mercoledì 31 agosto 2022

Storia in pillole di Ginger Baker's Air Force


Ginger Baker's Air Force è stato un supergruppo jazz-rock fusion guidato dal batterista Ginger Baker.

La band si formò alla fine del 1969 dopo lo scioglimento dei Blind Faith.

La formazione originale era composta da Ginger Baker alla batteria, Steve Winwood all'organo e alla voce, Ric Grech al violino e al basso, Jeanette Jacobs alla voce, Denny Laine alla chitarra e voce, Phil Seamen alla batteria, Alan White alla batteria, Chris Wood al sax tenore e flauto, Graham Bond al sax contralto, Harold McNair al sax tenore e flauto, e Remi Kabaka alle percussioni.

I loro primi spettacoli dal vivo, al Birmingham Town Hall nel 1969 e alla Royal Albert Hall nel 1970, includevano anche Eleanor Barooshian (sia Jacobs che Barooshian erano ex membri del gruppo femminile The Cake).

La band pubblicò due album, entrambi nel 1970: Ginger Baker's Air Force e Ginger Baker's Air Force 2.

Il secondo album coinvolgeva personale sostanzialmente diverso dal primo, con Ginger Baker e Graham Bond che erano le costanti primarie tra gli album.

L'Air Force di Ginger Baker suonò anche un set allo stadio di Wembley il 19 aprile 1970, durante l'inizio del Rally della Coppa del Mondo, che andava da Londra a Città del Messico.






martedì 30 agosto 2022

Un ricordo di Nino Ferrer


Nino Agostino Arturo Maria, noto come Nino Ferrer (Genova, 15 agosto 1934-Montcuq, 13 agosto 1998), è stato un cantautore e autore francese di origine italiana.

La sua prima soddsifazione da solista arriva nel 1965 con la canzone "Mirza". 

Seguirono altri successi, come "Cornichons" e "Oh! hé! Hein! bon!", che trasformarono Ferrer in una sorta di cantante "comico". 

Gli stereotipi e il suo enorme successo finale lo fecero sentire "intrappolato" e incapace di sfuggire alle costanti richieste di un vasto pubblico che richiedeva di ascoltare i successi che lui stesso disprezzava.

Iniziò così a condurre una vita di "vino, donne e canto" mentre dava infinite esibizioni provocatorie nei teatri, in televisione e in tournée.

In Italia, ha avuto un grande successo nel 1967 con "La pelle nera" (la versione francese si chiamava "Je voudrais être noir"); la canzone soul, con il testo quasi rivoluzionario rivolto ad implorare una serie di suoi idoli della musica nera di regalargli la loro pelle come simbolo del "fare buona musica", raggiunse uno status iconico di lunga durata in Italia.

Si è suicidato nel 1998, vittima di un episodio di depressione in seguito alla morte della madre di cui si considerava responsabile, lasciando l'immagine di una personalità arrabbiata, complessa, sensibile, romantica ed esigente con sé stessa.

Nino Ferrer ha composto oltre 200 canzoni con molteplici influenze, ma così si era espresso con un amico: "Ti rendi conto che ho scritto, composto e prodotto quasi duecento canzoni e la gente ne conosce solo tre!"









lunedì 29 agosto 2022

Wilson Project-"Il viaggio da farsi"


Wilson Project-"Il viaggio da farsi"

Ma.Ra.Cash Records

Rilasciato nel luglio 2022

 

I giovani Wilson Project presentano il loro album di esordio, rilasciato nel mese di luglio, dal titolo "Il viaggio da farsi", un concept album che sintetizzo nella sua anima estraendo la spiegazione inserita nel comunicato ufficiale:

Ispirata al lancio del Falcon Heavy di Elon Musk, la storia racconta di una donna che lascia la Terra e con essa i suoi affetti per andare su Marte. Cercherà di sopperire alla mancanza del suo mondo, ricostruendone una copia sul nuovo pianeta, ma scoprendo che a volte l'imperfezione della realtà è meno deludente dell'inerte eccellenza della sua replica. Un viaggio non solo fisico ma anche psicologico, una lotta interiore tra la nostalgia del passato e l'entusiasmo per il nuovo.”

Scopriamo qualcosa in più della band piemontese attraverso il compendio della loro biografia…

Wilson Project sono un gruppo di Acqui Terme che propone musica progressive rock originale in italiano. I quattro componenti, che hanno in media 21 anni, si sono incontrati nel corso di questi anni, fino ad approdare al loro attuale progetto.

Oltre a lavorare su musica originale, sin da subito è stato stretto il legame con la musica prog italiana, tanto da volerne assaporare ogni singola sfaccettatura. È così che hanno iniziato un lavoro di studio ed esecuzione dal vivo dei brani tratti dai primi due album della PFM, band di loro grande influenza, che li ha portati fino ad aver l’occasione di suonare questi con Giorgio “Fico” Piazza, bassista storico e fondatore della Premiata Forneria Marconi. Nel tempo si sono avvicinati anche alle sponde del progressive rock inglese, esibendosi in live con cover di altre due band di loro attuale riferimento quali Genesis ed ELP.

Leggere l’età media di questi musicisti - 21 anni - e associare una passione per il progressive rock, mi regala la speranza che non tutto sia perduto, e non per trincerarmi all’interno del mio mondo protetto, quello forzatamente condizionato dal momento formativo, ma perché esiste la quasi certezza che il prog sia musica per la mente e che quindi esista uno spazio giovane in cui c’è voglia di perlustrare anfratti, di aumentare il tempo di concentrazione, di riflettere, di comparare le articolate trame progressive con la semplicità e la banalità di quanto passa il convento oggigiorno.

Ed è quindi con curiosità ed entusiasmo che mi sono approcciato al loro disco, “Il viaggio da farsi”.

Arriva lo start con “Intro”, 50 secondi di effetti conditi da puntina vinilica graffiante, tanto per far comprendere l’ambientazione musicale settantiana.

Lo scatto arriva con “Non pensare vai”, e il biglietto da visita fa emergere l’amore dichiarato, con trame ariose, cambi di tempo e vocalizzazioni - e certi stacchi - che mi hanno riportato al mondo “YES”.

Facile abbinare le atmosfere sonore al messaggio, quell’esortazione a partire lasciandosi alle spalle il passato: disegnare musicalmente il viaggio e i sentimenti che lo animano non è cosa da poco!

Emergono skills personali importanti e una voce già matura per poter fare da driver.  

Il terzo episodio si intitola “Come mi vuoi” e prevede una prima sezione molto complessa e variegata, dove il classico rivisitato dalla tastiera si miscela alla conduzione vocale e alla solista che a tratti duetta col synt, sino ad avere il sopravvento. A metà strada le acque si calmano, almeno per un po', sino a quando la sezione ritmica emerge e disegna tempi… inusuali per i comuni mortali!

Coinvolgente!

La prima parte di “Complice innocente” è uno strumentale struggente che aumenta di ritmo mano a mano che ci si avvicina all’entrata vocale di Annalisa Ghiazza, e nel farlo disegna scenari distopici e oscuri.

Una seconda parte più melodiosa e intimistica termina la sua ascesa, rilasciando un senso elegiaco che non può lascare indifferenti.

È stato un erroreè un brano breve ma che regala un’altra chiave di lettura dei Wilson Project che, pur presentando nella parte finale un largo respiro sognatore, riescono a dare esempio di particolare groove, quasi un funky con varianti moderne e una concatenazione di suoni ripetitiva e positivamente ossessionante.

Ingannando i miei sensi mi ha dato l’impressione di essere tra le più vicine al prog italiano originario, voce compresa.

Una costruzione che a me pare molto complessa, partendo da una sorta di marcia che evolve rapidamente, con lo sguardo rivolto alla prima PFM. Ma non esiste un'unica via da percorrere, i cambi di direzione sono continui e ad ogni girar d’angolo ci si aspetta la novità!

Pregevole.

Quando cerchi di respirareè caratterizzato, come un po’ tutto il disco, da sorprese, da movimenti che, in questo caso, uniscono il senso del viaggio e della speranza, con la sottolineatura del pianoforte che fa da regia e sottofondo allo stesso tempo.

Ma il rock, anche duro, arriva, e si apre alle accortezze prog, quelle che mirano ad esaltare il dettaglio, a inserire il particolare di pregio in un contesto dal sapore ritmico complesso.

Un sample di cosa possa essere l’unione perfetta tra lirica e suoni che, a questo punto, appaiano avanguardistici.

Se solo avessi un’anima”, vissuto dall’esterno, almeno inizialmente, sembra più lineare, una calma controllata che però potrebbe esplodere improvvisamente, cosa che accade puntualmente dal secondo minuto, e la solista di Giovanni Giordano conclude virtuosisticamente il momento sognante e stellare.

Con “Un gioco” ci si avvicina alla fine del viaggio, e se non fosse per certi tempi composti - un plauso alla sezione ritmica formata da Stefano Rapetti al basso e Mattia Pastorino alla batteria - si potrebbe pensare che ci sia persino spazio per la “forma canzone”; certo è che colpisce il mix tra complessità ricercata e una proposizione vocale popolare presente in Italia, forse, anche nell’era che precede il movimento progressive.

Una grande dimostrazione di ecletticità!

E arriviamo alla fine del percorso con la title track, “Il viaggio da farsi”, quando la nostalgia per ciò che è rimasto indietro svanisce al cospetto del vivere la novità, una sorta di rinascimento inaspettato.

Un disco prog che si rispetti non può vivere senza la sapienza creativa e strumentale delle tastiere intese nel senso più ampio possibile, e occorre sottolineare le competenze e il gusto di Andrea Protopapa, una bella sorpresa.

Un altro pezzo di bravura per arrivare alla fermatura del cerchio, e il mio elogio è riferito soprattutto alla capacità di unire un messaggio metaforico e pesante a musiche che perfettamente gli si adattano, anche se mi è oscuro il ciclo creativo della band: si costruisce un abito ad hoc ad un test scritto o… l’esatto contrario?

Qualunque sia l’iter realizzativo, l’ultimo brano sancisce il mio pensiero che, a questo punto, dovrebbe essere chiaro.

Una bella sorpresa per un pugno di ragazzi che potrebbero darci un bel po’ di soddisfazioni, mantenendo la barra dritta verso l’impegno creativo e la qualità conseguente.

Tracce video e immagini del concerto del 21 agosto...


 LE TRACCE (CLICCARE SUL TITOLO PER ASCOLTARE)

01 Intro (0:50)

02 Non pensare vai (7:06)

03 Come mi vuoi (4:46)

04 Complice innocente (4:32)

05 È stato un errore (2:54)

06 Ingannando i miei sensi (3:19)

07 Quando cerchi di respirare (5:02)

08 Se solo avessi un’anima (3:29)

09 Un gioco (5:35)

10 Il viaggio da farsi (5:04)


FORMAZIONE

Annalisa Ghiazza: voce

Andrea Protopapa: tastiere, cori

Stefano Rapetti: basso

Mattia Pastorino: batteria, cori

Giovanni Giordano: chitarre

 

LINK UTILI:

wilsonprojectband@gmail.com

 www.instagram.com/wilson.project/

www.facebook.com/wilsonproject

https://maracashrecords.bandcamp.com/album/il-viaggio-da-farsi




domenica 28 agosto 2022

Ricordando Stevie Ray Vaughan


La notte del 27 agosto 1990, dopo aver partecipato ad un grande concerto all'Alpine Valley Music Theater di Alpine Valley Resort, con Eric ClaptonRobert CrayBuddy Guy e il fratello JimmieStephen "Stevie" Ray Vaughan sale su un elicottero per tornare al suo albergo di Chicago. Come dichiarato in seguito dallo stesso Clapton, Vaughan, stanco per il concerto, chiede di prendere il posto di Clapton e partire per primo. Poco dopo il decollo però il velivolo si schianta contro una collina a causa della fitta nebbia e della poca esperienza del pilota in simili condizioni atmosferiche. Nell'impatto oltre allo stesso Stevie Ray Vaughan muoiono il pilota Jeff Brown e i membri dello staff di Eric Clapton, Bobby Brooks, Nigel Browne e Colin Smythee. Nessuno si accorge dell'incidente fino alla mattina seguente, quando l'elicottero non giunge a destinazione.

Stevie Ray Vaughan viene sepolto il 31 agosto 1990 al Laurel Land Memorial Park di Dallas, accanto al padre, morto quattro anni prima nello stesso giorno del figlio. Aveva 36 anni.
Era nato a Dallas il 3 ottobre del 1954, ed è stato uno dei più grandi esponenti della chitarra blues americana. Benché durante la sua breve vita abbia pubblicato solo quattro album in studio e uno live, è noto come uno dei musicisti più dotati e influenti del suo genere. Nel 2003, la rivista Rolling Stone lo mette al 7º posto nella Lista dei 100 migliori chitarristi e Classic Rock Magazine lo mette al 3º posto nella lista dei 100 Wildest Guitar Heroes del 2007.

Stevie Ray Vaughan è il miglior chitarrista che abbia mai sentito suonare
(Eric Clapton)
Questo disse Eric prima della sua scomparsa prematura.

Il nome da solo vale una leggenda, in ambito blues, ed è così che l’ho sempre considerato.
Ma conoscere un nome, sapere magari a quale viso sia abbinato, non significa inquadrare il personaggio, e soprattutto non fornisce indicazioni sul suo effettivo "lavoro".
Ciò che riesce ad uscire dalla sua Fender è quello che normalmente abbiniamo a musicisti di colore, perfettamente a loro agio nella semplicità di struttura del blues e nell’infinita complicatezza che deriva dal far emergere gioia e dolore attraverso le sei corde.
Si dice che per fare il blues occorra avere sofferto, aver vissuto la strada, e l’accostamento porta quasi sempre al popolo di colore, anche se i casi opposti abbondano.
E Stevie Ray Vaughan ne è un esempio… purtroppo non più fisicamente presente.

Hanno detto di lui: 

È stato uno dei più grandi esponenti della chitarra blues americana.
Benché durante la sua breve vita abbia pubblicato solo quattro album in studio e uno live, è noto come uno dei musicisti più dotati e influenti del suo genere
.”


Ho trovato nel sito ufficiale Fender una descrizione esaustiva...

La leggenda di Stevie Ray Vaughan ha squassato gli anni '80 con la forza di un tornado: il suo talento purissimo, il suo playing caratteristico, la forte matrice blues hanno portato a dischi d'oro e tour "tutto esaurito", prima del suo tragico decesso all'età di 35 anni. La sua fama giunge comunque inalterata ai giorni nostri attraverso i puristi del blues e i fan del rock, che parlano di lui come uno dei più influenti bluesman elettrici della storia.Vaughan ebbe il merito di fondere il blues puro delle origini, di Albert King, Otis Rush e Muddy Waters, con la vena rock della chitarra di Jimi Hendrix per creare uno stile nuovo, sconvolgente, in grado di lasciare l'ascoltatore letteralmente senza fiato, in un periodo storico, tra l'altro, in cui il blues non era decisamente all'apice della sua popolarità come genere musicale. Nato e cresciuto a Dallas, Vaughan cominciò a suonare da bambino, ispirato dal fratello più grande, Jimmie. All'età di 17 anni abbandonò la scuola per concentrarsi esclusivamente sulla musica e suonare in una notevole moltitudine di gruppi, che servirono da embrione alla formazione, a fine anni '70, dei Double Trouble, chiamati così da un brano di Otis Rush. A quel tempo, Stevie cominciò anche a cantare, e i Double Trouble si ritrovarono a regnare sul fertile territorio musicale di Austin, Texas. Nel 1982, la performance al Montreux Festival catturò l'attenzione della leggenda del rock David Bowie, che arruolò Stevie Ray per le registrazioni del disco di quell'anno, "Let's Dance". I Double Trouble firmarono quindi con la Epic, e l'anno successivo vide la pubblicazione del primo album, "Texas Flood". Quell'album ebbe un successo immenso, riportò il blues nelle classifiche per la prima volta dalla fine degli anni '60; inevitabilmente, fu immediatamente registrato un nuovo album, e Couldn't Stand the Weather raggiunse posizioni ancora più alte in classifica e un più grande successo, in generale, di "Texas Flood". Il terzo album, "Soul to Soul", vide la luce nell'estate del 1985 e, nel 1987, dopo un intensissimo tour americano, fu pubblicato il live doppio "Live Alive". L'abuso di alcol e droghe minarono pesantemente la salute di Stevie, e lo costrinsero a un lungo periodo di disintossicazione. Nel 1989 finalmente, i Double Trouble tornarono più in forma che mai con "In Step", raggiunsero il 33° posto in classifica, e vinsero un Grammy per il miglior disco di blues contemporaneo, ottenendo il disco d'oro a soli sei mesi dall'uscita della nuova fatica discografica. Il 26 agosto 1990 i Double Trouble suonarono a East Troy con Eric Clapton, Buddy Guy, Robert Cray e Jimmie, il fratello di Stevie Ray. Al termine del concerto, Vaughan si imbarcò su un elicottero per Chicago, ma il velivolo si schiantò pochi minuti dopo il decollo, uccidendo il chitarrista e altri quattro passeggeri.Un disco di duetti col fratello Jimmie era stato registrato poco prima della sua morte e, quando fu pubblicato quello stesso ottobre, entro direttamente al numero 7 in classifica. Successivamente, le numerose uscite discografiche postume e le collezioni di inediti giunsero alla stessa popolarità dei dischi pubblicati da Vaughan da vivo. La Fender, nel 2002, riprodusse la famosa Stratocaster Number One di Stevie e ne fece un modello Signature.


Curiosità - Lo stile

Il caratteristico stile di Stevie Ray Vaughan è spesso paragonato a quello di Jimi Hendrix, dal quale Vaughan ha, per sua stessa ammissione, tratto grande ispirazione. Altre influenze molto evidenti derivano da Albert King,Chuck Berry, Buddy Guy, B.B. King, e da Kenny Burrel, per i brani dalle atmosfere jazz. Lo stile è scandito da fraseggi veloci e movimentati spesso ripetuti, con grande precisione ritmica, ma anche di assoli lenti e melodici. Durante il corso degli anni il sound di Vaughan è variato dall'uso di suoni e riff brillanti e taglienti (stile Albert King) dei primi anni 80, a figurazioni più melodiche e corpose (stile Eric Clapton) all'inizio del 1990. Una particolarità del suono di Vaughan derivava dall'uso di corde di dimensioni a volte molto superiori alla norma, di scalatura 0.13 e talvolta 0.14 fino ad arrivare a scalature estreme come la 0.18/0.74. Renè Martinez, suo tecnico, lo convinse ad abbandonare queste corde in favore di altre di dimensioni più convenzionali per evitare danni alle dita (per ovviare a questi inconvenienti ricopriva i polpastrelli di colla "Superglue", usata anche dai soldati americani in Vietnam per chiudere le ferite in attesa di soccorsi).








sabato 27 agosto 2022

Michel Delpech e i Dik Dik



Il mio primo impatto con la musica, quando avevo ancora i pantaloni corti, riporta a brani musicali per me all’epoca sorprendenti, eseguiti dai gruppi italiani allora in voga che esercitavano in modo assolutamente libero l’esercizio di “copiatura” sonora, modificando e adattando il testo, che da inglese diventava italiano, cambiando completamente significato.
Non era una grande perdita, a quei tempi le liriche non presentavano ancora nulla di serio, nemmeno al di fuori dei nostri confini, anche se qualcosa, soprattutto in America, stava cambiando, con l’impegno sociale di Dylan e Baez.

La tecnologia fu di grande aiuto per la diffusione capillare della musica, attraverso prodotti e supporti sempre più alla portata di tutti, che permettevano peraltro la socializzazione, i quei primi anni Sessanta: rock’n roll, il twist, il folk, il beat, il rythm & blues, il funky… musica da ascoltare, musica per ballare.


L’Italia era ben predisposta al cambiamento, ma la cosa che risultò più rapida e semplice per i giovani musicisti e i loro "gestori" fu quella di pescare a man bassa nella produzione anglosassone e farla propria, in tempi in cui non si guardava molto ai diritti d’autore.
In pochissimi parlavano e cantavano in inglese, e spesso i grandi nomi stranieri si prestavano a mettere da parte il loro idioma naturale a favore dell’italico verbo, diventando loro stessi “cantanti italiani”.
Due le alternative per i gruppi e i cantanti: prendere brani di riconosciuto successo facendoli diventare la copia nostrana, oppure pescare nel mare magnum britannico, appropriandosi di canzoni sconosciute, rendendole “nuove” per il pubblico italiano. E attraverso questo modus il brano originale prendeva luce anche entro i nostri confini.

Di lì a poco, come è noto, tutto sarebbe cambiato, ma restano dei gioiellini che credo non siano conosciuti da tutti, per cui a partire da oggi, sporadicamente, proporrò un brano originale e la cover corrispondente, e sono certo che qualche cosa di inaspettato verrà a galla.

Dopo aver proposto i QUELLI/Tommy Roe, passo a Michel Delpeche, da cui attinsero i Dik Dik.

Il brano originale si chiamava “Wight Is Wight”, diventato in italianoL’isola di Wight”, tormentone dell’epoca.

La canzone francese, che celebrava il festival rock-hippy organizzato nell’isola al largo della Gran Bretagna, ideale continuazione della esperienza dell’anno prima a Woodstock, divenne un successo internazionale.

Dal punto di vista musicale era però un “lentone” del tutto asincrono con quello che si sentiva nel festival (Hendrix e compagni), niente di comparabile alla canzone simbolo del festival americano, “Woodstock” appunto, scritta da Joni Mitchell e cantata da Crosby, Stillts, Nash & Young.




venerdì 26 agosto 2022

Unka Munka - “Foreste Interstellari”


Unka Munka - “Foreste Interstellari” (LP/CD)

BLACK WIDOW RECORDS

 

Nell’ottobre del 2016 ho presenziato e presentato a Genova l’ultimo concerto degli Analogy, evento storico e triste, se si pensa che tre dei protagonisti di serata non sono più tra noi (Jutta Taylor Nienhaus, Martin Thurn-Mithoff e Pino Tuccimei).

Su palco quella sera trovai un tastierista che non conoscevo, almeno non con il nome di Roberto Carlotto, ovvero Unka Munka. Riannodando i fili della memoria associai il tutto ad un brano che da adolescente mi era rimasto impresso, “Fino a non poterne più”, un singolo dall’atmosfera drammatica amplificata da una voce che riportava a Demis Roussos.

Ma Carlotto/H.M. è stato ed è molto di più, tra sperimentazione e progressive.

Vale la pena ricordare “Dedicato a Giovanna G.”, l'album di debutto, l'unico da solista dell'artista, pubblicato nel 1972 dalla Ricordi, rimembrato per la sua copertina provocatoria raffigurante un gabinetto chiuso con dei fiori che fuoriescono da esso.

Il disco è stato distribuito in LP e in CD anche in estremo oriente (Giappone e Corea del Sud) ed è stato ristampato nel 2012 dalla AMS.

Lo si può ascoltare cliccando sul seguente link:

https://www.youtube.com/watch?v=eGtHpFHrMO4&t=491s

 

Ma vediamo un po' di biografia estrapolata dal comunicato ufficiale di BWR…

Il tastierista varesino Roberto Carlotto, in arte Hunka Munka, inizia a suonare fin dall'infanzia, anche se la sua carriera musicale fu seriamente compromessa da un incidente aereo che gli causò alcuni gravi infortuni.

I suoi inizi come musicista professionista lo hanno portato a suonare in Inghilterra, Germania e Svizzera, dove ha anche avuto la possibilità di sostenere artisti come Rod Stewart e Colosseum.

In Italia suona con Big 66, I Cuccioli e successivamente con Ivan Graziani (Anonima Sound – 1970), prima di iniziare una carriera solista iniziando con un singolo di discreto successo - “Fino a non poterne più” - nel 1971. Come artista solista, Carlotto era facilmente riconoscibile per la sua ottima qualità tecnica e l'alto livello della sua attrezzatura, che comprendeva un numero incredibile di tastiere diverse e persino i primi esempi di drum machine a nastro.

Il suo unico album solista, “Dedicato a Giovanna G.”, con la sua copertina oltraggiosa, è un album soft-prog, ovviamente dominato dalle tastiere di Hunka (in particolare dal suo organo Hammond auto-personalizzato) e dalla strana voce tremolante che ricorda Demis Roussos o i Bee Gees. Tra i musicisti di supporto di allora c'erano il batterista Nunzio "Cucciolo" Favia degli Osage Tribe e il chitarrista Ivan Graziani.

Dopo l'uscita dell'album Carlotto si unì ai Dik Dik, nel 1973, sempre con il batterista Cucciolo che suonò con lui anche più tardi come "Carlotto & Cucciolo". Presumibilmente ha anche pubblicato un album elettronico nel 1984, “Promise of love” (Atlantide AMX 12003), sotto il nome di Karl Otto. Nel 2011 Roberto Carlotto si è unito alla riformata Analogy suonando con loro molti concerti.

Nei primi anni 2000 Roberto Carlotto inizia una collaborazione con il tastierista Joey Mauro, talentuoso utilizzatore e riparatore di tastiere vintage; insieme hanno rivitalizzato il nome Hunka Munka e recentemente hanno pubblicato un nuovo album chiamato "Foreste Interstellari" in cui Carlotto scrive testi, suona le tastiere e canta come protagonista. Joey Mauro suona anche le tastiere e scrive le musiche insieme a Mr. Hunka Munka.

Foreste Interstellari” è un ritorno alle origini, un disco prog la cui genesi risale a quasi 20 anni fa, almeno per quanto riguarda alcuni brani che sono stati rivisitati a più riprese e proposti ora con una nuova veste. Ciò che non cambia rispetto al passato sono le elaborazioni su strumenti tradizionali con distorsioni esasperate, un mix tra antico e presente che rappresenta il paradigma del genere.

I testi in lingua italiana permettono una facile decodificazione e contribuiscono a rinnovare la tradizione del prog italico, tra metafore e viaggi sognanti che, uniti alle musiche, alimentano il modus onirico, il sogno ma… ad occhi aperti.

Il combo Unka Munka rappresenta l’unione di Roberto Carlotto (voce e tastiere) e Joey Mauro (tastiere, orchestra).


Apre l’album “La dama della foresta” …

Biondi capelli e signor vestiti, il fuggire vostro da qual mariti, la mia domanda sgarbata e stolta, ma la foresta dà già risposta, si fermi qui…

Tastiere sugli scudi per un brano sognante, dove le atmosfere orchestrali si sposano ad un rock settantiano e ad una ritmica insistente, con stacchi e ripartenze, ma senza un attimo di respiro.

Segue “Brucerai” …

Bugiardo ipocrita brigante sei, quanto male hai fatto, agli amici tuoi, fingendoti leale, bastardo sei, ma dove vai c’è già qualcuno che ti aspetta là, professione traghettatore, assunto in regola con Satana… 

Brano dalla cadenza regolare, condito da virtuosismi personali e melodie che riportano al primo progressive italiano, in cammino su una strada limite, quella che separa il rock tradizionale da quello contaminato a oltranza.

Personalmente mi affascina il tono, il colore della voce di Carlotto, che riesce ad essere caratterizzante.

 La solitudine delle stelle” è un brano strumentale, un duetto tra pianoforte e voce, con effetti annessi. Che dire, aulico, sacrale, riflessivo, impegnativo… da ascoltare ad occhi chiusi!

Con “Idee Maledette” si ritorna alla lunga durata, oltre otto minuti…

Esistenti sicurezze, non portano mai soluzioni, soltanto un bene tacito risvolto e mere illusioni, che tu sia maledetta idea mia, maledetta via. 

Tipica costruzione prog, con synth in primo piano che disegna la melodia, mentre la sezione ritmica spacca e il tappeto tastieristico prepara il lavoro di chitarra elettrica.

L’Uomo Dei Trenini” è un altro strumentale che si carica di sonorità onomatopeiche, mentre emergono le immagini di un treno, di un viaggio, di un uomo solitario in una stazione di periferia, un quadretto perfetto che fa da trait d’union con la parte rimanente.

I Cancelli Di Andromeda”, strumentale, è caratterizzato da un giro di tastiere scritto sul finire degli anni ’90 da Joey Mauro.

Bellissimo, pungente, con l’elettrica di Gianluca Quinto in primo piano, al pari delle divagazioni da synth che appaiono quanto mai funzionali alla traccia, anche se un certo gusto per le magie sonore appare evidente e comprensibile.

E arriviamo alla title track, “Foreste Interstellari”, l’episodio più lungo dell’album, quasi dodici minuti.

Chiudi gli occhi per lasciare la tua fantasia volare, per calarti giù nel mare, più profondo, per scoprire questo tuo pianeta vivo, un tempo nato e poi formato insieme a stelle e meteoriti, pezzi grezzi di granito, e volo tra gli spazi siderali, in mondi nuovi e foreste interstellari. 

Una mini-suite, dove i tempi composti - e l’assolo - di Marcantonio Quinto contribuiscono a fornire la corretta dinamicità del brano, della storia raccontata, tra fughe e riflessioni. A mio giudizio brano rappresentativo dell’intero album e della proposta dell’attuale Unka Munka. E non sarebbe male ascoltarla dal vivo!

Amanti come noi” è la traccia che più si avvicina alla forma canzone tradizionale…

I nostri ruoli ormai troppo diversi, solo ora mi è chiara la tua irruenza, la sopportazione, dopo la tua arroganza, ho deciso, lascio tutto, libero di andare via… 

Magnifica, la sintesi dell’incomunicabilità, della fine di un amore, un pezzo sentimentale trattato nel modo "corretto", un lentaccio anni ’70 che non dovrebbe faticare per trovare una rotazione radiofonica…

Si conclude con “La Stanza Dei Bottoni”, la canzone più breve.

Il viaggio prosegue, il treno continua il suo percorso attraversando la campagna e salutando le anime in attesa, un viaggio senza fine, come la musica di Roberto Carlotto, nata oltre cinquant’anni fa e ancora viva.

Un album davvero inaspettato, un ritorno al passato con schegge di innovazione presentate attraverso un pensiero… analogico, che non vuol dire “vecchio”, ma solo di estrema qualità.

Consigliatissimo!


Tracklist (cliccare sul titolo per ascoltare) 

La Dama Della Foresta (7:52)

Brucerai (5:55)

La Solitudine Delle Stelle (2:20)

Idee Maledette (8:08)

L’Uomo Dei Trenini (2:24)

I Cancelli Di Andromeda (5:20)

Foreste Interstellari (11:49)

Amanti Come Noi (4:30)

La Stanza Dei Bottoni (2:06)

 

Band:

Roberto Carlotto: Voce e tastiere

Joey Mauro: Tastiere e orchestrazioni

 

Special Guests:

Marcantonio Quinto: Batteria e percussioni

Gianluca Quinto: Chitarra

Andrea Arcangeli: Basso

Andreas Eckert: Basso

Alice Castagnoli: Voce e cori

Tony Minerba: Voce

 


https://www.facebook.com/hunkamunkaprog

https://blackwidow.it





martedì 23 agosto 2022

Ricordando Keith Moon...


Il 23 agosto del 1946 nasceva Keith Moon, leggendario batterista dei The Who, che ci ha lasciato prematuramente il 7 settembre del 1978.

Negli ultimi anni ho avuto l'opportunità di vederli due volte (Verona nel 2007 e Milano nel 2016), con Zak Starkey, figlio di Ringo Starr, alla batteria.
Fantastico Zak, ma come dice Pete Townshend: “Zak non è Keith, per molti versi è meglio, ma non è lui ”.
Ho sempre immaginato il mitico provino a lui concesso dagli Who (allora Detours) già esistenti, dove con grande spavalderia si esibiva devastando lo strumento e convincendo tutti che era la persona giusta per riempire il vuoto lasciato dal batterista precedente.
Lo voglio ricordare oggi e per farlo utilizzo un sunto di quanto “rubato” nel sito “Drum Club”, portale dedicato alla batteria.
Il seguente articolo è tratto da Psycodrummer, una rubrica ideata per la rivista Drum Club, che analizza i tratti non solo musicali, ma anche umani e biografici dei batteristi entrati nella leggenda e nel mito.

Per il mondo della musica rock, Keith Moon non è solo il celebre “batterista pazzo” degli Who, scomparso a causa di una morte prematura.
Sul suo conto circolano ancora oggi numerose leggende al confine tra mito e realtà, molte delle quali alimentate dagli aneddoti fantasiosi riportati dallo stesso Moon.
Un personaggio esplosivo, nato per essere una rock star, un attore, una celebrità, un intrattenitore indiscusso.
Ma quale volto si nascondeva oltre la maschera del clown? E chi era realmente l’uomo dietro ai tamburi degli Who?
Nato il 23 agosto 1946, sotto il segno del Leone, Keith Moon cresce a Wembley, il sobborgo più conosciuto di Londra, in una famiglia benestante ed unita. Anche se trascorre l’infanzia in un ambiente protetto e amorevole (è molto legato alla madre), il piccolo Keith dimostra un temperamento impetuoso e inquieto sin dai primi anni di scuola. Un suo vecchio compagno di classe confessa: “A quei tempi non avrei mai pensato ... "un giorno questo ragazzo diverrà famoso", ma credevo piuttosto che prima o poi sarebbe finito in prigione, perché era sempre coinvolto in tutte le risse”.
In realtà, la costante agitazione e irrequietezza di Keith sono tipici indicatori di iperattività, un problema che lo accompagna attraverso l’infanzia e l’adolescenza.
I problemi di Keith adulto possono leggersi come le conseguenze di un’iperattività infantile non curata; questi disturbi lo portano alla depressione, all’abuso di alcool e droghe, a comportamenti antisociali e violenti e all’instabilità psicologica (Borderline Personality Disorder).
Su suggerimento medico i genitori decidono di distrarre il ragazzo con la musica.
Lo iscrivono alla banda, dove gli viene affidata la tromba; lo strumento non sembra il più adatto per il ragazzo irrequieto, del tutto mancante della pazienza necessaria per esercitarsi.
I musicisti della banda non gradiscono particolarmente le ilari improvvisazioni di un giovane Moon alla tromba, così: “Mi diedero dei soldi per andarmene” - racconta il batterista con ironia - “e fu lì che scoprii per la prima volta che grazie alla musica si poteva guadagnare del denaro!”.
Gerry Evans è un amico d’infanzia di Keith, vive nel suo stesso quartiere e lavora presso un negozio di musica. E’ un batterista, ed un giorno gli propone di provare il suo drum set. Gerry rilascia una vivida testimonianza di quella occasione: “Non aveva mai suonato la batteria e voleva essere subito come Buddy Rich e Louis Bellson: era come vedere un folle libero dietro ai tamburi. Non aveva nessuna idea di quello che suonava. In pratica colpiva tutto quello che gli capitava a segno, producendo un gran frastuono. Era orribile. Cercai di fermarlo ed insegnargli qualche rudimento, qualche paradiddle, ma era come parlare ad un pazzo. Voleva solo fare un gran casino. Pensai tra me e me che non sarebbe mai diventato un batterista, figuriamoci un batterista professionista”.
Nondimeno, Keith Moon, il ragazzino squilibrato cacciato da scuola a 15 anni, trova quel giorno la sua ragione di vita: suonare la batteria e diventare una rock star.
Si fa acquistare un drum set dai genitori, suona come un pazzo in garage e prende saltuari lezioni da Carlo Little, il potente batterista di Screaming Lord Sutch.
Il suo primo gruppo sono i Beachcombers, e propongono un repertorio di classici rock’n roll e surf.
Quando viene a sapere che i Detours, la formazione emergente più in vista nei club della nascente cultura mod di Londra, sono alla ricerca di un batterista, si presenta ai provini con un vestito sgargiante laminato in oro.
Per nulla intimidito dalla differenza di età (è più giovane di 3 anni rispetto al resto del gruppo), suona con quella violenza, spavalderia ed energia che, negli anni, sarebbero divenute il suo marchio di fabbrica.
Alla fine dell’audizione il pedale della gran cassa è rotto e l’asta di un piatto è rovesciata.
Non è ancora entrato nel gruppo e già ha provocato dei danni. I ragazzi lo confermano per i futuri concerti.
E’ l’inizio della leggenda della band chiamata “The Who”.
Gli Who raggiungono il successo con il singolo “My Generation”, nel quale cantano “Spero di morire prima di diventare vecchio”, profezia che Keith Moon seguirà alla lettera.
Le esibizioni del gruppo sono celebri per intensità e volume.
Townshend e compagni sono i primi a distruggere gli strumenti al termine dei concerti.
Il più delle volte un indiavolato Moon getta i suoi tamburi - grancassa compresa - tra la folla.
Gli Who inaugurano anche lo stile di vita delle rock star, in particolar modo durante le tournèe negli States, dove distruggono le camere degli alberghi in cui alloggiano, tanto che vengono banditi a vita dalla catena di hotel “Holiday Inn”.
Proprio Moon si dimostra il più scatenato dei quattro, e si rende protagonista di numerosi esperimenti con delle bombe esplosive.
La leggenda narra anche di una Rolls Royce guidata dal batterista fin dentro alla piscina di un hotel, durante il party del suo ventunesimo compleanno.
Keith diventa presto celebre per i suoi travestimenti, per le bravate e per i continui eccessi: stringe un’intensa amicizia con i Beatles - specialmente con Ringo Starr – e, per la sua natura scherzosa, viene affettuosamente soprannominato “Moon The Loon”.


Durante gli anni del successo, Keith non riesce a vivere lontano dalla batteria e dagli Who.
Per sua natura, si rifiuta di fare esercizio sullo strumento in luoghi che non siano il palco, la sala prove o lo studio di registrazione.
Nelle sue ville sono parcheggiate decine di automobili costose (anche se lui non ha la patente di guida), ci sono giochi e intrattenimenti d’ogni genere, si trovano droghe ed alcolici in abbondanza; ma non c’è una batteria montata.
Per lui la batteria va suonata solo in compagnia: odia studiare o suonare da solo, così i lunghi periodi in cui gli Who non si trovano in tournèe si dimostrano devastanti per il suo allenamento e per la sua forma fisica.
I lunghi show di due ore e più, infatti, nei quali Keith brucia le tossine e suda abbondantemente (fino a perdere 3 kg per volta), sono per lui una vera e propria palestra, che gli consentono di sostenere il ritmo di vita devastante costituito da party notturni e infiniti drink.
L’ombra dell’alcolismo minaccia la vita del ragazzo terribile.
Nella storia di ogni rock star morta giovane, esiste un episodio o un momento cruciale in cui l’ingranaggio del successo si rivolta contro il suo beneficiario, e determina l’inizio di un lento declino verso il baratro della distruzione.
Per Keith, questo avvenimento è rappresentato dalla tragica morte del suo autista ed assistente personale, Neil Boland.
E’ lo stesso batterista ad ucciderlo involontariamente - investendolo maldestramente con la sua lussuosa Bentley - nel tentativo di portarsi fuori da una cerchia di teppisti infuriati e minacciosi.
L’episodio fatale getta sull’animo di Keith - già provato dall’alcool e dalle numerose turbe psichiche - un senso di colpa opprimente e un’ombra di depressione e solitudine che resteranno sempre lontani dalla sua immagine pubblica, ma che saranno evidenti alle persone che gli staranno vicine fino alla sua scomparsa.
In seguito all’interessamento di alcuni medici, lo stato psichico di Moon viene definito “un caso limite di personalità disturbata” (Borderline Personality Disorder).
Questa particolare condizione psicologica, definita dallo psichiatra Adolph Stern nel 1938, designa un paziente che non solo è al limite tra sanità e malattia di mente, ma si trova anche al confine tra neurosi e psicosi.
Senza dubbio le sue relazioni con le persone attorno a lui sono instabili ed intense, caratterizzate da un’alternanza estrema di idealizzazione e svalutazione; più volte tenta il suicidio (in più di un’occasione si taglia i polsi per attirare l’attenzione dei suoi amici); è notoriamente insicuro e afflitto dalla paura di restare solo; è soggetto a scoppi di rabbia incontrollabile e a frequenti periodi di dissociazione.
Kim Kerrigan, che sposa il batterista nel 1966, quando lui ha 19 anni e lei solo 17 (ed è già incinta della figlia Mandy) è una delle poche persone che può dire di avere conosciuto a fondo tutte le diverse personalità di Keith Moon.



Le sue insicurezze di fondo e la sua paura di essere tradito e di restare solo, si manifestano in una forma di assoluta gelosia nei confronti della bellissima moglie, che nel corso degli anni deve anche fare i conti con i suoi violenti attacchi d’ira. “Quando mi innamorai di lui” - ricorda Kim - “Keith era dolcissimo e gentile, spiritoso e affettuoso. Con il passare degli anni, e con il sorgere del problema della dipendenza dall’alcool, il marito e il padre tenero divennero una persona violenta e gelosa. Quando Keith era sobrio, rivedevo in lui la persona di cui mi ero innamorata, ma quando beveva si trasformava in una sorta di mostro”.
Dopo liti furiose, tre nasi rotti e riconciliazioni varie, Kim progetta una fuga da casa (portando con sé la figlia Mandy) quando Keith arriva a minacciarla con un’arma da fuoco, mentre spara in aria e la insegue con gli “occhi insani di un assassino”.
Nel frattempo, la progressione di Moon nel consumo di alcool raggiunge un punto di svolta, passando dall’abuso alla dipendenza.
Nel 1972 consuma due bottiglie di champagne e due bottiglie di brandy al giorno - spesso anche di più - e comincia a miscelare questi due liquori nello stesso bicchiere. Dimostra anche uno dei più gravi segni di dipendenza dall’alcool, il bisogno di cominciare la giornata con un drink.
Gli anni successivi lo vedono impegnato nella lotta contro la bottiglia: nella sua vita si alternano periodi di forzata sobrietà (con ricoveri in cliniche ed ospedali) e periodi di decadenza ed abusi.
Durante la sua residenza in California, nel 1975, dove registra un fallimentare album solista (“Two Sides Of The Moon”) e dove abita insieme alla nuova fidanzata Annette Walter Lax in una casa sull’Oceano, Keith sviluppa anche la dipendenza dalla cocaina.
Proprio quando il batterista, ormai gonfio ed irriconoscibile, decide di dare una svolta definitiva al suo alcolismo, un incidente spezza la sua esistenza a metà.
A stroncarlo sono - per assurdo - proprio dei farmaci prescritti per curare la dipendenza dall’alcol.

Ultima sera

Egli ingerisce in quantità eccessiva delle pastiglie di chlormethiazole, assumendone una manciata in seguito ad un pasto notturno a base di carne e brandy. La morte lo coglie nel sonno il 6 settembre del 1978, all’età di 32 anni.


Keith Moon è passato alla storia per il suo stile unico e indisciplinato, manifestazione della sua personalità deviata e non di tecnica batteristica. Un drumming istintivo, del tutto mancante di chiarezza e coesione, eppure esplosivo, energico e soprattutto inimitabile.
Tanto che, dopo la sua scomparsa, neppure Kenny Jones, Simon Phillips e Zak Starkey (il figlio di Ringo Starr) riusciranno a rimpiazzarlo compiutamente.
Nella sua follia, è un incredibile precursore: già sul finire degli anni ’60, Keith inaugura la mania dei drum set customizzati e personalizzati, pieni di piatti e tamburi.
Adotta la doppia cassa per ripicca nei confronti di un batterista che, in tournèe, esibisce un kit più grande del suo. Abolisce del tutto l’utilizzo dell’hi-hat (fatta eccezione per le registrazioni in studio) e, dal vivo, lo rimpiazza con un crash.
Ogni cosa eseguita da Moon è rivolta al fine di divertire ed intrattenere: dal vivo cattura l’attenzione su di sé e, come un abile alchimista, trasforma la sua incontenibile energia in ottima musica. Suona in piedi, gira le bacchette nelle mani e le lancia in aria, oppure si piega all’indietro sul seggiolino fino a novanta gradi, ancorandosi con le gambe alle casse.
I concerti degli Who sono il suo show personale. Il suo volto è una smorfia continua: linguacce, occhi sbarrati, espressioni da pazzo scatenato.
E poi…entra in apnea e parte in uno di quei suoi irripetibili e continui rulli orchestrali.
Nessuno sa ancora come riuscisse a suonare timpani, piatti, tom e rullante in un solo passaggio.
Quando, a metà degli anni settanta, Zak, il figlio di Ringo, gli chiede indicazioni su come suonare un tipico ed elaborato fill “alla Keith Moon” sul suo piccolo set con soli due tom, Keith risponde regalando al ragazzo uno dei suoi immensi drum set con mille tamburi, dicendo: “Suonali tutti in un passaggio e vedrai”.

Zak Starkey ricorda così il suo eccezionale maestro: “Era assolutamente a corto di tecnica e suonava completamente ad orecchio. Non sapeva cosa fosse un paradiddle, ma quando era in forma lasciava tutti a bocca aperta. Normalmente devi prima conoscere le regole per poi poterle infrangere. Bhe, non credo che Keith abbia mai imparato le regole, ma continuava a farle a pezzi”.
Ricorda John Entwistle, bassista degli Who recentemente scomparso: “Keith non teneva il tempo particolarmente bene” - osservando come, suonando il basso accompagnato da lui - “dovessi spesso stabilire una media tra quel che suonava con la cassa e quello che faceva sul resto del kit per comprendere il suo tempo. Se si sentiva depresso le canzoni suonavano lente, se era eccitato le canzoni erano velocissime”.
"Era eccezionale” - conclude Entwistle - “ma credo che lo sarebbe stato ancora di più se solo si fosse seduto dietro ai tamburi ed avesse dato più corda al suo talento. Ma lui non ha mai provato a chiedersi perché fosse così bravo. Era solo un batterista naturale”.

C’è una lezione che i batteristi possono assimilare dai vari aspetti della vita di Keith Moon?
Possiamo forse azzardare un “elogio alla follia”, una lode alla travolgente carica di entusiasmo e talento che in Moon prendeva il sopravvento sulla tecnica e sulla disciplina.
In un’era di drum machines, metodi didattici, batterie campionate e session man con caratteristiche seriali, la speranza è che qualche giovane drummer possa raccogliere anche solo un briciolo della sua eredità e, a distanza di quarant’anni, dimostri l’attitudine e la pazzia necessarie ad infrangere tutte le regole..

Ancora una volta, nel nome di Keith Moon.