(Mark Paytress-“Io c’ero”)
martedì 31 maggio 2022
Rick Wakeman: Empire Pool, Wembley, Londra, 30-31 maggio 1975
(Mark Paytress-“Io c’ero”)
lunedì 30 maggio 2022
30 maggio 1972: VDGG a Genova... il mio primo concerto
(2010)
Sono riuscito a risalire a una data importante. Importantissima per chi è cresciuto a pane e musica: mi riferisco al primo concerto a cui ho assistito.
Sarebbe stato bello avere coscienza di ciò che stava accadendo, avere l’idea che si stava vivendo in prima persona un pezzettino di storia.
Sottolineo il 30 maggio, perché la proposta mi venne fatta all’uscita da scuola, con poche ore davanti per convincere i genitori.
Van Der Graaf in Italia nel 1972
domenica 29 maggio 2022
Nel ricordo di Jeff Buckley

sabato 28 maggio 2022
Roberto Gualdi-"Ritmologia-Il musicista e la gestione consapevole del tempo"
Roberto Gualdi
Ritmologia-Il musicista e la gestione consapevole del tempo
Volontè & Co
Con molto piacere mi appresto a
commentare un libro molto particolare, quello di Roberto
Gualdi, intitolato “Ritmologia-Il
musicista e la gestione consapevole del tempo”.
Gualdi è mio concittadino ed è stato
quindi grande il piacere trovato nel chiacchierare con lui nel corso della
presentazione alla Ubik di Savona.
Ma vorrei concentrarmi maggiormente sul contenuto e fornire qualche chiarimento per il lettore curioso.
Devo dire che, nonostante avessi
conosciuto Roberto in tempi lontanissimi, mi ero perso l’intensità del suo
percorso, sino a quando l’ho scoperto parte della PFM, ovvero una delle band
dedita alla mia musica di riferimento, l’amato (per qualcuno odiato) prog.
In realtà i suoi oltre quarant’anni
di carriera gli hanno permesso di calcare palchi di ogni genere ed importanza,
ed il suo nome è abbinabile al gotha della musica italiana e non, fatto
ragguardevole se si pensa alle difficoltà che ogni musicista incontra quando decide
di perseguire i suoi sogni e la sua passione, perché è chiaro a tutti come
certe attività legate alla proposizione di progetti sonori, qualunque siano gli
strumenti di riferimento, diventino nell’immagine comune corollario ad un’una
attività principale, ed è famoso - e certificato - il dialogo seguente: “Ma tu che mestiere
fai?”, “Il musicista…”. “Ok, ma per vivere cosa fai?”.
In tutto questo non c’entrano nulla
le skills specifiche, l’attitudine verso l’impegno costante, lo studio ecc…, il
siparietto appena descritto mette sullo stesso piano tutti… i comuni mortali.
E poi ci sono quelli che arrivano, come Roberto, esempio da seguire per giovani e meno giovani, che oltre a tutte le sue positività avrà avuto la giusta sliding door, perché alla fine, come qualcuno ha scritto, “Il destino ha strade che non si possono cambiare…”.
Un esempio da seguire dicevo, e conscio del fatto che le esperienze vanno condivise - e chi meglio di un musicista può descrivere il rapporto osmotico con il proprio pubblico! - Gualdi ha deciso di mettere nero su bianco la sua esperienza, e ha confezionato una sorta di manuale che proverò a sviscerare.
Non avevo idea del contenuto, pensavo
ad un primo bilancio di vita, a qualcosa di esclusivamente discorsivo, e ho
trovato invece una metodologia, una serie di indicazioni, non solo prettamente
tecniche - che comunque saranno manna piovuta dal cielo per tutti i batteristi/percussionisti
-, ma un contenitore di tipo olistico che tocca svariati argomenti utili agli
addetti ai lavori.
Dopo questa premessa verrà da chiedersi
a chi è rivolto il progetto, idealizzando magari un contenitore indirizzato
alla nicchia di seguaci dello strumento.
Sbagliato.
Sono dentro, da sempre, alle cose
della musica, ma non tanto da poter dare giudizi legati ai dettagli specifici. È
un po' come quando si parla con un musicista alla fine della sua performance - argomento
peraltro trattato nel libro -: difficile trovarlo felice di sé o della band, ci
sono sempre aspetti negativi di cui il pubblico non si è accorto, e anche chi
ha captato l’eventuale errore nemmeno lo considera perché lo scopo di un live
va oltre la perfezione esecutiva.
Pertanto, oltre agli addetti alle bacchette/casse/timpani, ogni tipo di musicista troverà utili e interessanti i consigli che Gualdi regala in ogni capitolo. Dirò di più, per un lettore lontano dall’argomento “musica”, ma curioso e scevro da preconcetti, la lettura potrebbe diventare una gradevole scoperta e pura didattica di vita, con la proposizione di concetti che superano l’idea tradizionale di musica e sua applicazione.
Il libro si fa aiutare dalla
tecnologia esistente, nel senso che nella pima pagina esistono indicazioni per
poter accedere ad un portale che, dopo rapida e gratuita registrazione,
permetterà di visionare 30 brevi video (tra i 2 e i 3 minuti) nei quali Roberto
fornisce esempio diretto da collegare alla parte scritta.
Sono 19 i capitoli suddivisi concettualmente nei seguenti macro-argomenti:
TECNICA-FOLOSOFIA-STRATEGIE-ROLASSAMENTO-CONCETRAZIONE
Partiamo dalla prefazione nobile,
quella di Gavin Harrison, genio della batteria, tra Porcupine Tree, King
Crimson e Pineapple Thief.
Harrison è punto di riferimento
dichiarato per Gualdi e lo scritto introduttivo appare come qualcosa di
sentito, e non un atto dovuto e legato a relazioni durature nel tempo.
Ma sono molte altre le testimonianze:
Chistian Meyer, Massimo Varini, Paolo Costa, Paola Folli e Corrado Bertonazzi.
Sono utili alla comprensione le
citazioni nobili che l’autore utilizza all’inizio di ogni capitolo, giacché
esistono menti illuminate che riescono a condensare in poche parole concetti
che pesano come macigni e che magari albergano da sempre nella testa di ogni singola
persona, senza avere mai uno sfogo, sino a quando nasce l’incontro fortunato,
quello che probabilmente ha permesso a Gualdi di abbinare i vari assiomi alla
sua esperienza.
E così troviamo il pensiero di Nikola Tesla accostato a quello di Platone sino ad arrivare a Sant’Agostino (un punto di riferimento per chi studia musica), a Mozart, Hugo, Eraclito, Goethe, tanto per citarne alcuni.
Uno dei concetti che si ripetono come
un mantra nel corso della lettura riguarda l’apertura dell’apprendimento a
tutti i musicisti comuni, ovvero quelli non baciati dal Dio della musica, che
probabilmente diventeranno nel tempo più costanti e “vincenti”, perché lo
studio e l’impegno avrà creato in loro un consolidamento che spesso non arriva
in chi è dotato di genio e sregolatezza. Insomma, il libro nasce anche per ostacolare
il vecchio pensiero che “Il senso del ritmo o lo hai o non lo hai”,
concetto frustrante per ogni giovane che potrebbe avvertire immediatamente che
il raggiungimento del suo sogno si trasforma da subito in utopia.
Roberto Gualdi ci racconta e fornisce prove di tale falsità!
Il ritmo fa parte del nostro
quotidiano, anche se non abbiamo dimestichezza con “il tamburo”. Difficile
pensare alla poliritmia applicata alla vita di ogni giorno e al normale suo incedere,
eppure il nostro corpo ne è un esempio, e la presenza per qualche istante in
una camera anecoica diventerebbe esperienza icastica in tal senso.
Ci aiuta nella comprensione la differenziazione
universale tra “sentire ed ascoltare”, utilizzando in toto il nostro corpo per
percepire le vibrazioni che ci circondano e ci stimolano, facendo maturare un
ascolto consapevole che Roberto propone attraverso una metafora molto efficace
relativa al mare - e forse il luogo di nascita contribuisce ad elaborare il
pensiero! -, un mare che può essere contemplato in tutto il suo fascino, oppure
utilizzato nuotando in superficie o ancora meglio approfondito attraverso l’immersione.
Così può essere la relazione con la musica.
In questo senso sarà interessante imparare
come l’apprendimento musicale possa essere interpretato in modo tridimensionale,
con una crescita verticale (lo studio della storia), una orizzontale (la
conoscenza della suddivisione geografica e delle differenti culture) e la misura
della profondità, spesso trascurata ma capace di dare un senso a tutto quanto
si suona.
Gualdi sottolinea come non esista controllo sulla genetica (l’orecchio assoluto è un dono per pochi!), e una volta preso atto dei limiti personali le contromisure passano attraverso le TRE P (pratica, perseveranza e pazienza).
Un’altra condizione su cui non è possibile intervenire è il tipo di cultura, frutto esclusivo del luogo in cui si nasce e quindi indipendente dalla nostra volontà, ma determinante per ciò che diventeremo durante il nostro percorso.
Abbiamo invece il controllo su un ascolto
senza pregiudizi, che allargherà gli orizzonti personali e che porterà il
musicista “ortodosso” a dividere il tutto in tre categorie, che mettono in
discussione le grandi liti da bar provocate dagli amori per un preciso genere,
creando spesso barriere invalicabili tra epoche distanti tra loro: la musica
che piace (quella più facile da seguire per chi ne è appassionato), quella più
interessante per uno strumentista e quella che non si conosce e che quindi deve
diventare oggetto di studio.
In questo panorama Gualdi ci descrive una sorta di atlante, suddividendo il mondo nei continenti conosciuti, legati tra loro da un comune denominatore chiamato “ritmo”.
Ma quali sono i requisiti minimi
necessari per un batterista, o meglio, quale deve essere il suo obiettivo?
Un assoluto controllo tecnico, ovvero
il possedere talmente tanta tecnica da non pensare ad essa mentre si suona.
Una conoscenza del repertorio, perché anche quando si è molto bravi ci si prepara studiando.
Per ogni musicista esistono dei condizionamenti
psicologici, come l’ansia da prestazione, la difficoltà di concentrazione, il
senso di inadeguatezza, la paura del giudizio di terzi, la sensazione di non
essere all’altezza. Con tutto questo occorre convivere, anche se nel libro
vengono sottolineate possibili azioni correttive. Ad esempio, attraverso la
meditazione e lo sviluppo della concentrazione per mezzo dello Yoga, a cui viene
dedicato un capitolo intero e che appare pratica imprescindibile per Gualdi,
alla ricerca di quella condizione in cui emerge l’armonia nascosta, quella
che vale più di quella apparente (Eraclito).
Non sarà lo Yoga a far migliorare la prestazione e il livello di performance, ma la sua pratica potrà aiutare per far sì che non ci esprima al di sotto del top, diverso per ogni strumentista.
Pratica fino al punto in cui la mente
dimentica e il corpo ricorda
(Bruce Lee)
Gualdi ci racconta come il nostro
corpo abbia bisogno di una sorta di manutenzione, esattamente come una
qualsiasi macchina, cercando di bilanciare le tre tensioni, muscolari, mentali
ed emozionali.
Ma come si superano ansie, paure, magari la noia legata ad un genere che proprio non va giù? Il libro, passando anche attraverso il buddhismo, fornisce un punto di vista esaustivo.
Una parte importante che troviamo verso la fine è denominata “Conversazioni”, una serie di interviste con persone significative nel percorso di vita dell’autore, incontri con uomini e donne che hanno avuto ruolo formativo, non dimenticando mai che “Niente è veramente nostro finché non lo condividiamo” (C.S. Lewis). Si parte da Bruno Genero e si arriva a Elio Marchesini, Stefano Bagnoli, Omar Cecchi per terminare con la maestra di Yoga Gabriella Cella.
Tutti i concetti presentati hanno la finalità di indicare una strada per poter “vivere la musica”, quella con la “M” maiuscola, non solo quella realizzata dai grandi di ogni tempo ma, considerando la sua peculiarità di saper unire e comunicare attraverso l’azione quotidiana del semplice appassionato - ascoltatore o strumentista - le indicazioni fornite dovrebbero/potrebbero indicare quali siano le giuste porte da aprire, attraverso il seme della curiosità.
La lettura mi ha portato a fantasticare, a confrontare ere e musicisti lontani tra loro per mero elemento anagrafico, immaginando l’evoluzione di un ruolo che vedeva generalmente il batterista relegato a status di comprimario, superato nel tempo dall’evoluzione naturale delle cose, e pensare ai “tempi portati” nel beat, in relazione, ad esempio, all’uso dei "tempi dispari", induce a immaginare mondi distanti anni luce, che Roberto Gualdi, con questo progetto, contribuisce a chiarire con il suo esempio, una didattica che non si ritrova soltanto nella capacità di essere un bravo batterista, ma si allarga ad aspetti comportamentali ed etici che riguardano ogni aspetto della vita.
Conclude l’autore…
“La musica è magia quando viene
fatta insieme agli altri e questo e questo è anche ciò che la accomuna alla
vita. La bellezza della condivisione e del viaggio con una meta comune.
Per quanto mi riguarda la scoperta della Musica mi ha definito, mi ha indicato una via da percorrere, mi ha fatto capire che persona volevo essere e mi ha stimolato una crescita continua, come musicista ma ancora di più come essere umano”.
Grande lavoro che resterà nel tempo!
venerdì 27 maggio 2022
Ricordando Gregg Allman nel giorno della sua dipartita.
The Allman Brothers Band: tra musica e dolore
Il 27 maggio del 2017 ci
lasciava Gregg Allman, e almeno il
nome dovrebbe essere familiare a tutti quelli che bazzicano il mondo del rock, seppur
episodicamente.
Chi conosce un po’ della sua
vita non si sarà meravigliato più di tanto, perché i percorsi carichi di
eccessi hanno una conseguenza logica, e poi di Keith Richards ce n’è uno solo
al mondo!
Vale la pena tracciare un minimo
di storia, un iter che ha accomunato nella disgrazia numerosi membri della The Allman Brothers Band.
Pare che la fiammella si sia
accesa nel garage del batterista Butch
Trucks - era il 1969 - organizzatore di una jam session che prevedeva la
presenza di Duane Allman (voce
chitarra), Berry Oakley (basso), Dickey Betts (chitarra) e Jai Johanson (batteria/percussioni).
L’entusiasmante performance fece sì che i musicisti si trasformassero
repentinamente in band. Il tassello mancante, Gregg, fratello di Duane, si unì subito dopo, con il ruolo di
cantante e tastierista.
E nasce la leggenda, una delle
band più influenti del rock americano, capace di scavalcare l’approccio al
blues dei chitarristi inglesi (Page, Clapton, Beck…), favorendo una strategia
jazzistica basata sull’improvvisazione e su una rivoluzionaria sezione ritmica.
Definire la Allman Brothers Band una semplice band southern rock appare riduttivo, perchè la loro risonanza nella
musica rock è pari a quella esercitata dai Cream, da Jimi Hendrix e dai
Grateful Dead, miti che si mantengono freschi nel tempo.
Occorre dire che il “rock
sudista” americano prese corpo a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, caratterizzato
da un colore locale molto radicato, accompagnato spesso da pennellate di
tragedia. Gli Allman furono i primi a delineare i contorni di quell’ideologia,
tra musica e comportamenti: l’attaccamento ai valori della propria terra, il
gusto per le lunghe improvvisazioni e la vita da hippie. Un’intera armata di southern rockers prese d’assalto il rock
americano sventolando orgogliosamente la bandiera della Confederazione e conquistando
l’attenzione generale del Paese, tanto da indurre un politico potente come
Jimmy Carter a interessarsi di loro e a cercarne in qualche modo l’appoggio
quando tentò la scalata alla Casa Bianca.
Ma la vita degli Allman fu
travagliata e funestata da disgrazie rilevanti, e a poco più di due anni
dall’incontro decisivo Duane perse la vita, a soli 24 anni: è il 29 ottobre del
1971 quando il chitarrista di Nasville muore in sella alla sua Harley Davidson,
davanti agli occhi della fidanzata che lo segue in auto, sulla via di casa.
E la maledizione che pende sui
musicisti della TABB colpisce ancora un anno dopo, quando Berry Oakley trova la
stessa sorte e con modalità molto simili: anche lui in moto, a pochi isolati di
distanza dall’incidente precedente, e alla stessa età!
Arriviamo ai giorni nostri,
l’anno 2017, che ha visto la dipartita di Butch Trucks - a gennaio -, suicida al
cospetto della moglie, mentre per Gregg si parla di attacco di cuore, summa di
una serie infinita di problemi di salute accumulati nel tempo: avevano entrambi
sessantanove anni.
A tenere duro Dickey
Betts e Jai Johanson.
Nel corso di cinquant’anni si
sono succedute reunion e modifiche alla line up, ma ciò che resta è il marchio
indelebile di una formazione che ha disegnato una strada musicale precisa, un
blues rock dalle venature psichedeliche che poteva contare su di un formidabile
tandem chitarristico e sulla possenza della doppia sezione ritmica, mentre Greg
Allman, con la sua caldissima voce da soul man nero e il suo Hammond, sapeva
colorare il tutto con intese tinte gospel.
E in quei giorni Macon, la città
della Georgia in cui andarono tutti a stabilirsi in una specie di comune
artistica, diventò il centro di una nuova scena rock dall’incredibile vitalità
e creatività, superando nel ruolo perfino San Francisco.
Il funghetto magico della
psylocibe, scelto come logo della band, divenne il simbolo di uno stile di vita
comunitario e hippie, pieno di utopie e di “esplorazioni” ad ampio raggio.
Tanti tra i protagonisti di quel
movimento se ne sono andati, come logica di vita vuole, ma resta ciò che molti
di loro hanno creato, incancellabile, godibile, una musica di cui rimangono pregne
quelle terre, arrivata a noi in tempi lontani, quella che i più oculati e
attenti hanno afferrato… senza lasciarla più.
giovedì 26 maggio 2022
Ci ha lasciato Alan White
Alan White è morto all'età di 72 anni
Il batterista Alan White è morto all'età di 72 anni: la notizia è stata confermata dalla moglie Gigi che ha dichiarato sulla sua pagina facebook: "Alan, il nostro amato marito, padre e nonno, è morto all'età di 72 anni nella sua casa di Seattle il 26 maggio 2022, dopo una breve malattia. Nel corso della sua vita e della sua carriera di sei decenni, Alan è stato molte cose per molte persone: una rock star certificata per i fan di tutto il mondo; compagno di band di pochi eletti, gentiluomo e amico di tutti coloro che lo hanno incontrato”.
Alan nacque a Pelton, nella contea di Durham, in Inghilterra, il 14 giugno 1949. Prese lezioni di pianoforte all'età di sei anni mentre iniziò a suonare la batteria a dodici anni, esibendosi in pubblico a partire dai tredici anni.
Nel corso degli anni ’60 affinò il suo “mestiere” suonando con molteplici band, tra cui The Downbeats, The Gamblers, Billy Fury, Alan Price Big Band, Bell and Arc, Terry Reid, Happy Magazine (in seguito chiamato Griffin) e Balls con Trevor Burton (The Move) e Denny Laine (Wings).
Nel 1968, Alan si unì ai Ginger Baker's Airforce, un nuovo gruppo che fu messo insieme dall'ex batterista dei Cream e da altri noti musicisti della scena musicale inglese, tra cui Steve Winwood, ex Traffic.
Nel 1969 ricevette una richiesta che inizialmente pensò potesse essere uno scherzo, perché John Lennon gli chiese di unirsi alla Plastic Ono Band. Il giorno dopo Alan si ritrovò a imparare canzoni nel retro di un aereo di linea diretto a Toronto con Lennon, Yoko Ono, Eric Clapton e Klaus Voormann. L'album che seguì, “Live Peace In Toronto”, vendette milioni di copie, raggiungendo la posizione numero 10 nelle classifiche.
La collaborazione di Alan con Lennon continuò e assieme registrarono singoli come “Instant Karma” e il successivo album di riferimento “Imagine”, con Alan che suonava la batteria in “Jealous Guy” e “How Do You Sleep at Night”. Il lavoro con Lennon diventò per Alan il passepartout per arrivare a George Harrison, che gli chiese di esibirsi nell'album “All Things Must Pass”, incluso il singolo, “My Sweet Lord” pubblicato nel 1970. Successivamente lavorò con molti artisti per l'etichetta Apple, tra cui Billy Preston, Rosetta Hightower e Doris Troy.
Il 27 luglio
1972 si unì agli Yes, avendo a disposizione tre soli giorni per imparare il
loro repertorio e partì per un tour negli Stati Uniti dove suonò davanti a
15.000 fan a Dallas, il 30 luglio.
Non si separò più dagli YES, e con la scomparsa del membro fondatore Chris Squire, nel giugno 2015, Alan diventò il membro della band più longevo.
All'inizio di questa settimana gli Yes hanno annunciato che White non avrebbe partecipato al prossimo 50th Anniversary Close To The Edge UK Tour della band a causa di problemi di salute.
La band dedicherà ad Alan il 50th Anniversary Close to the Edge UK Tour previsto per giugno.
Tra le tante testimonianze disponibili
in rete scelgo uno stralcio del concerto che vidi il 12 luglio del 2003, evento
che cambiò significativamente la mia vita… ma questa è un’altra storia!
mercoledì 25 maggio 2022
Paul McCartney nella Piazza Rossa, 24 Maggio 2003

