mercoledì 28 dicembre 2022

Una canzone e tre versioni: I Profeti, P.P. Arnold e Merrylee Rush


Il mio primo impatto con la musica, quando avevo ancora i pantaloni corti, riporta a brani musicali per me all’epoca sorprendenti, eseguiti dai gruppi italiani allora in voga che esercitavano in modo assolutamente libero l’esercizio di “copiatura” sonora, modificando e adattando il testo, che da inglese diventava italiano, cambiando completamente significato.
Non era una grande perdita, a quei tempi le liriche non presentavano ancora nulla di serio, nemmeno al di fuori dei nostri confini, anche se qualcosa, soprattutto in America, stava cambiando, con l’impegno sociale di Dylan e Baez.

La tecnologia fu di grande aiuto per la diffusione capillare della musica, attraverso prodotti e supporti sempre più alla portata di tutti, che permettevano peraltro la socializzazione, i quei primi anni Sessanta: rock’n roll, il twist, il folk, il beat, il rythm & blues, il funky… musica da ascoltare, musica per ballare.


L’Italia era ben predisposta al cambiamento, ma la cosa che risultò più rapida e semplice per i giovani musicisti e i loro "gestori" fu quella di pescare a man bassa nella produzione anglosassone e farla propria, in tempi in cui non si guardava molto ai diritti d’autore.
In pochissimi parlavano e cantavano in inglese, e spesso i grandi nomi stranieri si prestavano a mettere da parte il loro idioma naturale a favore dell’italico verbo, diventando loro stessi “cantanti italiani”.
Due le alternative per i gruppi e i cantanti: prendere brani di riconosciuto successo facendoli diventare la copia nostrana, oppure pescare nel mare magnum britannico, appropriandosi di canzoni sconosciute, rendendole “nuove” per il pubblico italiano. E attraverso questo modus il brano originale prendeva luce anche entro i nostri confini.

Di lì a poco, come è noto, tutto sarebbe cambiato, ma restano dei gioiellini che credo non siano conosciuti da tutti, per cui a partire da oggi, sporadicamente, proporrò un brano originale e la cover corrispondente, e sono certo che qualche cosa di inaspettato verrà a galla.

Dopo aver proposto i QUELLI/Tommy Roe, Michel Delpeche/ Dik Dik Manfred Mann e Tony Mark e i Markmen, i Beatles e Fausto Leali, oggi ho scelto  una tripla interpretazione, quella relativa a "Gli occhi verdi dell'amore/Angel of the morning" canzone performata da I Profeti/P.P.Arnold/Merrylee Rush.

I Profeti sono stati un noto complesso milanese di musica beat, spostatosi in seguito verso il pop melodico, in cui si distinse il carismatico vocalist Renato Brioschi che, dal 1970, intraprese una fortunata carriera solista.

P.P Arnold era una corista nel gruppo di Ike & Tina Turner. In occasione della prima tournèe in USA dei Rolling Stones, Ike & Tine Turner fecero da gruppo di spalla e nacque, pare, una relazione tra la giovane cantante e Mick Jagger, che la aiutò ad iniziare una carriera in proprio; con l’aiuto del manager degli Stones Loog-Oldham incide questo brano ed il classico degli Stones “As Tears Go By”, ottenendo un discreto ma breve successo in UK.

Merrilee Rush è una cantante americana, nota soprattutto per la sua registrazione della canzone oggetto dell’articolo, una delle 10 migliori hit che le valse una nomination ai Grammy come cantante femminile dell'anno nel 1968.

Ascoltiamo le tre versioni...


 



Quale sarà la migliore?




Giovanni Andreani e le sue chitarre di ceramica

Il mio amico Angelo De Negri mi permette di conoscere e condividere una storia di quelle che piacciono a me, e che mi ero perso.

Trovandosi in Umbria lo scorso settembre, non so se casualmente o volutamente, si ritrova a Deruta, davanti ad un negozio di artigianato della ceramica dove il proprietario espone le sue chitarre e, dalla vetrina, emerge la storia di una di queste in particolare, quella donata a Carlos Santana in occasione di un Umbria Jazz del 2011. Per inciso, le fotografie possono essere fatte solo all’esterno.

Incuriosito, sono andato alla ricerca della storia che, attraverso le info “rubate” in rete, si è un po' chiarita.


Questo è l’incipit…

Umbria Jazz 2011: mancano trenta minuti all’inizio dell’esibizione.

Carlos Santana viene raggiunto da un timido artigiano di Deruta, che gli si avvicina quasi intimorito imbracciando una custodia. La poggia in un angolo, la apre e svela una chitarra elettrica: «Ecco, questa è per lei» si limita a dire, porgendola al musicista.

Santana strabuzza gli occhi: non è di legno, lo si percepisce al tatto, e pesa all’incirca quattro chili; ma la cosa che più lo sbalordisce sono le decorazioni. Quei colori accesi e le forme, che si raccolgono in una figura quasi mandalica, pizzicano le corde del suo spirito.

Non è una semplice chitarra: si tratta di un’opera d’arte, in autentica ceramica derutese.

«Bella, stasera ci suono» commenta soddisfatto.

E lo fa sul serio, con il brano “Open Invitation”, nove minuti che l’Umbria intera non dimenticherà mai.

Dopo il festival, chiede al suo manager di contattare l’artigiano, ringraziarlo e farsi comunicare il valore di quel meraviglioso strumento, così da poterlo assicurare.

L’uomo è entusiasta: se Santana vuole assicurare la sua chitarra, significa che gli è piaciuta davvero.

Ne ha ulteriore conferma quando scopre che, durante il concerto di Bari, il musicista la riporta in scena.

L’artigiano protagonista di questa incredibile storia è Giovanni Andreani.




Vediamo qualche nota biografica di Andreani

Originario di Deruta, inizia a dipingere a ventisei anni, dopo aver suonato per diverso tempo con la sua band, Quintaessenza, cosa atipica nel suo piccolo paese, definito la “capitale della ceramica umbra”, dove i ceramisti apprendono il mestiere sin da piccoli.

Dopo aver fatto vari lavori, apre la bottega sotto casa sua e chiede allo zio Franco di insegnargli l’arte della ceramica. Dopo un anno, inizia a produrre pregevoli pezzi in stile Raffaellesco, Orvietano, Arabesco e Ricco Deruta. Era il 1999. Qualche anno dopo, nel 2003, incomincia a pensare alla chitarra di ceramica, perché non può fare a meno del suo grande amore per la musica e adora il suo nuovo lavoro: ed è qui che scatta l’intuizione.

Smonta la sua Fender Stratocaster, la seziona, la studia nei minimi particolari: si rende conto che essere un bravo ceramista non basta per realizzare il progetto che sta prendendo forma nella sua mente.

Apprende tutte le nozioni necessarie e riesce a costruire il ponte, la tastiera e il corpo, seguendo regole ferree onde evitare di creare uno strumento malfunzionante, perché il suo obiettivo, sin dall’inizio, è creare un’opera che possa essere suonata.

Il 10 febbraio del 2005, nasce la sua GA1.

E oggi?

Dalla sua bottega di Deruta si odono canzoni di Jimi Hendrix, dei Led Zeppelin, i Pink Floyd, i Nirvana e i Guns N’ Roses. Chiunque ne è attratto sin da subito: è diversa rispetto a tutte le altre, ha in sé la solennità che si addice ad un piccolo tempio del rock.

In vetrina, le chitarre fabbricate negli ultimi anni: il corpo costituito da un blocco di argilla unico, manici in palissandro e mogano e gli inserti sulla tastiera in madreperla: caratteristiche che le rendono uniche al mondo. Sono in tutto nove, più la GA10 donata a Santana, ritratta in foto e articoli.

In molti vorrebbero acquistarle, ma la risposta di Andreani è sempre la stessa, negativa.

Molti curiosi si fermano per poter osservare dal vivo il ceramista che suona, a qualcuno è permesso provare le sue chitarre, ma pur azzardando cifre esorbitanti nessuno riesce ad accaparrarsi i preziosi strumenti. E già, le sue chitarre non sono in vendita! Musicisti e appassionati provenienti da tutto il mondo si sono fermati a Deruta, apposta per convincere Giovanni Andreani a vendere le sue chitarre elettriche.

Andreani decide di non cedere nemmeno alle offerte più generose e, inoltre, non vuole che i suoi strumenti vengano abbandonati in una teca o appesi ad una parete.

Il valore stimato per ogni chitarra di ceramica è di circa 12 mila euro, ma talvolta gliene sono stati offerti molti di più.

L’aneddoto…

Un turista entra nella bottega di Andreani a Deruta. Come tanti, osserva le chitarre pensieroso e chiede di poterne suonare una. Subito, dà prova di un talento fuori dal comune, un dettaglio che fa scattare subito il ceramista sull’attenti.

Giovanni Andreani scopre che il turista è in realtà Alan Clarke, voce e chitarra dei The Hollies, che vanta collaborazioni importanti come quelle con i Beatles e i Rolling Stones. Co-autore dei brani On a Carousel, Carrie Anne, Jennifer Eccles e Long Cool Woman in a Black Dress, inserito nel 2010 nella Rock and Roll Hall of Fame.

Quasi un mito, che però non riesce ad ottenere la chitarra, tanto ripasserà!

Stessa sorte è toccata al musicista jazz e blues Danny Caron, chitarrista e musical director del leggendario Charles Brown.

Non mi è chiaro se la sua posizione rispetto alle vendite sia cambiata nel tempo, ma a chi fosse interessato consiglio una visita sulla pagina facebook, magari tutto si chiarirà!

https://www.facebook.com/giovanni.andreani.3







Laura Travaini-“Curve di cioccolato”-Book



Laura Travaini-“Curve di cioccolato”
Edizioni dESTE

Vorrei introdurre oggi un nuovo libro che tanto “nuovo” poi non è, nel senso che è stato rilasciato nel 2015, quindi la fotografia che l’autrice realizza appartiene ad un momento specifico del passato, ma non appare oggi sbiadita, tutt’altro, e gli argomenti che rappresentano il focus del contenitore sono attualissimi e si prestano a riflessioni varie che, probabilmente, superano gli intenti dichiarati. D’altro canto, nel momento in cui chi crea - in ogni campo - decide di donare la propria arte al prossimo, chi riceve il regalo può decidere di usufruirne a piacimento, magari reinterpretando in modo esclusivo, uscendo dall’ortodossia e dagli intenti autoriali.

È quello che mi è accaduto leggendo “Curve di cioccolato”, di Laura Travaini, scritto che ho utilizzato per creare i miei “viaggi” personali, dal momento che ho ricevuto forti stimolazioni della memoria che proverò a spiegare nelle righe a seguire, sperando che la scrittrice possa perdonare le mie digressioni.

E questa volta non parlerò di musica, anche se, a ben vedere, con un po' di buona volontà il nesso lo si può sempre trovare!

Le protagoniste del racconto itinerante della Travaini - tutte femminili - hanno un fil rouge che le unisce: il “mestiere” - lo chef -, il genere, la regione in cui prevalentemente operano - il Piemonte -  e… il successo, uno status da top  player che è sintetizzato dalle “stelle” ottenute in ambito culinario, e devo confessare che avevo sottovalutato quanto fosse importante mettere sul petto della propria divisa una o più stelle Michelin, ovvero uno dei riconoscimenti più ambiti per ogni chef, e più in generale per un ristorante, a certificazione dell’utilizzo di ingredienti di prima qualità, testimoniati da piatti preparati secondo uno standard costantemente elevato.

Va da sé che l’obiettivo possa coincidere con l’incremento dei vantaggi economici - si lavora anche per questo, in ogni campo -, con l’ovvio miglioramento dell’attività - spesso a carattere famigliare - ma ciò che proprio non emerge dalla lettura (frutto di incontri e quindi di chiacchierate/interviste) è l’aspetto materiale, quasi un ossimoro parlando di cibo!

La passione, ecco, la grande passione, è questo il collante che unisce Mariuccia Ferrero, Marta Grassi, Elide Mollo, Mariangela Susigan e Luisa Valazza.

La diapositiva della Travaini immortala le cinque chef nel loro habitat naturale e nel quotidiano luogo di vita.

L’approccio è differenziato, perché diverse sono le interlocutrici, e la sensibilità di chi conduce la danza deve tener conto di chi ha davanti, modulando l’approccio all’occorrenza, anche se non manca mai l’inevitabile quesito, più o meno questo: “Come ha reagito quando ha saputo di aver ottenuto la stella?

Ma il risultato, nonostante le differenze delle intervistate, appare sempre lo stesso, con la sottolineatura naturale della grandezza umana delle “signore del cibo”.

Passione, dicevo, idee chiare, spirito di sacrificio, tenacia, coraggio… tutte doti che diventano pura didattica, perché applicabili in ogni rappresentazione della vita, a tutte le latitudini e longitudini.

Non si arriva mai facilmente sulla vetta e, soprattutto, non ci si resta a lungo se non si hanno grandi competenze e idee chiare su ciò che si vuol raggiungere nel tempo.

Sullo sfondo il mondo che conforta e unisce autrice e chef, quella regione così carica di cultura - non solo culinaria - che diventa il mio primo legame con il book, che mi porta a riesumare i ricordi di una vita, e che rivivo con buona frequenza, rivangando le storie vissute e raccontate dai miei affetti, consolidate successivamente dal mio percorso, un profumo fascinoso che ha sempre calamitato i miei interessi e i momenti ludici.

Mentre Mariuccia, Marta, Elide, Mariangela e Luisa si aprono e inviano pillole di saggezza, un paesaggio ed un modo di vivere mi si aprono davanti a ventaglio, e i dettagli di accadimenti altrui riportano ai miei, quelli in cui posso crogiolarmi o soffrire, seguendo una gamma di sentimenti difficile da spiegare.

È questo il mio modo di interagire con libro ed autrice.

Accanto ad immagini estremamente personali, la lettura mi ha portato ad altre riflessioni che riguardano problemi sempre molto attuali, anche in un paese come l’Italia che si fregia dello status di “Paese culturalmente avanzato”. Mi riferisco alla constatazione che il ruolo della donna non trova ancora il giusto valore, anche quando il mestiere potrebbe essere completamente paritario.

Senza voler entrare in discorsi troppo complicati, la lettura ha fatto emergere molte mie lacune: sintetizzo, non avevo idea di chi fossero le cinque chef, nonostante il loro valore e la loro capacità di affermarsi anche oltre gli italici confini. Al contrario - ho pensato tra me e me - conosco il nome, attraverso i media, di molti corrispettivi importanti di genere maschile, ovvero, anche un ruolo/mestiere incollato da sempre alla donna, quello recitato pesantemente in passato dalla cuoca di casa - e dai suoi supposti obblighi -, arrivato al punto più alto… cambia sesso e si nobilita ai massimi livelli.

Semplificazione? Casualità? Forse, ma gli elementi per far sorgere qualche dubbio ci sono tutti.

Ma cosa c’entra il cioccolato in tutto questo?

Alla fine del singolo racconto, ogni chef presenta ricette a tema - specifiche e riproponibili - e regala qualche pensiero che sottolinea l’importanza del cioccolato, secondo un modus del tutto personale.

Scelgo quello che si avvicina maggiormente al mio modello:


Il cioccolato è sensualità rock.

Grintoso.

Basico.

È un bacio


Meraviglia!

 

Come dicevo il libro è uscito nel 2015 e, con l’aiuto della tecnologia sarà facile scoprire cosa è accaduto in questi sette anni alle “protagoniste del racconto”.

Un’ultima nota doverosa, il libro viene proposto nella doppia lingua italiano/inglese, basta iniziare dal lato opposto, capovolgere e … il gioco è fatto!





martedì 27 dicembre 2022

The Aaron Clift Experiment-“The Age of Misinformation”

 


Ho incontrato la musica dei The Aaron Clift Experiment nel 2015, quando commentai "Outer Light, Inner Darkness". Nel 2018 MAT2020 (Luca Nappo) presentò l’album successivo, “If all goes wrong”, questo per dire come non sia casuale proporre oggi il nuovo progetto post pandemico, The Age of Misinformation”.

Ricordiamo qualcosa sulla band utilizzando le note ufficiali.

The Aaron Clift Experiment è un gruppo di rock progressivo nato ad Austin, in Texas. Il suono sfaccettato della band fonde influenze dal rock classico (Rush, Pink Floyd, King Crimson), rock moderno (Porcupine Tree, Opeth), jazz e musica classica, il tutto legato da una dedizione al songwriting e alla musicalità di alta qualità.

Formatasi nel 2012, la band è un power group arricchito dall'ampio background dei suoi membri.

La voce caratterizzante del cantante di formazione classica e tastierista Aaron Clift è supportato dalla potente chitarra di Anthony Basini e dalla sezione ritmica formata da Clif Warren (basso) e Pablo Ranlett-López (batteria, percussioni).

Negli ultimi anni, la band si è ritagliata un seguito significativo in tutto il mondo.

L'ultimo album dell'Aaron Clift Experiment, "If All Goes Wrong" del 2018, è stato un successo in ambito rock progressive, acclamato dalla critica e dai followers.

L’intervista a seguire realizzata con Aaron permette di entrare nei particolari del progetto che, a dire il vero, faccio fatica ad inquadrare nel genere prog tradizionale. Ma se prog è l’equivalente di libertà espressiva, beh, allora siamo certamente al cospetto di un album di genere, e credo che i miei dubbi e il mio pensiero siano resi chiari dal video che propongo a seguire.

Il periodo di arresto forzato dell’attività ha cambiato il modo di affrontare il quotidiano, in qualsiasi campo, e la musica non ha fatto eccezione.

Gli stati d’animo poco sereni e l’impossibilità di vedere la luce in fondo al tunnel hanno permesso riflessioni diffuse e, nel caso di figure creative, di cercare nuovi percorsi, consolidando quelli già conosciuti.

Il concept “The Age of Misinformation” propone le tematiche suggerite dal momento contingente, inserite in un fine contenitore musicale che fonde generi diversi tra loro, proponendosi alla fine come album molto trasversale, adatto a differenti palati, anche quelli solitamente lontani dalle sonorità rock.

Oltre a “Bet on zero” - che è testimoniata sul canale youtube della band - e che è un po' il simbolo del nuovo corso, segnalo la conclusiva e riflessiva “Weight of the World”, e la title track:

 

L'era della disinformazione incombe

Si sta avvicinando rapidamente

Impossibile nascondersi

Presto si impadronirà di te

Per fuggire dalla marea che cambia

Dove tutti i tuoi amici negano la verità

E ogni estraneo mente

Non c'è nessun posto dove puoi andare,

Quindi saluta la nuova malattia…


Un disco maturo, molto ben congeniato, che sottolinea il nuovo corso di The Aaron Clift Experiment…



The Age of Misinformation 

1. The Age of Misinformation

2. L.I.A.R.

3. Bet on Zero – ft. Big Wy’s Brass Band

4. Dark Secrets

5. Rise

6. The Color of Flight

7. Málaga

8. Weight of the World


Intervista ad Aaron



L'ultima volta che MAT2020 si è occupato di The Aaron Clift Experiment è stato nel 2018, quando uscì il tuo terzo album, "If All Goes Wrong". Cosa ti è successo da allora, musicalmente parlando?

Dal punto di vista musicale la cosa più importante che mi è successa negli ultimi anni è che ho iniziato ad avvertire una migliore propensione al pensare non solo come musicista e cantautore, ma anche come produttore e arrangiatore. Quando guardo indietro agli altri precedenti album degli Aaron Clift Experiment, penso che siano stati tutti sforzi pesanti, ma ricordo che già all’epoca sentivo che c'era qualcosa di più che avrei potuto fare, con e per il nostro suono.  Ad esempio, ho sempre creduto che la qualità del songwriting e la diversità della musica del nostro terzo album, "If All Goes Wrong", fosse eccezionale, ma c'erano alcune scelte di produzione che abbiamo fatto all'epoca che avrebbero potuto essere migliori. Abbiamo registrato quell'album molto velocemente (in due settimane), e mentre abbiamo provato molto le canzoni, non abbiamo mai registrato alcun demo di esse, il che ha portato a molte scelte di arrangiamento e produzione fatte al volo.  Molte di quelle scelte sono state buone, ma riascoltando l'album mi rendo conto che qualcosa avrebbe potuto essere fatto diversamente.  Ciò che ho imparato da quell'esperienza è che registrare demo in anticipo e pianificare di più la produzione può essere un aiuto nella realizzazione della mia visione artistica.

In che modo la pandemia ha influenzato la creazione della tua musica?

La pandemia mi ha costretto a ripensare molti dei modi in cui avrei scritto musica con la band.  Prima del periodo di lockdown, dall'inizio del 2020 alla fine del 2021, avevamo fatto la maggior parte del nostro songwriting nella stessa stanza, insieme. Ma come si può fare quando si è tutti in posti diversi?  Per fortuna, la tecnologia è venuta in soccorso. Ho imparato molto sull'arrangiamento, la produzione e la registrazione della musica in Ableton Live, e ho usato quella conoscenza per creare demo di nuove canzoni di Aaron Clift Experiment usando strumenti virtuali.  Mandavo questi demo ai miei compagni di band e chiedevo loro di sostituire le parti virtuali con le loro parti registrate a casa e poi mettevamo insieme i pezzi in Ableton o in una workstation audio digitale simile e poi ascoltavamo i risultati come band tramite una conferenza web. Durante quegli incontri virtuali commentavamo le parti che portavamo alla riunione e poi tornavamo indietro per modificarle. Una volta che siamo stati tutti vaccinati e la pandemia ha iniziato ad attenuarsi alla fine del 2021, ci siamo finalmente riuniti per provare la musica che avevamo scritto.  All'inizio ero preoccupato che la musica non suonasse molto bene, dal momento che era stata scritta "virtualmente", ma come si è scoperto, tutto il duro lavoro che avevamo fatto nel preparare i demo ci ha aiutato molto a capire gli arrangiamenti delle canzoni, e in realtà il suono che ne è uscito molto coeso, come se avessimo creato nella stessa stanza. 

Parliamo del nuovo progetto: cosa contiene "The Age of Misinformation", dal punto di vista del messaggio?

"The Age of Misinformation" è un'opera concettuale sul potere distruttivo delle bugie e sulla ricerca della verità di fronte a verità schiaccianti.  Durante il COVID, i miei amici, colleghi e concittadini, hanno attraversato un momento incredibilmente difficile e sapevo che dovevo dire qualcosa al riguardo. Il nuovo album è la testimonianza di quel momento realizzata dell'Aaron Clift Experiment.

Con l'uscita del nuovo album, come si è evoluta la musica degli Aaron Clift Experiment?

Credo che "The Age of Misinformation" si focalizzi maggiormente sui suoni, rispetto al passato: la musica è più intricata, più melodica e più diversificata di qualsiasi cosa avessimo fatto prima. Penso che gli arrangiamenti e la produzione delle canzoni siano molto più pensati rispetto agli album precedenti, e il messaggio di questo album è molto forte.

C'è continuità rispetto ai lavori precedenti?

Vedo ogni nuovo album che facciamo come una reazione a quello che è uscito prima.  Ripenso alle cose che mi sono piaciute dell'ultimo album e faccio il punto sulle cose che voglio migliorare.  Quindi, si potrebbe dire che dal punto di vista della voce artistica, il nuovo album rappresenta un'evoluzione rispetto all'ultimo album, ma non ho mai deciso di legare direttamente album diversi insieme. 

Possiamo fare il punto, secondo te, sullo stato della musica prog e della musica in generale?

Oggi siamo nell'era migliore della storia per essere artisti indipendenti, perché tutti gli intermediari che prima erano necessari per far conoscere la propria arte oggi non ci sono più. Ora è possibile interagire con i fan senza passare attraverso filtri dispendiosi e creare così la propria industria artigianale senza le pressioni di etichette discografiche, editori, ecc. Allo stesso tempo siamo in un momento davvero impegnativo: non è più sufficiente essere bravo nel tuo mestiere, ma devi anche essere abile nel marketing, nella videografia, negli affari e in tanti altri aspetti. Gli artisti che sono di mentalità aperta e disposti ad apprendere nuove abilità e indossare molti cappelli hanno le migliori possibilità di successo.  Naturalmente, anche questa non è garanzia di successo. 

Cosa puoi dire ai fan del prog italiano?

L'Aaron Clift Experiment ha avuto molti fan in Italia nel corso degli anni, e non potremo ringraziarli mai abbastanza per il supporto!



The Aaron Clift Experiment:

Aaron Clift: voce, tastiere

Anthony Basini: chitarra, cori

Clif Warren - basso

Pablo Ranlett-López: batteria, percussioni

Con:

Zach Matteson: violino I in "The Color of Flight" e "Málaga", solista in "Málaga"

Charles Anderson: violino II in "The Color of Flight" e "Málaga"

Jason Elinoff: viola in "The Color of Flight" e "Málaga"

Ellie Prager: violoncello in "The Color of Flight" e "Málaga"

Big Wy's Brass Band: ottoni in "Bet On Zero":

Ethan Brown: tromba

Austin Johanning: tromba

Justin Dunlap - trombone

William Wright: trombone, solista

Marcus Cardwell - sassofono contralto

Colin Houlihan: sassofono baritono, solista

Testo, arrangiamenti archi e ottoni: Clift

Musica: Clift, eccetto "Rise", "The Color of Flight": musica di Clift/Basini, "L.I.A.R.": musica di Clift/Basini/Warren

Registrato in aprile – maggio 2022 agli Antimatter Studios – Austin, Texas

Produzione: Aaron Clift

Registrazione e missaggio: Russell Tanner

Mastering: Jerry Tubb presso Terra Nova Digital Audio, Inc. – Austin, Texas

Design artistico: Fumihito Sugawara

Fotografia: Tobe Mokolo

Videografia: Charles Bradbury e Skyler Frost – Content Pump Productions

 

LINK UTILI:

www.aaronclift.com

www.facebook.com/aaroncliftmusic

www.youtube.com/aaroncliftmusic

www.instagram.com/aaroncliftmusic


 

 


domenica 25 dicembre 2022

Ultimate Spinach, i paladini del "Bosstown Sound"-un pò di storia e ascolto

Anche questa band me l’ero persa, perla psichedelica di fine anni Sessanta, poca vita ma tanta sostanza e capacità di precorrere i tempi.

In lingua italiana c’è veramente poco per cui cerco di colmare la lacuna.

A fine articolo, cliccando sul titolo, si potrà catturare la loro musica.

 


Ultimate Spinach è stato un gruppo rock psichedelico statunitense formatosi a Boston nel 1967. In termini di stile e riconoscimento nazionale, la band ha rappresentato uno degli atti musicali più importanti emersi dal "Bosstown Sound", tentativo regionale di competere con il “San Francisco Sound”.

Durante la loro esistenza hanno pubblicato tre album, trovando il loro maggior successo commerciale con il debutto omonimo.

La band nacque con il nome di Underground Cinema, con una formazione composta da Ian Bruce-Douglas - polistrumentista -, Barbara Hudson - cantante -, Keith Lahtenein - batteria -, Geoff Winthrop - chitarra ritmica - e Richard Nese al basso.

Gli Underground Cinema suonarono come house band in un club chiamato Unicorn e registrarono alcune demo che in seguito apparvero nella raccolta “New England Teen Scene: Unreleased! 1965-1968”, una compilation uscita nel 1996 dedicata a gruppi garage rock americani del New England.

Il nome della band fu poi cambiato in Ultimate Spinach, quando nacque l'accordo con l'impresario di Boston Alan Lorber, che produrrà tutti e tre i loro album.

Bruce-Douglas disse di aver dato questo nome alla band in base alle esperienze di un viaggio acido: "Un giorno, nel 1967, ero nella mia stanza e utilizzai un LSD davvero puro. Iniziai a guardarmi allo specchio e vidi la mia faccia fare cose divertenti. Avevo un sacco di pennarelli colorati con cui disegnavo. Ne afferrai uno verde e iniziai a pitturare il mio viso con tutti questi disegni psichedelici. Quando finii, mi guardai e ho dissi: 'Whoa! Sono l'ultimo spinacio! L’ultimo spinacio sono io!'".

C'è anche un’altra ipotesi, quella che il nome della band fosse stato scelto perché in sintonia con altri nomi di band psichedeliche dell’epoca, che riuscirono ad attrarre l’attenzione di Douglas e soci che così si conformarono all’ortodossia del momento.

Nel settembre del 1967 Lorber rese pubblico il suo piano per rendere Boston "una città simbolo per lo sviluppo di nuovi artisti derivanti da una precisa posizione geografica".

Lorber annunciò il suo progetto in un articolo apparso sulla rivista Newsweek nel gennaio 1968, in cui propagandava nuove band che erano emblematiche del movimento, tra cui Ultimate Spinach, Beacon Street Union e Orpheus.

Sebbene l'hype del "Bosstown Sound" avesse preannunciato con anticipo il probabile successo - che a dire il vero ottenuto, seppur per un breve periodo -, non si arrivò ad uno sviluppo concreto e consolidato del progetto, questo perché i gruppi furono percepiti come troppo simili alle band di San Francisco.

Douglas era il leader auto-designato della band. Suonava diversi strumenti - chitarra, tastiere, armonica - e cantava la maggior parte delle canzoni del gruppo. Oltre alle sue responsabilità strumentali, Douglas fu anche il principale compositore e autore delle note di copertina per i loro primi due album.

Il 6 gennaio del 1968 la band pubblicò il loro debutto, “Ultimate Spinach”.

L'album fu distribuito dalla MGM Records ed era un concept basato sul sentimento comune contro la guerra.

Fu questo il maggior successo del gruppo e raggiunse la posizione numero 34 nella Billboard 200.

L'album utilizzava una varietà di suoni e distorsioni di chitarra - fuzz, eco, tremolo, feedback, controllo del volume e uso del pedale wah-wah -, cosa tipica della musica della West Coast dell'epoca.

Da sottolineare che nel 2008 l'album era ancora presente come “classico psichedelico” nella classifica della rivista Classic Rock "42 Greatest Psychedelic Albums", posizionato al numero 36.

Con la pubblicità che li sosteneva, la band riuscì ad andare in tour con importanti artisti musicali - come Big Brother and the Holding Company e The Youngbloods - in luoghi significativi come il Fillmore.

Dopo la registrazione del disco e il tour iniziale, Lahteinen lasciò il gruppo e fu sostituito da Russell Levine e fu aggiunta anche anche Priscilla DiDonato, e ciò permise alla band di ricreare più da vicino le armonie vocali sovraincise nell’album.

Più tardi, nel 1968, la band pubblicò il loro secondo album, “Behold & See”, che fu nuovamente ideato come un “concept”.

Prima della registrazione ci furono altri cambi alla formazione, con Jeff Baxter che sostituì Winthrop e Caryl Lee Britt che entrò al posto di DiDonato.

L'album non andò bene a raggiunse solo la posizione numero 198. La pubblicità del "Bosstown Sound" stava rapidamente svanendo, poiché le tecniche di marketing erano viste sfavorevolmente dalla critica e dal pubblico.

Un'altra grande debolezza dell'album fu la mancanza di tastiere elettriche, una caratteristica che aveva contraddistinto il loro debutto, e, senza di esse, la complessità della proposta, in studio e dal vivo, venne meno.

L'imitazione del suono della West Coast, una volta vista come innovativa, era diventata in quel momento poco attraente per il pubblico.

Successivamente, Douglas abbandonò, lasciando Hudson a continuare.

Douglas, anni dopo, ripensò all'esperienza dicendo: "Alan Lorber è totalmente arrogante nel sostenere di avere avuto una visione speciale di come le mie canzoni avrebbero dovuto suonare. Come diavolo avrebbe fatto a saperlo? Non si è mai interessato della mia visione della musica. Con tutta la grazia e lo stile di un toro in un negozio di porcellane, ha preso a schiaffi quegli album, sia gli originali che le ristampe, e li ha commercializzati senza alcun riguardo per la creatività artistica o l'integrità, pensando solo al massimo profitto: il suo!".

Per il loro album finale Lorber creò una formazione completamente diversa degli Ultimate Spinach: a causa degli obblighi contrattuali il disco doveva essere prodotto per forza e fu pubblicato nel 1969 con il titolo “Ultimate Spinach III”, ma non riuscì ad entrare in classifica.

Dopo la partenza di Douglas, la band non aveva un autore principale, quindi l'album fu fuorviante e conteneva una summa degli stili graditi ad ogni singolo membro.

Gli “spinaci” si sciolsero dopo poco.

Nel 1990, la Big Beat Records ripubblicò tutti e tre gli album. Il loro materiale fu anche incluso in varie compilation relative al "Bosstown Sound" e nel 2001 è stato pubblicato “The Very Best of Ultimate Spinach”.

Nel 2014, dopo anni di bootlegging, è stata ufficialmente pubblicata in Europa una performance dal vivo della band all'Unicorn relativa al 1967, intitolata “Live at the Unicorn, luglio 1967”.

 


Membri vari 

Ian Bruce-Douglas - voce, pianoforte elettrico, organo, vibrafono, chitarra solista, flauto dolce (1967-1968)

Barbara Jean Hudson - voce, chitarra acustica (1967-1969)

Ted Myers - voce, chitarra solista (1967, 1969)

Jeff Baxter - chitarra solista, steel guitar, vibrafono, voce (1968-1969)

Tony Scheuren - organo, pianoforte, chitarra acustica, voce (1968-1969)

Mike Levine - basso (1968-1969)

Russell Levine - batteria, percussioni (1968-1969)

Richard Nese - basso (acustico ed elettrico), feedback (1967-1968)

Geoffrey Winthrop - chitarra ritmica (1967-1968)

Keith Lahteinen - batteria, percussioni, voce (1967)

 

Non si trovano in rete testimonianze video ma cliccando sui titoli in “blu” parte l’ascolto

 

Discografia 

Album in studio

Ultimate Spinach (1968)

Behold & See (1968)

Ultimate Spinach III (1969)

 

Compilations

The Box (2000)

The Very Best of Ultimate Spinach (2001)

Sacrifice of the Moon: Instrumental Music of UltimateSpinach (2006)

 

Album dal vivo

Live at the Unicorn, July 1967 (2014)

 

Singoli

"Ego Trip / Your Head Is Reeling" (1968)

"(Just Like) Romeo & Juliet" (1969)