica classica grazie alla mia meravigliosa insegnante. Da allora mi sono diplomata, ho scritto dei libri sulla voce, ho insegnato canto per tanti anni (lo faccio ancora, ma meno), collaboro tuttora con una casa editrice musicale (la migliore…) e il canto è diventato per me una forma di meditazione. Ultimamente mi sono immersa nel mondo vocale barocco, e di conseguenza ho scritto un racconto che si svolge agli inizi del Settecento e che sta per essere pubblicato. Per cui definire il canto come una passione è riduttivo, direi piuttosto che è la mia vita parallela.