mercoledì 30 novembre 2011
martedì 29 novembre 2011
LA MONCADA-"TORINO SOMMERSA"
Sono solito unire ai miei commenti su un nuovo album
un’intervista ai musicisti, che possa rappresentare il lato oggettivo e il vero
pensiero di chi ha sudato e pianto dietro qualcosa che poi sarà commentato con
qualche riga “obbligata”. Il limite e il pregio di questo gioco al rimbalzo è
che i quesiti via mail (molto più comodi rispetto ad altre soluzioni), magari
posti in maniera criptica (mea culpa), possono portare a interpretazioni
alternative, con risposte che alla fine risulteranno utili- forse anche di più-
alla causa, anche se deviate rispetto al punto di partenza.
La situazione “cromatica” a cui faccio accenno nello
scambio a seguire è tesa ad evidenziare uno stato d’animo generale, il vero
mood dell’intero album, che ho percepito immediatamente sfogliando il booklet
interno, quindi prima dell’ascolto. La risposta permette di conoscere qualche
interessante risvolto dell’argomento Art-Work, e questo contribuisce a creare
un quadro più completo del mondo di “LA MONCADA”.
Il loro album, “Torino Sommersa”, autoprodotto, è
il primo lavoro in studio, e come ogni atto iniziale è il bilancio di un
percorso di vita, il primo “punto a capo” che permette di fotografare una
situazione personale e renderla pubblica. Non è importante l’esperienza dei
musicisti, magari artisti navigati, ma in un esordio si rovescia generalmente
la parte più istintiva- e magari repressa- che
si attendeva di fare “esplodere”. Da quel momento in poi si può pensare
al futuro.
Da anni non visito Torino, forse 20, forse 30, ricordo
solo che ero molto giovane. E le rimembranze giovanili sono pesanti mattoni che
non cadranno mai più. La Torino che ricordo è quella che ho visto nelle pagine
dell’inserto allegato al CD. Solo bianco e solo nero, colori che in realtà
appartenevano a qualsiasi luogo, e che dipingevano stati d’animo angosciosi.
Basta guadarsi attorno e valutare le “situazioni attuali” per capire che ogni
assioma tendente ad unire i malesseri dell’uomo ai meri colori è del tutto
errato.
Ma, chissà perché, ho inserito il CD nel lettore e già
avevo le idee chiare.
Sette tracce di… rock cantautorale. Cosa significa?
Riflessioni, messaggi, denuncia sociale e poesia con un
abito che definirei folk/ rock, anche se le etichette e la suddivisione in
generi servono solo per dare indicazioni e informazioni a chi fa opera di
avvicinamento, ma non rendono mai completa giustizia ai veri protagonisti, i
musicisti.
Un album come questo non può prescindere dal pieno
godimento dei testi in lingua italiana (che fatica sarebbe decodificare liriche
piene di metafore e sensi nascosti se ci fosse anche il problema della
comprensione immediata!).
Un album come questo avrebbe altra valenza se non ci
fosse la necessità/genialità di escursioni ritmiche e trame a tratti prog.
E ancora… un album come questo ha il pregio di scuoterti
nell’intimo, farti riflettere e contare le volte in cui hai pensato le stesse
cose ma… non ti venivano fuori e in “Torino Sommersa” le vedi scritte da altri.
Sarebbe facile fare esercizio di “citazione” ed elencare
esempi d’oltreoceano, ma nessuna comparazione potrebbe dare valore aggiunto,
che al contrario si percepisce godendo in ogni sua parte “Torino Sommersa”,
musica, testi e “confezione”.
Nient’altro da commentare, certe cose vanno scoperte in
piena solitudine. Il passo successivo è la condivisione che, sono certo, sarà
azione spontanea e diffusa.
L’INTERVISTA
Partiamo dal nome della band. Spesso è casuale, ma molte volte
ha un significato, magari inconscio, che si lega alla filosofia musicale del
gruppo. Perchè “LA MONCADA”?
La Moncada è il nome
della caserma che venne assaltata il 26 luglio del '53 da Fidel Castro e i suoi
ribelli. Questo episodio diede il via alla rivoluzione cubana e al movimento
stesso (il" Movimento 26 luglio"). Il nome è stato proposto da Frank
e ci è subito piaciuto perché condividiamo i valori che portarono a quegli
eventi .Tra l'altro Fidel ritorna in uno dei pezzi più rappresentativi del
disco(Revolucion).E per concludere La Moncada mi sembra molto meglio di
"Mattia Calvo band", che è il nome con il quale abbiamo iniziato.
Il luogo in cui si vive ha risvolti importanti che incidono
sulle nostre attività, qualunque esse siano. Avreste potuto scrivere “Torino
Sommersa”- e mi riferisco a spirito e contenuti- se vi foste “formati” in altre
parti d’Italia? Ha ancora senso parlare di “scuola genovese, napoletana” and so
on?
In realtà solo tre di noi (io, Gian e Carlo) vivono a Torino e
tutti e tre siamo "torinesi d'adozione", ma la nostra provenienza
rimane la provincia. Personalmente adoro Torino per molti aspetti… penso di averne tratto ispirazione in qualche
modo, e non credo che tornerei mai a fare il percorso inverso. Detto ciò non
credo che La Moncada appartenga alla scena torinese, che a quanto mi risulta
attualmente spicca soprattutto per i suoi cantautori e in generale più che alla
scuola genovese o napoletana o torinese io guardo alla musica che mi piace
senza distinzioni di sorta.
Nel vostro album le liriche sono fondamentali, ma esiste un
equilibrio con la parte musicale (istintivamente si può arrivare invece a
privilegiare un aspetto piuttosto che un altro). In fase di composizione,
esiste per voi una priorità che, almeno inizialmente, vi sbilancia verso uno
dei due aspetti citati?
Generalmente io arrivo in sala prove portando uno spunto del
pezzo chitarra e voce che sottopongo alle orecchie dei ragazzi. Da qui ciascuno
contribuisce con le proprie idee per arrangiarlo nella sua forma definitiva. Il
concetto base con il quale ci siamo mossi fin dall'inizio infatti è quello di
svestire le mie canzoni della tradizionale forma cantautorale.
Cosa significa per voi la parola “sperimentazione”?
La sperimentazione è alla base di tutta la musica passata e
presente che abbiamo sempre ammirato. Bisogna però, dal mio punto di vista,
fare attenzione a non cadere nella tentazione di esagerare per colpire chi
ascolta con delle stranezze fini a se stesse. Quella più che sperimentazione è
onaninsmo intellettuale.
Esistono linee guida musicali, esempi del passato, su cui tutti
vi trovate d’accordo?
Ne esistono moltissime, ma senza il bisogno di guardare al
passato sicuramente siamo tutti accomunati dalla grande ammirazione per i Wilco
e i Radiohead.
Cosa è più gratificante per voi, il lavoro in studio o le performance live?
Sono due momenti molto diversi tra di loro, ma in entrambi i
casi si vivono emozioni molto forti. In studio si può dare sfogo alla parte
creativa ed è veramente indescrivibile la gioia che si prova a vedere
"nascere" un pezzo. D'altra parte sul palco ci si sfoga a tutto tondo
e poi non bisogna nascondere che se si fa musica, in qualche modo è per
arrivare alla gente, e ricevere un applauso o un consenso è sicuramente
gratificante.
C’è mai stato un momento in cui avete pensato che i vostri
sforzi dovevano essere indirizzati verso
qualcosa di più easy, rinunciando magari all’estrema qualità e all’impegno a favore di una
visibilità più facile?
Assolutamente no, anche perché non ne saremmo in grado. Quando
abbiamo iniziato a suonare insieme non ci siamo mai posti altri obiettivi se
non quello di arrivare ad un risultato che in primo luogo ci rappresentasse e
ci gratificasse, senza l'ossessione di essere più o meno mainstream.
Qual è l’essenza di “Torino Sommersa”?
Torino Sommersa è il nostro disco d'esordio, quindi racchiude
canzoni che sono state concepite in momenti differenti. Non credo che ci sia un
filo conduttore particolare che le leghi una all'altra se non l'urgenza che ha
mosso la loro composizione. Alcune di queste nascono da esperienze personali e
altre da riflessioni più generali, compagne di un unico giro dove le istantanee
del mio immaginario si trasformano in parole alle quali la musica della band da
voce.
L’art work in bianco e
nero del vostro album colpisce e… da suggerimenti all’acquirente. Nella vostra
musica c’è spazio per altre situazioni cromatiche?
Per l'art work ci siamo affidati alle cure di Elisa Quaglia,
fotografa torinese dotata di una grande sensibilità artistica che, conoscendo
molto bene la nostra musica, ha saputo cogliere lo spirito
"desaturato" di questo disco. Nei prossimi lavori non escludiamo di
esplorare altre giustapposizioni cromatiche. Visto che parliamo di art work
dobbiamo ringraziare anche Edoardo
Vogrig e Jon Lacaronia per l'ottimo lavoro di impostazione e rifinitura.
Provate a sognare e ad
immaginare il vostro futuro da qui al 2015… cosa vorreste che accadesse?
Dato il gran numero di musicisti che a vario titolo hanno fatto
parte di questo gruppo sarebbe già più che sufficiente se nel 2015 fossimo
ancora tutti e cinque insieme appassionatamente.
Note
LA MONCADA è il progetto 5 musicisti cuneesi in cui
Mattia Calvo, cantautore fossanese, presenta i suoi pezzi contaminati da nuove
influenze musicali portate dai musicisti che lo accompagnano, tutti provenienti
da differenti esperienze.
Infatti LA MONCADA possiede membri di Mr. Steady Dudes, Treehorn e Fuh. Realtà
contrapposte che si miscelano in un percorso di ricerca musicale che va a
scavare negli ambienti folk-rock di Chicago, nell’indie di Boston e nel
post-rock di Louisville, passando da Wilco a Califone, da Karate a Slint.
Freddi venti d’oltreoceano che vengono a condensarsi con l’aria calda e
tradizionale del cantautorato italiano, dal sapore dei campi di grano secchi
sotto il sole li brucia, del bar di provincia dove regnano vecchi e ubriaconi,
delle otto ore di fabbrica e domenica al mare.
Il risultato è un temporale di atmosfere instabili e avvolgenti, correnti
ascensionali inarrestabili e turbolenze d’umore, città sommerse.
Members:
Mattia :
voce, chitarra acustica.
Audrey : chitarra elettrica, elettronica
Johnny : chitarra elettrica.
Juda : basso.
Frank: batteria.
lunedì 28 novembre 2011
Blue Dawn
Blue Dawn è il nome di un “quartetto rock” che, dopo un
primo CD promo, ha esordito con l’ album
omonimo.
Il termine “esordio” in
realtà poco si addice a chi calca le scene da diverso tempo, ma è calzante se
si pensa alla novità del progetto.
Nell’intervista a seguire
e nella piccola bio successiva, è possibile delineare un quadro completo della band e della sua
filosofia musicale.
E’ rock duro quello che i
B.D. propongono, con un tono dark
che permea l’intero album.
I dieci episodi vedono in
evidenza i riff di chitarra tipici di un certo modello hard, ma il sottofondo è
costellato da atmosfere sognanti, eteree, a volte inquietanti.
La bellissima voce di Monica Santo (non tutte le belle voci
sono adatte ad un determinato tipo di musica) aiuta nella costruzione di un particolare
mood che nasce con il primo brano, Crossing
the Acheron, e termina solo con
la conclusiva A Strange Night.
Ma è impossibile separare
ciò che si ascolta-musica e testi- da ciò che si vede.
La prima cosa con cui
normalmente si viene in contatto, in fase di nuovo avvicinamento, è
ovviamente la “forma”, il contenitore, il CD pieno di notizie.
Il booklet di “Blue Dawn”
è l’anticipazione del contenuto, una serie di fantastiche immagini in bianco e
nero-tranne il blu scuro di Shattered Illusions- che sono in stretto contatto
con il messaggio e sono il preludio di ciò che di li a poco arriverà assieme
alla musica.
Testi -in lingua inglese-
introspettivi, carichi di significati esistenziali, realisti e poetici al
contempo.
Per realizzare il sound
voluto, i quattro musicisti si sono avvalsi della collaborazione in studio di
alcuni ospiti che hanno dato un importante contributo a livello di tastiere,
sintetizzatori e sax, ma l’impronta metal rock è un marchio indelebile dei B.D. che riporta ai modelli conosciuti
degli anni ’70, ma con un’attenzione ai dettagli che un tempo era improponibile.
Forse la vera evoluzione
di quella musica, rock, prog, o qualsiasi altra, sta proprio in un nuovo
bisogno che musicista e ascoltatore dimostrano di avere, la necessità di
rendere completa ed espressivamente variegata la proposta, un contenitore dove
un accattivante svisata di chitarra o un virtuosismo ritmico fine a se stesso
non sono più comprensibili, se non costituiscono una parte di una struttura
organizzata. E poi dal vivo tutto è concesso!
Ma questo i Blue Dawn lo sanno bene…
Un album da non perdere,
se si ama l’energia… controllata.
L’INTERVISTA
Risponde Enrico Lanciaprima
Chiedo spesso ai nuovi gruppi se esistono
motivazioni particolari che hanno condotto alla scelta del nome, convinto che,
seppur a livello inconscio, un link possa esistere. Perché Blue Dawn?
L' alba è un simbolo di
(ri)nascita, adatto ad un progetto completamente nuovo per noi che comunque non
siamo musicisti di primo pelo, in più ha un sapore esoterico, il che su di noi
esercita un certo fascino.
Ciò che proponete ha solide radici che partono da
periodi molto lontani. Su che tipo di formazione personale potete contare… che
cosa vi ha realmente influenzato in campo musicale?
Per quanto mi riguarda, sicuramente
l' hard rock degli anni 70, Black Sabbath e Led Zeppelin su tutti, ma anche
gruppi sperimentali come King Crimson, Magma, Roxy Music, fino a bands più
moderne come Celtic Frost, Voivod, Tool; per gli altri componenti, sono stati
importanti anche Deep Purple, Rainbow, My Dying Bride, Jeff Buckley.
La vostra musica mi pare particolarmente adatta
alla performance live. Che tipo di interazione riuscite a stabilire con
l’audience nel corso dei vostri concerti?
Il pubblico risponde con
entusiasmo, soprattutto sui brani più energici, ma dimostra attenzione anche in
quelli più da “ascolto”, diciamo, dove le strutture sono più complesse e
dilatate, ci danno anche input, commentando con noi i brani a fine concerto.
Se è vero che Monica Santo è la lead vocalist, si
può comunque notare una certa suddivisione delle parti, con raddoppi e scambi
vocali. Questo gioco di squadra è qualcosa di studiato a tavolino, in funzione
del vostro progetto e delle vostre caratteristiche personali o è il frutto di
ciò che è nato spontaneamente nel corso delle prove?
Un po' d' entrambe le cose...
conoscendo le caratteristiche vocali molto diverse che abbiamo io e Monica,
sapevamo che alternandole avremmo potuto ottenere risultati interessanti, poi
in sala proviamo ad improvvisare e vediamo cosa può funzionare oppure no;
continueremo a sperimentare anche in futuro, e nel secondo disco ci sarà anche
un duetto con un cantante ospite di un certo rilievo, ma non posso ancora
svelare il nome.
Pur conoscendola maggior adattabilità della
lingua inglese alla musica rock, è imperativo chiedervi: ” Perché testi in lingua inglese?
Come dici tu l' inglese è molto più
adatto dell' italiano alla musica rock, perché ha parole brevi e dal suono duro
e a noi piace il risultato, pensiamo che funzioni così, ciò non toglie che si
possa provare anche un brano in italiano, in futuro.
Ho notato una particolare cura dell’art work, con
precisa scelta di immagini e colori. Quanto realmente conta per voi tutto ciò
che non è musica ma fa parte di essa?
Ha la sua importanza, l' artwork e
l' immagine della band servono ad indentificarci e, quindi, a promuoverci nella
maniera giusta, è un aspetto fondamentale per un artista, soprattutto in quest'
epoca.
Come è avvenuto l’incontro con la BWR e che cosa
vi ha portato di concreto?
Conosco Massimo Gasperini da circa 25 anni, avevo già lavorato
con BWR negli anni 90 con la band che avevo allora, quindi è stato naturale
entrare in contatto con loro per questo nuovo progetto. BWR ci sta promuovendo
e distribuendo e, grazie alla loro grande professionalità, ci stanno facendo
conoscere al mondo musicale attuale.
Torno un attimo ai testi. I vostri mi sembrano
molto intimistici, legati ad aspetti interiori. Quanto è importante per voi il
messaggio contenuto in una lirica?
I testi sono importanti, perché
aiutano a comprendere ed assimilare ciò che la musica sta trasmettendo, sono
introspettivi, ma contengono anche metafore riferite al mondo esterno.
Che idea avete dell’attuale businnes musicale e
cosa pensate delle potenzialità di internet in relazione alla possibilità di…
vivere di sola musica?
L' industria musicale per come la
conosciamo, sta morendo, si trasformerà, esattamente come è difficile dirlo,
probabilmente si comprerà e venderà tutto online; vivere di sola musica sarà
sempre più difficile, a parte per i grandi colossi, ma penso che il segreto sia
diversificare le proprie attività, i propri progetti, essere versatili e darsi
molto da fare, promuoversi in ogni modo. In questo la rete ti dà molte
possibilità, anche gratis, bisogna saperla usare.
Provate a esprime un desiderio musicale, lungo da
qui al 2015.
Vorremmo incidere altri 2 album e
andare in tournee in Italia ed in Europa.
BIOGRAFIA
BLUEDAWN nascono
nel corso del 2009 da un'intuizione di Enrico
(basso) e Andrea (batteria). A loro
si aggiungono nel corso del 2009 Monica alla
voce e Paolo alla chitarra. Quattro
personalità diverse, con gusti musicali diversi cercano di fondare un percorso
musicale organico che parta dalle radici dell'hard-rock anni 70 fino ad
arrivare a sonorità moderne. Dopo un breve periodo di rodaggio, i BLUDAWN
decidono di raccogliere in un album le canzoni che hanno composto. L'album
registrato ai nadir-studios cattura l'attenzione dell'etichetta BLACKWIDOW RECORDS che si offre di distribuirlo…
Distribuzione: Black Widow Records
Track List:
CROSSING THE ACHERON
THE HELL I AM
INNER WOUNDS
HYPNOTIZED BY FIRE
SHATTERED ILLUSIONS
IN MY ROOM
A STRANGE NIGHT
DEAD ZONE
THAT PAIN
DECONSTRUCTING PEOPLE
BLUE DAWN is:
Monica
Santo - vocals
Paolo Cruschelli - guitars
Enrico Lanciaprima - bass and vocals
Andrea
Di Martino - drums
special guests:
James M. Jason - keyboards on Crossing the acheron,
Shattered illusions and In my room, sinthesizers on A strange night
Tommy Talamanca - keyboards on Inner wounds, Dead zone
and Deconstructing people
Roberto Nunzio Trabona - saxophone on Deconstructing
people
Laca
- accordion on Deconstructing people
domenica 27 novembre 2011
Garybaldi e Wicked Minds al Teatro Verdi
A poco più
di un mese di distanza, il Teatro Verdi
di Sestri Ponente(Ge) è nuovamente testimone di un evento musicale dallo
stampo prog, che riporta alle radici profonde del rock cittadino, dopo che il
15 ottobre Paoli Siani e i suoi Friends
–con Marco Zoccheddu presente in
entrambe le occasioni-aveva riportato indietro le lancette del tempo,
proponendo però visioni per il futuro.
Tra i due
spettacoli, Genova è stata protagonista negativa di episodi drammatici che non
hanno bisogno di evidenziazione. Incancellabili le immagini dell’alluvione, ma
occorre guardare avanti e magari utilizzare la musica per dare un po’ di
sollievo, possibilmente anche materiale, a chi ne ha estremo bisogno. Qualcosa
accadrà in questo senso e da queste pagine verrà dato il massimo rilievo
possibile.
Il menù
della serata, organizzato dalla Black
Widow Records, prevedeva due band e alcuni ospiti: Garybaldi, Wicked Minds e … amici.
Aprono i Wicked
Minds, da poco in distribuzione con il nuovo album, tributo al prog italiano.
Propongono
alcuni brani vecchi e nuovi, con la presenza della “new vocalist” Monica Sardella, davvero convincente.
Prog rock
solido, per una formazione di larga esperienza che nell’occasione dimostra
anche di sapersi divertire (la musica dovrebbe sempre portare a questo stato,
ma non è fatto scontato).
Gli ospiti
dovevano essere due, ma Martin Grice
dei Delirium è risultato assente…
giustificato, impegnato in RAI per una trasmissione in diretta.
Era invece
presente Stefano “Lupo” Galifi, ex Museo Rosembach e ora ne Il Tempio delle Clessidre.
Bell’ intermezzo
fruibile al seguente link: http://www.youtube.com/watch?v=2x__5P1Rz1Y
Un’ora di
musica e un ‘occasione per ripercorrere sentieri indelebili:
Pochi minuti
di intervallo e si ritorna sul palco con un trio Hendrixiano, formato da due Gleemen/ Garybaldi , Maurizio Cassinelli alla batteria e Angelo Traverso al basso, e Marco
Zoccheddu che dopo un inizio anch’esso nei Gleemen percorse altre strade
note.
Ma “Garybaldi”
significa soprattutto Bambi Fossati, ,
da un po’ di tempo lontano dalle scene,
e il mix targato “Jimi Hendrix” è tutto in suo onore:
A seguire
gli attuali Garybaldi che “raccontano” la loro storia con brani estratti da “NUDA”
e “Astrolabio”.
Cinque
musicisti in continua rotazione di ruoli e strumenti e tanta voglia di
ritrovare il sound di un tempo. I meccanismi sono ancora da oliare e qualche
indecisione, alla voce ad esempio, appare evidente, ma in fase live è il sound
generale che deve uscire e Garybaldi sembra formazione capace di essere ancora un punto di
riferimento nel proprio genere. E il proseguimento dell’attività non potrà che
migliorare le cose.
Nell’ultima
parte rientra “Zoc” e si inserisce nel gruppo, presentando il suo brano targato
“Nuova Idea”, “La mia scelta”.
Un’altra serata
di musica all’insegna del rock proposto dalla BWR, e un’altra serata in cui si
può obiettivamente dire che la risposta di pubblico non è stata adeguata all’evento:
Wicked Minds, i Garybaldi, Marco
Zoccheddu, Lupo Galifi , il Teatro Verdi e… Bambi Fossati, avrebbero meritato
il sold out.
sabato 26 novembre 2011
Ricordando Freddie Mercury a 20 anni dalla morte...

La mia amica Scilla
Prog, mi ha ricordato con un suo articolo che un paio di giorni fa, il 24
novembre, ricorreva l’anniversario della morte di Freddy Mercury. Sono già passati 20 anni e mi sembra ieri
quando, nel corso di un volo Madrid-Milano, leggevo la drammatica notizia.
Utilizzo un vecchio post per ripercorrere la strada di
Freddy.
Freddie Mercury (Stone Town, Zanzibar, Tanzania, 5 settembre 1946 -
Londra, Inghilterra, 24 novembre 1991), pseudonimo di Farrokh Bulsara, è stato
uno dei più grandi cantanti rock di tutti i tempi.
Britannico
di origine indiana, raggiunse una fama internazionale incredibile come leader
del celebre e ormai mitico gruppo britannico Queen.
Figlio
di Jer e Bomi Bulsara, il padre era un funzionario inglese di origine Parsi
(una comunità di antica stirpe persiana residente in alcune zone dell’India e
praticante un derivato dell’antica religione Zoroastriana).
Freddie, nato a Stone Town, Zanzibar, si ritrovò a
svolgere gli studi a Panchagani (Bombay), presso la Saint Peter’s Boarding
School.
Ottimo studente dotato di un notevole talento
artistico (era un ottimo disegnatore), Freddie eccelse anche nello sport: fu
infatti un abile velocista e un discreto pugile, raggiungendo buoni risultati
anche in altre discipline sportive come l’hockey su ghiaccio, il cricket e il
tennis da tavolo. Questo comunque non gli impedì di farsi notare per la
passione musicale che già nutriva; infatti dopo che il preside ne parlò con i
genitori, Freddie prese parte alla classe di musica, entrando nel coro della
scuola e imparando a suonare il pianoforte.
Fu nella scuola che frequentava che, nel 1958,
nacquero gli Hectics, dei quali Freddie era il pianista.
Nel 1962, finalmente il futuro capo carismatico dei
Queen termina gli studi e riabbraccia la famiglia a Zanzibar.
Soltanto due anni più tardi dovranno abbandonare
l’isola, a causa dell’instabilità politica per trasferirsi in Inghilterra.
L’Inghilterra poteva soddisfare la sua passione per
l’arte, così mentre occupava le vacanze con dei lavoretti all’aeroporto di
Londra Heathrow, concentrava la sua attenzione sulla pittura e sul design.
Nel 1966 si iscrive alla scuola d’arte di Ealing e i
suoi studi in illustrazione, grafica e design sono accompagnati dalla passione
per Jimi Hendrix e per il suo idolo: John Lennon.
Il suo gruppo preferito sono The Jacksons.
Suo compagno di scuola in quel periodo fu Tim
Staffell, bassista e cantante degli Smile, completati da Roger Taylor alla
batteria e Brian May alla chitarra. Conobbe anche Cris Smith con il quale
incominciò a scrivere canzoni.
Terminò gli studi accademici nel giugno del 1969.
Nello stesso anno si unirà agli Ibex di Liverpool,
mentre lavora presso alcuni periodici di Kensington; gli Ibex cambieranno nome
in Wreckage, ma si scioglieranno con l’arrivo degli anni settanta, che vedranno
Freddie raccogliere un annuncio dei Sour Milk Sea che cercavano il cantante.
In sala prove restano impressionati dalla voce di
Freddie Bulsara, e partono per Oxford dove ci sono alcuni concerti ad
attenderli. Dopo questa esperienza deciderà di seguire la band dell’amico Tim
Staffell, dando alcuni consigli su come fare i concerti; dopo non molto Tim
Staffell accetterà un’ottima proposta in un altro gruppo lasciando così gli
Smile.
Freddie - che condivideva una bancarella di abiti
usati con Roger Taylor - accoglie l’invito dell’amico e sostituisce Tim
Staffell negli Smile, ai quali cambierà nome in Queen; cambierà anche il suo in
Freddie Mercury, in onore di Mercurio, il messaggero degli dei.
Durante questo periodo conosce e si innamora di Mary
Austin (con la quale convivrà per sei anni).

Nel 1971, Freddie opta per John Deacon come bassista;
la scelta si rivelerà favorevole per il successo del gruppo.
Sul palco, Mercury si esibiva con gestualità teatrale
incantando il pubblico, trascinato da un personaggio tanto carismatico.
La sua carriera musicale lo vede al centro
dell’attenzione di tutto e tutti, media compresi. Sebbene sul palco Freddie si
mostrasse come una persona spregiudicata e energica, lontano dalla luci dei
riflettori era una persona timida e riservata.
Nel 1980, un’altra importante svolta nella sua
carriera musicale e nella sua vita privata. Freddie, probabilmente conscio di
non essere totalmente eterosessuale, trasforma il suo rapporto di amore e
passione con Mary Austin in un rapporto di amore fraterno.
Si mostrerà al pubblico con un look vistosamente
differente, capelli corti e baffi secondo il look detto “clone”, come a segnare
una rottura con il passato.
Il 1981, sarà un anno di transizione, la vita pazza e
sregolata di Monaco mette a dura prova la sua persona e alcune sue amicizie.
Il 29 aprile 1985 esce il primo album solista di
Freddie, Mr. Bad Guy (titolo in riferimento a se stesso).
L’opera lasciò dubbiosa la stampa, anche per il fatto
che si trattava di un mix di elementi musicali eterogenei.
Il disco si ricorda per canzoni comunque belle e
importanti quali Made in Heaven (che ritroveremo nell’omonimo disco del 1995
dei Queen, in versione diversa) e la title-track.
Dopo questa parentesi solistica, tornò a lavorare sul
progetto Queen, vivendo liberamente la propria omosessualità, spesso schernendo
gli intervistatori che gli chiedevano se fosse gay, a volte negando e altre
volte ammiccando e dicendo frasi come “sono gay
come una giunchiglia”; insomma non ammise mai apertamente di essere
omosessuale, ma non fece nulla per smentirlo. Arrivò addirittura a girare un
videoclip in cui lui e tutti i componenti dei Queen apparivano provocatoriamente
travestiti da donne (sebbene la proposta originale fu di Roger Taylor, il
batterista, da un’idea della sua ragazza, cfr. Gunn-Jenkins 1992 “Queen la
biografia ufficiale” pg.188), smentendo però la connotazione omosessuale del
video con questa frase: “Ma il travestimento
del video di “I Want to Break Free” non è affatto una dichiarazione di
appartenenza gay. Se avessi fatto una cosa del genere, la gente si sarebbe
messa a sbadigliare. Mio Dio, guarda Freddie che dice di essere gay perché è
una cosa di moda.”
Tuttavia il Freddie Mercury vero era quello del
palcoscenico, autore di successi musicali che superano tempo e culture
differenti, quello che accolse la sfida di produrre la colonna sonora di
Highlander (oltre che di Flash Gordon di Dino De Laurentiis), e che cantò con
Montserrat Caballé.
Nel 1987, appunto, esce "Barcelona",
famosissimo duetto con la soprano Montserrat Caballé, un disco per molti versi
innovativo che per la prima volta unisce il rock all’opera (strada che verrà
seguita da Luciano Pavarotti e altri in seguito). La title-track diventa inno
ufficiale dei giochi olimpici di Barcellona 1992 .
Freddie aveva ormai abbandonato la sua vita ricca di
eccessi. Difatti non partecipò più a concerti live, dicendo che un uomo di 40
anni non poteva saltare con una calzamaglia indosso, non volendo dichiarare
pubblicamente di avere l’AIDS; alcune testate scandalistiche cominciavano a
sospettare che qualcosa non andasse.
Si fecero sempre più rare le apparizioni pubbliche,
quasi nulle, ed egli visse sempre più nella sua villa a Kensington. Freddie
nascose il terribile segreto della sua malattia anche agli altri membri dei
Queen, per evitare che si potessero preoccupare per lui, impedendogli di
cantare.
Il canto, infatti, era la cosa che più gli dava
sollievo, e così dall’Inghilterra si trasferì in Svizzera a Montreux, dove
acquistò un’appartamento, e dove incise alcune tra le più intense canzoni dei
Queen.
Cantò quasi fino alla fine, fece l’impossibile per i
suoi fan, spesso, facendosi pregare di smettere dagli altri componenti del
gruppo, ma la musica e l’amore della gente erano le cose più importanti per
lui. Memorabile la sua ultima apparizione in pubblico nel video della canzone
“These are the days of our lives” del suo ultimo album Innuendo: Freddie appare
in uno stato a dir poco pietoso: è molto dimagrito, ha le occhiaie, veste
elegante e non porta più i suoi celebri baffi.
Rientrò in Inghilterra pochi mesi prima della fine,
per stare vicino ai suoi cari. Solo 24 ore prima dell’annuncio della sua morte
era stato diffuso un comunicato stampa con l’ammissione di avere l’AIDS.
Il sipario cala alle 18:48 di domenica 24 novembre
1991.
Muore nella sua casa ed il suo corpo, cremato, è
conservato dalla famiglia (un’altra tesi ritiene le ceneri disperse nel lago di
Ginevra, davanti alla “sua” Montreux).
Il suo funerale ebbe luogo in forma privata secondo le
usanze zoroastriane.
Il 20 aprile 1992 a Londra si tiene il Freddie Mercury
Tribute Concert.
Freddie Mercury è ricordato a Montreux con una statua
in bronzo che si affaccia sul lago.
Ogni anno, dal 2003, in settembre, nella cittadina
svizzera ha luogo il Freddie Mercury Memorial Day: centinaia di fan possono
prendere diretto contatto con gli ambienti che furono di Mercury e compagni
durante il lungo soggiorno svizzero, dalla famosissima “Duckhouse” (la casetta
sul lago della copertina di Made In Heaven), ai Mountain Studios dove i Queen
diedero vita a diversi progetti.
Il 16 novembre 1992 esce a quasi un anno dalla sua
morte il The Freddie Mercury Album,
una raccolta delle sue canzoni più famose da singolo, come Living On My Own,
Barcelona e The Great Pretender.
Nel 2000 esce il Freddie Mercury Solo Collection, un
box-set contenente 10 CD (Mr. Bad Guy, Barcelona, The Great Pretender più altri
CD con sessioni di canzoni mai rilasciate ufficialmente) e 2 DVD: The Untold
Story e The Video Collection; il primo è un documentario sulla vita di Freddie;
il secondo è una raccolta dei suoi video.
Il 4 settembre 2006 viene rilasciata la più grande
raccolta mai fatta in sua memoria: Lover of Life, Singer of Songs - The Very
Best of Freddie Mercury Solo, 2 CD e 2 DVD per onorare quello che sarebbe stato
il 60° compleanno dell’indimenticato frontman dei Queen.
mercoledì 23 novembre 2011
Red Phoenix Blues-"Illegal Blues"
Poco più di due anni fa
mi capitò di vedere i neonati Red Phoenix Blues dal vivo, un trio con repertorio
rock-funky-blues, che nell’occasione si esibiva a Cairo Montenotte.
Fu proprio in quel giorno
di inizio gennaio che Giacomo Caliolo
mi accennò ad un progetto, un album da realizzare assieme al bassista Antonello Palmas Cotogno e a Elisa Pilotti alla batteria.
Giacomo e Antonello sono
elementi di spicco della scena musicale
genovese e non solo, e i loro trascorsi sono di un certo rilievo, mentre Elisa
è una promettente musicista impegnata su diversi fronti.
Quei timidi propositi si
sono ora concretizzati.
Ho ascoltato in anteprima
l’album -che dovrebbe essere distribuito a partire da fine mese-e a seguire presento un’anticipazione.
La prima sorpresa è stata
quella di trovare una fantastica voce, quella di Daniela Venturelli. Parto da lei perché la sua presenza ha permesso
a Caliolo di dedicarsi allo strumento senza caricarsi del peso di vocalist e
questo, soprattutto in fase live, diventa a mio giudizio un gran vantaggio. E
poi non sto parlando di normali qualità vocali, ma di “possibilità” personali abbinate
a grande tecnica (lei è anche vocal coach), unite ad una timbrica calata
meravigliosamente su questo “Illegal Blues”, disco di cui parla Giacomo nell’intervista
a seguire.
Album “illegale” nel
senso che ha poco a che vedere con la tradizione.
La miscela è ricca di
ingredienti, e oltre al blues indicato nel titolo non si fanno attendere
spruzzate consistenti di jazz, soul e funky.
Nove brani variegati,
dove la sezione ritmica formata da Elisa e Antonello fugge dalla consuetudine per
inventare tempi … internazionali.
Sì, non sembra questo un album
italiano, ne fatto da italiani, ma un prodotto che potrebbe essere uscito da un
qualsiasi studio di Chicago, e la distinzione è d’obbligo se si pensa ai
giudizi pieni di preconcetti che da chi vive oltreoceano vengono indirizzati a
chi decide di accostare la parola”blues” alla propria musica, arrogandosi un
diritto che-secondo loro- non hanno.
Caliolo guida la band su
percorsi a lui congeniali e il risultato è un fantastico sound che induce
spesso al movimento. Ma è impossibile stratificare il suono della band, nè
viene spontaneo sottolineare i singoli ruoli, perché è la sensazione di
amalgama che provoca piacere al cervello e allo stomaco.
Un album che nasce bene e
promette ancor meglio, “illegal or
authorized” ha poca importanza, e sarà
questa un’altra occasione per riaffermare
che la buona musica resta tale indipendentemente dagli schemi che, per
convenienza, si è soliti creare.
L’INTERVISTA
Da molto tempo mi parli di questo tuo progetto
che finalmente sta venendo alla luce. Cosa rappresenta per un musicista esperto
come te questa nuova pagina, tenuto conto dell’aggiunta di una vocalist di
grande qualità. Daniela Venturelli?
Abbiamo iniziato questo progetto
in trio, io, Antonello Palmas Cotogno, con cui suono anche nel progetto Rondò
Anthology, ed Elisa Pilotti. Inizialmente sapevamo di non voler suonare le “
solite cose”, perché l’appiattirsi non fa parte del nostro DNA musicale, pur
provenendo da esperienze e generi diversi: io sono partito dal rock classico e
sono approdato al prog e poi al pop (naturalmente passando per il blues!);
Antonello proviene dal Jazz, Elisa dal Metal! Mentre eravamo in studio e
avevamo già i brani con la guida della mia voce, è subentrata Daniela
Venturelli, che con le sue eccezionali
doti vocali ha interpretato le canzoni come le avevamo in testa noi, e ha portato del soul nel sound del
gruppo. C'è voluto comunque un anno di lavoro per arrivare alla conclusione del
progetto.
”Illegal Blues”, avrà un significato ben
preciso, ma a me riporta alla difficile accettazione dei bluesman italiani che
propongono la loro musica negli States, laddove il blues è nato. Il tuo/vostro
album mi pare abbia tutte le carte in regola per imporsi ovunque… hai già
pensato che sarebbe bello osare un po’ e uscire dai nostri confini?
“Illegal Blues” per me e per il
gruppo rappresenta una crescita professionale ed emotiva … naturalmente. Il
titolo ha diverse interpretazioni, la nostra è la seguente: i puristi del blues, quello delle 12 battute si irriteranno... per
loro sarà un blues illegale! Questo è il “nostro” senso del titolo, ma sinceramente, a parte qualche rimando al
blues rurale ed elettrico tradizionale presente in Slide Guitar Ride, dedicato
al musicista americano Bob Log III, un personaggio incredibile, il resto dei
brani ha origini blues, ma miscelati a rock, soul, funky e fusion, come ad
esempio in “Sardinian sog”-dedicata a Giulio Capiozzo- e “Night Groove”. Abbiamo volutamente
realizzato un cd “non italiano”... beh, sai, noi quattro amiamo gli States, musicalmente
parlando, e quindi speriamo almeno di destare interesse in Europa anche se- per
scaramanzia non mi sbilancio- un artista americano ha mostrato apprezzamento
per il progetto.
Ti sei allontanato da Genova per la
registrazione e distribuzione dell’album. Ci sono motivi particolari?
Il cd è stato registrato a Genova, allo
StudioMaia di Verdiano Vera, un amico
comune; l'ingegnere del suono è stato Giorgio Massaro, ma per il resto abbiamo
preferito un'etichetta di Milano.
Prova a dare un giudizio “di parte” di
“Illegal Blues”… perché bisogna assolutamente acquistarlo?
Un
giudizio? Acquistare un cd come il nostro fa bene al portafogli-nostro- e alla
musica in generale… ahahah, scusa ma è
la verità.
Info Album
1) Night
Groove: Giacomo Caliolo, guitar
& keyrboards; Daniela Venturelli, vocal; Elisa Pilotti, drums; Antonello Palmas Cotogno, bass.
2) Slide
Guitar Ride (dedicata a Bob Log III): D. Venturelli, vocal; A. Cotogno, bass;
E.
Pilotti, drums, G.
Caliolo, acustic & ekectric guitar.
3) Illegal
Blues: Pilotti-Cotogno Caliolo.
4) Pay For
Love: Giampaolo Casati, trumpet; A. Cotogno, bass; D. Venturtelli, vocal,
G.
Caliolo, guitar.
5) Sardinian
Song (dedicate to Giulio Capiozzo).
6) In the
mirror.
7)For
Pippo dei Trilli: Giorgio Palombino, percussion, Stefano Guazzo, saxes;
Marco
Falanga,
piano; A. Cotogno, bass; D.Venturelli, vocal, E. Pilotti, drums; G. Caliolo,
electric
guitar.
8)Don't look back
9)China
Shipping: Marco Falanga, piano; D. Venturelli, vocal; G. Caliolo, guitar; A.
Cotogno,
bass; Elisa Pilotti, drums.
I Red Phoenix Blues nascono a Genova
dall'incontro tra Giacomo Caliolo
(ex Rondò Veneziano, fondatore e produttore dei Soundflowers,Presage, Rondò
Anthology, produttore pop, ex membro di Struttura e Forma, gruppo prog-rock
genovese), Antonello Palmas Cotogno,
bassista (collaboratore già con Andrea Mora, Pippo Franco, Alan Sorrenti,
Sandro Oliva, Pippo dei Trilli) ed Elisa
Pilotti, batterista e songwriter. Dopo un inizio in trio allargano formazione
con l’arrivo della nota cantante genovese Daniela
Venturelli, vocal coch e turnista. Il repertorio è costituito sia da brani
cantati che strumentali, senza eccessive preoccupazioni di tipo commerciale.
In attesa di brano dimostrativo.
martedì 22 novembre 2011
Cristiano Parato with Mike Stern & Dave Weckl “Riding Giants”
Presentare
un album che può vantare importanti collaborazioni è fatto abbastanza usuale, che
riguarda sia nuovi musicisti che quelli che hanno fatto al storia del rock
italiano. Spesso l’incontro è occasionale mentre a volte è il risultato di una
ricerca precisa. Avere la possibilità di poter contare su artisti del calibro
di Dave Weckl e Mike Stern non può che impreziosire il “momento musicale”che si decide
di proporre, ma a giudicare da questo “Riding
Giants”, non ci sono ne
voglie ne necessità che possano indurre i due”giganti” a ergersi, uscendo dal
contesto per affermare il loro talento. Il gioco di squadra è al contrario palese, e Cristiano Parato pare tenga saldamente nelle mani
le redini del gioco.
Virtuoso del basso, nelle righe a seguire si
“scopre un po’”, spaziando su vari aspetti relativi al pianeta musica e non
solo al mondo “Parato”.
Dodici brani
strumentali infarciti di funky, jazz, tempi dispari e… melodia. Le eccelse doti
tecniche dei singoli restano in primo piano, ma esiste uno scenario superiore, orchestrale, che aiuta a dosare i vari
componenti con una risultate di incredibile effetto.
Parato
“parla” attraverso i suoni e utilizza il basso elettrico per raccontare le sue
storie e per soddisfare la propria e altrui voglie di ritmo. Ogni episodio si
distingue dal precedente anche se si ha quasi l’impressione di trovarsi di
fronte ad un concept album, affermazione azzardata quando si tratta di musica
strumentale, ma in fase di realizzazione è probabile che si consolidi il legame
tra “pezzi” che, pur privi di liriche, dimostrano un unico filo conduttore
ideale.
La sezione
fiati, unitamente agli archi, contribuisce a donare la sensazione di musica “matura”, che non significa
ne vecchia ne profilo affine, ma
completa, quasi ridondante, capace di diventare modello da seguire.
L’album si
sviluppa melodicamente in crescendo e
quando si arriva a C DREAM,
ultima traccia, si tocca mio giudizio un
punto altissimo, un brano capace di “smuovere” i sentimenti più reconditi, dopo
che il funky spinto è riuscito a provocare altri tipi di scossone.
Varietà di
suoni, talento, trame aritmiche e, mi ripeto, straordinario senso melodico.
Davvero un
album godibile.
L’INTERVISTA
Partiamo dalla fine, cronologicamente
parlando, e cioè dal 2011, anno in cui alcuni importanti incontri hanno dato
nuovi impulsi al tuo lavoro. Come è stato l’impatto con Dave Weckl e Mike Stern, e quanto sono stati determinanti nella
realizzazione di “Riding Giants”?
L’impatto è stato notevole, sia dal punto di vista musicale, che
da quello umano; ho incontrato due grandi persone, disponibili, sensibili e
ovviamente esageratamente professionali. Il progetto “Riding Giants” è nato il
giorno in cui Mike e Dave mi hanno dato la loro disponibilità. Ovviamente la
gran parte dei brani esisteva già, ma le stesure definitive e gli arrangiamenti
sono stati condizionati dalla loro
presenza. Un brano in particolare, “Escape Plane”, l’ho scritto appositamente
per loro, e ho provato grande soddisfazione quando Mike Stern dopo le
registrazioni a New York, mi disse che era il suo brano preferito. Pensa che il primo titolo, era “X Stern”.
Quali sono i musicisti e i generi musicali che, sin dal momento della tua primaria
formazione, ti hanno guidato sino al momento attuale?
Musicalmente sono nato ascoltando i Beatles, infatti quando il
mio primo insegnante mi chiese chi fosse il mio bassista preferito, io dissi
Paul McCartney, ma sinceramente credo che a quattordici anni conoscessi solo
lui, che comunque considero un grande. Il gruppo che più di tutti ha segnato il
mio cammino musicale sono stati i Police e ovviamente Sting, ma il bassista che
maggiormente a condizionato la mia formazione è stato Jaco Pastorius. Ovviamente negli anni ho
studiato altri bassisti come Marcus Miller, Stanley Clarke, Michael Manring, e
ascoltato altri gruppi come Weather Report, Electrik Band, Yellow Jackets, Yes,
Toto e tanti altri.
Nell’immaginario comune il basso elettrico ha una
funzione ben precisa e cioè quella di costituire il 50 % della sezione ritmica.
Mi è capitato più volte di sentire il “tuo” strumento usato in modi differenti,
non ultimo con lo scopo di essere l’unico accompagnamento di una-splendida-
voce. Che cos’è per te “il basso”, e da chi sei rimasto … incantato nel vederlo
suonare?
Il basso per me è il mio migliore amico, mi diverte, mi fa stare
bene ed è stato fido compagno negli anni difficili dell’adolescenza, quando lo
studio del mio strumento mi impegnava e mi dava la voglia e la possibilità di
sognare, e secondo me i sogni sono fondamentali per la vita di ognuno di noi. A
parte questa visione nostalgica e romantica, credo che il basso più di altri
strumenti, riesce a rappresentare il mio carattere, è incisivo, ritmico,
preciso e melodico. Lo adoro.
Che cosa rappresenta per te una performance live?
Meglio studio o palco?
Di solito si sente sovente parlare di “animale da palco”, io
invece mi considero un animale da studio. Adoro lavorare in studio, perché sono
maniacale nella ricerca del suono, nella scelta delle corde, del set up del
basso e ovviamente mi piace lavorare sugli arrangiamenti e sui mix. Suonare dal
vivo ovviamente è più emozionante, è la vera prova del nove e di solito tira
fuori il meglio dagli interpreti, ma lavorare in studio è altrettanto
impegnativo e gratificante.
Vorrei un tuo giudizio relativo al web: cosa toglie
e cosa da ai musicisti, che siano già affermati o in cerca di visibilità?
Le tecnologie attuali e il web ti permettono una grande facilità
di comunicazione e di scambio tra i musicisti di tutto il mondo, e questo è un
grande pregio, ma di fatto internet ha ucciso il mercato musicale tradizionale
imponendo un sistema di diffusione meno qualitativo, meno affascinante e anche
penalizzante dal punto di vista economico.
Nel comunicato ufficiale di “Riding Giants”, si
evidenzia un mix di ingredienti, tra Latin, funky e fusion, probabilmente il tuo
DNA musicale. Esistono altri “spazi musicali” che ami perlustrare, magari in
momenti di … relax?
In questa
vita così frenetica, il tempo per il relax e l’ascolto della musica, è sempre più
sacrificato, ma quando riesco, io ascolto di tutto, soprattutto cose diverse
dalle mie; posso passare da un brano pop ad uno sinfonico, dipende dal mio
stato d’animo. Quando ascolto la musica, per me è importante carpire quello che
l’artista voleva far succedere di preciso quando ha composto e arrangiato il
brano. Ogni artista parte da un’idea e spera che alla fine questa venga
rappresentata, a volte anche solo da un riff o un suono in particolare, ma
quello sarà il messaggio, quella cosa che deve colpire, entrare nella testa e
non uscirne più.
Cosa significa suonare con miti
musicali? Più facile, per la loro professionalità o complicato, per il ruolo
che ricoprono?
Vedi, se
solo quattro o cinque anni fa mi avessero detto che nel breve avrei fatto due
dischi con Scott Henderson, Lele Melotti, Mike Stern e Dave Weckl, avrei riso
pensando che sarebbe stato più facile vincere alla lotteria. Quando ti avvicini
a musicisti di questa caratura, subito provi una sensazione di inferiorità e
soggezione, ma poi quando vedi che loro ti ascoltano, ti seguono, credono in
te, allora tutto cambia, perché ti rendi conto che sono persone normalissime,
che amano confrontarsi accettando, pur essendo all’apice della carriera, nuove
sfide. Credo che il segreto di chi ha sfondato, ovviamente parlando di artisti
seri, sia quello di aver sempre coltivato la creatività e la curiosità senza
mai sentirsi arrivati. Lavorare con loro è ovviamente più semplice, ogni cosa
che fanno non è mai scontata ed è sempre in armonia con la situazione in cui si
trovano.
Cosa rappresenta per te un testo
musicale? Qual è il tuo rapporto, in generale, con le liriche?
Nella
prima fase della mia carriera musicale sono stato autore di testi musicali,
amavo scrivere perché mi dava la possibilità di esprimere tutto quello avevo
dentro ma, ad essere sincero, ora quando scrivo una bella melodia, che venga
suonata da me, o da un altro strumento, a me fa provare la stessa sensazione di
ascoltare un testo cantato. Credo che per la gente il testo sia più immediato,
ma una bella melodia suonata bene, a volte può essere molto più efficace, anche
perché, pur avendo a disposizione più parole che note, i testi oggi giorno,
sono monotoni e scontati.
Mi dai un tuo giudizio su i Talent
Show? Sono davvero una scappatoia?
Lo show
business esiste da quando l’arte ha iniziato a monetizzare, ma la differenza è che
negli anni 50, 60, 70, la caratura degli artisti era ben diversa. Fare il
musicista, era un’esigenza, era un bisogno espressivo dell’artista, poi
sicuramente il prodotto e il personaggio venivano sfruttati al massimo, ma il
talento e le capacità per esprimerlo, venivano prima di tutto. Ora è tutto
diverso, prima si crea uno show, poi si cercano i partecipanti, e poi forse tra
tutti, qualche talento lo si scova
anche, ma è tutto troppo preparato e artefatto, alla fine non riesci più a
capire quanto il talento sia vero, o semplicemente creato a tavolino come certi
atleti, che poi al primo stop o al primo vero esame si dimostrano fragili come
castelli di carte. Io credo nello studio, nella gavetta, nel sacrificio, ma
soprattutto nel fatto di amare e coltivare una passione senza pensare al
successo. Non ho mai smesso di fare musica vivendo a volte anche momenti di
sconforto, ma ora mi trovo a suonare con alcuni tra i migliori musicisti al
mondo, quindi credo che la mia costante voglia di crescere e migliorare stia
dando i suoi frutti.
Prova ad esprime un desiderio
musicale da realizzarsi entro il 2015.
Ho appena
terminato un lavoro molto impegnativo, quindi in questo e momento per me è
difficile pensare a un nuovo progetto discografico. Ora vorrei concentrarmi
sulla promozione, curando oltre all’aspetto mediatico, anche l’aspetto
dell’esibizioni live. Il mio desiderio
più grande sarebbe quello di suonare dal vivo con gli ospiti del mio ultimo CD,
e credo sia fattibile come era già successo con Scott Henderson nel 2010.
Cristiano Parato nasce musicalmente nella
metà degli anni ottanta, quando inizia a suonare il basso elettrico all’età di
quattordici anni, seguito da Marco Gallesi ex bassista degli “ Arti mestieri. La composizione e l’arrangiamento lo
hanno sempre affascinato. Nel 2009, grazie alla collaborazione con il grande
chitarrista americano Scott Henderson e il batterista Lele Melotti, nasce “Ostinato Bass”, dove Cristiano Parato
oltre ad essere compositore e arrangiatore, si cimenta in diverse tecniche
creando uno stile accattivante ed elegante. Segue un anno dedicato
principalmente al discorso live tra cui spiccano esibizioni con lo stesso Scott
Henderson e con il chitarrista Dominic Miller ( chitarrista di Sting da oltre
vent’anni). Nel 2011 Cristiano ha la fortuna di conoscere uno dei più grandi
batteristi al mondo, Dave Weckl, e il
mito della chitarra elettrica Mike Stern. Ne scaturisce una felicissima
collaborazione da cui nasce “Riding
Giants”, elegante produzione in cui i dodici nuovi brani evidenziano la
crescita tecnica, musicale e compositiva dell’artista nostrano. Un evento senza
precendenti in quanto in una produzione
discografica italiana Mike Stern & Dave
Weckl non avevano mai suonato insieme. Un album dalle sonorità importanti, dove
oltre al suono potente e raffinato del basso troviamo un Weckl che riesce ancora una volta a stupire i suoi
fan con pregevoli e deliziosi interventi, precisi, ma mai invasivi, lasciando il doveroso spazio alla band di Parato. Una
bella e costante sezione di fiati
contribuisce alla realizzazione di questo capolavoro arricchito dalla presenza
di Mike Stern: la ciliegina sulla torta! Le parole per Mike non servono a
nulla, meglio ascoltarlo e restare in silenzio... con lui si deve fare così!
INFO
SITO:
DISTRIBUZIONE:
Track list
RIDING GIANTS
Mr WITTY
ESCAPE PLANE
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SLYLY
THE COLLISION
BLODIE
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