Negli anni ’50 il famoso cantante
folk Pete Seegerscrisse
il brano "Turn" Turn" Turn!"(sottotitolo: to Everything There Is a Season),
canzone che fu incisa per la prima volta nel 1962, inclusa nell’album “The Bitter and The Sweet”, pubblicato dalla Columbia Records.
Pete Seeger
Sono tante le esibizioni di spessore
che riguardano il brano, ma le più ricordate riguardano Judy Collins, Nina Simone e The Seekers. Ulteriori versioni sono state incise da numerosi altri
artisti fra cui, negli anni duemila ed in chiave new Age, dalla christian rock
band britannica Eden's Bridge.
Ma il successo arrivò in un altro
modo.
Il brano, il cui testo è interamente
adattato - eccetto il verso finale - dal testo biblico del Qoelet (o Libro
dell'Ecclesiaste), è stato portato al successo nel 1965 dai The Byrds,
raggiungendo la prima posizione nella Billboard Hot 100 per tre settimane e
l'ottava in Germania. La canzone diventò anche la title track per l'album
omonimo “Turn! Turn! Turn!”.
Inserita nella versione dei Byrds
all'interno della colonna sonora del film di Tom Hanks “Forrest Gump”, è
ricordata per il suo messaggio pacifista.
Una lirica importante dunque… cerchiamo di saperne di più…
Il testo e il sottotitolo del brano
si rifanno in maniera aderente ai versetti contenuti in Ecclesiaste 3,1-8
(versione Bibbia di Re Giacomo), uno dei libri sapienziali maggiormente
conosciuti. In particolare, i versi biblici - qui intercalati dal controcanto Turn,
Turn, Turn espresso in incipit di canzone - sottolineano come vi siano un
tempo ed un luogo per tutte le cose e per ogni sentimento: uno spazio ed un
tempo per il ridere ed uno che lasci luogo al dolore, uno per curare ed uno per
uccidere, un tempo per raccogliere ed uno per gettare via, un tempo per la
guerra e un tempo per la pace, e così via.
La profondità dei versi si presta a
una miriade di interpretazioni, ma l'accezione principale che viene attribuita
a questa canzone è quella del messaggio pacifista, sottolineato in particolare
dal verso finale - l'unico attribuibile al compositore Seeger - che recita: a
time for peace, I swear it's not too late (un tempo per la pace, io giuro
che non è troppo tardi).
"Turn! Turn! Turn!" è uno dei pochi
brani che si basano in maniera pressoché integrale su ampie citazioni tratte da
scritture sacre, ed è sotto questo aspetto accostabile a motivi - spesso
ripresi da gruppi musicali di genere christian rock - come “Rivers of Babylon” del gruppo The Melodians, “The Lord's Prayer” di Sister Janet Mead
e “40” degli U2.
Il titolo ha dato spunto anche alla
pubblicazione di un libro illustrato con il testo dell'Ecclesiaste edito da
Simon & Schuster nel settembre 2003 con un CD contenente le registrazioni
sia di Pete Seeger che dei Byrds. Wendy Anderson Halperin ha creato una serie
di illustrazioni dettagliate per ogni serie di contrapposizioni indicate nel
testo.
Il manoscritto della canzone figura
fra i testi donati alla New York University dal Partito comunista degli Stati
Uniti d'America nel marzo 2007.
Nina Simone
TESTO E TRADUZIONE
To
every thing there is a season, and a time to every purpose under the heaven:
A
time to be born, and a time to die; a time to plant, and a time to pluck up
that which is planted.
A
time to kill, and a time to heal; a time to break down, and a time to build up.
A
time to weep, and a time to laugh; a time to mourn, and a time to dance.
A
time to cast away stones, and a time to gather stones together; a time to
embrace, and a time to refrain from embracing.
A
time to get, and a time to lose; a time to keep, and a time to cast away.
A
time to rend, and a time to sew; a time to keep silence, and a time to speak.
A
time to love, and a time to hate, a time of war, and a time of peace.
The Seekers
Per ogni cosa c'è il suo momento, il
suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
C'è un tempo per nascere e un tempo
per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
Un tempo per uccidere e un tempo per
guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per
ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo
per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli
abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per
perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un tempo
per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per
odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace.
Eden's Bridge
Il testo è quindi un’estrapolazione da
ciò che già esisteva, ma deve far riflettere il massiccio utilizzo di tal
messaggio oltreoceano, in tempi in cui in Italia, ad esempio, imperava la “leggerezza”
della musica.
Non solo “baby baby… I love you… you
are beautiful” nelle canzoni degli anni Sessanta, ma anche una necessità di “pensare
e far pensare”.
Proviamo a credere a Pete quando
diceva che esiste un tempo per la pace, non è troppo tardi.
La versione che preferisco, quella
che ascolto da oltre cinquant’anni è quella dei The Byrds.
Il nuovo album di Fabrizio Poggi,
“Basement Blues”, il suo
venticinquesimo, stimola la fantasia e induce al riannodare il filo della
storia.
Parto dall’antica fotografia iniziale
scattata dalla moglie Angelina molti anni fa, che oltre alla copertina del
disco propone in sottofondo un’abitazione “nota”, alle spalle di un giovane
Fabrizio, che racconta:
“Questa foto fu scattata da
Angelina vicino a Woodstock, New York, e quella che è dietro di me è la famosa
Casa Rosa, ovvero The Big Pink dove Bob Dylan e The Band registrarono i famosi
“Basement Tapes”. Il giorno prima eravamo stati in studio a registrare proprio
con Garth Hudson di The Band. Non fu facile trovare questa casa
sperduta in mezzo ai boschi. A quel tempo non c'era il navigatore. Angelina si
era alzata presto ed era andata nell'unico negozio di Woodstock che ricordava
il famoso festival dei tre giorni di amore, pace e musica. E lì il
proprietario, uno degli ultimi hippies rimasti, le disegnò la cartina su un
sacchetto di carta con tutte le indicazioni. E fu così che arrivammo in questo
luogo sacro. Ci fermammo a guardare la casa in adorazione, qualche foto e
Angelina raccolse alcune foglie in ricordo di quel posto. Eravamo alle lacrime. Prima o poi quella casa mitica doveva
far parte di un mio album. Così è stato dopo sedici anni con “Basement Blues”.
Ancora un piccolo tributo alla storia, Fabrizio mi perdonerà…
Big
Pink è una casa a West Saugerties, New York, che è stata la location in cui Bob
Dylan e The Band registrarono “The Basement Tapes”, e The Band scrisse l’album
“Music from Big Pink”.
La casa era appena stata costruita
quando Rick Danko, allora parte della band di supporto di Bob Dylan, la trovò
in affitto, nel 1967, dopo la cancellazione del tour di Dylan a causa del suo
incidente motociclistico del 1966. Dylan viveva all'epoca nella vicina
Woodstock. Danko si trasferì nella casa insieme ai compagni di band Garth
Hudson e Richard Manuel nel febbraio 1967. La casa divenne nota localmente come
"Big Pink" per il suo rivestimento rosa.
Tutto ciò sarebbe fonte di
ispirazione per chiunque, e se si ha la fortuna di essere musicista e di
conoscere l’America dall’interno, la trasposizione in musica diventa una
naturale conseguenza.
Probabilmente l’idea frullava nella
testa di Fabrizio da molto tempo, ma occorre sempre l’accensione di una
scintilla per innescare la combustione, e questo attimo magico arriva quando
Angelina, in occasione di San Valentino, regala a Fabrizio una copia in miniatura, ma perfetta
in ogni particolare, di The Big Pink.
Il cassetto delle meraviglie si apre
- ideale e reale - e il risultato è una rivisitazione dei grandi classici del
blues, spirituals e canzoni originali di Fabrizio ormai quasi introvabili.
E per chi non fosse avvezzo alle
storie di blues, cliccare sul link a seguire per arrivare ad una sintetica
biografia dell’autore:
Ma veniamo alla musica e ad una
descrizione di dettaglio: impossibile farne a meno in questa occasione.
Si parte con “Precious Lord”,
in origine un gospel il cui testo fu scritto da Thomas A. Dorsey, che adattò
anche la melodia. È tratto da “Il soffio della libertà”, del 2015.
La voce e l’armonica di Poggi trovano
appoggio nella chitarra di Enrico Polverari, e il mix porta alla creazione di
un’atmosfera aulica che apre la via al susseguirsi delle emozioni.
A seguire “Little Red Rooster”,
uno standard blues accreditato all'arrangiatore e compositore Willie Dixon, in
questo caso proposto live con Guy Davis (voce e chitarra) nel corso di una
performance americana del 2014.
Sembra di esserci "in front of the
stage": blues ruspante, che trova efficacia nella semplicità - ma il blues
non è mai tecnicamente complicato - e che conduce in un mondo magico, seppure
condito, almeno in origine, da dolori e sofferenze.
“Midnigt Train” è tratto da
prove in studio del 2010, contenuto nell’album “Fabrizio Poggi & Chicken
Mambo Live in Texas” del 2011.
Oltre a Poggi e ai suoi “strumenti”
troviamo Roberto Re al basso, Stefano Bertolotti alla batteria e French Scala
alla chitarra.
La presenza di una band dalla
costituzione più completa apre al ritmo e al rock blues, un altro versante che
non può mancare in un repertorio così specifico.
Un bel riesumare, con tanto
virtuosismo al servizio del blues.
“John The Revaltor” è una
canzone tradizionale gospel blues contenuta nell’album “Mercy”, del
2008. In questa outtake Poggi (voce e
armonica) è accompagnato da Garth Hudson all’organo, French Scala alla
chitarra, Maurizio Fassino alla chitarra, Francesco Garolfi al mandolino, Bobby
J. Sacchi alla fisarmonica, Maud Hudson ai cori, Roberto Re al basso e Stefano
Bertolotti alla batteria.
Coinvolgente blues, con un tono un
po’ “Doors” e spazio all’improvvisazione.
E siamo dentro allo spirito del
disco!
“Your Light” è una creazione
di Fabrizio Poggi e Ronnie Earl, con il chitarrista blues presente in questa
traccia del 2014, tratta da “Spaghetti Juke Joint”.
Abbandoniamo per un attimo le
soluzioni ritmiche e corpose per un duetto intimistico, una cosa a due tra
Fabrizio e Ronnie, un quadretto a tratti bucolico che stimola pensieri e
memorie, anche solo per induzione e condizionamenti esterni: impossibile non
accomunare un tratto come questo a qualche immagine, odore, sapore!
E arriviamo a “Black Coffee”,
di Guy Davis (voce e chitarra), che accompagna Poggi nel corso di questo live
In Usa del 2014.
Altro duetto ruvido, essenziale, che
tocca il cuore, se si è dotati di un po' di sensibilità!
Voce, chitarra e armonica: l’essenza
del blues.
“The Soul Of A Man” è tratto
ancora da “Il soffio della libertà”, del 2015, e l’autore è Blind Willie Johnson. Affianco all’armonica e al cantato di Poggi troviamo la chitarra di
Enrico Polverari.
Da inquadrare in un contesto più
folk, era in origine un gospel blues nato negli anni ’30, scritto da Johnson ai
tempi della depressione, quando le sue canzoni a sfondo religioso attecchivano
nella popolazione che aveva la necessità di aggrapparsi alla fede.
La versione di Poggi mantiene
inalterato il senso di sacralità che era DNA del lavoro di “Willie” e impone un
ascolto in totale concentrazione.
L’outtake “Blues For Charlie”,
canzone scritta da Poggi, è tratto dall’album “Harpway 61”, del 2012,
progetto in cui l’autore omaggiava tutti quei musicisti che hanno reso grande
l’armonica blues, i maestri che sono stati la sua fonte di ispirazione e
d’insegnamento, in questo caso Charlie Musselwhite, musicista, armonicista
blues statunitense vivente.
Uno strumentale dove, ovviamente,
l’armonica di Poggi è in piena evidenza mentre sullo sfondo una vera band
accompagna una sorta di percorso “da film western”.
Oltre a Fabrizio Poggi troviamo
Enrico Polverari alla chitarra, Tino Cappelletti al basso, Bobby J. Sacchi alla
fisarmonica, Lorenzo Bovo all’organo e Stefano Resca alla batteria.
Il blues e l’armonica a bocca,
un’accoppiata imprescindibile!
“Up Above My Head” (tratta da “Spaghetti
Juke Joint”, 2014) è una canzone gospel di origine tradizionale, risalente
agli anni Quaranta, conosciuta maggiormente nella versione di Rosetta Tharpe
(consigliabile ascoltarla/vederla nel video disponibile in rete, in bianco e
nero, con la sua Gibson SG bianca).
La forma scelta da Fabrizio è al
contrario intimistica, solo lui, la sua voce, la sua armonica e la delicatezza
di tocco chitarristico di Ronnie Earl.
Altro omaggio allo strumento - e allo
strumentista - con “Boogie For John Lee Hooker” (da “Harpway 61”,
2012), brano di Poggi performato con Enrico Polverari alla chitarra, Tino
Cappelletti al basso, Lorenzo Bovo all’organo e Stefano Resca alla batteria.
Quattro minuti e mezzo di dinamicità,
quasi una jam tra addetti ai lavori e c’è da immaginarsi l’atmosfera magica e
liberatoria del momento creativo.
Con “See That My Grave is Kept Clean”, torniamo indietro di un secolo, alla musica di Blind Lemon Jefferson, “Padre del Texas Blues", uno dei bluesman di maggior successo
commerciale degli anni Venti, annoverato tra i più importanti ed influenti
bluesman della storia.
L’album di riferimento è “Juba
Dance”, del 2013”, realizzato in collaborazione con Guy Davis, che nell’occasione
si propone come vocalist, alla chitarra e al banjo, con Fabrizio all’armonica.
Perfetta colonna sonora da film… non
è questo l’intento, ovviamente, ma la miscela che possiamo trovare in certa
musica americana abbatte confini e barriere di ogni tipo.
In ogni caso piacevolissima versione.
Nuova canzone tratta da “Il soffio
della libertà”; “I’m On The Road Again” (2015), di Fabrizio Poggi,
propone Enrico Polverari alla chitarra, Stefano Spina basso e organo, mentre la
voce e l’armonica hanno un solo padrone.
Un ballad di cinque minuti, un cielo
stellato, la polvere che si alimenta nella strada, una vita che continua senza
sosta, a volte senza meta prefissata, ma con la certezza che la musica potrà
alleviare il viaggio, che certamente sarà carico di difficoltà e asperità. Sognare
ad occhi aperti aiuterà a superare ogni momento complicato.
In chiusura la bonus track “Hole In Your Soul” (presente in "Live in Texas") di Poggi, accompagnato nell’esecuzione da Enrico Polverari,
brano scritto dopo aver letto sul muro di un vecchio negozio di dischi del
Mississipi "Chi non ama il blues ha un buco nell'anima".
La perfetta fermatura del cerchio per
un album che sa di riassunto, di bignami del blues per un neofita, di goduria
assoluta per chi già avvezzo al genere.
So per esperienza personale che una
sola immagine, magari arrivata casualmente davanti ai nostri occhi, è in grado
di smuovere pensieri latenti, provocando reazioni conseguenti. Ed è quello che è
capitato a Fabrizio Poggi osservando la Big Pink davanti alla quale Angelina lo
immortalò anni fa.
Essere un artista facilita le cose,
perché i nuovi pensieri diventano progetti che, molte volte, si trasformano in
concretezza.
Questo progetto di Fabrizio Poggi
va fruito in modo completo, magari ripassando prima gli elementi basici e i
concetti legati al blues.
Ma anche senza didattica il solo
ascolto dovrebbe toccare, penetrare e far sì che il credo dell’autore arrivi al
cuore di chi usufruisce, magari casualmente, della sua musica.
La sintesi dell’album la si può
estrapolare da alcuni concetti contenuti nel comunicato ufficiale: “Disco composto
da outtakes e rarità, che paga un doveroso tributo ai grandi del blues ea The
Band, il cui film “The Last Waltz” ha contribuito a far nascere dentro Fabrizio
la passione per il blues e per la musica della straordinaria band canadese”.
Da parte mia ho provato ad inserire
gli ascolti - non solo di Poggi - là dove possibile, tanto per aiutare nella
diffusione di una musica che mi accompagna da sempre (cliccare sui titoli in blue).
Prodotto da Fabrizio Poggi con Enrico Polverari, Stefano
Spina, Angelina Megassini
Becca Stevensnasce il 14
giugno 1984. Cantante, compositrice e chitarrista, attinge a elementi di jazz,
pop da camera, indie rock e folk.
Un po’ di storia…
Nasce a
Winston-Salem, nella Carolina del Nord, è la più giovane di tre figli di
William Stevens, un compositore noto per la musica corale sacra, e Carolyn
Dorff, una cantante formata in opera e teatro musicale.
Durante la
sua infanzia si è esibita e ha fatto tournée regionali con suo fratello, sua
sorella e i suoi genitori nel gruppo musicale per bambini della sua famiglia, i
Tune Mammals. Quando aveva dieci anni, lei e sua madre recitarono in un tour
nazionale di un anno del musical “The Secret Garden”.
Dopo la
separazione dei suoi genitori ha frequentato la Peddie School nel New Jersey per
il 9 ° e 10 ° grado. Ha terminato il liceo alla North Carolina School of the
Arts, dove ha studiato chitarra classica; in questo periodo ha anche cantato
nella band jazz rock di suo fratello, Gomachi. Dopo il liceo ha trascorso un
anno lavorando con Gomachi prima di frequentare il college alla New School for
Jazz and Contemporary Music di New York City, dove ha conseguito una laurea in
jazz vocale e composizione.
La Carriera…
Stevens ha
pubblicato cinque album come leader: “Tea Bye Sea” (2008), “Weightless” (2011),
“Perfect Animal” (2015), “Regina” (2017) e “Wonderbloom” (2020). Ha lavorato
con Jacob Collier, Laura Mvula, Billy Childs, David Crosby, Taylor Eigsti, Timo
Andres, Brad Mehldau, Travis Sullivan's Bjorkestra, Michael McDonald e Snarky
Puppy. È stata membro della band Tillery con Gretchen Parlato e Rebecca Martin.
Una traccia
dell'album “Lighthouse”, prodotto da Michael League, di David Crosby, vede
Crosby, League, Stevens e Michelle Willis (con Bill Laurance al piano) eseguire
"By the Light of Common Day", una canzone scritta da Stevens e
Crosby. Il quartetto è diventato The Lighthouse Band, che si è esibito
nell'album di Crosby “Here If You Listen”.
Il cantante
jazz Kurt Elling l'ha elencata come una delle sue cinque cantanti jazz
preferite e il critico musicale Ted Gioia ha elencato i suoi album “Weightless”
(2011) e “Perfect Animal” (2015) tra i cento migliori album degli anni
corrispondenti.
L'album "Regina" (2017) di Stevens è stato prodotto da Michael League e Troy Miller e ha
ricevuto una recensione a cinque stelle dalla rivista Down Beat, che lo ha
definito "il più spettacolare degli album", mentre BBC Radio 2
ha elogiato l'album dicendo: "Liricamente, l'album è sbalorditivo".
Vita
privata…
Stevens ha
sposato Nathan Schram, il violista dell'Attacca Quartet, il 2 settembre 2017.
Stevens e Schram vivono a Brooklyn, New York City. Hanno una figlia (nata nel
2022).
Il 28 gennaio del 2005, a 60 anni, moriva Jim Capaldi, minato da uncancro allo stomaco.
Vera leggenda del rock, batterista di grande talento, fu il fondatore, assieme a Steve Winwood e al chitarrista Dave Mason dei Traffic, uno dei gruppi rock più amati tra gli anni '60 e '70.
Capaldi, a marzo 2004, era stato anche inserito nel "Rock N' Roll Hall of Fame".
Qualche nota biografica tratta dal sito Rockol
Nato il 2 agosto 1944 a Evesham, nel Worcestershire, da genitori musicisti e di origine italiana, Nicola JamesCapaldi si avvicina giovanissimo al mondo della musica acquisendo una discreta popolarità locale con gli Hellions, in cui suona la batteria accanto al chitarrista Dave Mason. Quando i due vengono ingaggiati di spalla alla cantante Tanya Day allo Star Club di Amburgo (lo stesso locale in cui si fanno le ossa i Beatles) hanno modo di fare la conoscenza di Steve Winwood, prodigioso e giovanissimo cantante e tastierista proveniente dalla vicina Birmingham e allora in forze allo Spencer Davis Group; nasce così un’amicizia da cui anni dopo scaturiranno i Traffic, formazione di importanza cruciale nella scena rock psichedelica inglese della seconda metà degli anni Sessanta. Scrivendo il testo di “Paper sun”, il primo singolo del gruppo che entra subito nella Top 5 delle classifiche inglesi, Capaldi inaugura un sodalizio compositivo con Winwood che farà epoca grazie ad album come Traffic, No Exit e John Barleycorn Must Die. Nel 1972, mentre fa ancora parte del gruppo, pubblica il primo album solista Oh How We Danced, con la collaborazione di altri membri della band e di Paul Kossof, chitarrista dei Free. Nel terzo disco, Short Cut Draw Blood, decisamente orientato verso tematiche sociali, ambientaliste e di protesta, viene inclusa una cover di “Love hurts” degli Everly Brothers che diventa un successo internazionale. Capaldi espande nel frattempo la sua cerchia di amicizie e collaborazioni musicali: nel 1973 è uno dei promotori del concerto al Rainbow di Londra che saluta il ritorno alle scene di Eric Clapton dopo un periodo di riabilitazione dalla droga; poi inizia a frequentare Bob Marley, a cui scrive il testo di una canzone (“This isreggae music”) e collabora con Carlos Santana, mentre lo stesso Clapton e George Harrison figurano come ospiti nel 1988 nell’album Some Come Running; nel frattempo, tra un disco e l’altro (e qualche hit, come “That’s love” da Fierce Heart, 1983, che riscuote successo negli Stati Uniti) si dedica con fervore alla causa ambientalista e all’assistenza dei ragazzi di strada brasiliani, obiettivo a cui la moglie (lei pure brasiliana) Aninha, sposata nel 1975, si dedica a tempo pieno; album come Let The Thunder Cry, del 1981, risentono tematicamente e musicalmente del periodo in cui la coppia risiede a Bahia, generando due figli. Nel 1993 Capaldi è invitato da Winwood a collaborare a un album che presto si trasforma in un disco dei riformati Traffic (senza Mason e Chris Wood, l’altro membro storico che nel frattempo è scomparso): ne seguono, l’anno successivo, un album, Far From Home, e un tour di grande successo negli Stati Uniti. Nello stesso periodo Capaldi scrive una ballata per gli Eagles, anch’essi rimessisi insieme da poco: il brano, intitolato “Love will keep us alive”, diventa uno dei titoli di punta dell’album che segna il ritorno sulle scene della band californiana, “Hell freezes over”. Qualche anno dopo Capaldi riallaccia anche i rapporti musicali col vecchio amico Mason, per un tour datato 1998 da cui viene ricavato anche un disco (Live – The 40,000Headmen Tour) e torna a occuparsi attivamente della sua carriera solista: nel 2001, con molti nomi illustri al suo fianco (Paul Weller, Gary Moore, Ian Paice, Winwood e ancora Harrison) pubblica Living On TheOutside, seguito nel 2004 da Poor Boy Blue. Nuovi progetti di reunion dei Traffic vengono stroncati brutalmente dal peggiorare di un tumore allo stomaco che stronca il batterista il 28 gennaio del 2005. Circa due anni dopo, il 21 gennaio 2007, Winwood, Weller, Moore e altri amici e collaboratori dello scomparso musicista (tra cui Pete Townshend, Joe Walsh, Yusuf Islam, Bill Wyman e l’ex tastierista dei Deep Purple Jon Lord) sono sul palco della londinese Roundhouse per un concerto tributo da cui viene tratto anche un cd.
Sono “caduto” casualmente su The Motowns, gruppo musicale beat britannico della
seconda metà degli anni Sessanta, noto in Italia come parte della cosiddetta
Brit-it invasion. Giunse a Firenze proprio nei giorni dell'alluvione del 1966,
nella quale perse la strumentazione e l'impianto di amplificazione. Un buon
inizio!
Li ricordo molto bene!
Scoperto e lanciato al Piper Club di
Roma dal produttore Alberigo Crocetta, poi scritturato dalla RCA Italiana, il
gruppo partecipò al film “L'immensità (La ragazza del Paip's)”, con Don Backy e
Patty Pravo. Comparirono poi - direttamente o con brani inseriti nella colonna
sonora - in altri film, fra cui Soldati e capelloni (1967) e La più bellacoppia del mondo (di Camillo Mastrocinque, 1967).
La figura più rappresentativa, quella
destinata ad avere successo singolarmente, era quella di Lally Stott, cantante,
compositore e paroliere; molto attivo in Italia, vantava collaborazioni con
diversi produttori e autori, come Franco Micalizzi, per il quale scrisse il
testo della sigla del film Lo chiamavano Trinità..., e i fratelli
Capuano, insieme ai quali compose diversi brani del gruppo pop Middle of the
Road.
Nativo di Prescot, cittadina inglese
a circa 10 km da Liverpool all'epoca in Lancashire, fece parte della scena beat
del Merseyside e a metà degli anni Sessanta, come già accennato, fu tra i
protagonisti dell'invasione musicale britannica in Italia.
A fine decennio, dopo aver lasciato i
Motowns, entrò in contatto con Giacomo Tosti, produttore del gruppo scozzese
Middle of the Road, per il quale scrisse il testo dell'hit Chirpy Chirpy Cheep
Cheep composto dai fratelli Giosy e Mario Capuano, che ebbe grande successo
nelle classifiche di Regno Unito, Australia, Italia ed entrò al 92º posto nella
Billboard Hot 100.
In collaborazione con Franco
Micalizzi, inoltre, compose il testo della title track del film Lo
chiamavano Trinità... brano ripreso quarant'anni più tardi nella colonna
sonora di Django Unchained di Quentin Tarantino. Per i Middle of the
Road scrisse i testi di altri singoli di successo come, tra l'altro, Bottoms Up, Samson and Delilah, Sacramento, Tweedle Dee, Tweedle Dum, tutti nelle
Top Ten di una o più classifiche europee all'inizio degli anni Settanta.
Scrisse anche canzoni per sé stesso,
come per esempio Jakaranda, in concorso all'ottavo Festivalbar nel 1971 e
Sweet Meeny, presentata nella nona edizione della stessa rassegna l'anno
dopo, e fu anche presente nella televisione italiana come ospite di
trasmissioni musicali.
Per Engelbert Humperdinck scrisse My Summer Song, in seguito ripresa anche da Jerry Reed e i Jigsaw; un'altra
sua composizione da lui personalmente interpretata, Good Wishes, Good Kisses,
fu impiegata come sigla di testa dello sceneggiato del 1972 La donna di
picche, della quadrilogia del tenente Sheridan.
Ma forse il suo brano più conosciuto è stato...
Tornato in Inghilterra, a soli 32
anni rimase vittima di un incidente stradale tra Liverpool e Prescot: il 4
giugno 1977 la sua moto urtò un veicolo proveniente in senso opposto e, a causa
delle lesioni a testa e gambe, fu ricoverato dapprima a Whiston e,
successivamente, al Walton Hospital di Liverpool dove morì due giorni dopo il
sinistro.
Fabrizio Poggi, cantante, armonicista e scrittore,
nominato ai Grammy Awards 2018 (secondo dopo i Rolling Stones), premio Oscar
Hohner Harmonicas, due volte candidato ai Blues Music Awards (gli Oscar del
blues), candidato ai Blues Blast Music Awards, vincitore del JIMI AWARD (gli
Oscar della prestigiosa rivista Blues411) come miglior album internazionale,
eletto artista dell’anno dalla prestigiosa rivista americana Bluebird Reviews,
apparso sulla copertina della prestigiosa rivista americana e internazionale
Blues Blast, appare sulla copertina dell’autorevole rivista Oltre, candidato ai
JIMI AWARD come miglior album dell’anno, Sigillo d’Oro della Camera di Commercio,
candidato ai JIMI AWARD come miglior armonicista, vincitore del FIM Award, è
tra i bluesmen italiani più conosciuti e stimati in America.
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album incisi, di cui molti registrati negli Stati Uniti, ha suonato con tanti
grandi del blues, del rock e della canzone d’autore tra cui i Blind Boys of
Alabama, Charlie Musselwhite, Little Feat, Ronnie Earl, Kim Wilson, Marcia
Ball, John Hammond, Sonny Landreth, Garth Hudson of THE BAND and Bob Dylan, Guy
Davis, Eric Bibb,Ruthie Foster, Otis Taylor, Mike Zito, Bob Margolin, Flaco
Jiménez, David Bromberg, Zachary Richard, Jerry Jeff Walker, Billy Joe Shaver,
Bob Brozman, Eric Andersen, Richard Thompson, Tom Russell, Jimmy LaFave, The
Original Blues Brothers Band, Steve Cropper.
Con Guy Davis ha inciso “Juba Dance”
che è stato per ben otto settimane al PRIMO posto della classifica dei dischi
blues più trasmessi dalle radio americane e nominato ai Blues Music Award come
miglior disco acustico dell’anno; e “Sonny & Brownie’s Last Train”; appassionato
tributo alle leggende del blues Sonny Terry & Brownie McGhee che ha
ricevuto entusiastici consensi e una permanenza stabile nei primi posti delle
classifiche USA.
In Italia ha suonato con Finardi,
Ruggeri, Gang, De Gregori, Nomadi, Baccini e tanti altri. Viene anche citato in
due libri di Massimo Carlotto come uno dei grandi del blues.
Fabrizio Poggi ha suonato nelle
maggiori capitali europee e in grandi città come Londra e Parigi e nei maggiori
festival europei. Numerosi sono stati i suoi tour negli Stati Uniti a partire
dagli anni ‘80.
Si è esibito con grande successo alla
Carnegie Hall di New York con Guy Davis, Eric Burdon e Buddy Guy.
Ha suonato sulla Legendary Blues
Cruise con Guy Davis, Taj Mahal, Irma Thomas e tanti altri grandi artisti.
Ha tenuto anche diversi concerti
lezione alla prestigiosa Berklee Music University di Boston.
Di lui Dan Aykroyd, l’Elwood Blues
dei Blues Brothers ha detto che “è un armonicista da paura”. Fabrizio Poggi ha
scritto diversi libri sull’ armonica, sul blues e sulla musica folk.
I miei
commenti ai vari album che mi vengono proposti non hanno uno schema fisso, sono
molti i fattori che mi condizionano nelle scelte, ma non ho mai dubbi quando
devo scrivere di tutto quanto gira intorno al mondo di The Samurai of Prog.
In questo
caso il detentore dell’intero lavoro è Marco Bernard,
bassista e cofondatore della band, che si mette in proprio e realizza il suo
primo album solista, ispirato - o forse dedicato - a Peter Pan.
Oddio, quando
si parla di Bernard e soci l’affermazione “mettersi in proprio” non è proprio
la più indicata, perché non sarebbe nello “spirito Samurai” isolarsi e far
prevalere l’autarchismo musicale.
E ritorno al
mio concetto iniziale, quando scrivo di un “loro” disco - solista, in gruppo o
in qualsiasi forma possibile - uso il metodo dell’esposizione capillare,
giacché mi piace mettere in risalto tutti i partecipanti di quella che io
definisco la multinazionale del prog.
Ma lo spunto
nasce sempre in un punto preciso, e questa volta è Bernard che fa scoccare la
scintilla e la alimenta attraverso i collaboratori di fiducia, sparsi ovunque
per il mondo.
Qualche
notizia generica, riassuntiva dell’album.
“The Boy
Who Wouldn't Grow Up” è un concept album di rock progressive che prende per mano
gli ascoltatori e li accompagnaattraverso un viaggio musicale atto
a scrutare la mente di Peter Pan, l'eterno ragazzo, quello che non cresce mai.
L'album
esplora i temi della giovinezza, della speranza e della lotta necessaria per
aggrapparsi all'innocenza, in un mondo che richiede maturità.
Oltre a
trarre ispirazione dalla classica storia di Peter Pan, incorpora l'esperienza
dell’autore, della sua crescita e delle difficoltà trovate nell’affrontare le
sfide dell'età adulta.
Le influenze
vanno dal prog rock del 1970 alla musica sperimentale più moderna, avendo come
ulteriore obiettivo quello del trasporto degli ascoltatori in un viaggio sonoro
attraverso il tempo, dal passato al presente, e infine in un luogo in cui le
giovani speranze e i sogni non devono mai essere lasciati indietro.
Come già sottolineato il gruppo che
accompagna Bernard è corposo ed eterogeneo, fatto di compositori e musicisti di
grande spessore provenienti da tutto il mondo, che in questa occasione si
uniscono e ci regalano una storia significativa, che prova a fondere prog e
letteratura classica lasciando sul tavolo elementi di riflessione, legati alla
crescita e ai problemi che nascono al passaggio tra infanzia e adolescenza, e
poi oltre…
Nell’analisi a seguire ho inserito,
in corsivo, il pensiero dell’autore.
Si inizia con lo strumentale “Ouverture”,
di Octavio Stampalìa:
Marco Bernard: basso Shuker
Octavio Stampalìa: tastiere
Brody Green: batteria
Steve Hagler: chitarra elettrica
Marc Papeghin: corno francese e
tromba
Steve Unruh: flauto e violino
Una musica priva di lirica affida lo
suscitare delle emozioni ai soli aspetti sonori, lasciando spazio alla
reinterpretazione personale, e questo meraviglioso inizio spinge verso il lato onirico, che permette di raggiungere la piena libertà.
Chiudi gli occhi. Lascia che la tua
mente sia libera, lascia che i tuoi pensieri volino senza peso nello spazio
vuoto tra memoria e immaginazione. Non aprirli... anche quando tutto il tempo
sembra cristallizzarsi in un unico, impossibile, istante. Tieniti forte! È qui
che inizia il viaggio verso l'Isola che non c'è.
Un’apertura emozionante, che vede tra
i partecipanti tanti nomi conosciuti, e tra questi Steve Unruh, uno dei tre
Samurai.
A seguire “Never Never Land”,
musica e liriche di Alessandro Di Benedetti:
Marco Bernard: basso Shuker
Alessandro Di Benedetti: tastiere
Ruben Alvarez: chitarra elettrica ed
acustica
Kimmo Pörsti: batteria
Sara Traficante: flauto
John Wilkinson: voce
Neverland è forse solo un miraggio, un
desiderio che si è trasformato in sogno. Eppure, è un luogo (o forse sarebbe
più appropriato considerarlo un non-luogo) che ognuno di noi ha, più vicino di
quanto possiamo immaginare. In effetti, faceva parte del nostro essere quando
eravamo solo bambini. Abbiamo imparato a dimenticarcene crescendo. Tieni gli
occhi chiusi, e forse sarai in grado di dimenticare di dimenticare, e Neverland
accoglierà la tua nuova innocenza.
Entra in gruppo Kimmo Pörsti - altra
costola dei TSoP - e il ritmo diventa elemento trainante della traccia, mentre
la voce di Wilkinson riesce a caratterizzare il percorso.
Un suono “hammond” molto marcato ci
riporta ai fasti prog - e non solo - dei seventies mentre il rock si fonde ad
atmosfere sognanti. Non manca il virtuosismo chitarristico di Alvarez, che
appare come spina dorsale dell’episodio.
E arriviamo a “The Lost Boys”,
con il totale intervento autorale di Mimmo Ferri:
Marco Bernard: Shuker basso Shuker
Mimmo Ferri: tastiere e chitarra
addizionale
Beatrice Birardi: xylofono, bongos,
tamburino e doumbek
Marc Papeghin: corno francese e
tromba
Gennaro Piepoli: chitarra elettrica e
acustica
Kimmo Pörsti: batteria
Steve Unruh: voce
Marco Vincini: voce
Hai ancora gli occhi chiusi? Bene,
allora, mi chiedo come puoi leggere questo testo! Ah, certo... gli occhi che
tieni chiusi sono quelli della ragione. Gli occhi che leggono queste parole
sono quelli della fantasia. Le vostre orecchie, ascoltando tutta questa musica,
sono le orecchie dell'immaginazione! Qui, finché manterrai la ragione ben
silenziata e ti lasci guidare dall'immaginazione, rimarrai un bambino, e potrai
ben dire che sei con i "ragazzi perduti".
Davvero difficile descrivere il
contenuto musicale di questa perla che condensa cinquant’anni di stili e
visioni, tra rock, classica, prog e ricerca della melodia, caratteristica
dell’album probabilmente un DNA legato alle presenze italiane.
Rimbalzo vocale tra Unruh e Vincini,
con il ricordo acceso di un mondo progressive che, per chi lo segue, resta
un’ancora di salvataggio.
Yes, Gentle Giant, ELP… quanti
ricorda ascoltando “The Lost Boys”!
“The Home Under the Ground”
è un’altra creazione italiana, più precisamente di Andrea Pavoni, che firma testo
e musica:
Marco Bernard: basso Shuker
Andrea Pavoni: tastiere
Cam Blockland: voce (Peter)
Carmine Capasso: chitarra elettrica
Adam
Diderrich: violino
Audrey
Lee Harper: voce (Wendy)
Marc Papeghin: corno francese
Daniele Pomo: batteria e percussioni
Steve
Unruh: voce (The Lost Boys)
Tenere gli occhi chiusi è come essere
al buio ascoltando le mille voci della nostra infanzia. Ricordate tutta la
spensieratezza? Guardare! (sempre tenendo gli occhi chiusi, per favore!) Non
vedete anche quell'albero, proprio nel mezzo di questa stanza sotterranea? Ti
ricordi quanto sembrava lungo un giorno e come il numero di giorni sembrava non
avere fine? Tutto sembrava possibile. Tutto. Anche volando. Tutti noi, da
bambini, sapevamo volare. Ed ora? Non aprire gli occhi! Tenere la luce spenta. Concentrarsi.
Nell'oscurità, non ti senti come se stessi volando?
Una suite? Un mini-musical? Dieci
minuti di intrecci vocali (tre singer, ognuno recitante una parte) per un
racconto di una bellezza rara, la miscela tra rock e opera che rinfresca le
idee su quali siano gli stilemi - almeno alcuni - del prog, quello basato sulla
più completa libertà espressiva possibile. E poi, senza entrare in profondità e
soffermandosi sugli aspetti estetici, il pezzo dovrebbe colpire in modo
trasversale, dimenticando la voglia di incasellare la musica.
E arriviamo a “The Pirate Ship
(Hook or Me)”,musica e liriche di Marco Grieco:
Marco
Bernard: basso Shuker “JJ Burnel”
Marco Grieco: tastiere e cori
Matthew Parmenter: voce
Hans Jörg Schmitz: batteria
Marcel Singor: chitarra elettrica
Sara Traficante: flauto
Diavolo! C'è un gancio che prova ogni
trucco per afferrare le palpebre e farti aprire gli occhi! L'uomo che ha quel
gancio, invece di una mano, è sul ponte di una nave pirata. Se ti coglie, ti
farà fare un tuffo nel mare della concretezza! Forse è stato il primo ad
affrontare tutti gli incubi che hanno preso forma, più reali della realtà,
trasformandosi in un coccodrillo e mangiandosi la mano! Sarai in grado di
rimanere giovane per sempre? Sarai in grado di tenere gli occhi chiusi mentre
Capitan Uncino ti insegue per ricordarti quanto può essere terribile la vita?
Un'altra traccia impegnativa - e lunga
- una sorta di dialogo condito da numerosi cambi di scena e da un ritornello
che pone un quesito realistico e “preoccupante”:
Do
you really hope to stay young forever?
Musicalmente parlando emozionante,
carica di virtuosismo strumentale, con l’idea di essere al cospetto di una
creazione completa, a sé stante.
“The Return Home” è un
altro strumentale “inventato” da Oliviero Lacagnina.
Marco Bernard: basso Shuker
Oliviero Lacagnina: tastiere
Marek
Arnold: sax
Adam Diderrich: violino
Rafael Pacha: chitarra classica
Marc Papeghin: corno francese e
tromba
Charles Plogman: chitarra elettrica
Riccardo Spilli: batteria
Sara Traficante: flauto
Ogni viaggio ha un inizio e una fine,
una partenza e un ritorno. Quando viaggiamo - soprattutto sulle ali
dell'immaginazione - non sono i luoghi che cambiano, ma piuttosto noi, che li
percepiamo in modo diverso. E così, quando torniamo a casa, la troviamo diversa.
Gli oggetti fisici non sono realmente cambiati in nostra assenza, e le persone
hanno continuato ad abitare la nostra casa, proprio come prima. Eppure, ci
sembrano diversi. Tutto sembra diverso. Forse perché il viaggio ci ha cambiato?
No, non cedere alla tentazione di aprire gli occhi... non ancora. Hai un ultimo
piccolo grande passo da fare, ora che sei tornato a casa.
E vai a spiegare al nuovo che avanza
che esiste musica di questo spessore!
Lacagnina miscela le competenze classiche
e la sua vena - da sempre - prog, e il risultato è un estratto del concetto di “bellezza
musicale”, che si ottiene solo quando le idee brillanti vengono utilizzate da
protagonisti eccelsi.
Difficile da spiegare a parole, qui
ci vorrebbe un ascolto!
L’album si chiude con “Lunar
Boy”, musica e testo di Marco Grieco (ispirata da “Asylum”, di Giorgio
Mastrosanti)
Marco
Bernard: basso Shuker
Marco Grieco: tastiere, chitarra
elettrica e cori
Giorgio
Mastrosanti: chitatta Telecaster
Kimmo Pörsti: batteria e percussioni
Juhani Nisula: chitarra elettrica
Bo-Anders
Sandström: voce
Steve
Unruh: violin elettrico
Ora, prima di aprire gli occhi,
pensa: ti diranno che sei un "ragazzo lunare"; sopra le righe, con la
testa tra le nuvole - o con le nuvole nella testa. Ti diranno che credi ancora
nelle fiabe e insegui ancora i sogni. Diranno che sembri non essere mai cresciuto!
Sei pronto a sopportare tutto questo? Sei pronto ad accettare il cambiamento
che questo viaggio, queste parole, questa musica, hanno causato in te? Sei
pronto ad essere orgoglioso di trascorrere una vita impegnata a realizzare i
tuoi sogni? Sei pronto? Buono. Poi, quando questa musica sarà finita, solo
allora, aprirai gli occhi. E vola, ragazzo lunare. La vita ti aspetta.
Un inizio da ballad, da motivetto
orecchiabile, usato come introduzione per dare il via ad un nuovo turbinio di
emozioni; un’altra lunga traccia che contiene tutto ciò che si può chiedere
alla qualità sonora, tra melodia e difficoltà di esecuzione, tra atmosfere
sinfoniche e rock.
Sono molto soddisfatto di questo
nuovo album, come capita sempre quando ascolto il filone Bernard and friends,
ma a differenza di altre volte - in cui era necessario un tempo di
metabolizzazione, i soliti due/tre ascolti - in questo caso è bastato un primo
passaggio per catturare - o meglio farmi catturare - il disco nel suo insieme.
Non manca nulla, tutto adatto e
centrato per il pubblico appassionato del genere, con una buona propensione all’uso
didattico, visto il messaggio che Bernard propone.
Ma la bellezza non ha coordinate
precise, e penso che “The Boy Who Wouldn't Grow Up” possa essere “utilizzato”
da un pubblico trasversale, a patto che sia dotato di curiosità e apertura
mentale.
Musicisti stratosferici, modus
operandi aiutato dalla tecnologia, risultato fantastico.