mercoledì 31 marzo 2010

Intervista a Alfio Vitanza


L’intervista che propongo oggi ha per me un sapore particolare perché, come spiego in una delle domande, il primissimo gruppo visto dal vivo, quando ero poco più che un bambino, fu quello dei Latte e Miele, e di quel trio mi rimase impresso Alfio Vitanza, prima ancora che iniziasse a suonare. Non sapevo chi fossero ma emergeva l’esagerata giovinezza di quel batterista occhialuto, dai lunghi capelli, e in qualche modo il messaggio che mi arrivava era del tipo ”… se lui è sul palco, ed è poco più grande di me, significa che potrei esserci anche io..”
Una specie di alimentazione delle illusioni, che a sedici anni sono solo un peccato veniale.
Avere oggi la possibilità di interloquire con lui, è un privilegio che mi gratifica, e ringrazio Alfio per il tempo dedicatomi.

Era il 30 maggio del 1972 quando ottenevo il permesso di vedere il mio primo concerto, pomeridiano, all’Alcione di Genova. L’obiettivo erano i Van Der Graaf, ma posso dire che il mio battesimo con la musica dal vivo avvenne con i Latte e Miele, il gruppo “spalla”. Che ricordi hai di quei giorni? 
E' passato tanto tempo da allora, e i ricordi sono molto offuscati, ma devo dire che allora non avevamo paura di niente e nessuno, avevamo un'energia che ci faceva fare cose incredibili, e nonostante non avessimo una lira in tasca, la musica ci faceva fremere ogni attimo della giornata e anche suonare accanto ai Van Der Graaf fu una passeggiata. Non so esattamente quanto durò il tour, ma di sicuro ricordo che avevamo stretto una bella amicizia con loro.

Una delle caratteristiche della musica prog è il concept album. Perché utilizzaste il tema religioso? Da dove nacque l’ispirazione ? 
Tutto partì da un'idea di Oliviero di rifare la Passium Secundum Matteum di Bach, da lì la successiva decisione della casa discografica di farne una composta da noi. Il testo lo prendemmo dai Vangeli e non fu una scelta religiosa, ma pensammo che la storia fosse così bella da raccontare ai nostri coetanei indipendentemente dal fatto che potesse essere cattolica o no. Era solo una bella storia di duemila anni fa che è ancora attuale oggi.

Ho sempre sostenuto che il Prog, la musica che più amo, non potesse durare a lungo per una certa complessità contraria al “facile ascolto” di cui pare la maggior parte del mondo abbia bisogno. Perché , secondo te, il Prog nel tempo si è ritagliato solo uno spazio di nicchia? 
Proprio perché è una musica che dura nel tempo; come tutte le cose importanti non ha un grosso seguito, è come la musica classica o la grande pittura. Il Prog è rivolto ad un pubblico intelligente, a persone che hanno il tempo di sentire un album e capirne il contenuto, e magari riascoltarlo dopo venti anni e riscoprirlo ancora interessante. Pensa che a novembre dell'anno scorso siamo stati a suonare in Corea e precisamente a Seul. Abbiamo fatto dei concerti da duemila persone con teatri esauriti mesi prima, e tutto con dischi che abbiamo fatto trentacinque anni fa ... questa è la potenza del Prog.

Mi racconti un episodio significativo, positivo o negativo, che ha caratterizzato la tua storia musicale? 
Non saprei cosa risponderti, tutte le mie esperienze musicali sia negative che positive hanno comunque arricchito il mio bagaglio musicale, e sia con i New Trolls che con altri artisti con cui ho collaborato sono riuscito a trarne sempre momenti di grande intensità.

Esiste un musicista che ti ha influenzato e a cui ti sei ispirato? 
Vedi, noi abbiamo vissuto un momento storico musicale molto intenso; sono partito con i Beatles, per passare a Hendrix, ai Led Zeppelin, i Deep Purple, fino ad arrivare a Zappa al jazz e poi dai Police a Gino Vannelli, insomma le influenze bussavano alla porta tutti i giorni e onestamente le nostre orecchie erano eccitate continuamente da nuovi suoni e da nuovi modi di suonare, per cui non avevo particolari amori o influenze.

Ho letto che nel 2008 avete tenuto concerti all’estero, da oriente a occidente.

Quale paese in particolare ha dimostrato particolare entusiasmo? 
La Corea del Sud, come ho già evidenziato in una precedente domanda.

Hai qualche rimpianto per un treno che ti è passato accanto e non hai avuto il coraggio o la voglia di afferrare? 
No, nessun rimpianto, anzi devo dire che il buon Dio mi ha sempre messo sul treno giusto al momento giusto.

Che cosa ami e che cosa non apprezzi di quella che su Rock Map è definita “Scuola Genovese”?
La scuola genovese è sicuramente stata molto importante, ma direi soprattutto per merito dei cantautori degli anni 60/70. Per il resto tutte le scuole italiane hanno dato molti frutti gustosi, basti pensare alla scuola musicale napoletana a quella milanese, anche il prog romano; la scuola genovese ha certamente dato molto, ma non dimentichiamo anche le produzioni liguri così dette Easy, tipo Ricchi e Poveri, Matia Bazar e per un periodo gli stessi Trolls, certamente divertenti, ma non sicuramente impegnate musicalmente.

So per esperienza cosa sia il vivere in simbiosi con uno strumento musicale, anche quando non lo si utilizza. Qual è il tuo rapporto con la batteria? 
Io ho un buon rapporto con il mio strumento, anche se ti devo dire che non ho mai avuto manie didattiche come oggi fanno molti miei colleghi che passano ore e ore al giorno a studiare; ho sempre vissuto la musica come suono globale, cioè non ho mai pensato alla batteria come prolungamento della mia anima, ma solo come espressione personale, la batteria è stata un tramite per esprimermi, ma il mezzo potrebbe essere stato qualunque altro strumento.

Cosa dobbiamo aspettarci, prossimamente, da Alfio Vitanza e dai Latte e Miele? 
Intanto è uscito il nuovo CD, Marco Polo, per il quale abbiamo già avuto dei commenti e dei feedback molto entusiasmanti da più parti del mondo. Ma come dicevo prima sono cose che sanno solo gli appassionati di Prog, l'ascoltatore medio non ha la possibilità di saperlo perché di questo tipo di musica se ne occupano solamente i giornali specializzati o le rubriche web o blog tipo il tuo. Abbiamo avuto il piacere di fare interviste con importanti giornali Giapponesi Coreani, svedesi Francesi e perfino Russi, tutti articoli con foto e bellissime recensioni. Dovrebbe prendere forma anche un Musical del Marco Polo del quale è già pronta la sceneggiatura, ma in questo caso noi saremo solo gli autori della musica, ma non presenti sul palco. Spero di poter fare qualche concerto in Italia, sono convinto che molte persone sarebbero felici di ascoltarci dal vivo, soprattutto i giovani che hanno ascoltato i nostri dischi, ma non ci conoscono come gruppo live. Speriamo...


Biografia (da italianprog)

Tra i gruppi genovesi, i Latte e Miele sono stati tra quelli con le più forti influenze classiche.

Il gruppo era stato formato nel 1971 dal chitarrista Dellacasa, che aveva collaborato con i Giganti nel loro Terra in bocca, e il batterista Vitanza aveva appena 16 anni. Un trio tastieristico, nello stile di Emerson Lake & Palmer o Le Orme, il loro primo album è stato Passio secundum Mattheum nel 1972, con musica ispirata da Bach e testi basati sul Vangelo. Un'opera ambiziosa, con bei momenti ma leggermente monotona a tratti.

I componenti del gruppo erano tecnicamente dotati, ma la formula tastiere/basso/batteria era ripetitiva e unita ad una voce melodica con un risultato non completamente convincente.

Un secondo album, Papillon, uscì un anno dopo, in uno stile simile, ma con una produzione molto migliore. L'album contiene due brani che occupano un'intera facciata ciascuno, con la beethoveniana Patetica su gran parte della seconda facciata che costituisce un ottimo esempio del loro stile. Venne anche registrata una versione inglese del disco, che però è stata pubblicata solo nel 1992 in CD.

Il gruppo fece anche diversi concerti, suonando di spalla ai Van der Graaf Generator in uno dei loro tour italiani. Una buona registrazione live del 1974 è stata pubblicata dalla Mellow sul CD Latte e Miele Live.

Dopo un paio di singoli nel 1974, l'ultimo dei quali melodico e di livello inferiore agli LP, il gruppo si sciolse, e venne riformato nel 1976 dal batterista Vitanza con tre nuovi componenti.

La nuova formazione registrò un album per la Magma, Aquile e scoiattoli, molto buono, forse il loro album migliore e più originale, contenente un rifacimento di Beethoven in Opera 21 e la bellaPavana, lunga suite di oltre 23 minuti, uscita in estratto anche su 45 giri (ma curiosamente su etichetta Grog).

Il gruppo continuò a suonare fino all'inizio degli anni '80 con un suono sempre più commerciale, ma i 45 giri non hanno avuto un successo particolare. L'ultimo nel 1980, Ritagli di luce, li portò addirittura al Festival di Sanremo. La formazione comprese nell'ultimo periodo il bassista Dario Carlevaro ed il batterista Enzo Barbieri.

Un album registrato nel 1979 non è mai uscito, ed è stato pubblicato in CD dalla Mellow nel 1992. Intitolato Vampyrs, e suonato dal trio Gori/Poltini/Vitanza, è prevalentemente pop-rock e non regge il confronto con le produzioni precedenti.

Il batterista Alfio Vitanza ha collaborato con Vittorio De Scalzi in una delle varie formazioni dei New Trolls alla fine degli anni '90, e suona tuttora con la recente reincarnazione dei New Trolls guidata da De Scalzi e chiamata La Storia dei New Trolls. Nelle sue intenzioni c'è l'idea di riformare il trio originale dei Latte e Miele per un nuovo CD.

Un singolo commerciale uscito per la Grog nel 1976 e attribuito agli LM Special, nascondeva in realtà proprio i Latte e Miele.

I Latte e Miele sono tornati insieme nel 2008 per una serie di concerti come quartetto, con i componenti originari Oliviero Lacagnina, Marcello Dellacasa ed Alfio Vitanza, e Massimo Gori, che aveva suonato nella seconda formazione. Da uno di questi concerti, tenuto in Canada, è stato tratto un bel CD dal vivo intitolato Live tasting.

Un nuovo album in studio per la rinata formazione è uscito nel 2009, con il titolo Marco Polo - Sogni e viaggi.



lunedì 29 marzo 2010

Intervista a Mauro La Luce


Ho conosciuto Mauro La Luce in occasione della presentazione dell’ultimo disco dei Delirium,Il Nome del Vento”, album di cui Mauro ha scritto i testi.

La Luce, è considerato il paroliere storico dei Delirium, ma non si può dimenticare, ad esempio, “Zarathustra”, must del Museo Rosembach.

Scopriamolo meglio attraverso qualche domanda.

Partiamo dalle ultime “fatiche”. L’iter compositivo di “Il nome del Vento”, ultimo album dei Delirium, è quello che hai sempre utilizzato? Cambia il modo di comporre testi in funzione dell’idea di base? Il mio modo di comporre, ovviamente, si é evoluto rispetto agli anni 70/80. Come un mago ricorre alle parole magiche, così un autore di versi, per esprimere un concetto ineffabile usa le figure retoriche più adatte. Negli ultimi anni ho approfondito questo percorso con soddisfazione, ma la strada non finisce mai. Ne " Il nome del vento" sono partito dal soggetto che si è trasformato in una sceneggiatura, le musiche dei Delirium hanno innescato un processo creativo che mi ha aiutato a mettere una parola dietro l’altra, mantenendomi fedele all'idea originaria.

Il tuo “lavoro” musicale parte da molto lontano. Come e perché sei diventato scrittore di testi? Da sempre respiro musica. Ho imparato a suonare la chitarra prima di andare in bicicletta. Alle medie mi divertivo a cambiare i testi dei brani alla moda, facendone spesso versioni irriverenti. A 13 anni ho composto le prime vere canzoni, parole e musica. I protagonisti erano certi insegnanti e i loro tic. Durante il primo anno di università ho conosciuto Marcello Reale che allora era il bassista dei Delirium. Cominciò così il sodalizio con il gruppo.

Cosa è stato per te “Zarathustra”, professionalmente parlando? E’ il frutto di un lavoro a quattro mani. Dalla collaborazione con Alberto Moreno è nato un album diventato tra gli appassionati di "prog" una sorta di oggetto di culto. Tuttora è recensito, sottolineando aspetti che negli anni 70' non erano stati messi in evidenza, poiché gli venne attribuita una valenza politica che di fatto non aveva. Era, invece, il tentativo di rendere il rock più sofisticato, più complesso, forse anche più nobile dal punto di vista lirico. La suite viene ancora eseguita da gruppi dell'attuale scena "prog", come” Il tempio delle clessidre”, il cui cantante ( Lupo) fu a suo tempo la voce del Museo Rosenbach.

Esistono musicisti con cui hai maggior feeling, con cui riesci a creare con più facilità e soddisfazione? Sono sempre stato in grande sintonia con Aldo de Scalzi, che sta vivendo un momento magico come autore di colonne sonore. Con Ettore Vigo e Martin Grice c'è un rapporto artistico senza tempo: dopo una lunga interruzione, abbiamo ripreso la collaborazione come se ci fossimo appena lasciati. E’ davvero un’alchimia complessa quella tra musica e parole.

Alcuni osservano che la musica abbia una sua importante dimensione, in alcuni casi, al di là del testo. Lo confermerebbe il fatto che ci siamo innamorati di canzoni di cui non capivamo una parola. Tu che cosa ne pensi? Nella maggior parte dei casi ritengo che la musica sia l'ornamento del testo: la base musicale, come per esempio nel rap, è spesso una sorta di metronomo. Per non parlare del Canto Gregoriano in cui le liriche sono scritte dal più grande paroliere di tutti i tempi. Naturalmente esistono le eccezioni: in molte canzoni dei Beatles la bellezza metrica del testo è spesso più bella del significato delle parole.

Come riesci a conciliare la passione musicale con la tua professione? Sono un medico, specializzato in ortodonzia, una disciplina che ricerca l'armonia del volto. Anche nella musica, i versi e le note devono avere il giusto equilibrio, l’armonia appunto, per far vibrare le corde dei sentimenti. A parte la passione, forse è per questa affinità che riesco sempre a trovare uno spazio da dedicare alla musica.

Quale album ti ha dato maggior soddisfazione? Considero "Il nome del vento" un lavoro riuscito, nel testo e nella musica. In altri tempi, forse, avrebbe meritato un maggior successo di vendite. Ma il piattume musicale odierno lo relega in una nicchia di ascoltatori raffinati. A me, però, regala la stessa soddisfazione provata con "Lo scemo e il villaggio", che ebbe un grande successo di critica e di vendite.

Mi racconti un aneddoto legato all’ambiente musicale a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta? A metà degli anni 70' ho avuto il privilegio, collaborando con Sergio Bardotti, di frequentare Vinicius de Moraes. Una sera andammo a cena all'Osteria Della Conca Fallata a Milano e Vinicius, che per me era l'artista per eccellenza, si mise a leggere un testo che avevo appena composto. Ci fu un applauso: un’ emozione che mi porto ancora dentro.

Mi dici due autori, uno straniero e uno italiano, che ammiri particolarmente? Peter Gabriel continua ad emozionarmi. I suoi testi , fantastici e surreali, popolati da mostri e da eroi, hanno interpretato fin da ragazzo le mie passioni di sempre: teatro, poesia e melodia. L'autore italiano che ho apprezzato fin dagli esordi, per aver reinventato un linguaggio poetico, è De Gregori. Soprattutto quello di " Niente da capire" e " Rimmel".

Un desiderio che non sei riuscito a realizzare, un rimpianto particolare? La possibilità di vedere realizzato a teatro un mio lavoro. Anche perché ritengo che i miei siano testi visivi e adatti alla scena. Ma non è detta l'ultima parola.

Cosa ci dobbiamo aspettare dai tuoi futuri impegni musicali? Sto lavorando con Ettore Vigo e Martin Grice ad un nuovo progetto che mi soddisfa molto e di cui, se vuoi, ti terrò informato.


venerdì 26 marzo 2010

L’album solista nella musica rock: anomalie e malintesi


Oggi do spazio a un articolo di Innocenzo Alfano, spesso "utilizzato", col suo consenso, in questo blog.

L'articolo è stato pubblicato su “Apollinea”, Rivista bimestrale del territorio del Parco Nazionale del Pollino, Anno XIV – n. 2 – marzo-aprile 2010, pag. 31.

In uno dei capitoli di “Effetto Pop”, l’ultimo dei miei libri dedicati a quella meravigliosa disciplina chiamata “arte dei suoni”, mi ero posto alcune domande, cercando di dare anche delle risposte, sulle numerose incongruenze di cui, a mio giudizio, è costellato il mondo della musica pop-rock. Alcune di quelle incongruenze, o anomalie, sono già state esaminate più o meno in dettaglio, altre invece sono state solo citate nelle pagine del volume. Tra quelle anomalie solo accennate ce n’era una che riguardava il problema della cosiddetta “carriera solista” dei musicisti rock, da me definita come una «espressione che nel rock, nonostante l’enfasi che la circonda, vuol dire, molto semplicemente, abbandonare un gruppo per formarne un altro, dandogli il proprio nome». Al concetto di “carriera solista” è naturalmente legato quello di “album solista”, altra espressione assai diffusa ed anzi universalmente accettata. La domanda che mi sono posto, in definitiva, è la seguente: esistono nel rock gli album solisti? La risposta naturale sembrerebbe dover essere quella affermativa, ma a me, altrimenti non starei qui a parlarne, convince molto di più quella negativa. Vediamo il perché.
La mia tesi è che il concetto di “album solista”, nel rock, non è altro che una contraddizione, una sorta di equivoco linguistico, dal momento che un simile fenomeno, in realtà, non esiste. O meglio, potrebbe anche esistere, e qualche volta in effetti è esistito, ma in quel caso i due termini avrebbero un significato molto preciso e soprattutto logico. Indicherebbero cioè album nei quali un unico musicista, da solo (“solista”, appunto), suona tutti quanti gli strumenti o un solo strumento, proprio come in un recital di musica classica o in un album jazz nel quale un unico musicista improvvisa per l’intera durata dell’incisione. Non si capisce infatti che cosa ci sia di così “solistico” in un disco dove suonano più persone, magari sei come nel caso di Van Morrison e dell’album “Astral Weeks” da me preso come modello nel volume ricordato poc’anzi: un album dove ognuno dei sei musicisti risulta determinante per la riuscita dell’intero lavoro.
Lasciando da parte i cantautori, cioè tutti quegli artisti che scrivono i testi che poi cantano, e che si accompagnano, se lo desiderano, unicamente con una chitarra classica/acustica o con un pianoforte (e a volte lo fanno), prendiamo come esempio di album solista, tra i non molti pubblicati dagli anni ’60 ad oggi, il primo long playing di Roy Wood, un musicista rock membro, tra il 1966 ed il 1971, del gruppo dei Move, una formazione inglese divenuta famosa verso la fine degli anni ’60 grazie al 45 giri Blackberry Way. Il 33 giri d’esordio di Roy Wood si intitola “Boulders”, ed apparve nei negozi di dischi all’inizio del 1973. La copertina del disco, apribile a libro, mostra sul pannello frontale un dipinto di Roy Wood, sul retro una foto di Wood mentre suona un violoncello, e all’interno, distribuite su due interi pannelli, varie istantanee di Wood in ognuna delle quali il musicista britannico è immortalato mentre suona ogni volta uno strumento musicale diverso. Se poi leggiamo le informazioni contenute in un riquadro della cover interna apprendiamo quanto segue: «Tutti gli strumenti e le voci sono di Roy Wood. […] Tutte le canzoni sono state composte, arrangiate e prodotte da Roy Wood. […] L’idea per la copertina, e il disegno sulla prima pagina, sono di Roy Wood». Gli strumenti che Wood si incarica di suonare nei nove brani dell’album sono i seguenti: chitarra acustica ed elettrica, basso elettrico, basso acustico, batteria, pianoforte, violoncello, clarinetto, oboe, mandolino, sitar, fagotto, vari modelli di sassofono, flauto dolce, banjo. Naturalmente essendo Roy Wood uno e non trino, per suonare più di uno di quegli strumenti contemporaneamente è dovuto ricorrere, a suo tempo, alla tecnica della sovraincisione.
Nel libretto allegato ad una recente edizione in cd di “Boulders” (Harvest CDSHVLR 803, del 2007), Wood spiega le ragioni che lo portarono, più di 35 anni fa, a concepire un siffatto long playing. Leggiamo dunque cosa scrive il musicista inglese a tal riguardo: «La principale ragione che mi ha indotto a registrare quest’album ha a che fare con una specie di sfida che avevo deciso di lanciare a me stesso. Una sfida che consisteva nel tentativo di registrare un album solista dove il termine solista avrebbe dovuto assumere il suo vero significato, e dunque un album nel quale io avrei suonato tutti gli strumenti, cantato tutte le canzoni, prodotto e mixato i brani, disegnato la copertina del disco, guidato il furgone e fatto il tè. Questo era, per me, un album “solista”».
Si è fatto riferimento al 33 giri “Boulders” di Roy Wood, ma possiamo citare anche l’assai più noto “Tubular Bells” di Mike Oldfield, pubblicato anch’esso nel 1973; oppure il primo, omonimo lp di Paul McCartney, che batte tutti sul tempo essendo uscito nel 1970; o ancora, rimanendo in ambito pop/rock, la pregevole produzione discografica di Stevie Wonder della prima metà degli anni Settanta quali ulteriori esempi, tra i non molti, di musicisti che hanno registrato ed inciso musica in cui tutti gli strumenti venissero suonati da loro stessi (lo statunitense Wonder si differenzia però da Wood, Oldfield e McCartney per il fatto di aver inciso più che altro singoli brani, anziché interi album, nei quali il musicista originario del Michigan si è spesso esibito come unico strumentista).
In conclusione dobbiamo perciò dire che, nonostante la vulgata comune, di album solisti la musica rock, e anche – e soprattutto – quella pop, sono piuttosto avare, essendo i due generi fenomeni nei quali la composizione ha carattere quasi esclusivamente collettivo, anche quando il disco è intestato ad una sola persona. Altrimenti come dovremmo chiamare l’album di un musicista che vi suona da solo se già quelli in cui è accompagnato da altri li definiamo “solisti”?





giovedì 25 marzo 2010

Il segreto di Jim Morrison




Sarebbe bello scoprire che Janis, Jimi, Brian, sono in realtà ancora vivi!
Non si può morire così a 27 anni, non esiste vita sregolata che possa distruggere i nostri giovani miti. Se bastasse un pò di alcol, un pò di droga, Keith Richard dove dovrebbe essere in questo momento?
In ogni caso non ci sono più e fa comodo pensare che ci sia sotto il trucco, e che prima o poi possano saltare fuori, per poter ricominciare da capo, perché anche noi ricominceremmo da capo... forse.
Ieri un mio collega mi racconta di aver visto casualmente una trasmissione di Lucarelli, dove veniva dato seguito alla vita di Jim Morrison.
Sono andato alla ricerca della notizia e ho fatto qualche semplice confronto.
Avendo negli occhi e nelle mente il sostituito di Paul McCartney, le nuove spoglie di Morrison hanno un aspetto terribile, sia dal punto di vista estetico che da quello musicale.
Ma leggiamone di più.

"L’alone di leggenda che circonda Jim Morris non accenna a diminuire e coinvolge soprattutto la sua morte che, secondo alcuni, è solo presunta. L’ultima leggenda metropolitana sosterrebbe che il buon Jim, per evitare di essere eliminato da una oscura associazione segreta, come successe a Janis Joplin e a Jimi Hendrix, stipulò un accordo con la Cia che comprendeva il “fingere” la propria morte e riciclarsi (con nuove fattezze) restando tuttavia nel mondo della musica. Ecco allora nascere il personaggio di Barry Manilow che altri non sarebbe che lo stesso Jim Morrison sotto mentite spoglie. Data di nascita coincidono, la corporatura anche, la analisi dello spettro vocale dei due è assolutamente compatibile, Barry Manilow compare dal nulla più totale proprio nel 1973, anno in cui la Cia termina le operazioni di plastica facciale su Jim".
E seJim vivesse indisturbato e anonimo alle Seichelles?

Ma sentiamo questo Barry Manilow cosa cantava:






Altri hanno trattato l'argomento:




.... e se qualcuno ha notizie, sarò ben lieto di pubblicarle!


mercoledì 24 marzo 2010

Riflessioni musicali-Patti D'Arbanville



Cosa c’entra Patti D’Arbanville con i miei ragionamenti a seguire?
Arrivare a fine post, please.
Spesso sono intollerante nella rappresentazione del quotidiano.
L’esperienza (l’età) mi ha un pò ammorbidito, ma ci sono cose che non riesco proprio a sopportare, ma non potendo/non volendo fare il Don Chisciotte evito ciò che mi infastidisce, trattandolo con una certa aria di superiorità. Insomma, piuttosto che trascendere giro lo sguardo altrove, cercando di autoconvincermi che al mondo ci sono cose importanti su cui si possono indirizzare le proprie energie.
Questo mio modo di essere decade, ovviamente, quando ci sono in ballo argomenti seri.
Tra le cose “leggere”, la musica è per me tra le più serie.
Mi riempie la vita, mi fa stare bene, mi fa anche stare male, ma mi accompagna quotidianamente, praticamente da sempre.
Nella mia evoluzione naturale ho perso la rigorosità della giovinezza, periodo in cui esisteva solo ciò che ritenevo adeguato, perché era adeguato anche per il mio “gruppo”: la solita necessità di conformarsi a uno standard, tipico dell’adolescenza.
Ma in tanta testardaggine c’era comunque un ascolto rivolto alla qualità.
Nel tempo del beat, a fine anni sessanta, avevo l’orecchio teso verso i primi vagiti d’oltremanica e per chi, in Italia, li ricalcava. Mai e poi mai avrei ascoltato i Morandi e i Ranieri in voga all’epoca … che vergogna!
A inizio anni settanta mi innamorai del Prog, e mai e poi mai avrei potuto ascoltare la Disco… che vergogna!
Ora non sono più così, non mi interessano le etichette, ma ciò che la musica realmente mi da.
Non mi interessa più definire ciò che è bello e ciò che non lo è, ciò che è “cool” o cosa è da disprezzare.
ll mio amico, critico/scrittore musicofilo Enzo Alfano, dice che è un dovere stabilire quale sia la bella musica e quale quella di grado inferiore.
Io francamente non ci bado più, e se caso mai uscisse un fantastico concept album di Orietta Berti, e per qualche strana alchimia riuscisse a farmi stare bene, beh … non proverei alcuna vergogna nell’acquistarlo.
Ma da cosa scaturiscono tutti questi pensieri?
Ieri sera, per una serie di sfortunate coincidenze, ho dovuto guardare, mentre cenavo, quindici minuti di “Amici”, programma che detesto a priori. E qui viene fuori la mia intolleranza.
E’ probabile che in quello spazio, come in tutte le trasmissioni che ci vengono propinate ogni giorno, siano presenti veri talenti.
Una delle domande che pongo spesso nelle mie interviste a chi ha vissuto la musica nel periodo d’oro è proprio legata al confronto tra i talenti di allora e quelli odierni: “ ce n’erano di più rispetto ad oggi, o era solo più facile emergere?”
Il forte prurito che provo quando sento la parola De Filippi( che associo soprattutto ad Amici) è legato al contorno del programma, a tutta quella gente che ha già una professione, ma che trova la popolarità in TV (grande malattia la necessità di apparire ad ogni costo!) attraverso giovani di belle speranze.
Ieri sono rimasto allibito, durante quei pochi minuti di trasmissione.
Un ragazzo di cui non conosco il nome e il cui nome non voglio conoscere, ha cantato una canzone da lui scritta. Credo sia l’autore di un brano che ha vinto Sanremo.
Sicuramente sarà un ragazzo promettente, magari come i Jalisse, quelli che hanno vinto un festival e poi sono spariti dalla faccia della terra. Mi auguro di no … per lui.
Ma dopo la sua esibizione ho sentito dei commenti che non credo abbiano mai fatto nemmeno a Lennon, dopo che scrisse “Imagine”.
Sei l’unico autore italiano che scrive canzoni che si ricordano dopo il primo ascolto…” Autore italiano?
Il tuo modo di cantare mi emoziona, sei prefetto..” Perfetto?
Battisti e De Andrè si saranno rivoltati nella tomba mentre critici e discografici presenti, ognuno col proprio orticello da coltivare, si lasciavano andare a lodi sperticate.
Povero ragazzo … ma lo aiutano davvero così?
Saranno talentuosi, avranno una bella voce, ma a me non regalano proprio niente, non mi fanno stare bene, e mi innervosisco domandandomi perché la gente non sa distinguere una bella canzone da una mediocre.
A quel punto sono entrato in rete e sono andato a cercarmi un paio di canzoni d’amore, proprio come quelle che ci propinano tutti , dalla mattina alla sera.
Cosa ho contro questo tipo di brani? La maggior parte delle volte sono dei “falsi d’autore”, non arrivano dal cuore, ma sono la cosa più facile da scrivere, per vendere.
Ma io cosa ho trovato in rete?
E’ tutto quanto riportato nel post di ieri:
Layla e Something, Clapton e Harrison, due uomini che muoiono per la propria donna.
In quel caso anche le canzoni romantiche possono entrare in casa mia.

Dedica di Cat Stevens a Patti D'Arbanville

(http://it.wikipedia.org/wiki/Patti_D%27Arbanville)




lunedì 22 marzo 2010

Tull Of Wonder


Da alcuni giorni circolano in giro per l’Italia, e forse oltre, 1000 copie di un “book fotografico elaborato”. Tradotto, significa un opuscolo contenente fotografie rielaborate graficamente da Glauco Cartocci, con qualche autorevole, musicalmente parlando, prefazione.
A seguire la mia introduzione, molto meno autorevole, con la spiegazione dell’iter ideativo/compositivo.
Per me è stata una grossa soddisfazione coinvolgere tanti fans dei Jethro Tull, da Roma sino al Veneto che, grazie alle tecnologie moderne, hanno avuto le informazioni necessarie e hanno contribuito con l’invio di materiale prezioso.
Il book è piccolo, ma pieno di significati, e non ho dubbi che col passare del tempo diventerà una rarità per collezionisti.

"Le passioni, qualunque esse siano, non sono fondate su di una logica, sulla razionalità, su principi evidenti.
In realtà qualcosa accade, ma resta a livello inconscio e indagare a fondo non è poi così interessante: più affascinante pensare a qualche magia, a un’alchimia, all’imponderabile.
La musica di cui mi sono nutrito, e di cui mi nutro sempre più, ha fin dall’inizio avuto diversi colori e varianti: ma non è un caso se definisco i Jethro Tull “la colonna sonora della mia vita”… questo è l’irrazionale a cui accennavo.
L’amore per i Tull mi porta ad azioni che non sarei arrivato a compiere nemmeno da adolescente.
Non ci sono dietro aspetti tecnici, né attaccamenti morbosi a un musicista o al suo strumento; esiste solo una miscela emozionante, i cui elementi principali sono la terna voce-flauto-chitarra, che casualmente è arrivata a scandire tappe fondamentali della mia vita.
Piccole cose, insignificanti, ma che riescono forse a giustificare comportamenti e affermazioni che potrebbero essere definiti “da fanatico” (e il “fan” come dicono gli inglesi, in fondo è proprio così!)
Questo “book” parte da lontano, probabilmente dal 2006 , anno in cui partecipai alla prima Convention, a Novi Ligure. Un libro: ma poteva essere qualsiasi altra cosa … è un mezzo per dire e affermare un sentimento diffuso.
A Novi Ligure entrai in contatto con un mondo sconosciuto: per la prima volta scoprivo che anche coloro che ero abituato a vedere sulle copertine dei vinili, un tempo irraggiungibili, erano ora ben disposti verso un contatto diretto con l’uomo comune.
E scoprivo anche come esistesse tanta gente come me, giovane e meno giovane, incantata dal mondo dei Jethro, divenuto forte collante e veicolo per nuove amicizie.
L’ultima Convention di ottobre, ad Alessandria, ha confermato e fortificato i miei sentimenti.
La mia idea era quella di realizzare qualcosa che arrivasse dal basso, laddove il “dal basso” non è riferito all’importanza minore di un gruppo di persone, ma è relativo all’insieme dei fan che segue assiduamente, ma in maniera passiva, le tulliche vicende, senza poter creare niente di concreto da mettere a disposizione della collettività.
Insomma, la voglia era quella di lasciare un piccolo segno, utilizzando l’opera di comuni appassionati, quale io sono.
Glauco Cartocci è venuto in mio soccorso e la sua partecipazione non è stata meramente tecnica e realizzativa, ma le sue idee e la sua esperienza ci hanno condotto al “book” che tenete fra le mani.
Era difficile pensare a qualcosa di originale: il mondo è pieno di fotografie e sul web si trova di tutto e di più.
L’idea innovativa è stata quella di rielaborare immagini scattate esclusivamente da amanti della musica dei Jethro Tull in occasione di concerti italiani, e di inserirle in un’atmosfera “mitologica/celebrativa”.
Non avevamo foto di tutti i musicisti che hanno accompagnato Ian in questi anni , ma abbiamo sopperito quanto possibile alla bisogna, con i disegni di un altro grande appassionato, Michelangelo Lucco.
I provini eseguiti da Glauco hanno convinto tutti della qualità del lavoro.
Ma raccogliere le idee, mediare, fugare i dubbi , senza potersi guardare negli occhi, è cosa ardua.
Ciò non ha impedito di arrivare alla conclusione del viaggio e ho notato in alcuni grande entusiasmo, quello stato d’animo che a volte mi è venuto meno, quando ho percepito l’incremento delle difficoltà.
Ora sono orgoglioso di questo libro, realizzato con irrisorio sforzo economico, senza prezzo stampato sul retro, ma di enorme valore affettivo.
Non so se riusciremo mai a regalarlo a Ian Anderson e non so se lui potrebbe capire lo spirito che ci ha guidato; da parte mia ho pensato di mettere da parte diverse copie, saranno il mio dono spontaneo a persone a cui voglio bene, capaci di capire e giustificare un ex ragazzo cinquantenne che… ancora adora la musica! "

venerdì 19 marzo 2010

Joe Vescovi e il Cantagiro


Joe Vescovi ricorda il "CANTAGIRO".

“I Trip fecero solo un “Cantagiro” nella loro carriera ed era l'anno del Signore 1972.

Erano in gara con il brano "Analisi", da "Atlantide", con cui arrivarono secondi alla finale di Recoaro Terme nel girone complessi (novità che in quell'anno introdussero oltre al solito girone cantanti in cui vinse un certo Jordan) dopo i Siciliani "Gens" che vinsero con "Per Chi", cover italiana di "Withou You" dei Britannici "Badfinger", terzi arrivarono i romani "Il Rovescio della Medaglia". Sai chi era il conduttore? Il nostro corregionale (genovese) Alberto Lupo. Vuoi il nome di alcuni ospiti? Fausto Leali, Demis Roussos (Aphrodite's Child), Marcella Bella, Ombretta Colli, Mia Martini, Mino Reitano, Claudio Villa che seguiva il tour in moto con su ogni tanto la minorenne Patrizia Baldi (sua futura moglie) ecc.

In quel tour però, iniziato a Fiuggi il 14 luglio di quell'anno, pur avendo la "carovana" fatto due tappe in Liguria - Genova e Imperia -, non mi sembra di aver mai visto gli amici Nomadi (che tra l'altro sono andato a trovare lo scorso agosto a Stella di Monsampolo (AP). Forse non era il "72", ma non è questo che conta, l'importante è l'aver provato delle emozioni per un gruppo tuttora vivo e vegeto, che ha fatto storia, con il quale mi sono trovato più volte a suonarci, anche ai tempi di Augusto (nel "69"fummo insieme tutto il mese di luglio alla "Bat Caverna" di Riccione) e per finire composto da "ragazzi" dotati di grande umiltà, virtù sempre più difficile da trovare ai nostri giorni!”.







martedì 16 marzo 2010

Intervista a Jenny Sorrenti


Jenny Sorrenti ha accettato di rispondere a qualche domanda di carattere generale.

A seguire il comunicato stampa relativo all'uscita del suo ultimo album solista, Burattina



Sono molto interessato all’atmosfera dei primi anni ‘70, quella che ho vissuto da adolescente con i primi concerti prog. Cosa ricordi con più piacere di quel periodo? 

Ho iniziato a 16 anni, ero giovanissima quando formai il gruppo Rock- progressive dei “Saint Just” e ricordo con molto piacere i lunghi viaggi in camioncino per arrivare sui luoghi dei concerti e tutti i posti, tutte le città e la gente che ho conosciuto grazie alla musica.

Dovendo stabilire una graduatoria di importanza, tra testo e musica, cosa esprimeva meglio, nel passato, il tuo modo di essere, e come è cambiato tutto questo nel tempo? 

Quando componi e vuoi esprimere o descrivere un sentimento, una situazione, uno stato di felicità o di malessere, una protesta, o qualunque cosa tu voglia dire, non puoi mai scindere la musica dal testo e viceversa, è sempre tutto legato, tutt’uno ed è così ancora adesso. Il mio modo d’essere lo esprime il testo, la musica ma anche il canto, che va al di là dei soliti schemi… il mio vocalizzo non è mai fine a se stesso, le mie improvvisazioni vocali sono immagini, sono” un sentire”, non virtuosismi tecnici e basta. Ti dirò che a volte non mi serve nemmeno la parola perché con il vocalizzo, che diventa suono, riesco ad esprimere tutto.

In "Rock Map", di Riccardo Storti, si evidenzia la differenza di “scuole” musicali, in funzione della regione di provenienza degli artisti. Esiste davvero una radicale differenza di gusti e di espressione, lungo l’asse della nostra penisola? 

Potrebbe anche essere vero. Napoli è passione, ritmo, solarità ed ovviamente la scuola musicale napoletana risente di tutto questo. Risente dell’energia del vulcano, del mare e di tante altre cose…. ma credo che quando si vuole esprimere un sentimento vero, una qualunque arte, che tu sia napoletano o milanese o genovese se lo esprimi onestamente arriva comunque e nella maniera universale al cuore di tutte le persone. Quindi a me personalmente non importa molto sapere se quell’artista o musicista venga da Napoli da Verona o da Palermo. Se quello che mi comunica arriva onestamente al cuore allora va bene. Nei miei percorsi musicali ho sempre pensato che etnie musicali diverse possano incontrarsi tranquillamente e camminare insieme. Credo nella contaminazione non solo fra nazioni ma anche fra regioni e nella mia musica differenti culture si uniscono sempre fra loro, addirittura quella araba(come nel brano “A stessa terra” del mio ultimo disco”Burattina”) con quella napoletana oppure quella gallese con l’africana.

Qual è lo strumento che più ti rappresenta, quello con cui riesci a fonderti e completarti?

Quando compongo la voce innanzitutto e il piano, ma nel gruppo poi devo sentire la chitarra elettrica e la batteria.

Sono entrato da poco in contatto con tuoi conterranei, Vairetti (e Osanna), Gianni Leone, Sophya Baccini. Il concerto visto a Savona, con questi musicisti, è stato tra i più belli in assoluto, e non mi riferisco ad aspetti tecnici, ma all’insieme della performance. Qual è il denominatore comune tra gli attuali musicisti partenopei?

Beh, si vede che non hai mai visto un mio concerto! Comunque forse quello che ci accomuna è il fatto di aver vissuto (almeno per quanto mi riguarda) o di vivere ancora in una città difficile come Napoli che da un lato ti dà un’energia straordinaria dall’altro te la toglie.

Come sintetizzeresti il percorso di vita e musicale di Jenny Sorrenti? 

Ho iniziato con il Rock-Progressive, vengo dall’avanguardia napoletana, quella del folk studio, e dei locali così detti”Underground” dove nasceva la “Psichedelia”. Vengo da quel movimento musicale napoletano che voleva cambiare la società attraverso la musica quando non c’era nemmeno una donna che cantava e suonava, e io ero alla guida del gruppo “Saint Just”, ma non amo vivere del passato e sono andata avanti con lo spirito di sempre, quello della "ricerca”, per scoprire nuovi percorsi musicali e nuovi mondi. Così dopo i primi quattro dischi, di cui due solisti, ho approfondito lo studio della musica medievale, in particolare del 1200/1300 dell’area mediterranea cantando e componendo in galiziano portoghese antico, catalano, spagnolo ebraico, latino, italiano. Nel 2003 è uscitoquindi “ Medieval zone” e nel 2006 “Com’è grande Enfermidade”. Nel 2009 è uscito “Burattina” pieno di energia e di passione , dove canto in egiziano, in napoletano, in gallese, in italiano e dove è molto forte anche il messaggio dei testi. Tutti i brani di “Burattina” sono stati composti da me e da Marcello Vento,grande batterista e percussionista(ha fatto parte di gruppi come “Albero Motore”, Carnascialia,Canzoniere del Lazio etc…). Tutti i brani sono suonati da “Orchestrina Malombra” (Piero Viti, Vincenzo Zenobio, Vittorio Pepe,Jenny Sorrenti e Marcello Vento).

Esiste l’amicizia nel tuo mondo artistico?

Sì, può esistere.

Esiste un musicista, italiano o straniero, che ti ha influenzato più di altri?

 Italiani sicuramente no. Per quanto riguarda gli stranieri, beh quando sei molto giovane e devi trovare la tua strada è inevitabile avere dei modelli musicali. Quando ho incominciato a comporre la mia musica ascoltavo molto Sandy Danny dei Faiport Convention, i Third ear band, gli Incredible String band, i Jefferson Airplane. Quando poi trovi la tua strada nessuno può più influenzarti.

Provo sana invidia per chi riesce a vivere, materialmente parlando, di qualche sua passione, ovvero chi guadagna senza che il lavoro possa pesargli, anzi, il contrario. Consiglieresti a un giovane di buttarsi anima e corpo in un “mestiere” difficile come quello del musicista? 

Forse può guadagnare chi fa musica a tavolino e lo fa solo pensando che poi dovrà vendere. Per me fare musica non è un” mestiere” e non si guadagna. Si fanno tantissimi sacrifici, invece, ma ne vale la pena perché quando scendi da un palco e la gente ti dice che la tua musica, la tua voce fa stare bene, che incoraggia a vivere, che dà speranza ed arricchisce, io credo che non ci sia un prezzo per questo. Non è un mestiere, ma se si sente davvero forte il desiderio di esprimere qualcosa, allora bisogna buttarsi anima e corpo, ma soprattutto metterci il cuore, la coerenza e l’onestà. Nel mio ultimo cd “Burattina” dico che nella vita siamo un po’ tutti burattini, ma non dobbiamo mai dimenticare che abbiamo sempre la possibilità di scegliere e di essere comunque artefici del nostro destino e decidere quale strada seguire per essere felici.

Cosa ci regalerà il futuro di Jenny?


Di sicuro c’è che il mio settimo album (potrebbe uscire anche ad ottobre 2010) sarà un ritorno al Rock – progressive, ma potrei anche essere di nuovo alla guida dei “Saint Just”con una formazione totalmente nuova. Non dico altro.


Jenny Sorrenti

BURATTINA

(Odd Times Records/Egea Distribution, Aprile 2009)

Burattina è il quinto album solista di Jenny Sorrenti.

La cantante, compositrice e musicista di madre gallese e padre napoletano continua il suo percorso musicale e linguistico d’incontro attraverso la musica delle tradizioni folk e popolari dell’Europa e del Mediterraneo.

Questo suo viaggio era iniziato nel 2001 con Medieval Zone, continuava in Com’è grandeenfermidade del 2006 e ora viene sviluppato e arricchito grazie alle sue ultime esperienze musicali e di vita. I testi infatti esprimono in maniera travolgente la voglia di solidarietà tra i popoli, la forza delle persone più semplici ma capaci di grandi gesti d’ amore, l’attenzione verso gli altri che possono essere i poveri lontani a noi ma anche i più fragili che ci sono vicini, e fanno percepire una fiducia in un futuro diverso e migliore dell’ intera umanità.
  
La sua voce armoniosa e incantevole, potente ma delicata, esprime ed evoca alla perfezione le musicalità che partono dall’Africa, circumnavigano il Mediterraneo, arrivando fino al Nord Europa e mantenendo Napoli come fulcro di tutto il disco. La Sorrenti crea, infatti, una nuova e moderna forma di canzone d’autore napoletana, ospitando anche nel brano “Nessuno è più forte di chi non ha nulla più da perdere” una voce emblematica della musica partenopea quale Enzo Gragnaniello. Tutte le canzoni sono suonate live in studio con pochi arricchimenti attraverso sovraincisioni e manifestano una profonda volontà espressiva e comunicativa, consolidando il valore e il significato che l’esperienza di Jenny Sorrenti ha nella canzone d’autore italiana e internazionale. Ad accompagnarla alla voce, piano e tastiere, c’è l’Orchestrina Malombracapitanata dall’istrionico Marcello Vento, autore insieme a lei di tutte le musiche del disco, alla batteria e percussioni (percussioni varie visto che il suo ingegno lo porta anche ad inventare degli strumenti ispirati da quelli tradizionali di altre etnie o all’utilizzo di materiali impropri); Piero Viti alla chitarra, oud e mandola; Vincenzo Zenobio alla fisarmonica e ciaramella; Vittorio Pepe al basso.
  
La ricerca di Jenny Sorrenti è sempre stata anche linguistica alternando l’uso della lingua italiana come in Ali in prestito - canzone nata durante i concerti dal vivo - con quella gallese, lingua della madre scomparsa che si può sentire in Bachgen bach o dincer, brano ispirato da una filastrocca gallese per bambini ed è il viaggio di ritorno di Burattina alla musica celtica. E ora anche per la prima volta in un suo disco c’è il napoletano di Maronna mia dedicata a Manina Consiglio, insegnante napoletana organizzatrice del progetto I bambini di Manina che aiuta i bambini dell’isola di Nosy be, nel Madagascar, ad andare a scuola e a collaborare con gli adulti a costruire case e scuole.



Importantissimi anche i suoni e la loro diversità: Burattina ha una visione bandistica, di insieme della musica; le percussioni di Marcello Vento sono invece risaltate nel brano eseguito con Enzo Gragnaniello, Nessuno è più forte di chi non ha nulla più da perdereQui è presente una delle invenzioni ovvero: il ventolo. L’unione della voce dei due artisti rappresenta il vero incontro tra Mediterraneo, Napoli e l’Europa del Nord e il viaggio ritorna in A stessa terra, cantata in egiziano e in napoletano, che s’ispira a un viaggio in Egitto dove culture diverse di due città, Napoli e il Cairo, camminano insieme, s’incontrano e si rispondono.
Fragili, dedicata agli esseri umani diversi o meglio non capiti dalla societàè stata registrata in diretta in studio solamente con Jenny alla voce e al piano, brano che svela tutta il suo vigore e la sua energia, ma anche il suo stile forte e allo stesso tempo discreto; Stella luntana, nata con le melodie di una beguine e dalla melodia struggente sulla confusione della vita, della paura che soffoca ma che può essere spazzata via da un piccolo gesto che illumina ogni timore. Ricostruirenasce dalla speranza di un nuovo mondo che potrebbe nascere in Africa se la consapevolezza dell’essere umano arrivasse a comprendere gli errori commessi e si sapesse ricostruire dal risveglio della coscienza di tutti, permettendo così alla natura di ricominciare a cantare.
Sito ufficiale: www.jennysorrenti.it

Track list:
1. ‘A stessa terra
2. Ali in prestito
3. Burattina
4. Maronna mia
5. Nessuno è più forte di chi non ha nulla più da perdere
6. Fragili
7. Stella luntana
8. Bachgen bach o dincer

9. Ricostruire